Università
di Sassari
Praeda bellica: la guerra
tra economia e diritto nell’antica Roma*
Sommario: 1. Premessa
terminologica: il lessico giuridico della guerra. - 2. La
guerra come causa di schiavitù. Regolamentazione giuridica: ius gentium. - 3. Praeda bellica:
l’acquisto della proprietà del bottino di
guerra. - 4. Aspetti economici della guerra: a)
l’im-missione nel “mercato” dei prigionieri di guerra attraverso la vendita sub corona. - 5. b) Mercatores e negotiatores acquirenti di captivi:
brevi riferimenti alla struttura organizzativa dell’attività dei venaliciarii.
Prima di iniziare le mie riflessioni a
proposito della guerra come causa di schiavitù nell’antica Roma, in età
repubblicana e nel periodo imperiale, vorrei soffermarmi brevemente sul
significato e sulla valenza giuridica di alcuni termini e locuzioni che ricorrono
sovente nei testi degli autori latini e dei giuristi, a partire dal sostantivo bellum.
A) Bellum. Il termine, utilizzato dagli autori
antichi con prevalente significato negativo, deriva dalla forma arcaica duellum[1] come attesta Varrone[2]:
ling. Lat.
7.49: Perduelles dicuntur hostes; ut
perfecit sic perduellis, <a per> et duellum, id postea bellum: ab eadem
causa facta Duell[i]ona Bellona,
nel I sec. a.C., periodo in cui era già avvenuta e consolidata la
trasformazione del du- iniziale di duellum[3] in b-[4], dando vita alla
parola bellum[5].
Invece, per quanto riguarda il significato
di bellum, risultano assai
interessanti due definizioni, tra quelle indicate dal Müller[6] nel Thesaurus Linguae Latinae:
Isidoro, diff. 1.563: Bellum est
contra hostes ex-ortum, tumultus vero domestica appellatione concitatus. Hic et seditio nuncupatur.
Servio, in Verg. Aen. 8.547: Qui sese in bella sequantur in expeditionem
et bellicam praeparationem: nam, ut supra diximus, ‘bellum’ est tempus omne quo
vel praeparatur aliquid pugnae necessarium, vel quo pugna geritur; ‘proelium’
autem dicitur conflictus ipse bellorum: unde modo bene dixit ‘qui sese in bella
sequantur’, non ‘in proelium’; nam ad auxilia petenda vadit, non ad pugnam.
Già da una prima lettura dei testi è
possibile riscontrare una differente accezione del sostantivo bellum: dal passo tratto dalle Differentiae[7] di Isidoro, si
evince che il termine, contrapposto a tumultus,
indica il conflitto armato tra nemici; mentre Servio[8] delinea, al fine di
prospettare una sottile distinzione tra bellum,
pugna e proelium, un concetto di bellum
che ricomprende anche il «periodo di tempo necessario alla conclusione delle
ostilità»[9].
A Roma la guerra era considerata come una
«rottura traumatica delle naturali relazioni pacifiche tra i popoli»[10].
Ma tutto ciò non era sufficiente a
giustificare l’esistenza della rottura dello stato di pace[11]; la guerra per i
Romani doveva avere anche una “giusta causa”. Nelle fonti ricorre spesso
l’espressione bellum iustum[12] per indicare quali
guerre dovessero considerarsi legittime.
B) Bellum iustum. Nel I sec. a.C. il significato tecnico
della locuzione bellum iustum[13] può essere desunto
da alcuni passi di Cicerone[14], il quale
dimostra un vivo interesse per il concetto di “guerra giusta”:
off. 1.11.36: Ac belli quidem aequitas sanctissime fetiali
populi Romani iure perscripta est. Ex quo intellegi potest nullum bellum esse
iustum nisi quod aut rebus repetitis geratur aut denuntiatum ante sit et
indictum[15].
re publ. 2.31:
[Tullio Ostilio] cuius excellens in re militari gloria magnaeque extiterunt res
bellicae, fe- citque idem et saepsit de manubis comitium et curiam,
constituitque ius quo bella indicerentur, quod per se iustissime inventum
sanxit fetiali religione, ut omne bellum quod denuntiatum indictumque non
esset, id iniustum esse atque inpium iudicaretur[16].
re publ. 3.35 (Fragmenta
in aliis scriptis servatas): Illa iniusta bella sunt quae sunt sine
causa suscepta. nam extra <quam> ulciscendi aut propulsandorum hostium
causa bellum geri iustum nullum potest[17].
Nel pensiero del grande oratore la guerra
per poter essere considerata ‘giusta’, ‘legittima’ doveva rispondere a
determinati requisiti di carattere formale e sostanziale. Era ritenuto iustum quel bellum in cui si fossero rispettati i riti e le procedure prescritte
dallo ius fetiale[18] per la
dichiarazione di guerra: era pertanto necessario che il bellum fosse denuntiatum ante
et indictum[19]. Inoltre, doveva
sussistere anche un requisito sostanziale, in assenza del quale valeva il
principio illa iniusta bella sunt quae
sunt sine causa suscepta. Di
conseguenza, la guerra era sostanzialmente e oggettivamente considerata giusta
solo se vi fossero «delle motivazioni validamente determinabili»[20] agli occhi degli
Dei e degli uomini.
I due passi del De re publica appena esaminati, dai quali si trae comunemente la
nozione di bellum iustum, sono
entrambi modellati in negativo, mediante la qualificazione del bellum iniustum[21] atque inpium[22]. Il concetto di bellum iniustum appare però
ulteriormente caratterizzato in un testo di Isidoro, tratto dagli Etymologiarum libri XX[23], in cui vengono
individuati quattruor genera bellorum:
Et. 18.1.2-3: Quattuor autem sunt genera bellorum: id est
iustum, iniustum, civile et plus quam civile. Iustum bellum est quod ex
praedicto geritur de rebus repetitis aut propulsandorum hostium causa. Iniustum
bellum est quod de furore, non de legitima ratione initur; de quo in
Republica Cicero dicit: illa iniusta bella sunt quae sunt sine causa suscepta[24].
Oltre a riportare il frammento di Cicerone,
Isidoro definisce iniustum quel bellum che de furore, non de legitima ratione initur.
C) Hostis.
Il termine hostis[25] ha mutato il suo
significato nel tempo. Nel periodo arcaico, sicuramente fino all’emanazione
delle XII Tavole[26], hostis indicava genericamente lo
“straniero”[27] come attestato in
un passo del De officiis di Cicerone:
off.
1.12.37: Hostis enim apud maiores nostros
is dicebatur quem nunc peregrinum dicimus. Indicant duodecim tabulae aut status
dies cum hoste itemque adversus hostem aeterna auctoritas. Quid ad hanc
mansuetudinem addi potest eum qui cum bellum geras tam molli nomine appellare. Quamquam
id nomen durius effecit iam vetustas a peregrino enim recessit et proprie in eo
qui arma contra ferret remansit[28],
in cui, il grande oratore ricorda la coincidenza dell’accezione del
termine hostis per i maiores con la valenza semantica assunta dal sostantivo peregrinus[29]/straniero per i
suoi contemporanei.
Ma risulta essere assai significativo anche
il concetto di hostis in Festo:
verb. sign.,
v. Status dies <cum hoste>,
414-416 L.: Status dies <cum hoste> vocatur qui iudici causa est
constitutus cum peregrino; eius enim generis ab antiquis hostes appellabantur,
quod erant pari iure cum populo Romano, atque hostire ponebatur pro aequare[30],
che non solo sta a designare genericamente
lo straniero, ma in particolare gli stranieri considerati pari iure cum populo Romano[31].
Il significato più arcaico di hostis viene menzionato anche da molti
altri autori latini[32], a conferma del
fatto che vi fu sempre un costante interesse per l’evoluzione semantica del
termine.
Il mutamento della nozione di hostis, si verificherà in epoca
successiva all’emanazione delle XII Tavole; quasi sicuramente in coincidenza
con il periodo delle guerre di espansione nella penisola italiana, periodo in
cui, come scrive il De Martino, «si dovette determinare il mutamento di valore
del termine; come ciò accadde e per quali cause non siamo in grado di
stabilire, ma è chiaro che la nuova concezione espansionistica delle classi
dirigenti romane nel corso del IV-III secolo indusse a considerare l’hostis nemico e non più il peregrinus, qui suis legibus utitur»[33].
La nuova accezione si affermerà, pertanto,
definitivamente nell’ultimo secolo della Repubblica. Così come, con
procedimento analogo, nei primi secoli dell’Impero il termine peregrinus andrà ad indicare una
particolare condizione giuridica, quella dello straniero[34].
Sono significative, a proposito del nuovo
valore semantico di hostis[35], le testimonianze
di alcuni giuristi.
D. 50.16.118 (Pomponius libro secundo ad Quintum Mucium): ‘Hostes’ hi sunt, qui nobis aut quibus nos
publice bellum decrevimus: ceteri latrones aut praedones sunt[36].
D. 50.16.234 pr. (Gaius libro secundo ad legem duodecim
tabularum): Quos nos hostes appellamus,
eos veteres ‘perduelles’ appellabant, per eam adiectionem indicantes cum quibus
bellum esset[37].
D. 49.15.24 (Ulpianus libro primo institutionum): Hostes sunt, quibus bellum publice populus
Romanus decrevit vel ipse populo Romano: ceteri latrunculi vel praedones
appellantur. et ideo qui a latronibus captus est, servus latronum non est, nec
postliminium illi necessarium est: ab hostibus autem captus, ut puta a Germanis
et Parthis, et servus est hostium et postliminio statum pristinum recuperat[38].
Le
definizioni di hostis elaborate da
Pomponio[39] e da Ulpiano[40] sembrano ricalcare
un medesimo contenuto. Sono “nemici” coloro contro i quali i Romani hanno
decretato pubblica guerra. Pertanto, la condizione giuridica dell’hostis, secondo quanto scrivevano i due
giureconsulti, era strettamente legata all’esistenza di un bellum iustum, in mancanza del quale gli avversari non potevano
essere qualificati giuridicamente come hostes,
ma venivano semplicemente considerati latrones[41] o praedones. In entrambi i testi la condizione
degli hostes è contrapposta a quella
di latrones, nei confronti dei quali
i due giuristi non propongono una definizione vera e propria «se non in
negativo, in quanto non hostes»[42]. Inoltre, nella
parte finale del frammento D. 49.15.24, Ulpiano menziona gli effetti giuridici,
che si producevano in capo al captus a
latronibus[43]; effetti assai
rilevanti e differenti, rispetto a quelli previsti, in caso di bellum iustum, per il captus ab hostibus. Nel primo caso, come
spiega Ulpiano, qui a latronibus captus
est, servus latronum non est, nec postliminium illi necessarium est.
Invece, per chi fosse stato catturato dagli hostes,
secondo le rigide regole prescritte dallo ius
belli, si prospettava una legittima servitus
nelle mani del nemico[44] e poteva postliminio statum pristinum recuperare.
Infine,
nel frammento D. 50.16.234 pr., Gaio[45], attestando la
valenza di hostis nella sua epoca,
afferma che il termine ha il medesimo significato attribuito dai veteres[46] a perduelles[47] e cioè, coloro con
i quali si è in guerra.
D) Praeda. Anche il concetto di praeda[48] nel linguaggio
tecnico-giuridico della guerra ha una valore particolare.
Aulo
Gellio[49] nelle Noctes Atticae, opera scritta nel II sec. d.C.[50], elabora una
definizione di praeda[51] al fine di delineare
il concetto di manubiae[52]:
noct. Att., 13.25.24-31: Quid igitur? Simile est’ inquit ‘apud eundem
in ‘praeda’ et ‘manubiis’? Nihil profecto istiusmodi est. 25. Nam neque
ornatius fit additis manubiis neque exaggeratius modulatiusve; sed aliud omnino
‘praeda’ est, ut in libris rerum verborumque veterum scriptum est, aliud
‘manubiae’. 26. Nam
praeda dicitur corpora ipsa rerum, quae capta sunt, manubiae vero appellatae
sunt pecunia a quaestore ex venditione praedae redacta. 27. Vtrumque
ergo dixit M. Tullius cumulandae invidiae gratia decemviros ablaturos
persecuturosque: et praedam, quae nondum esset venundata, et pecuniam, quae ex
venditione praedae percepta esset. Itaque haec inscriptio, quam videtis: 28.
ex manubiis, non res corporaque ipsa praedae demonstrat -nihil enim captum est
horum a Traiano ex hostibus -, sed facta esse haec conparataque ‘ex manubiis’,
id est ex pecunia praedaticia, declarat. 29. Manubiae enim sunt, sicuti
iam dixi, non praeda, sed pecunia per quaestorem populi Romani ex praeda vendita
contracta. 30. Quod ‘per quaestorem’ autem dixi, intellegi nunc oportet
praefectum aerario significari. Nam cura aerarii a quaestoribus ad praefectos
translata est. 31. Est tamen nonnusquam invenire ita scripsisse quosdam
non ignobiles scriptores, ut aut temere aut incuriose ‘praedam’ pro ‘manubiis’
et ‘manubias’ pro ‘praeda’ posuerint aut tropica quadam figura mutationem
vocabuli fecerint, quod facere concessum est scite id periteque facientibus.
Sed enim, qui proprie atque signate locuti sunt, sicut hoc in loco M. Tullius,
manubias pecuniam dixerunt’.
Per
Gellio la preda consiste essenzialmente nelle cose prese al nemico: praeda dicitur corpora ipsa rerum, quae
capta sunt. Come risulta già da una prima lettura del passo, il concetto di
manubiae, nel pensiero dell’autore
delle Notti Attiche, appare ben distinto rispetto a quello di preda: manubiae enim sunt, sicuti iam dixi, non
praeda, sed pecunia per quaestorem populi Romani ex praeda vendita contracta.
La preda,
dunque, nell’antica Roma corrisponde, come scrive il Bona, a «quanto l’esercito
romano, nel corso di un bellum publice
indictum, prende a coloro che sono hostes»[53] e si compone, quindi,
di «beni immobili e mobili, di persone (liberi e schiavi) o di cose»[54]. Appare evidente
che il concetto di praeda tende a
coincidere con quello di bottino di guerra[55].
Nelle
fonti, le cose prese al nemico, spesso, vengono indicate anche con l’espressione
res hostium/res hostiles[56]. Tra i numerosi
passi in cui ricorrono tali espressioni, ritengo significativo il seguente,
tratto dall’opera Ab urbe condita di
Tito Livio[57]:
9.1.5: Res hostium in praeda captas, quae belli iure nostrae videbantur,
remisimus; 6 auctores belli, quia vivos non potuimus, perfunctos iam fato
dedidimus; bona eorum, ne quid ex contagione noxae remaneret penes nos, Romam
portavimus.
in cui si attesta l’importante principio di ius belli[58] secondo cui il
bottino di guerra diviene di proprietà del vincitore[59].
2. – La guerra come causa di schiavitù. Regolamentazione
giuridica: ius gentium
La correlazione tra bellum e ius gentium[60] viene attestata in
un frammento di Ermogeniano riportato nel titolo I, De iustitia et iure, del primo libro del Digesto:
D. 1.1.5 (Hermogenianus
libro primo iuris epitomarum): Ex hoc
iure gentium introducta bella, discretae gentes, regna condita, dominia
distincta, agris termini positi, aedificia collocata, commercium, emptiones
venditiones, locationes conductiones, obligationes institutae: exceptis
quibusdam quae iure civili introductae sunt[61].
Il
giurista afferma che «da questo ius
gentium» sono state introdotte le guerre: ex hoc iure gentium introducta bella…
Nel
frammento di Ermogeniano si può riscontrare un chiaro nesso causale tra lo ius gentium e la fine di quel periodo
felice della storia degli uomini, la c.d. età dell’oro[62], caratterizzata
d’assenza di guerre e di lotte all’interno della società. Nel pensiero del
giurista, influenzato dalla filosofia greca, secondo quanto sostenuto dal
Didier[63], lo ius gentium appare come quello ius volto ad introdurre alcuni
particolari istituti giuridici[64] fino ad allora
sconosciuti allo ius civile.
La
guerra, quindi, era considerata dai Romani come un istituto di ius gentium; di quello ius che Gaio contrappone allo ius civile, in un famoso frammento
tratto dal suo manuale di Istituzioni:
D. 1.1.9 (Gaius libro
primo institutionum): (= Inst.
1.1) Omnes populi, qui legibus et moribus
reguntur, partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utuntur. nam
quod quisque populus ipse sibi ius constituit, id ipsius proprium civitatis est
vocaturque ius civile, quasi ius proprium ipsius civitatis: quod vero naturalis
ratio inter omnes homines constituit, id apud omnes peraeque custoditur
vocaturque ius gentium, quasi quo iure omnes gentes
utuntur[65].
Lo ius gentium per Gaio è quel diritto che
la naturalis ratio[66] ha costituito tra tutti
gli uomini e custodito presso tutti i popoli: è il diritto di cui fanno uso
tutte le genti.
A
questo diritto e, “contro natura”, appartiene una istituzione universale del
mondo antico: la schiavitù[67].
D. 1.5.4.1 (Florentinus libro nono institutionum): Servitus est constitutio iuris gentium, qua
quis dominio alieno contra naturam subicitur[68].
Dal
frammento di Fiorentino[69] apprendiamo che
anche la servitus era un istituto di ius gentium, contra naturam[70], in quanto, come
esplica Ulpiano in D. 1.1.4, per diritto naturale, tutti gli uomini nascevano
liberi:
(Ulpianus libro primo
institutionum): … Quae res a iure
gentium originem sumpsit, utpote cum iure naturali omnes liberi nascerentur nec
esset nota manumissio, cum servitus esset incognita: sed posteaquam iure
gentium servitus invasit, secutum est beneficium manumissionis. et cum uno
naturali nomine homines appellaremur, iure gentium tria genera esse coeperunt:
liberi et his contrarium servi et tertium genus liberti, id est hi qui
desierant esse servi[71].
Secondo
un altro principio dello ius gentium, i prigionieri di guerra, denominati captivi[72], erano destinati a
divenire schiavi del nemico. A questo principio generale fa riferimento
Marciano[73], in un frammento
in cui il giurista si occupa delle cause di servitù:
D. 1.5.5.1 (Marcianus
libro primo institutionum): Servi
autem in dominium nostrum rediguntur aut iure civili aut gentium: iure civili,
si quis se maior viginti annis ad pretium participandum venire passus est: iure
gentium servi nostri sunt, qui ab hostibus capiuntur aut qui ex ancillis
nostris nascuntur[74].
Nel
testo si legge che gli schiavi “vengono ricondotti al nostro dominio o per ius civile
o per ius gentium” e, nell’enunciare
i modi di acquisto di dominio sui servi
per diritto delle genti, Marciano fa riferimento “a coloro che sono presi dai
nemici”: qui ab hostibus capiuntur.
Lo
stretto legame tra guerra, nemici e schiavitù viene ulteriormente evidenziato
da Pomponio e da Fiorentino:
D. 50.16.239.1 (Pomponius libro singulari enchiridii): ‘Servorum’ appellatio ex eo fluxit, quod
imperatores nostri captivos vendere ac per hoc servare nec occidere solent[75].
D. 1.5.4.2 (Florentinus
libro nono institutionum): Servi ex
eo appellati sunt, quod imperatores captivos vendere ac per hoc servare nec
occidere solent[76].
I due frammenti, di contenuto speculare[77], riguardano
l’etimologia[78] del termine servus. Secondo quanto scrivono i due
giuristi, il sostantivo servus
derivava dall’uso da parte dei comandanti militari di vendere i prigionieri di
guerra (captivi) con-servandoli, piuttosto che procedere alla loro uccisione. Al di
là dell’esattezza e della attendibilità dell’origine semantica[79], mi pare
interessante sottolineare che nei due testi si fa riferimento al superamento
del principio arcaico secondo cui i vinti erano messi a morte dai vincitori[80].
Per un lungo periodo della storia romana la
captivitas sarà la principale causa
di schiavitù[81] e sarà sempre
conseguente ad una guerra giusta intrapresa contro iusti hostes. A questo proposito, sarà bene rileggere il testo di
Ulpiano, precedentemente menzionato, a proposito della nozione di hostis:
D. 49.15.24 (Ulpianus libro primo institutionum): Hostes sunt, quibus bellum publice populus
Romanus decrevit vel ipse populo Romano: ceteri latrunculi vel praedones
appellantur. Et ideo qui a
latronibus captus est, servus latronum non est, nec postliminium illi
necessarium est: ab hostibus autem captus, ut puta a Germanis et Parthis, et
servus est hostium et postliminio statum pristinum recuperat.
Dal passo apprendiamo il principio secondo
cui i prigionieri dei latrones[82] non divenivano
schiavi; in quanto, scrive Ulpiano, nei confronti dei latrones non era possibile intraprendere un bellum iustum, poiché non erano considerati hostes. Per tanto, come afferma il De Martino, «non sarebbe bastato
una razzia od un raid dei pirati, per trasformare in servo un uomo libero»[83]. Il medesimo
principio era applicato anche in caso di guerre civili[84].
Altra importante caratteristica della schiavitù
iuris gentium era senza dubbio la
reciprocità di applicazione delle sue regole a Romani e nemici: divenivano servi dei Romani tutti i nemici
catturati durante un bellum iustum;
allo stesso modo, i Romani prigionieri di guerra perdevano la libertas[85] e diventavano
schiavi del nemico[86]. La libertas pertanto, poteva essere persa
da chiunque e in qualsiasi momento.
Per i Romani la schiavitù da captivitas dei cives era considerata (in)iusta servitus[87], in seguito alla
quale, oltre alla libertas, si perdeva
anche il c.d. status civitatis: il civis subiva la capitis deminutio maxima[88]. Mediante
l’istituto del postliminium[89], il civis divenuto schiavo del nemico poteva
riacquistare i propri diritti al momento della liberazione o al suo semplice
ritorno in territorio romano in seguito a fuga[90].
Per
quanto attiene alla reciprocità di trattamento tra romani e stranieri in
materia di schiavitù può risultare interessante la lettura di:
D. 49.15.5.2 (Pomponius libro trigensimo septimo ad Quintum
Mucium): In pace quoque postliminium
datum est: nam si cum gente aliqua neque amicitiam neque hospitium neque foedus
amicitiae causa factum habemus, hi hostes quidem non sunt, quod autem ex nostro
ad eos pervenit, illorum fit, et liber homo noster ab eis captus servus fit et eorum:
idemque est, si ab illis ad nos aliquid perveniat. hoc quoque igitur casu
postliminium datum est[91].
Il
passo ha creato non pochi problemi a proposito della fattispecie del postliminium in pace[92] oggetto di
trattazione da parte di Pomponio, tanto è vero che da molti autori è stato
ritenuto frutto di rimaneggiamenti[93].
Il
frammento, inoltre, viene normalmente citato da chi[94] ha sostenuto che a
Roma si potesse divenire schiavi anche in seguito a guerra non regolarmente
dichiarata, e cioè in caso di bellum
iniustum. Ipotesi che ritengo inammissibile, sia perché fondata sull’idea,
di matrice mommseniana[95], della abituale e
normale ostilità tra i popoli dell’antichità, confutata ormai da tempo da
illustri studiosi[96], a partire
dall’Heuss[97] fino al De Martino[98] e al Catalano[99], sia perché non
trova alcun riscontro testuale nelle fonti. Un caso esemplare quello riferito
da Tito Livio in un passo della sua opera Ab
urbe condita:
43.4.8-13: Invidiam infamiamque ab Lucretio averterunt in
Hortensium, successorem eius, Abderitae legati flentes ante curiam querentesque
oppidum suum ab Hortensio expugnatum ac direptum esse: 9. causam excidii fuisse urbi quod cum centum milia denarium et tritici
quinquaginta milia modium imperaret, spatium petierint quo de ea re et ad
Hostilium consulem et Romam mitterent legatos. 10. vixdum ad consulem se
pervenisse et audisse oppidum expugnatum, principes securi percussos, sub
corona ceteros venisse. 11. indigna ea senatui visa, decreueruntque
eadem de Abderitis quae <de> Coronaeis decreverant priore anno, eademque
pro contione edicere Q. Maenium praetorem iusserunt, 12. et legati duo, C.
Sempronius Blaesus Sex. Iulius Caesar, ad restituendos in libertatem Abderitas
missi. 13. Iisdem mandatum ut et Hostilio consuli et
Hortensio praetori nuntiarent senatum Abderitis iniustum bellum inlatum
conquirique omnes qui in servitute sint, et restitui in libertatem aequum
censere,
in cui si narra la vicenda degli Abderiti, i quali furono rimessi
in libertà, in seguito a revoca della loro vendita sub corona[100], da parte del
senato che aveva dichiarato iniusta
la guerra dei Romani contro quel popolo.
Ritengo
quindi di poter concludere che solo la guerra giusta poteva essere considerata
causa di schiavitù iuris gentium.
3. - Praeda bellica: l’acquisto della proprietà del
bottino di guerra
A
questo punto, vorrei affrontare brevemente il problema inerente all’acquisto
della proprietà della praeda bellica.
Nella
premessa terminologica ho esaminato il significato del termine praeda, affermando che la nozione
coincide sostanzialmente con l’espressione “bottino di guerra”.
Per
lo ius belli, la praeda diveniva res populi Romani[101], non suscettibile
quindi di “occupazione privata”[102] da parte dei
singoli[103].
L’appartenenza
della praeda al populus Romanus si evince chiaramente da un brano di un discorso di
Scipione Africano riportato in un passo di Tito Livio:
30.14.9-10: Syphax populi Romani auspiciis victus
captusque est. itaque ipse coniunx regnum ager oppida homines qui incolunt,
quicquid denique Syphacis fuit praeda populi Romani est, 10. et regem coniugemque eius etiamsi non ciuis Carthaginiensis esset,
etiamsi non patrem eius imperatorem hostium videremus, Romam oporteret mitti,
ac senatus populique Romani de ea iudicium atque arbitrium esse, quae regem
socium nobis alienasse atque in arma egisse praecipitem dicatur,
in cui risulta assai
significativo il riferimento agli auspicia
populi Romani e alla praeda populi
Romani.
Appare
evidente che nel testo liviano, come sostiene il Catalano, «la connessione tra
i concetti di auspicia populi Romani
e praeda populi Romani […]
contribuisce a chiarire il valore dell’appartenenza della praeda al populus Romano»[104].
In
età classica la praeda, come scrive
il Bona, «diventa automaticamente res
publica populi Romani. A questo proposito non è possibile distinguere […]
tra ciò che prende l’esercito come tale o ciò che prendono i soldati o i non
militari agendo singolarmente»[105]. Al riguardo però,
concordo con quanto afferma il Catalano, il quale ritiene che sempre «il miles, occupando le res hostiles, agiva come parte del populus Romanus e, in quanto tale, personalmente impegnato nella
guerra contro ciascuno degli appartenenti al popolo nemico […] Con il
giuramento il miles si vincolava ad
esercitare il diritto di occupatio
secondo le modalità e i limiti definiti dal magistrato»[106].
Bisogna,
inoltre, ricordare un altro principio del diritto pubblico romano, riguardante
direttamente il magistrato con il cui auspicium
imperiumque era stata condotta la guerra: l’affidamento del potere di
disponibilità del bottino di guerra[107]. Era un potere
discrezionale[108] che consentiva al
magistrato di disporre della praeda
bellica fino a quando essa non veniva trasferita all’aerarium populi Romani[109].
Il
magistrato poteva disporre liberamente del bottino di guerra, decidendo di
concederlo ai soldati secondo un criterio di equità nella distribuzione (praeda militi concedere), come scrive
Giulio Cesare[110]:
Gall. 7.89.5: Reservatis Haeduis atque Arvernis, si per
eos civitates recuperare posset, ex reliquis captivis toti exercitui capita
singula praedae nomine distribuit;
oppure poteva stabilire di
versare la praeda all’erario (praedam in aerarium referre):
Livio 4.53.9-11: Ductus
exercitus ad Carventanam arcem, quamquam invisus infestusque consuli erat,
inpigre primo statim adventu deiectis, qui in praesidio erant, arcem recipit;
praedatores ex praesidio per neglegentiam dilapsi occasionem aperuere ad
invadendum. 10. praedae ex adsiduis populationibus, quod
omnia in locum tutum congesta erant, fuit aliquantum. venditum sub hasta consul
in aerarium redigere quaestores iussit tum praedicans participem praedae fore
exercitum, cum militiam non abnuisset. 11. auctae inde plebis ac
militum in consulem irae;
ipotesi non gradita alla plebe e ai soldati, tanto è vero che in
seguito questo episodio narrato da Livio, «per reazione, tre dei quattro nuovi
questori furono eletti tra i plebei»[111].
Infine,
il magistrato poteva scegliere di riservare la praeda alla sua disponibilità nel momento in cui avesse deposto l’imperium (manubiae imperatoris)[112].
In
fine, un breve riferimento al problema dell’acquisto del dominio sui
prigionieri di guerra ricompresi nella praeda
bellica.
Gli hostes fatti prigionieri, così come
tutti gli altri beni presi al nemico, come ho già detto in precedenza, facevano
parte del bottino di guerra. Di conseguenza, nei confronti di quella parte
della preda bellica costituita dai captivi,
valevano le stesse regole giuridiche di appropriazione del bottino di guerra e,
di conseguenza, divenivano di proprietà del populus
Romano (res populi Romani)[113].
Anche
nei confronti della sorte dei captivi,
vigeva il potere di discrezionalità del comandante militare, il quale poteva
procedere alla loro liberazione esigendo un prezzo di riscatto[114]; oppure poteva
scegliere di liberarne una parte immediatamente, senza pretendere alcun
pagamento, come scrive Livio:
Livio 26.47.1-2: Liberorum
capitum virile secus ad decem milia capta; inde qui cives Novae Carthaginis
erant dimisit, urbemque et sua omnia quae reliqua eis bellum fecerat restituit.
opifices ad duo milia hominum erant; eos publicos fore populi Romani edixit cum
spe propinqua libertatis si ad ministeria belli enixe operam navassent.
L’episodio
descritto dallo storico risale al 210 a.C. e riguarda la liberazione degli
abitanti di Cartagena occupata da P. Cornelio Scipione, il quale sceglierà di
trattenere duemila artigiani, dichiarandoli publici
populi Romani, da utilizzare durante le operazioni militari[115].
La
testimonianza di Livio è sempre assai preziosa, infatti, lo storico riferisce
anche delle distribuzioni di parte dei prigionieri di guerra ai soldati:
Livio 4.34.4-5: Postero
die singulis captivis ab equite ac centurionibus sorte ductis et, quorum eximia
virtus fuerat, binis, aliis sub corona venumdatis exercitum victorem
opulentumque praeda triumphans dictator Romam reduxit 5.
iussoque magistro equitum abdicare se magistratu ipse deinde abdicavit die
sexto decimo reddito in pace imperio, quod in bello trepidisque rebus
acceperat.
Nel
testo si narra della assegnazione dei captivi
a cavalieri e centurioni dell’esercito, basata sulla buona sorte.
Normalmente,
però, si procedeva alla vendita pubblica[116] per conto del populus Romanus, il cui ricavato veniva
versato all’aerarium[117].
4. - Aspetti economici della guerra: a) l’immissione nel
“mercato” dei prigionieri di guerra attraverso la vendita sub corona
Dalla
guerra derivavano anche implicazioni economiche di grande rilevanza.
La
vendita pubblica del bottino di guerra, ed in particolar modo quella dei captivi come schiavi, consentiva di
realizzare ingenti guadagni, che contribuivano ad arricchire le casse dell’aerarium populi Romani.
La
vendita pubblica dei prigionieri di guerra avveniva mediante la venditio sub corona[118]. Si trattava
probabilmente di una vendita all’incanto[119], le cui modalità
appaiono quasi del tutto sconosciute e quel poco che sappiamo può essere
desunto solo da fonti di età imperiale. La vendita sub corona, comunque, veniva praticata fin dal periodo arcaico e,
come scrive Livio[120], risulta
utilizzata a far data dal VI sec. a.C.
A
proposito di questa vendita pubblica di prigionieri di guerra, risulta di grande
interesse il contenuto di un passo delle Notti Attiche, in cui Aulo Gellio,
riporta sia le parole di Celio Sabino[121], tratte dal
commentario Ad edictum aedilium curulium[122] del giurista, sia quelle di Marco
Catone[123]:
noct. Att. 6.4.3-5: [Celius Sabinus] ‘Sicuti’, inquit, ‘antiquitus mancipia iure
belli capta coronis induta veniebant et idcirco dicebantur “sub corona” venire.
Namque ut ea corona signum erat captivorum venalium, ita pilleus impositus
demonstrabat eiusmodi servos venundari, quorum nomine emptori venditor nihil
praestaret’[124]. 4. Est autem alia rationis opinio, cur dici
solitum sit captivos ‘sub corona’ venundari, quod milites custodiae causa
captivorum venalium greges circumstarent eaque circumstatio militum ‘corona’
appellata sit. 5. Sed id magis verum esse, quod supra dixi,
M. Cato in libro, quem composuit de re militari, docet. Verba sunt haec
Catonis: Vt populus sua opera potius ob rem bene gestam coronatus subplicatum
eat, quam re male gesta coronatus veneat.
Secondo
quanto scriveva Celio Sabino, anticamente, i prigionieri di guerra catturati al
nemico, andavano in vendita con una corona[125] sul capo e,
pertanto, si diceva che erano venduti sub
corona. Così come la corona
contrassegnava i prigionieri di guerra messi in vendita, allo stesso modo, dice
il giurista, il pilleum/pilleus[126] posto sul capo
dei servi[127] escludeva
l’assunzione di ogni garanzia (quorum
nomine emptori venditor nihil praestaret[128]) da parte del
venditore nella loro vendita.
Dall’analisi
del paragrafo 3[129], appare evidente che
il giurista Celio Sabino richiami una procedura (quella di coronare il capo dei
captivi messi in vendita)
probabilmente non più in uso ai suoi tempi. Ciò sembra provato dal riferimento
al periodo antico (antiquitus),
evidenziato dal giureconsulto nel testo e, soprattutto, dall’uso della forma
verbale veniebant coniugata al
passato[130].
Nel
paragrafo 4[131], invece, Gellio
riferisce un’altra interpretazione riferita all’uso di dire che i prigionieri
venivano venduti sub corona.
L’espressione, secondo questa anonima fonte (alia opinio), deriverebbe dalla statio
militum che andava a formarsi intorno ai prigionieri a scopo di custodia,
denominata appunto corona[132].
Infine,
il paragrafo 5[133] del passo di
Gellio, in cui l’antiquario trascrive un frammento del libro De re Militari[134] di Marco Catone. Il Censore evoca
chiaramente la pratica di vendere i prigionieri sub corona, quando afferma: «che il popolo vada a celebrare una
supplicazione agli dei col capo coronato per un successo dovuto ai suoi sforzi,
piuttosto che vada in vendita coronato per un insuccesso»[135].
Le
stesse parole di M. Catone, a proposito di vendita sub corona, si possono
leggere in Festo, il quale traendo ispirazione da Verrio Flacco scrive:
Festo, verb. sign., v. «sub corona»,
400 L.: Sub corona venire dicuntur, quia
captivi coronati solent venire, ut ait Cato in eo, qui est de re militari: “Ut
populus suus sua opera potius ob rem bene gestam coronatus supplicatum eat,
quam re male gesta coronatus veneat”. Id autem signum est nihil praestari a
populo, quod etiam Plautus significat in Hortulo: “Praeco ibi adsit, cum
corona, cuique liceat veneat”.
Il
frammento superstite del libro De re
militari viene inserito nel testo, al fine di avvalorare il significato
della locuzione sub corona venire;
significato che, per altro, coincide sostanzialmente con quello riferito da
Celio Sabino, nel brano del commentario Ad
edictum aedilium curulium, riportato da Gellio: ‘Sicuti’, inquit, ‘antiquitus mancipia iure belli capta coronis induta
veniebant et idcirco dicebantur “sub corona” venire[136].
Un’ultima
considerazione in merito al contenuto del passo festino. Nella parte finale del
testo si fa riferimento ad un importante effetto giuridico, derivante
dall’apposizione della corona sul
capo dei captivi: la testa coronata,
infatti, stava ad indicare l’esclusione dell’assunzione di ogni garanzia da
parte del populus-venditore. A
sostegno di questa affermazione, Festo cita un verso di Plauto, tratto dall’Hortulus[137]. Si può quindi
rilevare che, sia l’apposizione del pilleus
(come testimoniato da Celio Sabino[138]) e sia quella
della corona, sul capo degli schiavi
messi in vendita, non solo stava ad indicare la loro condizione di prigionieri
di guerra, ma comportava anche che, nei loro confronti, il venditore non
avrebbe prestato alcuna garanzia[139].
Infine,
a proposito della valenza dell’espressione sub
corona, si può concludere, come già sostenuto da M. Talamanca[140], che esisteva una
corrente di autori, sicuramente predominante, da cui traevano spunto Celio
Sabino/Aulo Gellio e Verrio Flacco/Festo, per la quale si faceva risalire
l’origine di tale locuzione all’uso di coronare di ghirlande i prigionieri
venduti come schiavi.
Si
può inoltre affermare che, con molta probabilità, già nel I sec. d.C., periodo
in cui visse Celio Sabino, non si usasse più coronare i captivi messi in vendita, e che l’espressione sub corona continuasse a designare la venditio pubblica dei prigionieri di guerra fino alla tarda età
imperiale, come attestato da Tacito e da Vopisco[141].
La
vendita sub corona viene menzionata
negli Annali di Tacito[142]:
ann. 13.39.4: Tantus inde ardor certantis exercitus fuit, ut intra tertiam diei
partem nudati propugnatoribus muri, obices portarum subversi, capta escensu
munimenta omnesque puberes trucidati sint, nullo milite amisso, paucis admodum
vulneratis. et imbelle vulgus sub corona venundatum, reliqua praeda victoribus
cessit,
e nella Vita di Aureliano di
Vopisco[143], il quale ne
riferisce la vigenza per quel periodo storico.
Alla
vendita sub corona era legittimato il
magistrato comandante dell’esercito, il quale poteva procedere immediatamente,
sul campo di battaglia[144]. Su questa
procedura vi sono numerose testimonianze di autori e storici latini, tra cui
quella di Tito Livio, il quale riferisce in più luoghi dell’opera Ab urbe condita delle venditiones sub corona dopo la battaglia:
35.36.9-10: Aetoli circa Chalcioecon – Minervae aereum
est templum – congregati caeduntur; 10. pauci armis abiectis pars Tegeam pars Megalen
polin perfugiunt; ibi comprensi a magistratibus sub corona venierunt.
38.29.11: Inde postero die dediti, direpta urbe, sub
corona omnes venierunt.
42.63.10: In primo tumultu captae urbis seniores
impubesque, quos casus obvios obtulit, passim caesi; armati in arcem
confugerunt; et postero die, cum spei nihil superesset, deditione facta sub
corona venierunt.
In altre occasioni, i prigionieri condotti
a Roma per il trionfo venivano venduti sub
corona, in loco, sotto l’egida
dei quaestores[145]. Emblematico il
caso, narrato sempre da Tito Livio, dei prigionieri sardi, catturati da
Sempronio Gracco nel 177 a.C., portati in trionfo a Roma e sicuramente venduti sub corona come schiavi:
41.28.8-9: Eodem anno tabula in aede matris Matutae cum
indice hoc posita est: ‘Ti. Semproni Gracchi consulis imperio auspicioque legio
exercitusque populi Romani Sardiniam subegit. in ea provincia hostium caesa aut
capta supra octoginta milia. 9. re publica felicissime gesta atque
liberatis <sociis>, vectigalibus restitutis, exercitum salvom atque
incolumem plenissimum praeda domum reportavit; iterum triumphans in urbem Romam
rediit. cuius rei ergo hanc tabulam
donum Iovi dedit’.
Infine, bisogna ricordare che gli
acquirenti delle vendite sub corona,
acquisivano dominius legittimo, a
titolo derivativo, nei confronti degli schiavi acquistati, come attesta Varrone[146] nel seguente
passo:
re rust.
2.10.4: In emptionibus (servorum) dominum
legitimum sex fere res perficiunt: si hereditatem iustam adi<i>t; si, ut debuit,
mancipio ab eo accepit, a quo iure civili potuit; aut si in iure cessit, qui
potuit cedere, et id ubi oportuit [ubi]; aut si usu cepit; aut si e praeda sub
corona emit; tumve cum in bonis sectioneve cuius publice veniit.
In cui il grande antiquario «fra gli altri
modi d’acquisto del dominium ex iure
Quiritium sugli schiavi ricorda l’emptio
sub corona: per l’autore non potevano
infatti avere importanza gli acquisti fatti sul campo di battaglia, ma quelli
che si potevano fare a Roma»[147].
5. - b) Mercatores e negotiatores acquirenti di captivi: brevi riferimenti alla
struttura organizzativa dell’attività dei
venaliciarii
Per concludere, vorrei esaminare un ultimo
e rilevante aspetto di natura economica.
Dalla vendita sub corona derivavano interessi economici assai rilevanti per
coloro che avevano acquistato i prigionieri di guerra divenuti servi per ius belli.
Nella venditio
sub corona si compravano in blocco un gran numero di captivi, i quali solevano essere rivenduti al dettaglio nei mercati
specializzati del bacino del Mediterraneo[148] (mercati di
schiavi che nella lingua latina venivano indicati con il termine venalicia[149]).
La vendita sub corona, dunque, rappresentava, per esprimere il concetto con
terminologia moderna, una “vendita all’ingrosso” di homines[150].
Il commercio degli schiavi nell’antica Roma
(considerato il ramo peggiore[151] dell’attività
mercantili) veniva esercitato da “loschi individui”, i quali realizzavano
ingenti guadagni dalla compravendita di schiavi (significativo il caso di
Trimalcione, narrato da Petronio nel Satyricon[152]). Era nota la
pessima reputazione di cui godevano questi soggetti, presso gli autori antichi,
i quali non perdevano mai l’occasione per manifestare la loro riprovazione nei
confronti dei “venditori di uomini”[153].
Mentre nella lingua latina i termini di uso
più comune per definire il mercante di schiavi erano venaliciarius[154] e mango[155]; nel linguaggio
dei giuristi, invece, colui che esercitava il commercio di schiavi veniva di
norma indicato con il sostantivo venaliciarius[156].
Dalle fonti giuridiche apprendiamo che i venaliciarii svolgevano la loro attività
commerciale utilizzando schemi organizzativi più o meno complessi. Si
avvalevano spesso di organizzazioni di beni e di uomini, al fine di esercitare
la loro attività in maniera, diremo oggi, imprenditoriale[157].
I giuristi ricordano che i venaliciarii solevano riunirsi in
società, utilizzando lo schema giuridico del contratto consensuale di societas[158], al fine di poter
operare contemporaneamente in più mercati. Al riguardo rinvio alla lettura di
un frammento di Paolo[159] in cui si tratta
di societas venaliciaria[160]:
D. 21.1.44.1 (Paulus libro secundo ad edictum aedilium curulium):
Proponitur actio ex hoc edicto in eum cuius
maxima pars in venditione fuerit, quia plerumque venaliciarii ita societatem
coeunt, ut quidquid agunt in commune videantur agere: aequum enim aedilibus
visum est vel in unum ex his, cuius maior pars aut nulla parte minor esset,
aedilicias actiones competere, ne cogeretur emptor cum multis litigare, quamvis
actio ex empto cum singulis sit pro portione, qua socii fuerunt: nam id genus
hominum ad lucrum potius vel turpiter faciendum pronius est[161].
Nel passo si percepisce chiaramente quanto
fosse complessa l’organizzazione dell’attività venaliciaria. Paolo, discutendo il caso della societas venaliciaria, mostra come si fosse ormai consolidata la
prassi di ricorrere al contratto di società per l’esercizio del commercio degli
schiavi. A tal proposito, il giurista dà notizia del fatto che gli edili curuli
emanarono l’editto ad-versus
venaliciarios[162] per sanzionare la
responsabilità dei singoli soci con l’actio
redhibitoria[163], nel caso in cui
fosse stata omessa la dichiarazione dei vizi degli schiavi venduti nei mercati.
Nella parte finale del passo si legge una
frase assai significativa, con la quale Paolo delinea chiaramente i fini poco
nobili insiti nel mestiere di venditori di schiavi: “nam id genus hominum ad lucrum potius vel turpiter faciendum pronius
est”. Nel pensiero del giurista si coglie una nota di disapprovazione nei
confronti dell’operato di coloro che si dedicavano alla compravendita di homines. È risaputo che i mercanti di
schiavi, per ottenere facili guadagni, attuavano numerosi artifici e raggiri[164] ai danni dei
compratori[165] ignari.
La costituzione di una societas consentiva ai venaliciarii
socii di agire simultaneamente in diversi mercati e di ripartire pro quota gli eventuali rischi e
responsabilità derivanti dall’esercizio della loro attività[166].
Inoltre, allo stesso scopo, i venaliciarii usavano conferire mandato[167] ad altri
soggetti, i quali potevano rappresentarli nella loro sede principale di
attività, durante i frequenti spostamenti del venaliciarius in luoghi lontani, per il normale approvvigionamento
di schiavi (acquistati all’ingrosso), da rivendere successivamente al dettaglio
nel venalicium.
Il giurista Papiniano[168] in D. 17.1.57
scrive a proposito di conferimento di mandato da parte di un venaliciarius:
D. 17.1.57 (Papinianus libro decimo responsorum):
Mandatum distrahendorum servorum defuncto
qui mandatum suscepit intercidisse constitit. quoniam tamen heredes eius errore
lapsi non animo furandi sed exsequendi, quod defunctus suae curae fecerat,
servos vendiderant, eos ab emptoribus usucaptos videri placuit. sed
venaliciarium ex provincia reversum Publiciana actione non inutiliter acturum,
cum exceptio iusti dominii causa cognita detur neque oporteat eum, qui certi
hominis fidem elegit, ob errorem aut imperitiam heredum adfici damno[169].
Il frammento offre particolari riferimenti
a forme di esercizio della professione di venaliciarius.
Il caso discusso dal giurista riguarda una vendita di servi effettuata per errore dagli eredi di un mandatario; vendita
conclusa dagli eredi, non con animus furandi[170], al solo fine di
portare a compimento l’incarico attribuito da un venaliciarius al defunto mandatario. Il frammento si presenta ricco
di problematiche, a proposito della tutela dei compratori e della possibilità
del venaliciarius, al suo rientro
dalla provincia, di intentare vittoriosamente l’actio Publiciana[171]. Di questo
frammento, ricco di problematiche giuridiche, però, vorrei evidenziare altri
aspetti, che possono risultare utili per tracciare la struttura organizzativa
dei venaliciarii.
Il fatto che Papiniano delinei una
fattispecie in cui il venaliciarius
abbia conferito mandato per la vendita di mancipia
ad un libero, successivamente defunto, denota quanto fosse usuale, per i
venditori di servi, nell’epoca del
giurista, ricorrere al contratto consensuale di mandato per l’organizzazione il
proprio tipo di commercio[172].
«Inoltre, il riferimento al ritorno del venaliciarius dalla provincia, attesta
che i mercanti di schiavi sovente si spostavano in luoghi lontani per condurre negotiationes. Ne consegue, quindi, che
il venaliciarius, mediante incarico a
uno o più mandatari, poteva operare contemporaneamente in più mercati e così
ampliare territorialmente il proprio raggio d’azione»[173].
Dall’esame delle fonti inerenti alla
vendita della preda bellica, è emerso un buon numero di passi in cui si attesta
chiaramente la presenza di mercanti e uomini d’affari al seguito dell’esercito[174], nonché di
vendite di captivi nel campo di
battaglia a mercatores e negotiatores, o genericamente a qui emerant.
Riporto qui di seguito solo alcuni passi
tra i più significativi:
Livio 10.17.4-10: Ibi
duo milia Samnitium et centum pugnantes circumventi captique, et alia praeda
ingens capta est. quae ne impedimentis gravibus agmen oneraret, convocari
milites Decius iubet. ‘hacine’ inquit ‘victoria sola aut hac praeda contenti
estis futuri? vultis vos pro virtute spes gerere? omnes Samnitium urbes
fortunaeque in urbibus relictae vestrae sunt, quando legiones eorum tot
proeliis fusas postremo finibus expulistis. vendite ista et inlicite lucro
mercatorem, ut sequatur agmen; ego subinde suggeram quae vendatis. ad Romuleam
urbem hinc eamus, ubi vos labor haud maior, prae-da maior manet’. Divendita
praeda ultro adhortantes imperatorem ad Romuleam pergunt. ibi quoque sine opere,
sine tormentis, simul admota sunt signa, nulla vi deterriti a muris, qua cuique
proximum fuit, scalis raptim admotis in moenia evasere. captum oppidum ac
direptum est; ad duo milia et trecenti occisi et sex milia hominum capta, et
miles ingenti praeda potitus, quam vendere, sicut priorem, coactus; Ferentinum
inde, quamquam nihil quietis dabatur, tamen summa alacritate ductus. ceterum
ibi plus laboris ac periculi fuit: et defensa summa vi moenia sunt, et locus
erat munimento naturaque tutus; sed evicit omnia adsuetus praedae miles. ad
tria milia hostium circa muros caesa; praeda militis fuit.
Livio 29.31.11: iamque adeo licenter eludebant ut ad mare
devectam praedam venderent mercatoribus
adpellentibus naves ad id ipsum, pluresque quam iusto saepe in bello Carthaginiensium
caderent caperenturque.
Nel primo testo Livio fa riferimento ad un
episodio verificatosi nel 296 a.C. in seguito alla vittoria sui Sanniti. Il
console Ducio promette alle truppe l’assegnazione di beni e di captivi, e poi assiste alla vendita del
bottino di guerra ai mercanti che seguivano l’esercito[175].
Dalla lettura del secondo passo risulta
evidente che lo storico descrive una vendita di preda bellica ai mercatores.
In un passo del De bello gallico, Cesare fa riferimento a coloro “qui emerant”, e cioè gli acquirenti che
seguivano l’esercito:
Gall.
2.33.6-7: postridie eius diei refractis
portis, cum iam defenderet nemo, atque intromissis militibus nostris sectionem
eius oppidi universam Caesar vendidit. ab iis, qui emerant, capitum numerus ad
eum relatus est milium quinquaginta trium.
Infine un passo di Sallustio, in cui si
narra di un episodio, verificatosi nel 111 a.C., avente come protagonista
Mario, il quale tratta con i negotiatores,
presenti in gran numero a Utica:
Sallustio, Iug. 64.5: ita cupidine atque ira, pessumis consultoribus, grassari; neque facto
ullo neque dicto abstinere, quod modo ambitiosum foret; milites, quibus in
hibernis praeerat, laxiore imperio quam antea habere; apud negotiatores, quorum
magna multitudo Uticae erat, criminose simul et magnifice de bello loqui:
dimidia pars exercitus si sibi permitteretur, paucis diebus Iugurtham in
catenis habiturum; ab imperatore consulto trahi, quod homo inanis et regiae
superbiae imperio nimis gauderet.
Per concludere: dopo aver analizzato i
sistemi organizzativi dell’attività commerciale dei venaliciarii, si può facilmente ipotizzare che una buona parte di mercatores e negotiatores al seguito dell’esercito fossero venaliciarii o loro emissari, interessati a rifornirsi di nuova
“merce umana” da immettere nei mercati degli schiavi. È anche molto probabile,
come scrive il Talamanca[176], che i componenti
delle societates venaliciorum
accorressero sul campo di battaglia nel momento in cui si avesse la notizia di
un gran numero di captivi catturati
al nemico. La vendita pubblica sub corona
consentiva al venaliciarius, il
quale, in questo contesto, agiva in qualità di compratore di homines, di procedere all’acquisto in
massa dei prigionieri di guerra[177].
In una società in cui la richiesta di
manodopera servile era sempre più forte, appare ancor più evidente, lo scopo
economico della guerra e in particolare della vendita sub corona, che diviene nel tempo fonte principale di
approvvigionamento del mercato degli schiavi.
* Relazione presentata
al Convegno internazionale di studi "Guerra pace diritto"
(Sassari-Porto Conte, 28-30 aprile 2004).
[1] Sulla valenza della forma originaria duellum vedi B.A. Müller, v. Bellum, in Thesaurus Linguae
Latinae, 2, 1905, col. 1822; V.
Rosenberger, Bella et expeditiones:
die antike Terminologie der Kriege Roms, Stuttgart 1992, 128 ss.
La derivazione di bellum da duellum viene attestata da Cicerone, orat. 153: Hoc idem nostri saepius non tulissent, quod Graeci laudare etiam
solent. Sed quid ego vocalis? Sine vocalibus saepe brevitatis causa
contrahebant, ut ita dicerent: multi’ modis, in vas’ argenteis, palm’ crinibus,
tecti’ fractis. Quid vero licentius quam quod hominum etiam nomina
contrahebant, quo essent aptiora? Nam ut duellum bellum, et duis bis, sic Duellium
eum qui Poenos classe devicit Bellium nominaverunt, cum superiores appellati
essent semper Duellii. Quin etiam verba saepe contrahuntur non usus causa sed
aurium; Quintiliano, inst. 1.4.15: Sed b quoque in locum aliarum dedimus
aliquando, unde ‘Burrus’ et ‘Bruges’ et ‘Belena’. Nec non eadem fecit ex
‘duello’ ‘benum’, unde ‘Duellios’ quidam dicere ‘Belios’ ausi: quid ‘stlocum
stlites que’?; Isidoro, orig.
18.1.9: Bellum antea duellum vocatum eo
quod duae sint partes dimicantium, vel quod alterum faciat victorem, alterum
victum. Postea mutata et
detracta littera dictum [est] bellum.
[2] è risaputo
che le opere di M. Terenzio
Varrone costituiscono una preziosa fonte di cognizione del diritto romano
dell’età repubblicana: F.P. Bremer,
Iurisprudentiae Antehadrianae, I, Lipsiae 1896, 122 ss.; H. Funaioli, Grammaticae
Romanae fragmenta, Lipsiae 1907, 179 ss. Varrone viene invece reputato
«scrittore non giuridico» da C.G. Bruns,
Fontes iuris romani antiqui5, 3, Scriptores, Tübingen 1887, 377 ss.
Sull’influenza esercitata dalle opere di Varrone nei confronti della
giurisprudenza romana, resta ancora valido il risalente lavoro di F.D. Sanio, Varroniana in den Schriften der römischen Juristen, Leipzig 1867.
Per una più recente analisi degli apporti derivanti dalle opere di varrone alla conoscenza del diritto
romano vedi A. Cenderelli, Varroniana. Istituti e terminologia
giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone, Milano 1973.
Sull’opera antiquaria, in generale, rinvio a: H. Dahlmann, v. M. Terentius Varro, in PW
suppl. 6, Stuttgart 1935, coll. 1254 ss.; F. della
Corte, Varrone. Il terzo gran lume
romano, Firenze 1970. In merito alla dottrina etimologica di Varrone vedi
invece L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani,
Torino 1892, 21 e 39 ss., il quale sottolinea che «l’influenza di Varrone sulla
cultura filologica dei giureconsulti fu certo grande» (21) ed inoltre «che i libri de iure civili di Varrone»
esercitarono «una notevole influenza sugli scritti giuridici di Roma, e specialmente sull’Enchiridion di Pomponio» (21 n. 2); a suo avviso la dottrina
etimologica di Varrone, fortemente influenzata da quella degli Stoici, trovò
fondamento nel fatto che le idee derivassero dalle idee. Tutto ciò, secondo il
Ceci, condizionò le dottrine etimologiche dei giuristi romani che furono
«anch’esse di indole psicologica: anche i giureconsulti» dedussero «le idee
dalle idee, non le parole dalle parole» (50). A proposito dell’influenza dei Libri XV de iure civili di Varrone sulle
opere dei giuristi vedi anche M. Bretone,
Tecniche e ideologie dei giuristi
romani2, Napoli 1982, 160 s., 225 s. Riguardo alla dottrina
teologica del grande antiquario reatino e alla sua conoscenza dei documenti
conservati negli archivi dei sacerdoti, si veda F. Sini, Documenti
sacerdotali di Roma antica. I. Libri
e commentarii, Sassari 1983, 97 ss.; 210 ss. (anche per la bibliografia
precedente).
[3] L’arcaica forma duellum continuerà ad essere utilizzata
nelle formule solenni del linguaggio sacerdotale. Al riguardo, rinvio a F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del ‘diritto
internazionale antico’, Sassari 1991,
190; Id., Ut iustum conciperetur
bellum: guerra “giusta” e sistema
giuridico-religioso romano, in Seminari
di storia e di diritto, III. «Guerra
giusta? La metamorfosi di un concetto antico», a cura di Antonello Calore,
Milano 2003, 57, [= in Diritto @ Storia.
Quaderni di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana 2 (Marzo 2003)
http://www.dirittoestoria.it/tradizione 2/Sini-Iustum-bellum.htm], il quale
scrive che «basterà leggere gli acta
relativi ai Ludi saeculares di Augusto ed a quelli celebrati da Settimio Severo, per
constatare come i termini guerra e pace siano ancora espressi dai sacerdoti
alla maniera arcaica con duellum e domus»; Id., «Fetiales,
quod fidei publicae inter populos praeerant»:
riflessioni su fides e “diritto internazionale” romano (a
proposito di bellum, hostis, pax),
in Il ruolo della buona fede oggettiva
nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno
internazionale di studi in onore di Alberto Burdese, a cura di Luigi
Garofalo, III, Padova 2003, 505 s.
[4] Al riguardo vedi G. Devoto, Storia della lingua di Roma, Bologna 1940 (rist. an. 1969), 107; M. Leumann, Lateinische Laut- und Formenlehre = Leumann-Hoffman-Szantir, Lateinische
Grammatik, 1 [Handbuch der Altertumswissenschaft, II.2.1], nuova ed.,
München 1977, 131 s.
[5] Sull’etimologia del
sostantivo bellum rinvio alle «veterum de origini verbi sententiae»
riportate da B.A. Müller, v. Bellum, cit., col. 1822. Ma vedi anche
A. Walde-J.B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch3,
I, Heidelberg 1938, 100; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la
langue latine: histoire des mots4, Paris 1959, 68. A proposito
dell’origine della parola bellum nelle
opere di grammatici e antiquari, condivido quanto sostenuto da F. Sini, Ut iustum conciperetur bellum: guerra “giusta” e sistema
giuridico-religioso romano, cit., 57 s., il quale scrive che: «le opinioni
si presentavano contraddittorie e (dal nostro punto di vista) poco convincenti:
questo vale tanto per l’interpretazione bellum
a beluis di Festo (e Verrio Flacco), attestata da Paolo Diacono; quanto per
il procedimento kata ¢nt…frasin, bellum
a nulla re bella, del grammatico Servio».
Vedi anche Id., Bellum nefandum. Virgilio e il problema del ‘diritto
internazionale antico’, cit., 190; Id.,
«Fetiales, quod fidei publicae inter
populos praeerant»: riflessioni su fides e “diritto internazionale” romano (a proposito di bellum, hostis,
pax), cit., 505.
[6] B.A. Müller, v. Bellum, cit., col. 1822
[7] Testo con note di
commento di F. Arevalo, in J.P. Migne, Patrologiae cursus completus, series
Latina, 83.5, Paris 1862, 9 ss. Sull’opera, vedi H.J. Diesner, Isidor von
Sevilla und seine Zeit, Leipzig 1973, 24. Rinvio, inoltre, al più recente studio
di J. Fontaine, Isidore de Sèville. Genése et originalité de la culture hispanique
au temps des Wisigoths, Turnhout 2000, 167 ss., ivi citata bibliografia precedente.
[8] Sul grammatico, rinvio
tra tutti, anche per l’ampia bibliografia precedente riportata, al recentissimo
studio di A. Pellizzari, Servio. Storia, cultura e istituzioni
nell’opera di un grammatico tardoantico, Città di Castello 2003.
[9] F. Sini,
Bellum nefandum. Virgilio e il problema
del ‘diritto internazionale antico’, cit., 191; Id., Ut iustum conciperetur bellum: guerra “giusta” e sistema giuridico-religioso romano, cit., 58; Id., «Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant»: riflessioni su fides e “diritto internazionale” romano (a proposito di bellum, hostis,
pax), cit., 504.
[10] F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del ‘diritto
internazionale antico’, cit., 192; Id.,
Ut iustum conciperetur bellum: guerra
“giusta” e sistema giuridico-religioso romano, cit., 58; Id., «Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant»: riflessioni su fides e “diritto internazionale” romano (a proposito di bellum, hostis,
pax), cit., 506.
A proposito della teoria sulla ostilità permanente
e naturale fra i popoli, influenzata dal pensiero di Theodor Mommsen, Römische Geschichte, I, Berlin 1854, trad. it. Storia di Roma antica, con introduzione di G. Pugliese Carratelli,
I, Firenze 1984, 192; Id., Das römische Gastrecht und die römische
Clientel, in Römische Forschungen,
I, Berlin 1864, 319 ss.; Id., Römisches Staatsrecht3,
III.1, Leipzig 1887, 590 ss. [= Droit
public romain, trad. franc. di P.F. Girard, VI.2, Paris 1889, 206 ss.]; Id., Abriss des römischen Staatsrechts, Disegno del diritto pubblico romano, trad. it. di P. Bonfante,
rist. an. dell’ed. 1943, Milano 1973, 9, e la relativa critica da parte della
dottrina romanistica, a partire da Alfred Heuss,
Die völkerrechtlichen Grundlagen der
römischen Aussenpolitik in republikanischer Zeit, Leipzig 1933, 4 ss., 12
ss., 18 ss., fino a Pierangelo Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, 8 ss., 51 ss.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano,
I, Torino 1990, IX s., 10 ss., rinvio, fra tutti, a F. Sini, Ut iustum conciperetur bellum: guerra “giusta” e sistema giuridico-religioso romano, cit., 32
ss.; Id., «Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant»: riflessioni su fides e “diritto internazionale” romano (a proposito di bellum, hostis,
pax), cit., 492 ss., il quale,
aderendo pienamente alla tesi della pace come stato naturale delle relazioni
“internazionali” tra i popoli, offre anche un efficace ed esaustivo quadro
globale della più recente dottrina al riguardo.
[11] Cfr. F. De Martino, Storia della costituzione romana2, II, Napoli 1973, 53.
Vedi anche F. Sini, Bellum
nefandum. Virgilio e il problema del
‘diritto internazionale antico’, cit., 27; Id., «Fetiales,
quod fidei publicae inter populos praeerant»:
riflessioni su fides e “diritto internazionale” romano (a
proposito di bellum, hostis, pax),
cit., 528, il quale scrive: «Per la tradizione giuridica e religiosa romana, la
guerra rappresentava una rottura della pacifica naturalità delle relazioni inter populos; sempre finalizzata,
quindi, alla restaurazione della pace».
[12] A proposito delle ricorrenze
dell’espressione nelle fonti vedi B.A. Müller,
v. Bellum, cit., coll. 1847 s.
Tra le definizione di bellum iustum elaborate dagli autori antichi risulta di particolare
interesse quella di Varrone, ling. Lat. 5.86: Fetiales, quod fidei publicae inter populos
praeerant: nam per hos fiebat ut iustum conciperetur bellum, et inde desitum,
ut foedere fides pacis constitueretur. Ex his mittebantur, ante quam
conciperetur, qui res repeterent, et per hos etiam nunc fit foedus, quod fidus
Ennius scribit dictum, in
cui emerge chiaramente, come sostenuto da F. Sini,
Bellum nefandum. Virgilio e il problema
del ‘diritto internazionale antico’, cit., 196; Id., Ut iustum conciperetur bellum: guerra “giusta” e sistema giuridico-religioso romano, cit., 65; Id., «Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant»: riflessioni su fides e “diritto internazionale” romano (a proposito di bellum, hostis,
pax), cit., 512, una valutazione «di
conformità con la sfera religiosa e rituale dello ius fetiale». Vedi anche Isidoro, orig. 18.1.2: Iustum bellum
est, quod ex edicto geritur de rebus repetitis aut propulsandorum hostium causa,
nella cui definizione è possibile riscontrare il richiamo alla rerum repetitio, già riferito nel De lingua
Latina da Varrone, il quale
sottolineava il ruolo esclusivo dei sacerdoti feziali in questa solenne
procedura.
[13] In tema di bellum iustum, si vedano, tra gli altri, in dottrina: M. Kaser, Das altrömische ius, Göttingen 1949, 22 ss.; H. Drexler, Iustum bellum, in Rheinisches Museum für Philologie 102,
1959, 97 ss.; H. Hausmaninger,
‘Bellum iustum’ und ‘Iusta causa
belli’ in älteren römischen Recht, in
Österreichsche Zeitschrift für
öffentliches Recht, N. F. 11, 1961, 335 ss.; E. Polay, Differenzierung
der Gesellschaftsnormen in antiken Rom, Budapest 1964, 115 ss.; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., 14 ss.; K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik, in ANRW, I.2, Berlin-New York 1972, 102 ss.; W.V. Harris, War and imperialism in Republican Rome, 327-70 BC., Oxford 1979,
161 ss.; S. Albert, Bellum
iustum. Die Theorie des
«gerechten Krieges» und ihre praktische Bedeutung für die auswärtigen
Auseinandersetzungen Roms in republikanischer Zeit, Kallmünz 1980, 12
ss.; A. Sigrid, Bellum Iustum: Die Theorie des gerechten Krieges und ihre
praktische Bedeutung für die auswärtigen Ausei- nandersetzungen Roms in
republikanischer Zeit, Kallmünz 1980; S. Clavadtscher-Thürlemann, ‘Polemos dikaios’ und ‘bellum iustum’, Zürich 1985, 139
ss.; F. d’Ippolito, Sulla giurisprudenza medio-repubblicana,
Napoli 1988, 22 ss.; D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts. Die
Bronzetafel von Alcántara, München 1989, 118 ss.; J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse
Konstruktion des Krieges in Rom, Stuttgart 1990, 117 ss.; M. Mantovani,
Bellum iustum. Die Idee des gerechten Krieges in der römischen Kaiserzeit,
Frankfurt a. Main 1990; F. Sini,
Bellum nefandum. Virgilio
e il problema del ‘diritto internazionale antico’, cit., 192 ss.; Id., Ut iustum conciperetur bellum: guerra “giusta” e sistema giuridico-religioso romano, cit., 55
ss.; Id., «Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant»: riflessioni su fides e “diritto internazionale” romano (a proposito di bellum, hostis,
pax), cit., 512 ss.; A. Watson, International law in archaic Rome: war and religion, Baltimore
1993, 48 ss.; M. Sordi, Bellum
iustum ac pium, in Guerra e diritto nel
mondo greco e romano, a cura di Marta Sordi, Milano 2002, 3 ss.; L. Loreto, Il bellum iustum e i suoi equivoci. Cicerone ed una
componente della rappresentazione romana del Völkerrecht antico, Storia
politica, costituzionale e militare del mondo antico. I; Napoli 2001; A. Calore, Introduzione: guerre giusta tra presente e passato, in Seminari di storia e di diritto, III. «Guerra giusta? La metamorfosi di un concetto
antico», a cura di Antonello Calore, Milano 2003, XVI ss. [= in Diritto @ Storia. Rivista Internazionale di
Scienze Giuridiche e Tradizione Romana 2, 2003,
http://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Calore-Guerra-giusta.htm]; A. Valvo, Il bellum iustum e i generali
romani nel III e II sec. a.C., in Seminari
di storia e di diritto, III. «Guerra
giusta? La metamorfosi di un concetto antico», a cura di Antonello Calore,
cit., 77-99.
[14] Sul grande oratore di
Arpino rinvio a M. Schanz - C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur bis zum
Gesetzgebungswerk des Kaisers Justinian4, I, München 1927 (rist.
1966),
400 ss. (ivi letteratura precedente); P. Grimal,
Cicerone, trad. it. a cura di
L. Guagnellini Del Corno, Milano 1987.
Per la carriera politica vedi T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman republic, New York 1951, II, 233 ss.
Si vedano, in merito al pensiero giuridico ciceroniano, le opere di E. Costa, Cicerone giureconsulto, Bologna 1927 (rist. Roma 1964); M. Pallasse, Cicéron et le sources du droit,
Paris 1946; A. Pezzana, Sull’actio empti come azione di garanzia per
vizi della cosa in alcuni testi di Cicerone, in BIDR 62, 1953, 158 ss.; V. Arangio-Ruiz, Cicerone giurista, in Marco
Tullio Cicerone, scritti nel bimillenario della morte, Roma 1961, 1 ss. (=Scritti di diritto romano, IV, Camerino
1977, 259 ss.); G. Pugliese, Cicerone tra diritto e retorica, in Studi in onore di A.C. Jemolo, Milano
1962, 31 ss.; F. d’Ippolito, I giuristi e la città, Napoli 1978, 95 ss.; I. Lana, I principi del buon governo secondo Cicerone e Seneca, Torino 1981;
Id., Cicerone e la pace, in Seminari
di storia e di diritto, III. «Guerra
giusta? La metamorfosi di un concetto antico», cit., 3 ss.; M. Bretone, Cicerone e i giuristi del suo tempo, in Quaderni di Storia 5, 1979 n. 10, 243 ss. (=Tecniche e ideologie, cit., 63 ss.); A. Schiavone, Il caso e la natura. Un’indagine sul mondo di
Servio, in Società romana e produzione schiavistica, a cura di A.
Giardina e A. Schiavone, III, Roma-Bari 1981, 41 ss.; A. Ronconi, Cicerone e la costituzione romana, in Studi Italiani di Filologia Classica 54, 1982, 7 ss.; F. Sini, Documenti sacerdotali, cit., 93 ss.; G. Hamza, Cicero und der
Idealtypus der iurisconsultus, in Helikon
22-27, 1982-1987, 281 ss.; F. Bona,
Cicerone tra diritto e oratoria, Como
1984; Id., La certezza del diritto nella giurisprudenza tardo-repubblicana, in
La certezza del diritto nell’esperienza giuridica romana, Padova 1987, 117 ss.;
C.A. Cannata, Per una storia della scienza giuridica
europea, I, Torino 1997, 288 ss.
Per i frammenti vedi
F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae,
I, cit., 127 ss., il quale inserisce Cicerone tra i giureconsulti dell’ottavo
secolo; H. Funaioli, Grammaticae Romanae fragmenta, cit., 417
ss.
Per le ricorrenze
dell’espressione bellum iustum nelle
opere filosofiche di Cicerone vedi H. Merguet,
v. Iustus, in Lexikon zu den philosophischen Schriften Cicero’s, II, Olms, 1887
[rist. an. Hildesheim 1961], 424.
[15] Testo e note di
commento in H.A. Holden, M. Tulli Ciceronis, De officiis libri tres,
Cambridge 1899 [rist. an. Amsterdam 1966], 15, 176 s.
[16] Per un commento
puntuale sul passo vedi K. Büchner,
M. Tullius Cicero, De Republica, Kommentar, Heidelberg 1984, 199 s.
[17] Cfr. K. Büchner, M. Tullius Cicero, De
Republica, Kommentar, cit., 325, per il commento al frammento ciceroniano, prevenuto
attraverso Isidoro, Et. 18.1.2-3.
[18] A proposito di ius fetiale,
ruolo e competenze dei fetiales vedi:
F.C. Conradi, De Fecialibus et iure feciali populi Romani,
Helmstadii 1734; M. Voigt, De fetialibus populi Romani quaestionis
specimen, Lipsiae 1852; G. Fusinato,
Dei Feziali e del diritto feziale.
Contributo alla storia del diritto pubblico esterno di Roma, in Memorie dell’Accademia dei Lincei, ser.
III, vol. XIII, 1883-84. Fra la letteratura più recente, P. de Francisci, Primordia civitatis, Roma 1959, 472 ss.; P. Bierzanek, Sur les origines du droit de la guerre et de la paix, in RHD 38, 1960, 94 ss.; P. Catalano, Cic. De off. 3, 108 e il
così detto diritto internazionale antico, in Synteleia
Arangio-Ruiz, I, Napoli 1964, 373 ss.; Id., Linee
del sistema sovrannazionale romano, cit., 195 ss.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e
attualità del sistema romano, cit., 5 ss.; Chr. Saulnier, Le rôle des prêtres fétiaux et
l’application du “ius fetiale” à Rome,
in RHD 58, 1980, 171 ss.; T. Wiedemann, The Fetiales: a reconsideration, in Classical Quarterly 36, 1986, 479 ss.; Cl. Auliard, Les
Fétiaux, un collège religieux au service du droit sacré international ou de la
politique romaine?, in Mélanges P.
Lévêque, VI, Paris 1992, 1 ss.; J.-L.
Ferrary, Ius fetiale et diplomatie,
in Ed. Frézouls et A. Jacquemin eds., Les relations internationales. (Actes du Colloque de Strasbourg 15-17 juin
1993), Paris 1995, 411 ss.; L. Cappelletti, Il ruolo dei fetiales e il
concetto di civitas in Liv. IX 45, 5-9,
in Tyche 12, 1997, 7 ss.; M.R. Cimma, I feziali e il diritto internazionale antico, in Ius Antiquum-Drevnee Pravo 6, 2000, 24
ss.; E. Bianchi, Fest. s.v. ‘Nuntius’ p. 178, 3 L. e i
documenti del collegio dei Feziali, in SDHI
66, 2000, 335 ss.; A. Giovannini, Le droit fecial et la declaration de guerre de Rome à Carthage en 218
avant J.-C., in Athenaeum 88, 2000, 69 ss.; F. Sini, «Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant»: riflessioni su fides e “diritto internazionale” romano (a proposito di bellum, hostis,
pax), cit., 481 ss. Per completezza,
cito anche il contributo in lingua russa di N.G.
Majorova, The College of Fetials,
in L.L. Kofanov (a cura di), Collegia sacerdotum Romae primordialis. Ad
problemam de incremento iuris sacri et publici, Mosca 2001, 142 ss.
[19] Sull’indictio belli, tra i più recenti, vedi:
P. Catalano, Diritto e persone: studi su origine e attualità del sistema romano,
cit., 37 ss.; F. Blaive, Indictio
belli. Recherches sur l’origine du droit
fecial romain, in RIDA 40, 1993,
185- 207; B. Albanese, “Res repetere” e “bellum indicere” nel rito
feziale (Liv. 1,32,5-14), in AUPA 46,
2000, 7 ss.; A. Giovannini, Le droit fecial et la declaration de guerre de Rome à Carthage en 218
avant J.-C., cit., 69 ss.
[20] F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del ‘diritto
internazionale antico’, cit., 199; Id.,
Ut iustum conciperetur bellum: guerra
“giusta” e sistema giuridico-religioso romano, cit., 70; Id., «Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant»: riflessioni su fides e “diritto internazionale” romano (a proposito di bellum, hostis,
pax), cit., 516n.
[21] Per le occorrenze
nelle fonti della locuzione bellum
iniustum, rinvio a B.A. Müller,
v. Bellum, cit., col. 1847. Vedi
anche H. Merguet, v. Iniustus, in Lexikon zu den philosophischen Schriften Cicero’s, II, cit., 424,
in merito alle ricorrenze dell’espressione bellum
iniustum nelle opere filosofiche di Cicerone.
[22] Cfr. B.A. Müller, v. Bellum, cit., col. 1847, per la locuzione bellum impium nelle fonti.
[23] Con note di commento
di F. Arevalo, in J.P. Migne, Patrologiae cursus completus, series Latina, 82.5, Paris 1850, 9
ss. Vedi H.J. Diesner, Isidor von Sevilla und seine Zeit, cit.,
21 ss., nonché il più recente lavoro di J. Fontaine,
Isidore de Sèville. Genése et originalité de la culture hispanique
au temps des Wisigoths, cit., 173 ss., anche per la bibliografia
precedente ivi citata.
[24] Cicerone, re publ. 3.35.
[25] H. Ehlers, v. Hostis, in Thesaurus Linguae
Latinae, 6.2, 1934, coll. 3061
ss.
[26] Cfr. A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la
langue latine, cit., 301, in cui si legge: «sens conservé dans la loi des
XII Tables, adversus hostem aeterna
auctoritas esto».
[27] Vedi soprattutto A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue
latine, cit., 301. Cfr. anche E. Cuq,
v. Hostis, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, III.1, Paris
1900, 303; H. Ehlers, v. Hostis, in Thesaurus Linguae Latinae, 6.2,
cit., col. 3056.18; A. Walde-J.B.
Hofmann, Lateinisches etymologisches
Wörterbuch, I, cit., 662 s.; E.
Benveniste, Le vocabulaire des
institutions indo-européennes, l. économie, parenté, société, Paris
1969, 93.
[28] Per un commento del
testo vedi H.A. Holden, M. Tulli Ciceronis, De officiis libri tres,
cit., 16 e 178 s.
[29] J. Schwind, v. Peregrinus, in Thesaurus
Linguae Latinae, 10.1, 1995, coll. 1307 ss. In particolare, per l’uso di peregrinus nelle opere filosofiche di
Cicerone, vedi H. Merguet, v. Peregrinus, in Lexikon zu den philosophischen Schriften Cicero’s, III, cit., 50.
[30] Sul contenuto della
v. Status dies <cum hoste> si
veda É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions
indo-européennes, l. économie, parenté, société, cit.,
93; ma soprattutto P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano,
cit., 71 s., il quale scrive: «… qui interessa rilevare che la spiegazione data
da Festo al termine hostes, con
evidente riferimento agli stranieri in genere, indica, nella parità, una
compartecipazione allo ius. Tale idea
di compartecipazione pone in nuova luce la definizione di hostis (e peregrinus)
come “qui suis legibus uteretur”
(Varrone, De ling. Lat. 5,3):
l’appartenenza a una collettività diversa con proprie leggi non toglieva la
compartecipazione a una più generale sfera di ius considerato valido, virtualmente, per tutti i popoli»; Id., Populus Romanus Quirites, Torino
1974, 140.
[31] Cfr. F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., 19, il quale osserva
«Vi fu dunque un tempo, nel quale hostis
era lo straniero amico, col quale si annodavano rapporti giuridici garantiti
dallo stato romano, con presumibile diritto di reciprocità. Ciò non vuol dire
che non vi fossero le guerre anche allora, ma vuol dire che le guerre venivano
considerate come una rottura di una condizione umana riconosciuta dal diritto e
dalla religione come normale, legittima, e tale condizione era quella della
pace. Chi la violava era perduellis,
termine, che solo in seguito passò ad indicare colui che attentava lo stato
romano, cioè il fuorilegge».
[32] Al riguardo, rinvio
alla lettura di: Plauto, Curc. 1.1.4-6: si media nox est sive est prima vespera, /
Si status condictus cum hoste intercedit dies, / tamen est eundum quo imperant
ingratiis; Varrone, ling. Lat.
5.3: Quae ideo sunt obscuriora, quod
neque omnis impositio verborum extat, quod vetustas quasdam delevit, nec quae
extat sine mendo omnis imposita, nec quae recte est imposita, cuncta manet
(multa enim verba li<t>teris commutatis sunt interpolata), neque omnis
origo est nostrae linguae e vernaculis verbis, et multa verba aliud nunc ostendunt,
aliud ante significabant, (ut hostis: nam tum eo verbo dicebant peregrinum qui
suis legibus uteretur, nunc dicunt eum quem tum dicebant perduellem);
Servio Dan., in Verg. Aen. 4.424: Inde nostri ‘hostes’ pro hospitibus
dixerunt: nam inimici perduelles dicebantur; Paolo, Fest. ep., 91 L.: Hostis apud
antiquos peregrinus dicebatur, et qui nunc hostis, perduellio. Di grande
interesse, per l’utilizzazione del termine hostis
con il suo originario significato di “straniero”, altri due testi: il primo
tratto dalle Noctes Atticae, in cui
Aulo Gellio riporta la formula del giuramento del miles: noct. Att. 16.4.3-4: Militibus autem scriptis dies praefinibatur, quo die adessent et
citanti consuli responderent; deinde ita concipiebatur iusiurandum, ut
adessent, his additis exceptionibus: “nisi harunce quae causa erit: funus
familiare feriaeve denicales, quae non eius rei causa in eum diem conlatae
sunt, quo is eo die minus ibi esset, morbus sonticus auspiciumve, quod sine
piaculo praeterire non liceat, sacrificiumve anniversarium, quod recte fieri
non possit, nisi ipsus eo die ibi sit, vis hostesve, status condictusve dies
cum hoste; si cui eorum harunce quae causa erit, tum se postridie, quam per eas
causas licebit, eo die venturum aditurumque eum, qui eum pagum, vicum,
oppidumve delegerit”; il secondo, di Paolo, Fest. ep., 72 L.: Exesto,
extra esto. Sic enim lictor in quibusdam sacris clamitabat: hostis, vinctus,
mulier, virgo exesto; scilicet interesse prohibebatur, dove si può leggere
la formula utilizzata dal littore per allontanare determinate categorie di
soggetti dalle cerimonie religiose, tra i quali anche l’hostis.
[33] F. De Martino, Storia della costituzione romana,
II, cit., 20. Vedi anche F. Serrao,
Diritto privato, economia e società nella
storia di Roma2, Napoli 1999, 346.
[34] Cfr. E. Cuq, v. Hostis, in Dictionnaire des
antiquités grecques et romaines, III.1, cit., 303, in cui si legge: «Aux
derniers siècles de la République, l’acception du mot hostis s’est modifiée, en même temps que celle du mot peregrinus a
été étendue. Désormais, le mot peregrinus
désigne une condition juridique». Vedi Gaio, Inst. 1.128; Gai epit. 1.6.1;
Tituli ex corp. Ulp. 10.3.
[35] Rinvio a H. Ehlers, v. Hostis, cit., coll. 3056.65, Capvt altervm: notione communi i.q. perduellis, per le occorrenze di hostis con tale significato.
[36] O. lenel, Palingenesia iuris civilis, II,
Lipsiae 1889, col. 60, fr. 222 [de
testamentis]. Otto Lenel colloca il frammento, tratto dai libri ad Quintum Mucium, nelle rubrica de testamentis, in particolare
nell’ambito della trattazione dell’incapacità a testare del captus ab hostibus: «Ab hostibus captus, quia servus est,
testamentum facere non potest: a latronibus captus, non est latronum servus»
(col. 60, n. 3). Il passo, invece, viene prevalentemente ricondotto, dalla
dottrina, alla tematica del postliminium,
così come sostenuto da F. Bona, “Postliminium in pace”, in SDHI 21, 1955, 262 n. 58. Al riguardo,
vedi anche F. Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella
repubblica e nel principato, Napoli 1996, 136 s. Da ultima, a proposito
degli effetti della prigionia di guerra sulla patria potestas, L. D’Amati, “Pater ab hostibus captus” e status dei discendenti nei giuristi romani, in Index 27, 1999, 57, 68 n. 28. Per R.
Martini, Le definizioni dei
giuristi romani, Milano 1966, 200 s., il frammento, sempre riconducibile al
tema del postliminium, sarebbe
esempio di definizione con funzione interpretativa.
Del testo di Pomponio si sono occupati, in merito alla nozione di latro
e latrocinium: J.D. Cloud, The primary purpose of the lex Cornelia de sicariis, in ZSS
86, 1969, 278; V. Giuffrè, “Latrones desertoresque”, in Labeo 27, 1981, 217; S. Morgese, Taglio di alberi e “latrocinium”: D.47.7.2, in SDHI 49, 1983, 169.
[37] Cfr. O. lenel, Palingenesia iuris civilis, I, Lipsiae 1889, col. 243, fr. 428 [De die diffindendo], in cui lo studioso
tedesco sostiene che si tratterebbe del commento alla Tab. 2.2 (cfr. col. 243
n. 7). Vedi anche F. Bona, Preda di guerra e occupazione privata di
“res hostium”, in SDHI 25, 1959,
342; R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani,
cit., 245. Da ultimo, T. Giaro, Dogmatische Wahrheit und Zeitlosigkeit in
der römischen Jurisprudenz, in BIDR
90, 1987, 42 n. 138, il quale segnala il frammento gaiano, tratto dall’opera Ad legem XII Tabularum, come l’unico
contenente una definizione incentrata su un mutamento semantico.
[38] O.
lenel, Palingenesia iuris civilis,
II, cit., col. 927, fr. 1911. Il Lenel colloca il frammento fra quelli in tema
di ius gentium, in particolare segue
D. 1.1.1.4: Ius gentium est, quo gentes
humanae utuntur. quod a naturali recedere facile intellegere licet, quia illud
omnibus animalibus, hoc solis hominibus inter se commune sit, e precede D.
1.1.4: Manumissiones quoque iuris gentium
sunt. est autem manumissio de manu missio, id est datio libertatis: nam quamdiu
quis in servitute est, manui et potestati suppositus est, manumissus liberatur
potestate. quae res a iure gentium originem sumpsit, utpote cum iure naturali
omnes liberi nascerentur nec esset nota manumissio, cum servitus esset
incognita: sed posteaquam iure gentium servitus invasit, secutum est beneficium
manumissionis. et cum uno naturali nomine homines appellaremur, iure gentium
tria genera esse coeperunt: liberi et his contrarium servi et tertium genus
liberti, id est hi qui desierant esse servi. L’insigne studioso, inoltre,
ricollega il frammento al contenuto di I. 1.3.4, sulla captivitas quale causa di schiavitù iuris gentium (col. 927
n. 2).
Per
la connessione del frammento al tema del postliminium,
vedi R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani,
cit., 341, n. 542. Il passo viene comunemente ricollegato, dalla dottrina, sia
al contenuto di D. 50.16.118 (Pomponius libro secundo ad Quintum Mucium),
sia a quello di D. 49.15.19.2 (Paulus
liber sexto decimo ad Sabinum), in cui si legge: A piratis aut latronis capti liberi permanent. Al riguardo, tra
gli studi più recenti, vedi K.-H.
Ziegler, Pirata communis hostis
omnium, in De iustitia et iure.
Festgabe für Ulrich von Lübtow, Berlin 1980, 98; V. Giuffrè, “Latrones
desertoresque”, in Labeo 27,
1981, 217; S. Morgese, Taglio di alberi e “latrocinium”: D.47.7.2,
cit., 161 s., n. 36; M.F. Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella
repubblica e nel principato, cit., 137, 143; L. D’Amati, “Pater ab hostibus captus” e status dei discendenti nei
giuristi romani, cit., 68; M.V.
Sanna, Nuove ricerche in tema di postliminium e redemptio ab hostibus, Cagliari 2001,
42 n. 53.
[39] Sul giurista Pomponio
rinvio a: D. Nörr, Pomponius oder “Zum Geschichtsverständnis
der römischen Juristen”, in ANRW
II.15, Berlin-New York 1976, 497 ss. (vedi anche le considerazioni critiche di M. Talamanca, Per la storia della giurisprudenza romana, in BIDR 80, 1977, 261 ss.); M. Bretone,
Tecniche e ideologie, cit.,
209 ss.; F. Casavola, Giuristi adrianei, Napoli 1980, 71 s.,
130 ss., 314 ss. (ivi accurata bibliografia precedente); R.A. Bauman, Lawyers and politics, cit., 287 ss.; E. Stolfi, Studi sui
«Libri ad edictum» di Pomponio. I. Trasmissione fonti, Napoli 2001; Id., Studi sui «Libri ad edictum» di Pomponio. II. Contesti e pensiero,
Milano 2002, [e-book consultabile in Rivista di diritto romano 2, 2002,
http://www. ledonline.it/rivistadirittoromano/index.html?/rivistadirittoromano/stolfi.html].
I frammenti delle opere di Pomponio sono ordinati e raccolti da o. lenel,
Palingenesia iuris civilis, II, cit.,
coll. 15 ss.
[40] Il giureconsulto
severiano è stato oggetto di innumerevoli studi da parte della dottrina
romanistica. Si fa per tanto rinvio, per contenuti e bibliografia ivi citata, a
G. Crifò, Ulpiano. Esperienze e responsabilità del giurista, in ANRW II.15, Berlin-New York 1976, 708
ss. (su cui vedi le considerazioni critiche di M. Talamanca, Per la storia
della giurisprudenza romana, cit., 236-249); T. Honoré, Ulpian,
Oxford, 1982. Più recenti: V. Marotta, Ulpiano e l’impero, I, Napoli, 2000; A. Lovato, Sudi sulle Disputationes di
Ulpiano, Bari, 2003 (su cui vedi recensione di E. Stolfi, I "libri
disputationum" di Ulpiano e la storiografia sulle opere dei giuristi
romani, in Rivista di Diritto Romano, III, 2003, 1 ss.
http://www.ledonline.it/ rivistadirittoromano). Sulla formazione
stoica del giurista vedi: U. Manthe, Beiträge zur Entwicklung des antiken gerechtigkeitsbegriffes II: Stoische
Würdigkeit und iuris praecepta Ulpians, in ZSS 114, 1997, 1 ss. Sul pensiero di Ulpiano in tema di schiavitù
vedi in particolare A. Schiavone, Legge di natura o convenzione sociale? Aristotele, Cicerone, Ulpiano
sulla schiavitù-merce, in Schiavi e
dipendenti nell’ambito dell’«oikos» e della «familia». Atti del XXII Colloquio GIREA, Pontignano
19-20 novembre 1995, a cura di M. Moggi - G. Cordiano, Pisa 1997, 173 ss.
[41] Per l’etimologia e le
ricorrenze del termine latro nelle
fonti, vedi A. Ernout-A. Meillet,
Dictionnaire étymologique de la langue
latine, cit., 343 s. Cfr. anche A.
Walde-J.B. Hofmann, Lateinisches
etymologisches Wörterbuch, I, cit., 771 s.; P.G. van Wess, v. Latro, in Thesaurus Linguae Latinae, 7, 1979, 1014 ss.
Sull’evoluzione
semantica del sostantivo latro, sulle
incursioni dei latrones e sul latrocinium, rinvio ai lavori più
recenti: A. Milian, Ricerche sul “latrocinium” in Livio. I. “Latro” nelle fonti preaugustee, in Atti dell’Istituto Veneto di Scienze,
Lettere e Arti 138, 1979-1980, 171 ss.; Id.,
Ricerche sul “latrocinium” in Livio. II. Il “latrocinium” di Perseo, in
Sodalitas. Scritti in onore di Antonio
Guarino, III, Napoli 1984, 103 ss.; J.
Burian, Latrones. Ein Begriff in
römischen literarischen und juristischen Quellen, in Eirene 21, 1984, 17 ss.; V.
Giuffrè, “Latrones desertoresque”,
in Labeo 27, 1981, 214 ss.; S. Morgese, Taglio di alberi e “latrocinium”: D. 47.7.2, cit., 147 ss.; M.F. Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella repubblica e nel principato,
cit., 137 ss.; Ead., ‘Captivitas’ e ‘capitis deminutio’. La
posizione del ‘servus hostium’ tra ‘ius civile’ e ‘ius gentium’, in Iuris
vincula, Studi in onore di Mario
Talamanca, II, Napoli 2001, 339 s.; T. Grünewal,
Räuber, Rebellen, Rivalen, Rächer :
studien zu Latrones in Römischen
Reich, Stuttgart 1999, in part., per l’etimologia del termine, 7 ss., per
la ricostruzione da parte della dottrina dei diversi significati della parola,
14 ss., per i latrones nelle fonti
giuridiche, 22 ss.
[42] M.F. Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella repubblica e nel principato,
cit., 137. Per quanto attiene al significato di latrones nei frammenti D. 50.16.118 e D. 49.15.24, l’A., partendo
dal presupposto della mancanza del «organisiertes Gemeinwesen», già individuato
da K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik,
cit., 132, come elemento indispensabile per non considerare hostes i latruncoli vel praedones, così scrive: «Questa ritengo sia
l’accezione di latrones cui Pomponio
e Ulpiano intendessero riferirsi, con significato affine a grassatores, ovverosia “bande di predoni e malfattori, i quali
armati scorazzavano specialmente nelle campagne e nelle vie fuori le città”»
(139). Per una opinione differente, si rinvia a quanto anteriormente sostenuto
da S. Morgese, Taglio di alberi e “latrocinium”: D. 47.7.2,
cit., 162 ss., la quale intravede nei latrones,
citati nei testi giuridici in contrapposizione agli hostes, la categoria dei “quasi nemici”, individuando così nei latrones del frammento di Pomponio due
categorie di soggetti: «in primo luogo poteva trattarsi di stranieri
confinanti, i quali verosimilmente in bande armate, effettuavano incursioni …;
in secondo luogo poteva trattarsi di cittadini romani, o di provinciali, o di
schiavi, i quali si ribellavano all’ordine costituito…».
[43] In particolare per la
condizione del captus a latronibus,
in contrapposizione al captus ab hostibus,
vedi M.F. Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella
repubblica e nel principato, cit., 137 ss., in part. 143; Ead., ‘Captivitas’ e ‘capitis deminutio’. La posizione del ‘servus hostium’
tra ‘ius civile’ e ‘ius gentium’, cit., 327 ss. Si veda anche il
recentissimo lavoro di L. D’Amati,
Civis ab hostibus captus. Profili del regime classico, Milano
2004.
[44] Cfr. M.F. Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella repubblica e nel principato,
cit., 144, la quale osserva: «soltanto nel rapporto di ostilità con i popoli
stranieri Roma ravvisa gli estremi della schiavitù. Dove manchi una comunità
organizzata, il civis non subisce la
perdita della libertà in via di diritto, ma solo in via di fatto».
[45] Per una biografia del
giurista vedi A.M. Honoré, Gaius. A bio-graphy, Oxford 1962; ma anche G. Diódsi, Gaius, der Rechtsgelehrte, in ANRW
II.15, Berlin-New York 1976, 605 ss. (ivi, 623 ss., accurata bibliografia gaiana di
R. Wittmann, alla quale si fa rinvio); F. Casavola, Giuristi adrianei, cit., 145 ss., 339 ss.; F. Gallo, La storia in gaio, in Il
modello di Gaio nella formazione del giurista, Atti del convegno torinese 4-5
maggio 1979 in onore del prof. S. Romano, Milano 1981, 89 ss.; G. Pugliese, Gaio e la formazione del giurista, in Il modello di Gaio nella formazione del giurista, cit., 1 ss.; R. Quadrato, Le Institutiones nell’insegnamento di Gaio. Omissioni e rinvii, napoli 1979; Id., La persona in Gaio.
Il problema dello schiavo, in Iura
37, 1986, 1 ss.; O. Diliberto, considerazioni
intorno al commento di Gaio alle XII tavole, in Index 18, 1990, 403 ss.; F. D’Ippolito,
Gaio e le XII Tavole, in Index 20, 1992, 279 ss.; M. Bretone, una mano estranea sul
commento di gaio all’editto
provinciale, in Mélanges à la mémoire
de André Magdelain, Paris 1998, 39 ss.
Per quanto attiene al
commento di Gaio Ad edictum aedilium
curulium liber I e liber II, rinvio
ai frammenti superstiti raccolti e ordinati da o. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit.,
coll. 235-237, frr. 378-387. Il Lenel ritiene che il commentario all’editto
edilizio dovesse far parte dei libri XXXI e XXXII Ad edictum provinciale di gaio;
in particolare, i frammenti di commento al primo libro dell’editto degli edili
(frr. 378-386) vengono considerati appartenenti al libro 31 Ad edictum provinciale, mentre l’unico
frammento del libro II ad edictum aedilium curulium (fr.
387) si ritiene facesse parte del libro 32 Gai
ad edictum provinciale.
Vedi anche Ph. Huschke - e. Seckel - b. Kübler, iurisprudentiae,
cit., 113 ss.
[46] A proposito della
nozione di veteres nel frammento
gaiano, rinvio a B. Albanese, La nozione del furtum fino a Nerazio, in AUPA 23, 1953, 60 n. 31, il quale rileva che il richiamo ai veteres in «D. 50,16,234 allude con
evidenza ai più antichi commentatori delle XII tavole». Sul concetto di veteres in Gaio, vedi anche F. Guizzi, Gai 1.145, i veteres e la
legislazione decemvirale, in Labeo
9, 1963, 412 ss.; A. Biscardi, Postille gaiane, in Gaio nel suo tempo, Atti del
simposio romanistico, Napoli 1966, 20 ss., in part., per un riferimento a
D. 50 16.234, 20 n. 38; C. Gioffredi, Su Gai. 4, 30, in SDHI 44, 1978,
431 n. 7. In generale, sui veteres nel
linguaggio dei giuristi, O. Behrends,
Les “veteres” et la nouvelle
jurisprudence à la fin de la République, in Revue Historique de droit Français et Étranger 55, 1977, 7 ss.; F. Horak, Wer waren die “veteres”? Zur
Terminologie der klassischen römischen Juristen, in Vestigia Iuri
Romani. Festschrift für G. Wesener zum
60. Geburstag am 3.Juni 1992, a cura di G. Klingerberg-J.M. Rainer-H.
Stiegler, Graz 1992, 201 ss.
[47] N. Delhey, v. Perduellis, in Thesaurus
Linguae Latinae, 10.1, 1995, coll. 1292 ss., in particolare, vedi
l’accezione «i. qui (cum altero) bellum
gerit 1. usu prisco de hostibus
externis», col. 1292.65.
[48] Per le ricorrenze
nelle fonti del termine praeda rinvio
a: Ae. Forcellini, v. Praeda,
in Lexicon totius latinitatis, III,
Patavii 1771, 495 s.; P. Gatti,
v. Praeda, in Thesaurus Linguae Latinae, 10.2, 1985, coll. 522 ss. Per
l’etimologia vedi A. Walde-J. B. Hofmann, Lateinisches
etymologisches Wörterbuch3, II, Heidelberg 1954, 352 s.
Per la nozione e l’origine
di praeda in Varrone, si legga il
passo De ling. Lat. 5.178: Praeda est ab hostibus capta, quod manu parta, ut parida praeda.
[49] su
Aulo Gellio e la sua opera si veda M. Schanz
- C. Hosius, Geschichte der
römischen Literatur, III, cit., 175 ss. Per una accurata bibliografia
gelliana (fino al 1982) si fa rinvio a F. Cavazza,
Aulo Gellio, Le Notti Attiche, I-III,
Bologna 1985, 55 ss. Tra gli studi gelliani più recenti, vedi L.A. Holford-Strevens, Aulus Gellius,
Oxford 1988, 9 ss.; Id., More falsa Gelliana, in The Classical Quarterly 48, 1998, 587
ss.; M.L. Astarita, La cultura nelle “Noctes Atticae”,
Catania 1993; Id., Un’evoluzione nei recenti studi su Aulo
Gellio, in BSL 25, 1995, 172 ss.;
L. Di Salvo, Discussioni e proposte su alcuni passi delle “Noctes atticae” di Gellio,
in Orpheus 17, 1996, 311 ss.; A. Garcea, Tipi di testo nelle Noctes Atticae: strutture tematiche e comunicative,
in Quaderni 11, 1998, 207 ss.; M. Korenjak, Le Noctes Atticae di Gellio: i misteri della ‘paideia’, in SIFC 16, 1998, 80 ss. Per quanto attiene
alla lessicografia gelliana si vedano i volumi di J.A. Beltrán, Concordantia
in Auli Gelii Noctes Atticas, I-III, Olms-Wiedmann 1997.
È nota l’importanza di
Aulo Gellio come fonte per la conoscenza del diritto romano. per tanto si rinvia ai più recenti
studi di C.S. Toumulescu, An aristocratic Roman interpretation at
Aulus Gellius, in RIDA 17, 1970,
313 ss.; D. Nörr, Der Jurist im Kreis der Intellektuellen:
Mitspieler oder Aussenseiter? Gellius,
Noctes Atticae 16.10, in Festschrift
für M. Kaser, München 1976, 57 ss.; F. Casavola,
Giuristi adrianei, cit., 79
ss.; M.T. Schettino, Aulo Gellio e l’annalistica, in Latomus 46, 1987, 123 ss.; O. Diliberto, Materiali per una palingenesi delle XII Tavole, Cagliari 1992, 121
ss.; M. Humbert, Les privilèges, des XII Tables à Cicéron,
in “Splendidissima civitas”: études
d’histoire romaine en hommage à F. Jacques, a cura di A. Chastagnol - S.
Demougin - C. Lepelley, Paris 1996, 169 ss.; H. Jones, L’honneur blessé
d’Aulus Agerius: problématiques et réponses jurisprudentielles, in Le monde antique et les droits de l’homme:
actes de la 50e session de la Société internationale F. De Visscher
pour l’histoire des droits de l’antiquité, Bruxelles 16-19 septembre 1996,
Bruxelles 1998, 245 ss.
[50] Secondo la
maggioranza gli studiosi, l’opera fu pubblicata quando Gellio era ancora in
vita. Al riguardo, però, non tutti concordano sulla data di pubblicazione: R. Marache, Aulu-Gelle, Les Nuits Attiques, Paris 1967, X-XII, ritiene che la
data dovrebbe individuarsi negli anni ricompresi tra il 146 e il 158 d.C.; per
una probabile datazione negli anni dal 170 d. C. in poi L.A. Holford-Strevens, Towards a
Chronology of Aulus Gellius, in Latomus 36, 1977, 93 ss.; E. Castorina, Scritti minori, Catania 1979, 32; P. Steimetz, Untersuchungen
zur römischen Literatur des zweiten Jahrhunderts nach Christi Geburt,
Wiesbaden 1982, 278; W. Ameling, Aulus Gellius in Athen, in Hermes 112, 1984, 490; F. Cavazza,
Aulo Gellio, Le Notti Attiche, cit.,
19; L. Gamberale, La riscoperta dell’arcaico, in Aa.Vv.,
Lo spazio letterario di Roma antica,
III, Roma 1990, 577 n. 134. Invece, M.L. Astarita,
Note di cronologia gelliana, in Orpheus, 5, 1984, 422 ss.; Ead., La cultura nelle “Noctes Atticae”, cit., 14, ritiene che la
pubblicazione dell’opera sarebbe precedente al 161 d.C.
[51] Gellio, noct. Att., 13.25.26. Ma si
legga anche la parte iniziale del capitolo 25, noct. Att. 13.25.3: Tum
quispiam, qui cum eo erat, homo in studiis doctrinae multi atque celebrati
nominis: ‘ex manubiis’ inquit ‘significat ‘ex praeda’; manubiae enim dicuntur
praeda, quae manu capta est.
[52] Sul concetto di manubiae e l’uso del termine nelle fonti
rinvio a L. Deicke, v. Manubiae, in Thesaurus Linguae Latinae, 8, 1966, coll. 335 ss., in particolare,
per le occorrenze che pertinent ad
praedam bello comparatam, col. 336. Tra gli studi in tema di manubiae, vedi F. Bona, Sul concetto
di ‘manubiae’ e sulla responsabilità del magistrato in ordine alla preda,
in SDHI 26, 1960, 105 ss.; A. Valvo, Il bellum iustum e i generali
romani nel III e II sec. a.C., in Seminari
di storia e di diritto, III, cit., 77 ss.
[53] F. Bona, Preda di guerra e occupazione
privata di “res hostium”, cit., 355 s.; Id.,
v. Preda bellica (storia), in ED, 34, Milano 1985, 913.
[54] Ibid.
[55] Cfr., tra gli altri,
R. Cagnat, v. praeda, in Ch. Daremberg –
E Saglio, Dictionnaire des antiquités greques et romaines, IV-1, Paris 1904,
610 s.; K.H. Vogel, v. Praeda, in PW 43, Stuttgart 1953, 1200 ss.; F.
Bona, Preda di guerra e
occupazione privata di “res hostium”, cit., 334.
[56] Vedi F. Bona, Preda di guerra e occupazione privata di “res hostium”, cit., 355,
il quale osserva: «Ogni qual volta i giuristi hanno trattato l’occupabilità
delle cose catturate ai nemici, non hanno mai fatto uso del termine praeda. Hanno fatto ricorso o alla
espressione res hostiles […] o alle perifrasi ea
quae ex hostibus capiuntur […] e bello
capta […]. Viceversa nelle
stesse fonti giuridiche ricorre i termine praeda,
quando si voglia sottolineare il suo aspetto pubblicistico».
[57] Per tutte le
ricorrenze del lemma praeda
nell’opera Ab urbe condita di Tito
Livio, rinvio a Ph. Fabia, Titi
Livi loci qui sunt de praeda belli romana, in Mélanges Ch. Appleton:
études d’histoire du droit dédiées à M. Charles Appleton à l’occasion de son
XXVe anniversaire de professorat, Lyon-Paris 1903, 307
ss.
[58] F. Bona, Preda di guerra e occupazione
privata di “res hostium”, cit., 328 s.
[59] Al riguardo, vedi il
contenuto di alcuni passi di Livio in cui si afferma esplicitamente
l’appartenenza del bottino di guerra al populus
Romanus: 3.71.7; 30.14.8. Cfr. F.
Bona, Preda di guerra e
occupazione privata di “res hostium”, cit., 325, 328, 336.
[60] Tra gli innumerevoli
studi sullo ius gentium, rinvio, per
una prima lettura, ai lavori di G. Lombardi,
Ricerche in tema di ius gentium,
Milano 1946; Id. Il concetto di “ius gentium”, Roma 1947.
Ma vedi anche C.A. Maschi, Istituti accessibili agli stranieri e «ius gentium», in Jus 13, 1962, 368 ss.; M. Kaser, Ius gentium,
Köln-Weimar-Wien-Böhlau 1993.
[61] O.
lenel, Palingenesia iuris civilis,
I, cit., col. 265, fr. 1. Il frammento non viene considerato attendibile da G. Lombardi, Il concetto di “ius gentium”, cit., 260 ss., il quale afferma:
«limitandomi all’esame esegetico del passo attribuito a Ermogeniano, ritengo –
nonostante riconosca assai difficile “dimostrarlo” – che il frammento sia,
nella redazione attuale, sostanzialmente giustinianeo… elemento per me
decisivo, a farmi ritenere non genuina la attuale redazione, è la
configurazione del ius gentium non
quale “Rechtsgebiet”, ma quale “Rechtsquelle”» (261 s.). Sul frammento vedi
anche: C.A. Maschi, Istituti accessibili agli stranieri e «ius
gentium», cit., 368 ss.; M. Voigt,
Das jus naturale, aequum et bonum und
jus gentium der Römer, II, Leipzig
1858, 864; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano,
cit., 86 s.; Ph. Didier, Les diverses
conceptions du droit naturel a l’oeuvre dans la jurisprudence romaine des IIe
et IIIe siècles, in SDHI
47, 1981, 249; V. Ilari, L’interpretazione storica del diritto di guerra romano fra tradizione
romanistica e giusnaturalismo, Milano 1981, 25 n. 7, 29 n. 14; J. Plescia, The development of the doctrine of boni mores in roman law, in RIDA
34, 1987, 282; G. Lombardi, L’editto di Milano del 313 e la laicità
dello stato, in SDHI 50, 1984,
11; M. Kaser, Ius gentium, cit., 49; W. Waldstein, Jus naturale im
nachklassischen römischen Recht und bei Ju-stinian, in ZSS 111, 1994, 1 ss.; K.-H. Ziegler,
Ius gentium als Völkerrecht in der
Spätantike, in Collatio iuris romani
II, 1995, 665 ss.
[62] Cfr. Ph. Didier, Les diverses conceptions du droit naturel a
l’oeuvre dans la jurisprudence romaine des IIe et IIIe
siècles, cit., 248 s.; F. Sini,
Bellum nefandum. Virgilio e il problema del ‘diritto internazionale
antico’, cit., 273 s. n. 103.
[63] Ph. Didier, Les diverses conceptions du droit naturel a
l’oeuvre dans la jurisprudence romaine des IIe et IIIe
siècles, cit., 248 s., il quale, a proposito del frammento di Ermogeniano,
osserva: «Un des derniers jurisconsultes classiques, Hermogenien, dans un texte
très général, véritable résumé de la dernière philosophie sociale grecque, qui
pour le lecteur du XXe siècle semble surtout annoncer étrangement le
“Contrat social” de Rousseau, présente l’apparition du ius gentium comme
la fin de l’âge d’or: la guerre, la diversité des nations, l’existence de
l’état, l propriété divise du sol, la vie des affaires naissent avec le ius
gentium, forme première du ius civile».
[64] Si noti nel frammento
la dettagliata elencazione di istituti dello ius gentium: bella, discretae
gentes, regna condita, dominia distincta, agris termini positi, aedificia
collocata, commercium, emptiones venditiones, locationes conductiones,
obligationes institutae.
[65] O. lenel, Palingenesia iuris civilis, I,
cit., col. 242, fr. 404. Sul frammento, vedi M. Voigt, Das jus
naturale, aequum et bonum und jus gentium der
Römer, I, Leipzig 1856, 401. Rinvio soprattutto a quanto scrive G. Lombardi, Il concetto di “ius gentium”, cit., 22 ss., 120 ss.
Tra gli altri, si
vedano anche W.E. Brynteson, Roman Law and New Law: The Development of a
Legal Idea, in RIDA 12, 1965, 203
ss.; A. Carcaterra, Le definizioni dei giuristi romani. Metodo mezzi e fini,
Napoli 1966, 123; J. De Churruca, Las instituciones de Gayo en San Isidoro de Sevilla, Bilbao 1975,
27 s.; W. Waldstein, Gewohnheitsrecht und Juristenrecht in Rom,
in De iustitia et iure. Festgabe von Lübtow, Berlin-München 1980,
105 ss.; V. Ilari, L’interpretazione storica del diritto di
guerra romano fra tradizione romanistica e giusnaturalismo, cit., 75;
H.L.W. Nelson, Uberlieferung, Aufbau und Stil von Gai
Institutiones, Leiden 1981, 243.
[66] G. Nocera, Ius naturale nella esperienza giuridica romana,
Milano 1962, 98 s., il quale individua nella naturalis ratio il fondamento razionale dello ius gentium.
[67] Per un quadro
bibliografico esaustivo, in merito all’istituto della schiavitù nel mondo
antico, nell’impossibilità di citare gli innumerevoli studi sul tema, rinvio al
recentissimo H. Bellen – H. Heinen, Bibliographie zur antiken Sklaverei, I-II, Stuttgart 2003.
[68] O. lenel, Palingenesia iuris civilis, I,
cit., col. 2175, fr. 25. La contrapposizione tra ius gentium e natura nel
passo di Fiorentino, viene delineata da G. Lombardi,
Il concetto di “ius gentium”, cit.,
159. Inoltre si rinvia a: E. Levy, Natural law in Roman thought, in SDHI 15, 1949, 13 s.; R. Voggensperger, Der Begriff des «ius naturale» im römischen Recht, Basel 1952, 19
ss.; A. Burdese, Il concetto di ius naturale nel pensiero della giurisprudenza classica,
in RISG 7, 1954, 407 ss.; J. Modrzejewski, ‘Aut nascuntur aut fiunt’: les schémas antiques des sources de
l’esclavage, in BIDR 79,
1976, 15, 20; R. Lambertini, L’etimologia di ‘servus’ secondo i giuristi
romani, in Sodalitas, V, Napoli
1984, 2385 ss.; E. Herrmann-Otto, Ex ancilla natus. Untersuchungen zu den ‘hausgeborenen’ Sklaven
und Sklavinnen im Westen des römischen, Stuttgart 1993, 23,
23 n. 100; M. Kaser, Ius gentium,
cit., 76; W. Waldstein, Jus
naturale im nachklassischen römischen
Recht und bei Justinian, cit., 1 ss.
[69] Da ultima, sul
giurista Fiorentino e la sua opera, S. Querzoli,
Fiorentino e le “assurdità” della
fisica stoica, in Ostraka 1,
1992, 31 ss.; Ead., Il sapere di Fiorentino. Etica, natura e
logica nelle Institutiones, Napoli 1996, ivi bibliografia precedente.
[70] Al riguardo, vedi G. Nocera, Ius naturale nella esperienza giuridica romana, cit.,
6: «I Digesti portano che fra le varie accezioni del diritto vi è quella del
diritto che è sempre conforme all’equo e al buono come il ius naturale … Svolgendosi, poi, così nelle Istituzioni come nei
Digesti i criteri di caratterizzazione del diritto delle genti, vi si precisa
che la guerra, la prigionia, la schiavitù sono, sì, istituti conformi ai
costumi dei popoli, ma sono anche contrari al ius naturale, dato che per il diritto naturale alle origini tutti
gli uomini nascevano liberi».
[71] Cfr. O. lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., col. 927, fr. 1912. Sul frammento
vedi R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani,
cit., 237, 318, e in particolare 325 s.
Per le tematiche
connesse allo ius naturale e alla servitus: M. Voigt, Das jus
naturale, aequum et bonum und jus gentium der
Römer, II, cit., 862; A. Burdese, Il concetto di ius naturale nel pensiero della giurisprudenza classica,
cit., 407 ss.; G. Nocera, Ius
naturale nella esperienza giuridica
romana, cit., 6; G. Moschetti, Eticità
della glossa d’Accursio sotto l’aspetto della libertà dell’uomo, in SDHI 35, 1969, 41 ss.; M. Kaser, Ius gentium, cit., 78; E. Cavallini, Legge di natura e condizione dello schiavo, in Labeo 40,
1994, 72 ss. In particolare, sul tema delle manumissioni, trattato da Ulpiano
nel frammento, vedi M. Voigt, Das jus naturale, aequum et bonum und
jus gentium der Römer, II, cit., 837;
E. Levy, Natural law in Roman thought, cit., 13 ss.; U. Coli, ‘Regnum’, in SDHI 17, 1951, 128 s.; E. Volterra,
Manomissioni di schiavi compiute
da peregrini, in Studi in onore di
Pietro de Francisci 4, Milano1956, 75 ss.; Id., Manomissione e
cittadinanza, in Studi in onore di
Ugo Enrico Paoli, Firenze 1955, 695.
[72] Vedi O. Hey, v. Captivus, in Thesaurus
Linguae Latinae 3, coll. 371 ss.; e v. Captivitas,
in Thesaurus Linguae Latinae 3, coll. 366
ss. Sulla
captivitas, in particolare sulla captivitas dei cives romani e i problemi inerenti al postliminium, vedi tra gli altri: A. Dell’Oro, Osservazioni
sulla situazione giuridica del captivus, Milano 1950; L. Amirante, Captivitas e postliminium, Napoli 1950; Id., Ancora sulla captivitas ed il
postliminium, in Studi in onore di Pietro de Francisci,
1, cit., 151 ss.; Id., Pendenza e prigionia di guerra, in Labeo
9, 1963, 23 ss.; M. Bartošek, Captivus,
in BIDR 57-58, 1953, 98 ss.; G. Longo, Postille in tema di captivitas, in Iura 8, 1957, 29 ss.; U. Ratti,
Studi sulla captivitas e alcune repliche in tema di postliminio,
rist. an. dell’edizione del 1927, con una nota di lettura di L. Amirante,
Napoli 1980; M.F. Cursi, ‘Captivitas’ e ‘capitis deminutio’. La
posizione del ‘servus hostium’ tra ‘ius civile’ e ‘ius gentium’, cit., 297
ss.
[73] A proposito del
giurista Elio Marciano, vedi L. De Giovanni, Per uno studio delle “Institutiones” di Marciano, in SDHI 49, 1983; Id.,
L’appello nel giurista Marciano, in SDHI 54, 1988, 147 ss.; Id., Giuristi severiani: Elio Marciano, Napoli 1989.
[74] O. lenel, Palingenesia iuris civilis, I,
cit., col. 652, fr. 45. Sul frammento di Marciano, rinvio a: J. Modrzejewski, ‘Aut nascuntur aut fiunt’: les schémas antiques des sources de l’esclavage,
cit., 11, 20; O. Robleda, Il diritto degli schiavi nell’antica Roma,
Roma 1976, 6 s.; L. De Giovanni, Per uno studio delle “Institutiones” di Marciano, cit., 101; M. Kaser,
“Ius honorarium” und “ius civile”, in ZSS 114, 1984, 88; Id.,
Ius gentium,
cit., 78; A. Watson, Roman Slave Law, Baltimore 1987, 8 s.;
E. Herrmann-Otto, Ex ancilla natus. Untersuchungen zu den ‘hausgeborenen’ Sklaven
und Sklavinnen im Westen des römischen, cit., 22; Ead., “Causae liberales”, in Index
27, 1999, 156; R. Lambertini, Sull’esordio delle Istituzio-ni di Marciano,
in SDHI 61, 1995, 282.
[75] O. lenel, Palingenesia iuris civilis, II,
cit., col. 51, fr. 179. Il frammento viene collegato, dallo studioso tedesco a
I. 1.3.3. Tra gli altri, si vedano: F.
Bona, Preda di guerra e
occupazione privata di “res hostium”, cit., 340; O. Robleda, Il diritto
degli schiavi nell’antica Roma, cit., 2 s.; R. Lambertini, L’etimologia
di ‘servus’ secondo i giuristi romani, cit., 2385 ss.; S. Querzoli, Il sapere di Fiorentino. Etica, natura e logica nelle Institutiones,
cit., 112 s. (vedi recensione di R.
Gamauf, in ZSS 116, 1999, 345,
in part. 348); F.
Reinoso-Barbero, Geminaciones
ocultas en el Digesto, in Index
25, 1997, 230.
[76] O. lenel, Palingenesia iuris civilis, I,
cit., col. 175, fr. 25. Sul frammento vedi: F. Wieacker, Textstufen
klassischer Juristen, Göttingen 1960, 200, 445 n. 104; G. Moschetti, Eticità della glossa d’Accursio sotto
l’aspetto della libertà dell’uomo, cit., 38; O. Robleda,
Il diritto degli schiavi nell’antica Roma,
cit., 2 s.; J. Modrzejewski, ‘Aut
nascuntur aut fiunt’: les schémas
antiques des sources de l’esclavage, cit., 16, 20; C. St. Tomulescu, Melanges de droit romain, in BIDR
81, 1978, 333; R. Lambertini, L’etimologia di ‘servus’ secondo i giuristi
romani, cit., 2385 ss.; V. Ilari, “Ius belli” –
“tou polemou nomos”. Etude semantique de la terminologie du droit de la guerre,
in BIDR 88, 1985,
168; G. Lombardi, L’editto di Milano del 313 e la laicità
dello stato, cit., 11; P. Leuregans, «… achat sous la couronne d’esclaves…»,
in Index 15, 1987, 200; A. Watson, Roman Slave Law, cit., 8; W. Waldstein,
Jus naturale im nachklassischen
römischen Recht und bei Justinian, cit., 38; K.-H. Ziegler, Ius gentium als
Völkerrecht in der Spätantike, cit., 665 ss.; S. Querzoli, Il sapere di
Fiorentino. Etica, natura e logica nelle Institutiones, cit., 121 ss. (vedi
anche recensione di R. Gamauf,
cit., 345, in part. 348); F.
Reinoso-Barbero, Geminaciones
ocultas en el Digesto, cit., 230.
[77] Secondo S. Querzoli, Il sapere di Fiorentino. Etica, natura e logica nelle Institutiones,
cit., 122, «la impressionante coincidenza testuale lascia innanzitutto pensare
che Pomponio – quanto meno il suo Enchiridion
– fosse fra gli ‘autori’ di Fiorentino».
[78] Così R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani, cit., 255 n. 316, il quale
sostiene che non si tratterebbe di una definizione di servitus, ma di una semplice etimologia del termine. Al riguardo,
R. Lambertini, L’etimologia di ‘servus’ secondo i giuristi
romani, cit., 2385 ss., ritiene che l’ideatore di questa etimologia di servus sia il giurista Pomponio, e
difende l’origine semantica di servus
da servare.
Si veda anche H. Rix, Die Termini, der Unfreiheit in den Sprachen Alt-Italiens, Stuttgard
1994, 54 ss., per un’altra etimologia del termine servus.
[79] Vedi B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano, Palermo 1979, 102 n.; S. Querzoli, Il sapere di Fiorentino. Etica, natura e logica nelle Institutiones,
cit., 122, la quale afferma «È evidente il valore sottilmente ‘antistorico’
dell’etimologia che Pomponio poneva a fondamento e a giustificazione della
nascita della condizione servile. La definito
‘mistificava’ un dato storico».
[80] Cfr. P.F. Girard, Manuale elementare di Diritto romano, versione italiana sulla
quarta edizione francese con aggiunte dell’Autore e con postille bibliografiche
di C. Longo, Milano 1909, 105, il quale individua una giustificazione
prettamente economica nella scelta di salvare i captivi riducendoli in schiavitù: «Vi è stata cioè un’epoca in cui
i vinti erano messi a morte invece di ridurli schiavi, perché non era ancora
sorta l’idea, e non si sarebbe avuto il mezzo, di trarre profitto dalla
proprietà di un altro uomo. Più tardi, probabilmente da quando gli uomini,
arrivati al regime pastorale e soprattutto al regime agricolo, ebbero delle
greggi da far custodire e delle terre da far coltivare, l’interesse suggerì
l’idea di far lavorare i prigionieri invece di ucciderli, allo scopo di lucrare
la differenza tra le spese del loro mantenimento e il periodo del loro lavoro».
Interessate anche l’osservazione di S. Querzoli,
Il sapere di Fiorentino. Etica,
natura e logica nelle Institutiones, cit., 122 s., la quale rileva che in
questo contesto i principes, “imperatores nostri” - scrivono i due
giuristi -, risultano essere i garanti della vita dei vinti, attestando la
fondamentale importanza per il potere imperiale dei valori «quali la
filantropia, l’humanitas, la benignitas e la clementia».
[81] Cfr. F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., 6 s., il quale scrive:
«le fonti registrano il numero dei prigionieri di guerra, che erano la fonte
principale degli schiavi […]. La condizione di schiavo nasceva appunto dalla
prigionia di guerra; occorreva cioè uno stato di guerra con un popolo straniero»;
e successivamente, in Id., Intorno
all’origine della schiavitù a Roma, in Labeo 20, 1974, 192
s., specifica: «Con le guerre di supremazia in Italia del IV secolo si ebbe un
mutamento nella concezione della schiavitù ed essa venne ricollegata alla
prigionia di guerra». Ma vedi anche O. Robleda,
Il diritto degli schiavi nell’antica Roma,
cit., 8: «Questa causa della schiavitù, la captivitas
fu, non soltanto quella più antica, ma anche la principale, quella, cioè, che
procurò più schiavi a Roma, almeno negli ultimi secoli della Repubblica (a
seguito delle guerre dell’Africa, Macedonia, Gallia, Asia) e in qualche modo
anche nei secoli IV e V dell’Impero».
[82] Sui latrones, vedi quanto già detto supra, nn. 41-43.
[83] F. De Martino, Storia della costituzione romana,
II, cit., 7.
[84] D. 49.15.21.1 (Ulpianus
libro quinto opinionum): In civilibus dissensionibus quamvis saepe per eas
res publica laedatur, non tamen in exitium rei publicae contenditur: qui in
alterutras partes discedent, vice hostium non sunt eorum, inter quos iura
captivitatium aut postliminiorum fuerint. et ideo captos et venumdatos
posteaque manumissos placuit supervacuo repetere e principe ingenuitatem, quam
nulla captivitate amiserant.
[85] Per una definizione di libertas vedi il frammento di Fiorentino
D. 1.5.4 pr. (Florentinus libro nono Institutionum): Libertas est naturalis facultas eius quod cuique facere libet, nisi si
quid vi aut iure prohibetur.
[86] Come attestato
chiaramente anche da Ulpiano in D. 49.15.24. Cfr. O. Robleda, Il diritto degli
schiavi nell’antica Roma, cit., 8 s. Sulla perdita della libertas, vedi B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano, cit., 30 s.
[87] Cfr. O. Robleda, Il diritto degli schiavi nell’antica Roma, cit., 9.
[88] Gai. 1. 159-160: Est autem capitis deminutio prioris status
permutatio, eaque tribus modis accidit: nam aut maxima est capitis deminutio,
aut minor, quam quidam mediam vocant, aut minima. Maxima est capitis deminutio,
cum aliquis simul et civitatem et libertatem amittit; quae accidit incensis, qui
ex forma censuali venire iubentur; quod ius ---(....)--- qui contra eam legem
in urbe Roma domicilium habuerint; item feminae, quae ex senatusconsulto
Claudiano ancillae fiunt eorum dominorum, quibus invitis et denuntiantibus cum
servis eorum coierint.
[89] Sul postliminium, oltre ai lavori in tema,
già menzionati nella n. 72, a proposito della condizione del captivus, rinvio agli studi di: F. Bona, “Postliminium in pace”, cit., 258 ss.; F. De Visscher, Droit de capture et postliminium in
pace, in RIDA 3, 1956, 197 ss.; L. Amirante, Prigionia di guerra riscatto e postliminium, Lezioni, I, Napoli
1969; A. Maffi, Ricerche sul postliminium, Milano 1992; F. Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella repubblica e nel principato,
cit.; M.V. Sanna, Nuove ricerche in tema di postliminium e redemptio ab hostibus, cit.
[90] Al riguardo, vedi I. 1.12.5: Si ab hostibus captus fuerit parens, quamvis
servus hostium fiat, tamen pendet ius liberorum propter ius postliminii: quia
hi, qui ab hostibus capti sunt, si reversi fuerint, omnia pristina iura
recipiunt. Idcirco reversus et liberos habebit in potestate, quia postliminium
fingit eum qui captus est semper in civitate fuisse: si vero ibi decesserit,
exinde, ex quo captus est pater, filius sui iuris fuisse videtur. Ipse quoque
filius neposve si ab hostibus captus fuerit, similiter dicimus propter ius
postliminii ius quoque potestatis parentis in suspenso esse. dictum est autem
postliminium a limine et post, ut eum, qui ab hostibus captus in fines nostros
postea pervenit, postliminio reversum recte dicimus. Nam limina sicut in domibus finem quendam faciunt, sic et imperii finem
limen esse veteres voluerunt. Hinc et limes dictus est quasi finis quidam et
terminus. Ab eo postliminium dictum, quia eodem limine revertebatur, quo amissus
erat. Sed et qui victis hostibus recuperatur, postliminio rediisse existimatur.
[91] O. lenel, Palingenesia iuris civilis, II,
cit., col. 77, fr. 319. A proposito del frammento di Pomponio, vedi: S. Solazzi,
Studi romanistici, I. Il «postliminium
rei» e gli immobili, in RISG 3,
1949, 1 ss.; L. Amirante, Captivitas e postliminium, cit., 11, 26;
G. Beseler, Fruges et palae II. Romanistiche Untersuchungen, in Festschrift Schulz, 1, Weimar 1951, 3
ss.; F. Bona, “Postliminium in pace”, cit., 258 ss.; Id., Preda di guerra e occupazione privata di “res hostium”, cit., 338
s.; F. De Visscher, La condition
des pérégrins à Rome, jusqu’à la Constitution Antonine de l’an 212, in Recueils de la Société Jean Bodin, IX, L’Etranger, I, 1958, 195 ss.; A. Watson, The Law of Persons in the Later Roman Republic, Oxford 1967, 162
ss.; Id., Roman Slave Law,
cit., 20 ss.; M.R. Cimma, Reges
socii et amici populi romani, Milano 1976, 81, 101 n.; C.St. Tomulescu,
L’existence du droit international public
chez les Romains, in RIDA 24,
1977, 433; F. Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella
repubblica e nel principato, cit., 127 ss.
[92] In merito alle
problematiche sottese al postliminium in
pacem nel frammento di Pomponio, rinvio alle osservazioni di F. Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella repubblica e nel principato,
cit., 127 ss., in part. 133 ss.
[93] Per l’orientamento
dottrinario che nega la classicità del postliminium
in pace vedi: A. D’Ors, Postliminium
in pace, in RFDM
8-9, 1942, 200 ss.; P. Fuentesca-Diaz, Origines y perfilos clásicos del ‘postliminium’, in AHDE 21-22, 1951-1952, 300 ss.; F. Bona, “Postliminium in pace”, cit., 258 ss. Contra, L. Amirante,
Captivitas e postliminium, cit., 14; F. Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella repubblica e nel principato,
cit., 135, la quale scrive: «Escludere la genuinità della testimonianza di
Pomponio solo perché l’accezione del termine pax, in rapporto al postliminio, non è conforme a quella
generalmente ricordata nelle fonti, mi sembra arbitrario. Ritengo infatti che
la testimonianza si possa far risalire a Q. Mucio».
[94] Tra gli altri, P. Bonfante, Corso di diritto romano. I. Diritto di famiglia, Milano 1943, 215,
il quale sostiene che: «Conforme al diritto internazionale antico la riduzione
in schiavitù non dipende dalla formale dichiarazione di guerra. Tutti coloro il
cui popolo non ha con i romani un trattato di ospizio, di amicizia, di alleanza
sono a rigore fuori del diritto e possono venire ricondotti in condizione di
schiavi»; B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano,
cit., 31.
[95] Vedi supra n. 10.
[96] Le prime critiche
iniziarono a manifestarsi alla fine dell’Ottocento e nei primi anni del
Novecento: G. Baviera, Il diritto internazionale dei Romani (estr.
dall’Archivio Giuridico “Filippo Serafini”,
nuova serie, voll. I e II), Modena 1898, 25 ss.; E. Seckel, über Krieg und Recht in Rom,
Kaisergeburtstagrede, Berlin 1915, 9 s., 25 ss.
[97] A. Heuss, Die völkerrechtlichen Grundlagen
der römischen Aussenpolitik in republikanischer Zeit, cit., 4 ss., 12 ss.,
18 ss.
[98] F. De Martino, Storia della costituzione romana,
II, cit., 13 ss., in part. 39 ss., 46 ss.
[99] P. Catalano, Cic. De off. 3, 108 e il così detto
diritto internazionale antico, cit., 373 ss.; Id., Linee del sistema
sovrannazionale romano, cit., 8 ss., 51 ss.
[100] Sul passo di Livio e
la revoca della vendita sub corona,
si leggano le considerazioni di M. Talamanca,
Contributi allo studio delle vendite
all’asta nel mondo classico, in Atti della Accademia Nazionale dei Lincei.
Memorie. Classe di Scienze Morali, Serie VIII - VI.2, Roma 1954, 155 n. 1.
[101] Cfr. F. Bona, Preda di guerra e occupazione privata di “res hostium”, cit., 355
s.
[102] Sul punto vedi F. Bona, Preda di guerra e occupazione privata di “res hostium”, cit., 325
ss., 334 ss., 346 ss., 355 ss., il quale, nell’ambito dell’analisi del
frammento D. 41.1.51.1 (Celsus libro secundo digestorum), il cui
contenuto si ricollega abitualmente ai testi di Cicerone, inv. 1.45.84 e off. 1.7.21,
e di Gaio, Inst. 4.16, ritiene che le
fonti in questione non contrastino con il principio secondo cui le res hostium catturate come bottino di
guerra, diventino immediatamente res
publicae populi Romani. Contra,
P. Catalano, Populus Romanus
Quirites, cit., 141 ss., il quale, osserva, in maniera critica nei confronti
dell’interpretazione di F. Bona
che «tale interpretazione deve essere, a mio avviso, alquanto modificata […].
L’errore dipende dall’uso di categorie inadeguate ad afferrare la vicenda
storica (cioè quelle di “occupazione privata” e “proprietà dello Stato”» (142).
[103] L’unico caso in cui
si ritiene possibile l’“occupazione privata” delle res hostiles viene riferito da Celso in D. 41.1.51.1 (Celsus libro secundo digestorum): Et
quae res hostiles apud nos sunt, non publicae, sed occupantium fiunt. La
fattispecie descritta dal giurista riguarda l’ipotesi di res hostium, presenti nel territorio romano al momento dello
scoppio della guerra, per le quali si stabilisce, in deroga al principio
generale, che queste res possano
essere oggetto di acquisto di proprietà a titolo originario tramite occupazione
da parte dei privati. Vedi F. Bona, Preda di guerra e occupazione privata di “res hostium”, cit., 363,
il quale sottolinea che il giurista propone una soluzione che deriva «dall’aver
ipotizzato che le res hostiles si fossero trovate già prima
dello scoppio della guerra in territorio romano». A proposito dell’occupazione
privata delle res hostiles, F. Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella repubblica e nel principato,
cit., 262 n. 53, riporta come esempio il caso contemplato in D. 41.1.51.1
riferendone «i caratteri dell’ecce-zionalità e della residualità, soprattutto
in età tarda».
[104] P. Catalano, Populus Romanus Quirites,
cit., 144 s.
[105] F. Bona, v. Preda bellica (storia),
cit., 913. Al riguardo, F. Cursi,
La struttura del ‘postliminium’ nella
repubblica e nel principato, cit., 262 n. 53, evidenzia che vi sono un gran
numero di «fonti che testimoniano però anche il principio della libera
disponibilità del bottino da parte del comandante, che lo distribuisce ai
soldati o in alternativa la sua vendita all’erario, per decisione del
magistrato». Sul punto vedi, tra gli altri, P. de Francisci, Intorno all’acquisto per occupazione delle
‘res hostium’, in Atti Real. Istit. Ven. Scien. Lett. Art. 82, 1922-1923, 967 ss.; M. Kaser, v. Occupatio, in RE suppl.
VII, 1940, 686 s.; C. Nicolet, Il mestiere di cittadino nell’antica Roma,
cit., 151 ss.
[106] P. Catalano, Populus Romanus Quirites,
cit., 142 s. Per il giuramento del miles,
in particolare quello riportato da L. Cincio, vedi Gellio, noct. Att. 16.4.2.
[107] Cfr. F. Bona, Preda di guerra e occupazione privata di “res hostium”, cit., 355
ss.; Id., v. Preda bellica (storia), cit., 913.
[108] Vedi F. Bona, Preda di guerra e occupazione privata di “res hostium”, cit., 355
ss.; Id., v. Preda bellica (storia), cit., 913, il quale rileva che: «il
magistrato cum imperio nella
repubblica ha usato ampiamente, in ogni tempo, del suo potere discrezionale in
materia. Ciò ha contribuito a far supporre, in dottrina, che non già all’atto
della sua realizzazione la praeda
diventasse res publica populi Romani,
ma solo al momento in cui il magistrato la rimetteva all’aerarium populi Romani».
[109] Sul valore del
versamento all’erario rinvio alla lettura delle osservazioni di P. Catalano, Populus Romanus Quirites,
cit., 144.
[110] Vedi M. Schanz - C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, I,
cit., 332 ss. (ivi letteratura precedente).
Per la carriera politica vedi J. Carcopino, Giulio Cesare: uomo d’armi, di stato, di lettere, Santarcangelo di
Romagna 1999; L. Canfora, Giulio Cesare: il dittatore democratico5,
Roma - Bari 2000.
[111] P. Catalano, Populus Romanus Quirites,
cit., 144.
[112] Cfr. F. Bona, Sul concetto di ‘manubiae’ e sulla responsabilità del magistrato in
ordine alla preda, cit., 148 ss.; Id.,
v. Preda bellica (storia), cit., 914
s.
[113] Vedi tra gli altri F. Bona, Preda di guerra e occupazione privata di “res hostium”, cit., 359
s.; F. De Martino, Storia della costituzione romana, II,
cit., 7.
[114] Cfr. F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., 7.
[115] Lo stesso episodio
viene narrato anche da Polibio, Storie
10.17.6. Al riguardo, vedi F. Bona,
Preda di guerra e occupazione privata di “res
hostium”, cit., 326 s., il quale osserva, a proposito del contenuto del
passo liviano, che «il dettato è ricalcato, con qualche equivoco, su un testo
parallelo di Polibio».
[116] F. Bona, Preda di guerra e occupazione
privata di “res hostium”, cit., 339, a proposito del motivo che poteva
indurre alla vendita pubblica dei prigionieri di guerra, scrive: «il motivo, va
ricercato, indubbiamente, nell’alto valore di realizzo che gli schiavi avevano
in una economia come quella romana, specialmente nel periodo di maggiore
diffusione del latifondo, che coincide con quello di maggiore espansione
militare».
[117] Cfr. M. Talamanca, Contributi allo studio delle vendite all’asta nel mondo classico,
cit., 155; F. Bona, Preda di guerra e occupazione privata di
“res hostium”, cit., 330 n. 73.
[118] Vedi A. Gudeman, v. Corona, in Thesaurus Linguae
Latinae, 4, 1908, coll. 984 s., per un elenco completo delle ricorrenze
dell’espressione nelle fonti.
Sulla venditio sub corona rinvio soprattutto
alla lettura di: A. Ehrhardt, v. Corona, in RE suppl. 7, 1940, 96 s.; M. Talamanca,
Contributi allo studio delle vendite
all’asta nel mondo classico, cit., 153 ss.; Id., v. Auctio, in NNDI, I, Torino 1957,
1535; F. Bona, Preda di guerra e occupazione privata di
“res hostium”, cit., 359 s.; W.E. Boese,
a
study of the slave trade and the sources of slaves in the Roman Republic and
the early Roman Empire, Washington
1973, 144 ss.; P. Leuregans, «… achat sous la couronne d’esclaves…»,
cit., 191 ss.; J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse Konstruktion
des Krieges in Rom, cit., 212 ss.; E.
Jakab, Praedicere und cavere beim Marktkauf. Sachmängel im griechischen und
römischen Recht, München 1997, 38 ss.; K.W. Welwei, Sub corona vendere:
Quellenkritische Studien zu Krieggefangenschaft und Skaverei in Rom bis zum
Ende des Hannibalkrieges, Stuttgart 2000, in part. 12 ss.
[119] Dal passo di Festo, De verborum significatione, v. Hastae, 90 L.: Hastae subiciebant ea, quae publice venundabant, quia signum praecipuum
est hasta, si potrebbe ricavare che l’esperimento di un pubblico incanto,
mediante vendita all’asta, fosse una regola comune a tutte le vendite
pubbliche. Cfr., al riguardo, M. Talamanca,
Contributi allo studio delle vendite
all’asta nel mondo classico, cit., 153; Id.,
v. Auctio, cit., 1535. Contra A. Ehrhardt, v. Corona,
cit., col. 97, il quale dubita dell’uso dell’incanto come modalità della
vendita sub corona. A proposito della
differenza tra vendita sub hasta e
vendita sub corona, l’A. sottolinea
che: «Sub c. vendere steht als engerer
Begriff neben sub hasta vendere. Während
letzteres zunächst jede Kriegsbeute, später überhaupt jeden Verkauf der
öfftenlichen Hand im Versteigerungswege bedeutet, findet sich sub c. vendere nur bei Kriegsgefangenen,
in der Regel auch nur im Feldlager».
[120] Livio 2.17.6: ceterum nihilo minus foeda dedita urbe, quam
si capta foret, Aurunci passi: principes securi percussi, sub corona venierunt
coloni alii; oppidum dirutum, ager veniit. L’episodio narrato dallo storico risale
all’ultimo decennio del VI sec. a.C.
[121] Sul giurista Celio
Sabino: F. Schulz, Storia
della giurisprudenza romana, trad. it. a cura di G. Nocera, Firenze 1968,
339 s.; W. Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der römischen
Juristen2, Graz-Vienna-Cologne 1967, 131 ss.; F. Grelle, ‘La “correctio morum” nella legislazione flavia’, in ANRW II.13, Berlin-New York 1980, 356
ss.; R.A. Bauman, Lawyers and politics, cit., 142 ss.
pomponio
in D. 1.2.2.53 (Pomponius libro
singulari enchiridii) indica celio Sabino come successore di C. Cassio Longino a capo
della scuola sabiniana: Cassio caelius sabinus successit, qui plurimum temporibus Vespasiani potuit.
Sul
punto vedi J. Kodrebski, Der Rechsunterricht am Ausgang der Republik
und zu Beginn de Prinzipats, in ANRW
II.15, Berlin-New York 1976, 177 ss., in part. 190 ss.; D. Liebs, Rechtsschulen und Rechtsunterricht im Prinzipat, in ANRW II.15, cit., 197 ss. (sui quali vedi i
rilievi critici di M. Talamanca, Per la storia, cit., 195 ss., 201 n.,
316 ss.).
[122] A proposito del
commento all’editto degli edili curuli di Celio Sabino, vedi gellio, noct. Att. 4.2.3-5: Caelius
Sabinus in libro, quem de edicto aedilium curulium composuit. Per i
frammenti superstiti dell’opera rinvio a o.
lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., coll. 77 ss., Ad edictum aedilium curulium, ffr. 1-7; F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae
supersunt, II.2, Lipsiae, 1901, 250, ffr. 1-23; ph. Huschke - e. Seckel - b. Kübler, iurisprudentiae, I,
cit., 92 , ffr. 1-2.
[123] A proposito di Marco
Porcio Catone vedi M. Gelzer, v. M. Porcius Cato Censorius, in PW 22, Stuttgart 1953, coll. 108 ss.; F.
Della Corte, Catone Censore.
La vita e la fortuna2, Firenze 1969; E. Flores, Letteratura
latina, cit., 115 ss.; R. Goujard,
Caton, L’agriculture, Paris 1975, VII
ss.; N.W. Forde, Cato the Censor, Boston 1975; A.E. Astin, Cato the Censor, Oxford 1978; M.T. Sblendorio Cugusi - P. Cugusi, Problematica catoniana: rassegna di studi 1978-1993 e contributi
critici, in BSL 26, 1996, 82 ss.;
A. Grilli, Un’orazione di catone il
censore del 161 a.C.?, in Athenaeum
85, 1997, 265 ss.
Sul pensiero giuridico
di Catone il Censore, vedi, tra gli altri, W. Kunkel,
Herkunft und soziale Stellung, cit.,
9 ss.; L. Labruna, Plauto, Manilio,
Catone: fonti per lo studio dell’”emptio” consensuale?, in Studi E.
Volterra, V, Milano 1971, 39 ss.(= in Adminicula, Napoli 1988, 199 ss.); Id., Astronomi
e storici: due leggi ‘immaginarie’ nella “pro Rhodiensibus” di Catone?, in Studi A. Biscardi, III, Milano 1982, 119
ss.; F. Wieacker, ‘Die römischen juristen in der politischen Gesellschaft des zweiten
vorchristlichen Jahrhunderts’, in Sein
und Werden im Recht: Festschrift für U. von Lübtow, Berlin 1970, 193 s.; C.
castello, Nuovi spunti su problemi
di storia, economia e diritto desunti dal De agri cultura di Catone, in Studi in memoria di G. Donatuti, I, Milano 1973, 237 ss.; P. catalano, La divisione del potere in Roma
(A proposito di Polibio e di catone), in Studi in onore di G. Grosso, VI, Torino 1974, 665 ss.; M. Talamanca, Costruzione giuridica e strutture sociali fino a
Quinto Mucio, in Società romana e produzione schiavistica, III, a
cura di A. Giardina - A. Schiavone, Roma-Bari 1981, 17 ss.; M. Bretone, Tecniche e ideologie, cit., 7 ss.; R.A. Bauman, Lawyers in Roman
republican politics, cit., 148 ss.; A. Guarino,
Catone giureconsulto, in Index 15, 1987, 41 ss.
In merito alla la
carriera politica di M. Porcio Catone rinvio a: T.R.S. Broughton, The
Magistrates, I, cit., 261, 307, 327, 330, 339, 354 ss. Cfr. anche P. Fraccaro, Ricerche storiche e letterarie sulla censura del 184-183. M. Porcio
Catone - L. Valerio Flacco, Roma 1972.
per i
frammenti superstiti del Censore vedi le raccolte di: H. Iordan, M. Catonis praeter librum de re rustica quae extant, Lipsiae 1860; o. lenel,
Palingenesia iuris civilis, I, cit.,
coll. 125 s.; F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, I, cit., 19 ss.; H. Funaioli, Grammaticae
Romanae fragmenta, cit., 9 ss.; H. Malcovati,
Oratorum romanorum fragmenta liberae rei publicae, Augustae
Taurinorum 1930, 12 ss.; O. Schönberger,
Marcus Porcius Cato vom Landbau Fragmente
alle erhaltenen Schriften, München 1980; M.T. Sblendorio Cugusi, M.
Porci Catonis. Orationum reliquiae, Torino 1982, 93.
[124] Cfr. o. lenel,
Palingenesia iuris civilis, I, cit.,
col. 80, fr. 6; F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, II, ii,
cit., 253, fr. 19; ph. Huschke - e. Seckel - b. Kübler, iurisprudentiae, I, cit., 92, fr.
2.
[125] In merito ai diversi significati
di corona nelle fonti vedi A. Gudeman, v. Corona, cit., coll. 977 ss. L’origine del termine da chorus viene attestata dai grammatici
Paolo, Fest. ep., v. Corona, 33 L.: Corona cum videatur a choro dici, caret tamen aspiratione; e Isid.,
orig. 19.30.2: nomen coronae ex hac causa vocatum, quod initio circum aras curreretur
atque ad imaginem circuitus vel chori est formata et nominata corona.
[126] Sui significati e
l’origine del termine rinvio alla lettura di M. Rzepiela, v. Pilleum/pilleus, in Thesaurus Linguae Latinae, 10, 2003, coll. 2139 ss., da cui emerge
che il genere neutro pilleum era più
arcaico e forse meno frequente nelle fonti rispetto all’uso del genere maschile
pilleus, impiegato da Celio Sabino
nel passo riportato da Gellio, noct. Att.
6.4.1-3. Sull’etimologia del termine: Isid. orig.
19.30.5: pilleum … dictum a pelle
hostiae, unde fiebat; invece, in generale, sulla nozione, sempre Isid. orig. 19.21.3-4: pilleum est ex bysso rotundum, quasi sphaera media, caput tegens
sacerdotale et occipitio vitta constrictum. Hoc Graeci et nostri tiaram vel
galerum vocant.
[127] Il servus diveniva pilleatus e, in questo modo, come scrive Celio Sabino, risultava
essere riconoscibile, al momento della vendita, da parte dei compratori come servus sul cui nome il venditore non
prestava alcuna garanzia (Gellio, noct.
Att. 6.4.1-2: Pilleatos servos venum
solitos ire, quorum nomine venditor nihil praestaret, Caelis Sabinus
iurisperitus scriptum reliquit. Cuius rei causam esse ait, quod eiusmodi
condicionis mancipia insignia esse in vendundo deberent, ut emptores errare et
capi non possent, neque lex vendundi opperienda esset, sed oculis iam
praeciperent, quodnam esset mancipiorum genus). Sull’impiego di pilleatus
nelle fonti vedi N. Ottink, v. Pilleatus, in Thesaurus Linguae Latinae, 10, 2003, coll. 2138 s. Rinvio, inoltre,
alle considerazioni di E. Jakab, Praedicere und cavere
beim Marktkauf. Sachmängel im
griechischen und römischen Recht, cit., 36 ss., a proposito di pilleati servi.
[128] L’espressione tecnica
“quorum nomine emptori venditor nihil
praestaret” viene impiegata esclusivamente da Celio Sabino/Gellio, nei
paragrafi 1 e 3 del passo ora analizzato, per indicare la vendita in cui il
venditore non prestava garanzia. Cfr. N. Ottink,
v. Pilleatus, cit., col. 2139 e M. Rzepiela, v. Pilleum/pilleus, cit., col. 2141. Non appaiono, però, del tutto
chiare le motivazioni che giustificherebbero l’uso del pilleus quale elemento identificativo degli schiavi per i quali il
venditore non assumeva alcuna garanzia.
[129] Sul passo di Gellio, noct. Att. 6.4.3 vedi soprattutto: A. Ehrhardt, v. Corona, cit., 96 s.; M. Talamanca,
Contributi allo studio delle vendite
all’asta nel mondo classico, cit., 153 s.; F. Bona, Preda di
guerra e occupazione privata di “res hostium”, cit., 330 s.; P. Leuregans, «… achat sous la couronne d’esclaves…», cit., 202; J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse Konstruktion des Krieges in Rom, cit., 213; E. Jakab,
Praedicere und cavere beim Marktkauf. Sachmängel im
griechischen und römischen Recht, cit., 38 s.; K.W. Welwei, Sub corona vendere:
Quellenkritische Studien zu Krieggefangenschaft und Skaverei in Rom bis zum
Ende des Hannibalkrieges, cit., 13.
[130] Così osserva M. Talamanca, Contributi allo studio delle vendite all’asta nel mondo classico, cit., 154, il quale
scrive, «è d’altra parte certo che nel I sec. d. Cr. non si usava più coronare
di ghirlande i prigionieri di guerra venduti come schiavi: Celio Sabino afferma
infatti: a n t i q u i t u s mancipia
iure belli capta coronis induta v e n i e b a n t: ciò fa supporre che, al
momento in cui scriveva il giurista, non si seguisse più tale costume». Dello
stesso avviso, F. Bona, Preda di guerra e occupazione privata di
“res hostium”, cit., 360.
[131] A proposito del
contenuto del testo di Gellio, noct. Att.
6.4.4, vedi in particolare A. Ehrhardt,
v. Corona, cit., col. 97; M. Talamanca, Contributi allo studio delle vendite all’asta nel mondo classico,
cit., 154; P. Leuregans, «… achat sous la couronne d’esclaves…»,
cit., 202; J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse
Konstruktion des Krieges in Rom, cit., 214; E.
Jakab, Praedicere und cavere beim Marktkauf. Sachmängel im griechischen und
römischen Recht, cit., 39; K.W. Welwei,
Sub corona vendere: Quellenkritische Studien
zu Krieggefangenschaft und Skaverei in Rom bis zum Ende des Hannibalkrieges,
cit., 13.
[132] Sull’utilizzazione di
corona per indicare un corpo di
soldati che sta attorno a qualcosa, in circolo, vedi A. Gudeman, v. Corona,
cit., col. 986, in cui si annoverano un buon numero di occorrenze che attestano
nelle fonti l’uso del termine, tutt’altro che raro, con tale significato. In
tal senso, tra gli altri, Cicerone, Phil.
2.112 e Cesare, Gall. 7.72.2.
Il fatto che Gellio riporti
orientamenti interpretativi differenti, a proposito dell’espressione venire sub corona, sta ad indicare, come
osserva M. Talamanca, Contributi allo studio delle vendite
all’asta nel mondo classico, cit., 154, che verso la metà del II sec. d.C.
fosse ancora incerta la sua etimologia e che l’incertezza sul significato del
termine corona doveva esistere già in
epoca precedente ad Aulo Gellio. Anche F.
Bona, Preda di guerra e
occupazione privata di “res hostium”, cit., 330 s., in merito
all’espressione sub corona venire,
rileva che: «Ai tempi di Aulo Gellio si era smarrito anche il significato di
quella espressione, tanto che fu possibile avanzare un’altra spiegazione.
Quanto precede non significa che ai tempi di Celio Sabino ed ancora di Aulo
Gellio non si procedesse più alla vendita dei prigionieri di guerra. Questo uso
mi pare anzi confermato dal passo di Gellio, il quale si limita, giusta il
carattere dell’opera, a spiegare il significato di una espressione che forse
era rimasta in uso ai suoi tempi, per rappresentare la vendita dei prigionieri
di guerra, senza che se ne comprendesse il valore originario».
[133] Sull’interpretazione
del frammento di Catone, trascritto da Gellio, noct. Att. 6.4.5, rivio a: M. Talamanca,
Contributi allo studio delle vendite all’asta
nel mondo classico, cit., 158; P. Leuregans,
«… achat sous la couronne
d’esclaves…», cit., 202 ss., il quale, traendo spunto dalle parole di Marco
Catone, ritiene che la corona
rappresenti il simbolo della supplicatio;
J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse
Konstruktion des Krieges in Rom, cit., 214; E.
Jakab, Praedicere und cavere beim Marktkauf. Sachmängel im griechischen und
römischen Recht, cit., 39.
[134] I quindici frammenti superstiti
dell’opera, tratti da diciotto citazioni, sono raccolti e ordinati da H. Iordan, M. Catonis praeter librum de re rustica quae extant, cit., ffr.
1-15, 80-82, il quale ritiene che si trattasse di un unico libro intitolato De re militari: «Librum de re militari (nam quod neque ‘libros’ neque ‘de disciplina
militari’…» (CII). Da ultimo O. Schönberger,
Marcus Porcius Cato vom Landbau Fragmente
alle erhaltenen Schriften, cit., ffr. 373-387, 278 ss. Sull’opera vedi il più
recente A.E. Astin, Cato the censor, cit., 184 s.
[135] Ho riportato la
traduzione del testo elaborata da F. Cavazza,
Aulo Gellio. Le notti attiche, libri
IV-V, Bologna 1991, 43.
[136] Gellio, noct. Att. 6.4.3.
[137] Plauto, Hort., fr. 1: Praeco ibi adsit, cum corona, cuique liceat veneat. Come giustamente
osserva M. Talamanca, Contributi allo studio delle vendite
all’asta nel mondo classico, cit., 156, i versi di Plauto citati da Festo
non sarebbero decisivi al riguardo, in quanto non dicono nulla in merito
all’esclusione della garanzia. Ciò induce il Talamanca ad affermare che: «nel
manoscritto sono caduti probabilmente dei versi, che si riferivano a questo
argomento» (156, n. 3).
[138] Gellio, noct. Att. 6.4.1-3.
[139] A proposito della garanzia per i vizi
occulti, vale la pena ricordare che l’esclusione di tale tipo di garanzia era
un principio vigente per ogni vendita pubblica, così come attestato da Ulpiano
nel frammento D. 21.1.1.3 (Ulpianus
libro primo ad edictum aedilium curulium): Illud sciendum est edictum hoc non pertinere
ad venditiones fiscales. Correlando il contenuto del passo di Festo con la
disposizione dell’editto degli edili curuli riferita da Ulpiano, si potrebbe
supporre che l’esclusione della garanzia per i vizi occulti, riguardante in un
primo tempo le sole vendite sub corona,
sia stata poi estesa fino a ricomprendere tutte le vendite pubbliche di servi. Ma tale supposizione viene
considerata eccessiva da M. Talamanca,
Contributi allo studio delle vendite
all’asta nel mondo classico, cit., 156 s., il quale osserva che: «lo Stato
era assoggettato alla responsabilità per l’evizione, ed è probabile che Festo
si voglia riferire soltanto a quest’ultima, poiché quella per i vizi occulti
era esclusa da un principio generale». Sul contenuto del passo di Festo, il
riferimento all’Hortulus di Plauto e
la correlazione tra corona e pilleus vedi anche E. Jakab,
Praedicere und cavere beim Marktkauf. Sachmängel im griechischen und römischen Recht, cit., 40.
[140] M. Talamanca, Contributi allo studio delle vendite all’asta nel mondo classico,
cit., 154.
[141] Cfr. M. Talamanca, Contributi allo studio delle vendite all’asta nel mondo classico,
cit., 154, il quale rileva che in Vopisco si può riscontrare «l’ultimo accenno
all’effettuazione di una venditio sub corona».
[142] Tacito utilizza l’espressione
sub corona venundari anche in Hist. 1.68.2, in cui si legge: Ac statim immissa cohorte Thracum depulsi et
consectantibus Germanis Raetisque per silvas atque in ipsis latebris trucidati;
multa hominum milia caesa, multa sub corona venundata. Cfr. A. Gudeman, v. Corona, cit., col. 985; A. Gerber
– A. Greff, v. Corona, in Lexicon Taciteum, I, Leipzig 1962, 227.
[143] Vopisco, Aurelian. 7.1: Idem apud Mo<go>ntiacum tribunus legionis sextae Gallicanae
Francos inruentes, cum vagarentur per totam Galliam, sic adflixit, ut trecentos
ex his captos septingentis interemptis sub corona vendiderit.
[144] Cfr. A. Ehrhardt, v. Corona, cit., col. 97; M. Talamanca,
Contributi allo studio delle vendite
all’asta nel mondo classico, cit., 154; F.
Bona, Preda di guerra e
occupazione privata di “res hostium”, cit., 317, 359; P. Leuregans, «… achat sous la couronne d’esclaves…», cit., 197 s. Da ultimo,
vedi K.W. Welwei, Sub corona
vendere: Quellenkritische Studien zu
Krieggefangenschaft und Skaverei in Rom bis zum Ende des Hannibalkrieges,
cit., 13.
[145] I captivi non ancora venduti venivano consegnati dal comandante
militare ai questori, i quali procedevano alla loro vendita, come attesta
Plauto, Capt. 106: … tu istos captivos duos,/heri quos emi de
praeda de quaestoribus,/ is indito catenas singularias… Al riguardo vedi:
A. Ehrhardt, v. Corona, cit., col. 97; M. Talamanca, Contributi allo studio delle vendite all’asta nel mondo classico,
cit., 156; F. Bona, Preda di guerra e occupazione privata di
“res hostium”, cit., 317, 359; P. Leuregans,
«… achat sous la couronne
d’esclaves…», cit., 198.
[146] Sul passo di Varrone, re rust. 2.10.4, a proposito dei modi
d’acquisto della proprietà dei servi
e, in particolare, se il fere iniziale
del passo stia ad indicare una elencazione più o meno completa di tali modi
d’acquisto, vedi, tra gli altri: U. Coli,
Lo sviluppo delle varie forme di legato
nel diritto romano, Roma 1920, 28; P. de
Francisci, Il trasferimento della proprietà, Padova 1924, 86 s., il quale,
criticando la tesi del Coli, a sostegno di una enumerazione completa dei modi
d’acquisto della proprietà, al fine di provare che ai tempi del grande
antiquario non era ancora prevista l’applicazione del legato di proprietà, ritiene
che Varrone non avesse l’intenzione di dare «un elenco completo dei modi
d’acquisto»; S. Romano, Nuovi studi sul trasferimento della
proprietà e il pagamento del prezzo nella compravendita romana, Padova
1937, 93, 164 s.; F. Gallo, Studi sul trasferimento della proprietà in
diritto romano, Torino 1955, 144 n. 37. In merito all’acquisto del dominio
in seguito alla venditio sub corona
rinvio alle considerazioni sul passo di Varrone di M. Talamanca, Contributi
allo studio delle vendite all’asta nel mondo classico, cit., 156; F. Bona, Preda di guerra e occupazione privata di “res hostium”, cit., 318
s. Vedi anche P. Leuregans, «… achat sous la couronne d’esclaves…»,
cit., 191.
[147] M. Talamanca, Contributi allo studio delle vendite all’asta nel mondo classico, cit.,
156.
[148] Per
quanto concerne i mercati di schiavi nel mondo romano si vedano M. Cocco, Sulla funzione dell’“Agorà
degli Italiani” di Delo, in La Parola del Passato 25, 1970,
446 ss.; W.V. Harris, Towards
a study of the Roman slave trade, in “MAAR”, The seaborne
commerce of ancient Rome: studies in archaeology and history 36, 1980, 117
ss.; F. Coarelli, L’“Agorà
des Italiens” a Delo: il mercato degli schiavi?, in Op. Acad. Finl.
2, 1982, 119 ss.; M. Melluso, Alcune
testimonianze in tema di mercati di schiavi nel tardo antico, in M. Garrido-Hory éd., Routes et marchés d’eslaves, 26e
colloque du GIREA, Besançons 27-29 septembre 2001, Paris 2002, 345 ss. A
Roma i principali mercati di schiavi erano situati nel Campo di Marte (Marziale
9.60; 2.14) e nei pressi del tempio di Castore (Plauto, Curc. 4.1.481;
Seneca, Const. sap. 2.13.14). Esistevano però anche mercati
specializzati nella vendita di particolari tipi di mancipia, come quelli
in cui venivano vendute solo le donne (nella via Sacra e nei pressi del tempio
di Venere: Plauto, Curc. 4.1.481; Marziale 2.63).
[149] Venalicium e statarium erano i termini comunemente
utilizzati nella lingua latina per indicare il mercato in cui venivano venduti
gli schiavi. Il sostantivo venalicium
compare sia nelle fonti giuridiche, D. 21.1.65.2 (Venonius libro quinto actionum):
Servus tam veterator quam novicius dici
potest. sed veteratorem non spatio serviendi, sed genere et causa aestimandum
Caelius ait: nam quicumque ex venalicio noviciorum emptus alicui ministerio
praepositus sit, statim eum veteratorum numero esse: novicium autem non
tirocinio animi, sed condicione servitutis intellegi. nec ad rem pertinere,
Latine sciat nec ne: nam ob id veteratorem esse, si liberalibus studiis eruditus
sit; sia in quelle letterarie, Petronio, Sat. 29.3: Erat autem
venalicium <cum> titulis pictis, et ipse Trimalchio capillatus caduceum
tenebat Minervamque ducente Romam intrabat; ed epigrafiche CIL VI. 396-399;
il lemma statarium, invece, è il
corrispondente latino della parola greca statarion. il
sostantivo statarion’/statarium compare solo nella documentazione
epigrafica proveniente dall’Asia Minore. Da segnalare che l’uso della forma
latina statarium viene attestato solo
in un’unica epigrafe dell’età tiberiana, rinvenuta ad Efeso (pubblicata in Forschungen in Ephesos, III, 25-26, Wien
1923, 114). Da ciò si può dedurre che il termine venalicium era maggiormente adoperato nel mondo romano, mentre il
sostantivo statarium doveva essere
utilizzato più di frequente nelle regioni dell’oriente mediterraneo, dove esistevano numerosi ‘centri di
smistamento’ di schiavi.
[150] Sul significato del
termine homo nelle fonti vedi C.O. Brink, v. Homo, in Thesaurus Linguae
Latinae, 6.3, 1936-1942, coll. 2871 ss. Il termine homo, viene spesso utilizzato nelle fonti per indicare il servus, al riguardo, si vedano, ad
esempio, alcuni frammenti delle opere dei giuristi riportati nel titolo D.21.1,
sulla vendita di schiavi e garanzia per i vizi occulti: D. 21.1.14.10 (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.), in tema di vitia corporis; D. 21.1.21.3 (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.), per indicare il servus fugitivus; D. 21.1.23 pr. (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.), a proposito della redibizione del servus che fosse stato “deteriorato” nel
corpus e nell’animus dal compratore; D. 21.1.31.5 (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.), in merito al servus
per il quale fosse necessario l’esperimento delle azioni edilizie da parte di
più eredi; D. 21.1.31.6 e D. 21.1.31.11, dove il termine homo viene utilizzato per indicare il servus morto prima che gli eredi o il compratore avessero potuto
intentare le azioni edilizie; D. 21.1.32 (Gai 2 ad ed. aed. cur.), frammento in cui Gaio discute il principio
edilizio si alii rei homo accedat; D.
21.1.43.9 (Paul. 1 ad ed. aed. cur.),
vendita del servus sub condicione.
Sulla nozione
giuridica di homines e le accezioni
di homo e persona rinvio a P. Catalano,
Diritto e persone. Studi su origine e
attualità del sistema romano, cit., 167 ss.; e a S. Tafaro, Diritto e persona:
centralità dell’uomo, in Vrbs - União
dos romanistas brasileiros, Artigos
<http://www.vrbs.org/lobrano.htm>, 2002.
[151] Cfr. W.E. Boese, A Study of the Slave trade and the Sources of Slaves in the early Roman
Empire, cit., 158 ss.; H.A. Wallon,
Historie de l’esclavage, Aalen 1974,
48; J. Toynbee, L’eredità di
Annibale, II, Torino 1981, 425.
[152] Petronio, sat. 76.3-7: Ne multis vos morer, quinque naves aedificavi, oneravi vinum – et tunc
erat contra aurum – misi Romam. Putares me hoc iussisse: omnes naves
naufragarunt. Factum, non fabula. Uno die Neptunus trecenties sestertium
devoravit. ... Alteras feci maiores et meliores et feliciores, ut nemo non me virum fortem diceret. Scis, magna navis magnam fortitudinem habet. Oneravi rursus vinum, lardum, fabam, seplasium, mancipia. Dalla lettura del
passo risulta evidente l’origine della fortuna di Trimalcione, il quale narra
ai commensali che nel momento in cui iniziò a dedicarsi alle attività
commerciali, decise di costruire navi grandi e robuste; navi che decise poi di
riempire di merci di vario tipo e di mancipia.
[153] La disapprovazione
sociale e la pessima reputazione dei venditori di schiavi emerge fin dal
periodo in cui visse Plauto, Capt.
vv. 98-101: nunc hic occepit quaestum
hunc fili gratia/ inhonestum et maxime alienum ingenio suo:/ homines captivos
commercatur, si queat/ aliquem invenire, suom qui mutet filium.
Nelle fonti vi sono
numerose attestazioni degli atti di frode dei venditori di mancipia. Sono particolarmente interessanti gli atti fraudolenti
perpetrati dai commercianti di schiavi per aggirare le disposizioni dell’editto
degli edili curuli. Le frodi dei venditori di servi vengono evocate in maniera molto limpida da Cicerone, off. 3.17.71: Nec vero in praediis solum ius civile ductum a natura malitiam
fraudemque vindicat, sed etiam in mancipiorum venditione venditoris fraus omnis
excluditur. Qui enim scire debuit de sanitate, de fuga, de furtis, praestat
edicto aedilium. Nel titolo D. 21.1 vi sono alcuni frammenti in cui
l’emanazione dell’editto degli edili viene sempre giustificata facendo ricorso
alla volontà di porre fine alla fallacia
dei venditori di schiavi, tra tutti vedi: D. 21.1.1.2 (Ulpianus libro primo ad edictum aedilium curulium):
Causa huius edicti proponendi est, ut
occurratur fallaciis vendentium et emptoribus succurratur ...; D. 21.1.37 (Ulpianus libro primo ad edictum aedilium curulium):
Praecipiunt aediles, ne veterator pro
novicio veneat. Et hoc edictum
fallaciis venditorum occurrit: ubique enim curant aediles, ne emptores a
venditoribus circumveniantur. Nei due passi citati il giurista Ulpiano
descrive chiaramente comportamenti fraudolenti dei venditori di servi ai danni degli ignari compratori.
Ma vedi anche D. 21.1.44 pr. (Paulus
libro secundo ad edictum aedilium curulium): Iustissime aediles noluerunt hominem ei rei
quae minoris esset accedere, ne qua fraus aut edicto aut iure civili fieret,
in cui si fa riferimento all’intervento degli edili, i quali emanarono la
rubrica “si alii rei homo accedat”,
al fine di evitare che si attuasse la frode all’editto, da parte dei venditori
di mancipia, mediante la vendita di uno schiavo in qualità di accessorio di una
res.
[154] Per quanto riguarda
l’uso nelle fonti del sostantivo, vedi la v. Venaliciarius in: H.E. Dirksen,
Manuale latinitatis fontium iuris civilis Romanorum,
Berolini 1837, 987; Ae. Forcellini, Lexicon totius Latinitatis, IV, Patavii 1887, 931; Vocabolarium Iurisprudentiae Romanae, V,
Berolini 1939, col. 1255; H. Heumann -
E. Seckel, Handlexicon zu den
Quellen des römischen Rechts10, Graz 1958, 616.
In generale,
sull’attività svolta dai venaliciarii,
rinvio a E. Jakab, Praedicere und cavere
beim Marktkauf. Sachmängel im griechischen und römischen Recht, cit., 16
ss.; R. Ortu, Note in tema di organizzazione e attività
dei venaliciarii, in Archivio storico
e giuridico sardo di Sassari 6, 1999 [ma 2003], 99 ss. [= in Diritto @ Storia. Quaderni di Scienze
Giuridiche e Tradizione Romana 2, 2003,
<http://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Ortu-Venaliciarii.htm>]; Ead.,“Qui venaliciariam vitam exercebat”: ruolo sociale e qualificazione
giuridica dei venditori di schiavi, in Diritto
@ Storia. Quaderni di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana 1, 2002:
<http://www.dirittoestoria.it/lavori/Contributi/Ortu%20Qui%20venaliciariam%20vitam%20exercebat.htm>,
[= in Ius Antiquum - Drevnee Pravo 9, (Moskva) 2002, 87 ss.].
[155] Per le occorrenze del
termine mango nelle fonti letterarie
ed epigrafiche vedi la v. Mango in: H.E. Dirksen, Manuale
latinitatis fontium iuris civilis
Romanorum, cit., 566; H. Heumann -
E. Seckel, Handlexicon zu den
Quellen des römischen Rechts, cit., 332. Ma soprattutto rinvio a L. Deicke, vv. Mango; Mangonico; Mangonicus, in Thesaurus Linguae Latinae 8, 1936-1966, col. 300.
A proposito dell’origine
della parola mango vedi A.S. Wilkins, Q. Horati Flacci Opera, London 1896, 136. Sulla derivazione
greca di mango, vedi E.H. Brewster, Roman Craftsmen and Tradesman of the Early Empire, Menasha -
Wisconsin 1917, 30; s.v. Mango, in RE, XIV, Stuttgart 1928, col. 1107; T. Kleberg, Mango - a semasiological study, cit., 278 s., il quale ritiene che:
«No doubt the Greek m£ggnon, ‘means of
bewtching and deceiving’, etc., magganeÚein,
‘deceive by artificial means’, ‘play tricks’, maggane…a,
‘trickery’, ‘witchcraft’, ‘deception’, are of the same origin. One is
apt to believe that mango is simply a
Greek loanword m£ggwn. This word has
not, however, been found, but can be presupposed. The meaning of the whole
word-group clearly indicates that the word, when introduced into Latin, had the
function ‘merchant who polishes up his goods by artificial means’»; L. Deicke, v. Mango, cit., col. 300.
A proposito
dell’attività dei mangones vedi E. Jakab,
Praedicere und cavere beim Marktkauf. Sachmängel im
griechischen und römischen Recht, cit., 18 s.; R. Ortu, “Qui
venaliciariam vitam exercebat”: ruolo sociale e qualificazione giuridica dei
venditori di schiavi, cit., 96 ss. A proposito dei mangones nel tardo
antico, vedi M. Melluso, Alcune testimonianze in tema di mercati di
schiavi nel tardo antico, cit., 346 ss.
[156] Il termine risulta
già utilizzato dal giurista Africano (D. 50.16.207; Africanus libro tertio quaestionum); successivamente lo si ritrova nelle
opere di Papiniano (D. 17.1.57; Papinianus
libro decimo responsorum) e il suo uso si consolida in età
severiana con i giureconsulti Paolo (D. 21.1.44.1; Paulus libro secundo ad edictum aedilium curulium)
e Ulpiano (D. 14.4.1.1; Ulpianus libro 29 ad edictum), i quali offrono
significative testimonianze sugli impieghi del lemma venaliciarius e sull’attività svolta da questa categoria di
commercianti. In particolare, nel frammento di Ulpiano, il giureconsulto
utilizza il lemma venaliciarius per
indicare servi con peculio dediti
alla compravendita di schiavi per conto del dominus:
D. 14.4.1.1 (Ulpianus libro 29 ad edictum): Licet mercis appellatio angustior sit, ut neque ad servos fullones vel
sarcinatores vel textores vel venaliciarios pertineat, tamen Pedius libro
quinto decimo scribit ad omnes negotiationes porrigendum edictum. Appare
chiaro, che il termine venaliciarius
qualificava non solo l’attività svolta da uomini liberi, ma anche quella
intrapresa dai servi.
[157] Sull’organizzazione
“imprenditoriale” dell’attività dei venaliciarii
rinvio soprattutto a R. Ortu, Note in tema di organizzazione e attività
dei venaliciarii, cit., 99 ss., in cui analizzo il complesso sistema, in
base al quale l’attività venaliciaria poteva essere esercitata: sia mediante
l’impiego di uomini liberi, sia attraverso prepositio
a servi institores venaliciarii, sia per mezzo di servi venaliciarii con
peculio. Si veda anche Ead.,“Qui venaliciariam vitam exercebat”: ruolo
sociale e qualificazione giuridica dei venditori di schiavi, cit., 87 ss.
[158] Il contratto di
società è stato oggetto di numerosi studi da parte della dottrina romanistica
vedi tra gli altri, per una prima lettura: B.W. Leist, Zur Geschichte
der römischen Societas, Jena 1881; E. Del
Chiaro, Le contrat de société en
droit privé romain, Paris 1928; A. Poggi,
Il contratto di società in diritto romano
classico, I, Torino 1930; F. Wieacker,
Societas. Hausgemeinschaft und
Erwerbsgesellschaft, Weimar 1936; C.
Arnò, Il contratto di società, Torino 1938; E. Szlechter, Le contrat
de société en Babylonie en Grèce et a Rome, Paris 1947; v. Arangio-ruiz, La società in diritto romano, Napoli 1950; M. Bianchini, Studi sulla societas, Milano 1967; F. Bona, Studi sulla società consensuale in diritto
romano, Milano 1973; A. Guarino,
La società in diritto romano, Napoli
1988; M. Talamanca, v. Società. a) Diritto romano, in ED
29, Milano 1990, 814 ss.; J.H. Lera, El contrato de sociedad. La casuistica
jurisprudencial clasica, Madrid 1992; L. Gutiérrez-Masson,
Del “consortium” a la “societas”,
I-II, Madrid 1994; G. Santucci, Il socio d’opera in diritto romano.
Conferimenti e responsabilità, Padova 1997.
[159] Sulla figura del
giurista si rinvia a C.A. Maschi, La conclusione della giurisprudenza classica
all’età dei Severi. Iulius Paulus, in ANRW
II.15, cit., 667 ss., da leggere con la recensione di M. Talamanca, Per la storia della giurisprudenza romana, cit., 221 ss. Del
giurista si occupa anche A. Mantello,
Il sogno, la parola, il diritto. Appunti
sulle concezioni giuridiche di Paolo,
in BIDR 94-95, 1991-1992, 349 ss.
[160] In merito a tale tipo
di societas è di grande interesse un
riferimento di Gaio, il quale, nel terzo libro delle sue Institutiones, trattando del contratto di società, cita come
esempio tipico di societas unius
negotiationis la societas di coloro
che si dedicano alla compravendita di schiavi: Gai 3.148, Societatem coire solemus aut totorum bonorum aut unius alicuius
negotii, veluti mancipiorum emendorum aut vendendorum; esempio riportato
anche in I. 3.25 pr.: … aut unius
alicuius negotiationis, veluti mancipiorum emendorum vendendorumque, aut olei
vini frumenti emendi vendendique, in cui si aggiungono come tipi di societas unius negotiationis le società
costituite per il commercio dell’olio, del vino e del frumento. Si legga anche
il frammento di Pomponio D. 17.2.60.1 (Pomponius libro 13 ad Sabinum), in cui il giurista
fa riferimento indiretto alla societas
venaliciaria, ponendosi il problema di stabilire a chi imputare le spese
mediche del socio ferito durante un tentativo di fuga dei servi comuni messi in vendita: Socius
cum resisteret communibus servis venalibus ad fugam erumpentibus, vulneratus
est: impensam, quam in curando se fecerit, non consecuturum pro socio actione
Labeo ait, quia id non in societatem, quamvis propter societatem impensum sit,
sicuti si propter societatem eum heredem quis instituere desisset aut legatum
praetermisisset aut patrimonium suum neglegentius administrasset: nam nec
compendium, quod propter societatem ei contigisset, veniret in medium, veluti
si propter societatem heres fuisset institutus aut quid ei donatum esset.
Dall’analisi del testo sembra chiaro che il socio in questione sia un venaliciarius e che quindi pomponio discuta un caso di societas venaliciaria. Di grande
interesse anche il contenuto di un lungo frammento di Paolo D. 17.2.65 (Paulus libro 32 ad edictum) in tema di renuntiatio socii, in cui il giurista
riporta, nei paragrafi 3-6, le opinioni divergenti di Cassio, Labeone e
Proculo. Nel paragrafo 5 Paolo scrive: Labeo
autem posteriorum libris scribsit, si renuntiaverit societatis unus ex sociis
eo tempore, quo interfuit socii non dirimi societatem, committere eum in pro
socio actione: nam si emimus mancipia inita societate, deide renunties mihi eo
tempore, quo vendere mancipia non expedit, hoc casu, quia deteriorem causam
meam facis, teneri te pro socio iudicio, riportando così il parere di
Labeone, il quale cita, a proposito della renuntiatio
illecita intempestiva, l’esempio della societas
venaliciaria.
Sulla società venaliciaria vedi in particolare E. Del Chiaro, Le contrat de société en droit privé romain, cit., 232 s.; C. Arnò,
Il contratto di società, cit.,
98 ss.; A. Poggi, Il contratto di società in diritto romano
classico, cit., 165; v.
Arangio-ruiz, La società in
diritto romano, cit., 142 ss.; F. Serrao,
Sulla rilevanza esterna del rapporto di
società in diritto romano, cit., 748 ss.; Id.,
Impresa, mercato, diritto. Riflessioni
minime, cit., 48 ss.; R. Ortu, “Qui venaliciariam vitam exercebat”: ruolo
sociale e qualificazione giuridica dei venditori di schiavi, cit., 93 s.
[161] Cfr. o. lenel,
Palingenesia iuris civilis, I, cit.,
col. 1096, fr. 841.
[162] A proposito
dell’editto adversus venaliciarios e
della problematica inerente alla sua inclusione o meno quale rubrica dell’editto
degli edili curuli, rinvio alla ricostruzione dell’editto edilizio, redatto in
modo definitivo da Salvio Giuliano, elaborata da O. Lenel, L’édit perpétuel,
cit., 303 ss., il quale prospetta la seguente partizione: de mancipiis vendundis (§ 293, 303); de iumentis vendundis (§ 294, 316); de feris (§ 295, 317); stipulatio
ab aedilibus proposita (§ 296, 318). Suddivide poi l’editto de mancipiis vendundis in 11 rubriche:
1) de vitiis pronunciandis e la
concessione dell’actio redhibitoria (D. 21.1.1.1); 2) formula
dell’actio redhibitoria (D.
21.1.23-27); 3) actio quanti minoris
(D. 21.1.31.16); 4) actio in factum ad
pretium reciperandum, si mancipium redhibitum fuerit (D. 21.1.31.17-19); 5)
de cavendo (D. 21.1.31.20); 6) de natione pronuntianda (D. 21.1.31.21);
7) si quid ita venierit, ut, nisi
placuerit, redhibeatur (D. 21.1.31.22-23); 8) si alii rei homo accedat (D. 21.1.31.25; 33; 35); 9) ne veterator pro novicio veneat (D.
21.1.37); 10) edictum adversus
venaliciarios (D. 21.1.44.1); 11) edictum
de ornamentis (D. 50.16.74). Per quanto attiene alla rubrica de castratione puerorum (D. 9.2.27.28)
il lenel ipotizza che sia da
considerare come un’appendice all’editto
de mancipiis vendundis (304).
Vale la pena
sottolineare che la ricostruzione della versione giulianea dell’editto de mancipiis vendundis proposta dal
Lenel si differenzia da quella di A.F. Rudorff,
Edicti perpetui quae reliquia sunt,
Lipsiae 1869, § 310, 259 s., il quale individuava 10 rubriche, poiché non
considerava gli editti ‘si alii rei homo
accedat’ e ‘adversus venaliciarios’,
mentre introduceva l’editto de
castratione puerorum. Anche F. Glück,
Commentario alle Pandette,
cit., 12 ss., pur includendo 11 rubriche nell’editto de mancipiis vendundis, propone una diversa sequenza di argomenti rispetto
a quella del lenel; ma il suo
ordine sistematico viene criticato da S. Perozzi,
(in F. Glück, Commentario alle Pandette, cit., 12 ss.
n. b) il quale preferisce la
ricostruzione leneliana.
[163] Sull’actio redhibitoria si vedano
soprattutto: W.W. Buckland, The Roman law of slavery, Cambridge
1908, 59 ss.; R. Monier, La garantie contre les vices, Paris 1930, 59 ss.; A. Pezzana, D. 21, 1, 45. Contributi alla dottrina romana dell’actio redhibitoria, in risg, serie III, 5, 1951, 275 ss.; F. Pringsheim,
The decisive moment for Aedilician
liability, in Rida
5, 1952, 545 ss.; v. Arangio-ruiz, La compravendita in diritto romano, Napoli 1954, 369 ss.; G. Impallomeni, L’editto degli edili curuli, Padova 1955, 137 ss.; A.M. Honoré, The history of the Aedilitian actions from Roman-dutch law, in Studi De Zulueta, Oxford 1959, 132 ss.; D. Pugsley, The Aedilician
Edict, in Daube Noster, a cura di
A. Watson, Edinburgh-London 1974, 253 ss.; A. Watson, Sellers’
Liability for Defects: Aedilician Edict and Pretorian law, in Iura 38, 1987, 167 ss.; L. Manna, “Actio redhibitoria” e responsabilità per vizi nell’editto “de
mancipiis vendundis”, Milano
1994, 173 ss.; R. Zimmermann, The Law of Obligations. Roman Foundations of
the Civilian Tradition, Oxford 1992 (rist. 1996), 317 ss.; N. Donadio, Sull’“actio redhibitoria”, in Index
25, 1997, 649 ss.; L. Garofalo, “Redhibitoria actio duplicem habet
condemnationem” (a proposito di Gai. ad
ed. aed. cur. D. 21,1,45), in Atti del Convegno sulla Problematica
contrattuale in diritto romano, Milano 11-12 maggio 1995. In onore di Aldo Dell’Oro, Milano 1998,
57 ss.; Id., Perimento della cosa e azione redibitoria in un’analisi
storico-compararatistica, in Europa e
diritto privato 2, 1999, 843 ss.; Id.,
Studi sull’azione redibitoria,
Padova 2000; E. Parlamento, Labeone e l’estensione della “redhibitio”
all’“actio empti”, in Rivista di Diritto Romano 3, 2003, 1 ss.
<http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano>. Infine, a proposito di actiones aediliciae e actio empti, si veda il recentissimo
studio di N. Donadio, La tutela del compratore tra actiones
aediliciae e actio empti, Milano
2004.
[164] Gli atti di frode dei mercanti di schiavi,
in particolare quelli dei mangones, vengono
ampiamente descritti dagli autori latini. Fra i tanti testi, segnalo la lettura
di Quintiliano, inst. 2.15.24, 25, in
cui il retore, alla fine del brano, fa riferimento alla pratica dei mangones di simulare la prestanza fisica
dei mancipia: «colorem fuco et verum robur inani sagina mentiantur»; Plinio il
Vecchio, nat. hist. 7.56: Toranius mango Antonio iam triumviro eximios forma pueros, alterum in Asia
genitum, alterum trans Alpis, ut geminos vendidit: tanta unitas erat. postquam
deinde sermone puerorum detecta fraude a furente increpitus Antonio est, inter
alia magnitudinem preti conquerente (nam ducentis erat mercatus sestertiis),
respondit versutus ingenii mango, id ipsum se tanti vendidisse, quoniam non
esset mira similitudo in ullis eodem utero editis; diversarum quidem gentium
natales tam concordi figura reperire super omnem esse taxationem; adeoque
tempestivam admirationem intulit, ut ille proscriptor animus, modo et
contumelia furens, non aliud in censu magis ex fortuna sua duceret, dove
viene raccontato un episodio significativo di una truffa attuata da Toranio,
noto mercante di schiavi, il quale, con grande abilità e destrezza, pur di
guadagnare sesterzi in più, riuscì a vendere due giovinetti di diversa
nazionalità (uno proveniva dall’Asia e l’altro dalla Gallia Transalpina), in
qualità di gemelli, solo perché tra i due esisteva una forte rassomiglianza
fisica. Plinio riferisce anche i diversi tipi di artifici posti in essere dai mangones per mantenere il più a lungo
possibile l’aspetto da impuberes dei mancipia: nat. hist. 21.170: Hyacinthus
in Gallia maxime provenit. hoc ibi fuco hysginum tingunt. radix est bulbacea,
mangonicis venaliciis pulchre nota, quae e vino dulci inlita pubertatem coercet
et non patitur erumpere. torminibus et araneorum morsibus resistit. urinam
impellit. contra serpentes et scorpiones morbumque regium semen eius cum
habrotono datur. nat. hist. 30.41:
Umeri doloribus mustelae cinis cum cera medetur. - Ne sint alae hirsutae,
formicarum ova pueris infricata praestant, item mangonibus, ut lanugo sit
pubescentium, sanguis e testiculis agnorum, cum castrantur. qui evulsis pilis
inlitus et contra virus proficit. Pertanto, non destano meraviglia le
parole di Seneca (ep. 80.9: Equum empturus solvi iubes stratum,
detrahis vestimenta venalibus, ne qua vitia corporis lateant: hominem involutum
aestimas? mangones quicquid est, quod displiceat, aliquo lenocinio abscondunt,
itaque ementibus ornamenta ipsa suspecta sunt: sive crus alligatum sive
brachium aspiceres, nudari iuberes et ipsum tibi corpus ostendi), il quale
suggerisce agli emptores di servi di scoprire il corpo dei mancipia al momento dell’acquisto, al
fine di evitare l’atto di frode dei mangones
che, abitualmente, ricoprivano con ornamenta
gli schiavi messi in vendita, per nasconderne i difetti fisici. Per le fonti in
cui vengono attestati gli atti fraudolenti dei venaliciarii, al fine di aggirare le disposizioni dell’editto degli
edili curuli, vedi supra n. 140.
[165] In merito alla tutela
del compratore, all’editto degli edili curuli e la garanzia per i vizi occulti
nella compravendita di servi vedi,
tra gli altri: W.W. Buckland, The Roman law of slavery, cit., 59 ss.;
R. Monier, La garantie contre les
vices, cit.; A. Pezzana, D. 21, 1, 45. Contributi alla dottrina
romana dell’actio redhibitoria, cit.,
275 ss.; F. Pringsheim, The decisive moment for Aedilician liability, cit., 545 ss.; v. Arangio-ruiz, La compravendita in diritto romano, cit., 352 ss.; G. Impallomeni, L’editto degli edili curuli, cit.; A.M. Honoré, The history of
the Aedilitian actions from Roman-dutch
law, cit., 132 ss.; D. Pugsley, The Aedilician Edict, cit., 253 ss.; A.
Watson, Sellers’ Liability for Defects: Aedilician Edict and Pretorian law,
in Iura 38, 1987, 167 ss.; L. Manna, “Actio redhibitoria” e responsabilità per vizi nell’editto “de
mancipiis vendundis”, cit.; E. Jakab,
Praedicere und cavere beim Marktkauf. Sachmängel im
griechischen und römischen Recht, cit., 97 ss.; L. Garofalo, “Redhibitoria
actio duplicem habet condemnationem” (a
proposito di Gai. ad ed. aed. cur. D.
21,1,45), cit., 57 ss.; Id., Perimento della cosa e azione redibitoria in
un’analisi storico-compararatistica, cit., 843 ss.; Id., Studi
sull’azione redibitoria, cit.; R. Ortu,
“Qui mancipia vendunt, certiores faciant
emptores”. Ricerche in tema di garanzia per vizi nella compravendita di schiavi,
Torino-Sassari 2001; E. Parlamento,
«Servus melancholicus». I «vitia
animi» nella giurisprudenza classica,
in Rivista di Diritto Romano 1, 2001,
325 ss. <http://www.ledonline.it/ rivistadirittoromano>; Ead., Labeone e l’estensione della “redhibitio” all’“actio empti”, cit., 1 ss.; F. Reduzzi-Merola, Vente
d’eslaves sur les marchés da Campanie, in M. Garrido-Hory
éd., Routes et marchés d’eslaves, 26e
colloque du GIREA, Besançons 27-29 septembre 2001, cit., 321 ss.; Ead., Per lo studio delle clausole di garanzia nella compravendita di
schiavi: la prassi campana, in Index
30, 2002, 215 ss.; C. Lanza, D. 21.1: res se moventes e morbus vitiumve, Roma 2003; N. Donadio, La tutela del compratore tra actiones aediliciae e actio empti, cit.
[166] Cfr. R. Ortu, “Qui venaliciariam vitam exercebat”: ruolo sociale e qualificazione
giuridica dei venditori di schiavi, cit., 110 s., in cui rilevo, a
proposito del contenuto del frammento D. 21.1.44.1 (Paulus libro secundo ad edictum aedilium curulium),
che con la rubrica adversus venaliciarios
gli edili stabilirono che «le azioni edilizie potevano essere intentate per
intero nei confronti del venditore cui spettasse una quota maggiore o, in
mancanza, uguale a quella degli altri soci. Con questa disposizione si
affermava uno speciale regime di solidarietà al fine di evitare che il
compratore dovesse agire pro quota
contro ogni singolo socio, per ottenere il prezzo pagato durante la vendita
dello schiavo. Dal testo di Paolo, inoltre, si può capire che al momento della
vendita del mancipium non era
indispensabile la presenza di tutti i venaliciarii
socii, dato che questi ultimi venivano ugualmente obbligati, entro i limiti
della loro quota, dall’atto di gestione compiuto da un solo socio. In questo
caso non si può negare l’esistenza di una forma di rappresentanza reciproca tra
i soci e una rilevanza esterna del rapporto sociale, nel caso in cui i mercanti
di schiavi avessero costituito la società in modo da renderne nota l’esistenza
ai terzi», condividendo in pieno l’impostazione di F. Serrao, Sulla rilevanza esterna del rapporto di società in
diritto romano, in Studi Volterra, V, Milano 1971, 743; Id., Impresa, mercato, diritto. Riflessioni minime, in Mercati permanenti e mercati periodici nel
mondo romano, Atti degli incontri capresi di storia dell’economia antica (Capri
13-15 ottobre 1997), a cura di E. Lo Cascio, Bari 2000, 48 ss., il quale
scrive: «Con che non solo si ampliava e rafforzava l’ammissione delle
rappresentanza fra i socii venaliciarii, ma si creava una speciale
solidarietà infrangendo, anche per le società venaliciarie, il voluto principio
della non rilevanza esterna del rapporto sociale» (49). L’A. si discosta dalla
interpretazione tradizionale, elaborata tra gli altri da V. Arangio-Ruiz, La società in
diritto romano, cit., 91 e 141 ss.; G. Impallomeni,
L’editto degli edili curuli, cit., 71
ss., per cui si riteneva fosse necessaria la presenza di tutti i soci al
momento della vendita dello schiavo: solo in questo modo - si affermava -,
tutti i venaliciarii socii si obbligavano e potevano così
applicarsi le disposizioni dell’editto degli edili curuli.
[167] Sul mandato, per una
prima lettura, vedi fra tutti G. Donatuti,
Contributi alla teoria del mandato in
diritto romano, I-II, Perugia 1927; C. Sanfilippo,
Corso di diritto romano. Il mandato,
Catania 1947; V. Arangio-Ruiz, Il mandato in diritto romano2, Napoli 1965; F. Dumont, La gratuité du mandat en droit romain, in Studi in onore di Vincenzo Arangio-Ruiz, II, Napoli 1953, 307 ss.;
A. Watson, Concract of mandate in roman law, Oxford 1961; G. Mac Cormack,
The liability of the mandatary,
in Labeo 18, 1972, 155 ss.; Aa.Vv., Mandatum und Verwandtes, a cura di D. Nörr e S. Nishimura,
Berlin-Heidelberg 1993.
[168] Papiniano è stato
oggetto di numerosi studi da parte della dottrina a partire da W. Kalb, Roms Juristen. Nach ihrer
Sprache Dargestellt, cit., 107 ss.; E. Costa,
Papiniano. Studio di storia interna del diritto romano, Bologna 1894 (rist.
an. Roma 1964). Si rinvia però, anche per la bibliografia ivi citata, a V. Giuffrè, Papiniano: fra tradizione ed innovazione, in ANRW II.15, cit., 632 ss. (sul contributo del Giuffrè vedi le
considerazioni critiche di M. Talamanca,
Per la storia della giurisprudenza romana,
cit., 204 ss.).
[169] Cfr. o. lenel,
Palingenesia iuris civilis, I, cit.,
col. 928, fr. 639. Sul frammento di Papiniano vedi A. Burdese, Autorizzazione
ad alienare in diritto romano, Torino 1950, 85 s.; D. Daube, Mistake of Law in Usucapion, in The
Cambridge Law Journ., 1958, 85 ss.; F.B.J. Wubbe, Res aliena
pignori data. De verpanding van andermans zaak in het klassieke Romeinse Rehct,
Leiden 1960, 54 ss.; R. Martini, Il problema della causae cognitio pretoria,
Milano 1960, 127 s.; J.A.C. Thomas,
Animus furandi, in Iura 19, 1968, 18,
30; O. Behrends, Die Prokuratur des klassischen römischen
Zivilrechts, in ZSS 101, 1971, 235,
275; P. Apathy, Die Actio Publiciana beim Doppelkauf vom
Nichteigentuemer, in ZSS 112,
1982, 158 ss.; O. Milella, Il consenso del “dominus” e l’elemento
intenzionale nel furto, in BIDR
91, 1988, 391 ss.; R. Ortu, “Qui venaliciariam vitam exercebat”: ruolo
sociale e qualificazione giuridica dei venditori di schiavi, cit., 92.
[170] In merito all’animus furandi nel frammento di
Papiniano vedi J.A.C. Thomas,
Animus furandi, cit., 18; O. Milella, Il consenso del “dominus” e l’elemento
intenzionale nel furto, cit., 392 s.
[171] I problemi inerenti
all’ambito di applicazione dell’actio
Publiciana in D. 17.1.57, sono
affrontati soprattutto da: P. Apathy,
Die Actio Publiciana beim Doppelkauf vom
Nichteigentuemer, cit., 180.
[172] Cfr. R. Ortu, “Qui venaliciariam vitam exercebat”: ruolo sociale e qualificazione
giuridica dei venditori di schiavi, cit., 92 s. Ma vedi anche R. Ortu, Note in tema di organizzazione e attività dei venaliciarii, cit.,
99 s.
[173] R. Ortu, “Qui venaliciariam vitam exercebat”: ruolo sociale e qualificazione
giuridica dei venditori di schiavi, cit., 92.
[174] Al riguardo vedi C. Nicolet, Il mestiere di cittadino nell’antica Roma, cit., 155 s.; C. Auliard, Les esclaves dans les butins républicains des premiers siécles de la
conquête, in M. Garrido-Hory éd., Routes et marchés d’eslaves, 26e colloque du GIREA,
Besançons 27-29 septembre 2001, cit., 58, la quale sostiene che: «C’est
seulement au IIe siécle que les marchand d’esclaves, les trafiquants
de toutes sortes s’attachent à suivre les armèes romaines».
[175] Sul passo di Livio
vedi C. Auliard, Les esclaves dans les butins républicains
des premiers siécles de la conquête, cit., 63, la quale a proposito dei
mercanti menzionati dallo storico, scrive «Parmi ces marchands, se trouvent
nécessairement des marchands d’esclaves…».
[176] M. Talamanca, Contributi allo studio delle vendite all’asta nel mondo classico,
cit., 156 n. 1.
[177] Cfr. M. Talamanca, Contributi allo studio delle vendite all’asta nel mondo classico,
cit., 156 n. 1.