Vorrei rivolgermi a un problema spesso dibattuto nella dottrina, quello dei
rapporti di Roma con gli alleati italici[1].
Com’è noto, Roma aveva sin dall’epoca dei re delle alleanze con le città
italiche, etrusche e con Cartagine, e i loro rapporti erano regolati con un
sistema di trattati. Ne abbiamo delle notizie negli autori antichi, e, bisogna
subito dirlo, sono notizie affidabili. Il fatto sta che gli scrittori antichi,
Polibio, Livio, Dionigi erano soliti citare o riferire quasi testualmente i
documenti ufficiali, spesso avendoli visti con i propri occhi. Non si può
dimenticare che alcune scoperte dei tempi moderni confermano le notizie degli
antichi a proposito dei fatti di questo genere. A titolo di esempio eloquente
potrei citare gli scavi nella zona della città antica di Pirgi che hanno
confermato i rapporti fra i punici e i romani stipulati nel Primo trattato con
Cartagine.
Mi ci soffermo perché l’affidabilità delle informazioni sulla sopraddetta
categoria di documenti permette un certo grado di sicurezza nella valutazione
degli eventi, dei processi sociopolitici ad essi legati nel corso dell’epoca
regia e repubblicana.
Ma al centro della nostra attenzione sarà situato il periodo fra la prima e
la seconda guerra punica. La scelta del tempo non è casuale perché esso segna
una fase importante della storia romana, tesi riconosciuta da tutti gli
studiosi.
Per comprendere meglio il senso degli eventi storici e delle realtà
giuridiche della fine del terzo - prima metà del II sec. a. C., bisogna
ricordare quale aspetto aveva preso l’Italia nei tempi precedenti.
Fino alla sottomissione dell’Italia ad opera dei romani, il paese non era
uniforme dal punto di vista politico e giuridico. Tutti i suoi abitanti
vivevano nelle comunità, ma erano comunità di diverso carattere. Roma, le sue
colonie dai differenti status, i municipi delle due categorie rappresentavano
le strutture di tipo poliade, il che è stato stabilito ancora nell’ottocento da
N. Fustel de Coulanges[2].
Probabilmente seguendo la stessa tendenza andavano sviluppandosi le
città-stato etrusche. Perlomeno esternamente,
cioè dal punto di vista della topografìa e del regime politico assomigliavano
alle poleis greche e alle civitates italiche, per cui gli autori
greci le chiamavano poleis[3]. Ma se prendiamo in considerazione che il contenuto sociopolitico di tali
forme della convivenza delle persone come città-stato e civitas = polis non è
identico, che in loro la società e la cultura da essa generata si differiscono,
propongo di chiamarle intanto città-stato. Se sarà comprovata l’esistenza in
esse della forma antica classica di proprietà[4], analoga a quella greca e romana, si potrà togliere questa riserva.
Tuttavia le formazioni politiche sia romane sia italiche, sia greche, sia
etrusche, erano delle comunità civilizzate di carattere statale. Oltre ad esse
in Italia si erano conservate delle comunità assai primitive, non giunte all’ordinamento
statale, dei lucani e dei bruttii, e, al Nord, probabilmente quelle dei lìquri
e dei celti che vi penetravano.
La diffusione della vita di polis
nell’Italia centrale e meridionale (dai latini, capuani, greci) è attestata
anche da questo fatto. Quando i romani, in seguito alla prima guerra sannitica
(trecentoquarantatrè - trecentoquarantuno) s’impadronirono della fertile
Campania, i rappresentanti di Seti, Circeo, Signia, e Velletri, dove c’erano
colonie romane, cioè latini, a nome loro, nonché a nome dei volsci, espressero
una protesta contro l’estensione del potere romano (i campani, che paventano i
Sanniti presentano l’eccezione – Liv.
VI.30 – 31.1-4), ma non vi era la contestazione della forma del potere in Roma e in generale dell’organizzazione della vita
di polis[5]. Essa era per tutti loro abituale, comprensibile e naturale. Allo stesso
tempo, i coloni romani, cioè i latini etnici (senza i volsci!) pretesero
praticamente all’inclusione (e più precisamente, al ritorno) nella civitas romana in entrambi i sensi di
questa parola. Se teniamo presente che la civitas
significa un insieme dei fondamentali diritti politici e patrimoniali dei
cittadini e, allo stesso tempo, il collettivo civile, risulta che gli abitanti
delle colonie summenzionate di antica fondazione non si sentivano romani,
facevano parte di altre, seppur analoghe, comunità civili e aspiravano a
reintegrarsi in quella romana[6].
Alla stessa serie di fatti appartengono ancor altri eventi. Alla fine della
seconda guerra sannitica (307 -
Un altro atteggiamento verso la civitas
romana da parte degli abitanti dell’Italia si manifestò nella colonizzazione del
secondo secolo avanti Cristo. Gli autori antichi ci forniscono un materiale
abbondante che permette di trarre una conclusione sull’assoluta preminenza
delle colonie di cittadini rispetto a quelle di diritto latino. Tenendo conto
di una possibile variabilità nei calcoli, si può dire che solo un terzo delle
colonie aveva il carattere di diritto latino.
La maggioranza degli studiosi, a partire da Th. Mommsen, K.-Ju. Beloch, E.
Pais, T. Salmon, F. M. Nečaj, hanno sottolineato l’importanza strategica,
militare del processo di colonizzazione nella Roma dei primi tempi, compreso il
II sec. a. C., soprattutto per quanto riguarda le colonie costiere. E non è il
caso di negarlo. Rudolf, al contrario, evidenziava l’importanza crescente nel
II sec. a.C. del fattore agrario nella fondazione delle colonie romane.
Evidentemente, anche la necessità di assegnazioni per Roma è indubbia. Ma la
distribuzione delle terre fra i cittadini era un fattore permanente dello
sviluppo sociale di Roma, significativo non solo per il II secolo. Nello stesso
tempo non è sfuggito all’attenzione degli studiosi un particolare proprio della
società romana del II sec. a.C.: nelle colonie dei cittadini romani si
assegnavano dei piccoli appezzamenti da
Senza rigettare completamente l’aspetto agrario nella spiegazione del fatto
della fondazione nel II sec. prevalentemente delle colonie di diritto latino,
F. M. Nečaj[9]
ha avanzato la seguente tesi. I piccoli appezzamenti nelle colonie di cittadini
erano soltanto degli orti attigui all’abitazione. La carenza di terre, invece,
era compensata con l’occupazione di una parte dell’ager publicus. Però secondo i dati degli agrimensori romani, le
terre collettive (boschi, pascoli), nonché quelle pubbliche, cioè appartenenti
a tutti i coloni, ovvero l’ager publicus locale, erano possedute
dalle colonie indipendentemente dal loro rango. In tal modo nessuna delle
spiegazioni avanzate sulla differenza nelle dimensioni degli appezzamenti nelle
colonie di rango diverso sembra definitiva e convincente. A mio avviso, pare
che per la soluzione del problema bisogni prendere più in considerazione il
contesto storico generale.
Il fatto sta che Roma, venendo alla ribalta della storia mediterranea,
accrescendo la potenza militare, diventò uno Stato grande e molto forte. E
questo si rifletté nell’immagine del cittadino romano. Il modesto agricoltore e
al tempo stesso guerriero era rimasto nel passato. Ora egli avanzava sicuro, di
battaglia in battaglia, sottomettendo la temibile Cartagine, il regno macedone
e quello dei Seleucidi, dominando sulle isole e sulle coste dei tre continenti.
Queste grandi guerre arricchivano sensibilmente non solo i comandanti, ma anche
i soldati, arruolati sia nelle legioni, sia nelle unità degli alleati socii. Tutti i militi, a seconda della
truppa e del rango professionale si arricchivano con la preda in forma di
rimunerazione monetaria. Ma era appunto nella sfera delle conquiste che i soci
romani si sentivano discriminati. Bisogna tener presente che tutti i coloni nel
territorio italiano che godevano del diritto latino si trovavano per la loro
posizione di fatto al livello di soci, pur essendo più privilegiati degli
altri.
Chi si trovava nelle spedizioni lontane, era a lungo assente dalla casa con
la sua rudimentale economia che soddisfaceva i modesti bisogni di un italico.
Si manifestò la tendenza alla creazione di uno strato di veterani nell’esercito
romano. E i veterani, carichi di preda e stanchi, volevano tornare a casa. Ma i
primi ad ottenere il licenziamento erano i romani, perfino gli alleati latini
rimanevano di più al servizio.
È noto che come premio i militi ricevevano terra in Italia. Ciò si riferiva
ai romani e ai cittadini latini (Liv. XLII.4). Ma queste rimunerazioni non
erano uguali: le parcelle dei cittadini romani superavano tre volte quelle dei
militi di diritto latino. I premi distribuiti dal capo militare erano
rispettivamente due volte più grandi (Liv. XLI. 13. 8). Durante il servizio
anche i militi in possesso del diritto latino subivano, a differenza dei
romani, delle pene umilianti (Plut. G. Gr. 9). Vi erano dei casi di
discriminazione dei latini, nel senso lato, nella sfera sacrale (Liv.
XXXII.1.9), non gli veniva assegnata la quota sufficiente della carne
dell’animale sacrificato. Questo status difettoso delle persone di diritto
latino, per non parlare di quelli appartenenti alla classe dei socii, provocò, nel II sec. a. C., un’ondata
di migrazioni a Roma con lo scopo di passarvi il censimento e di diventare
cittadini romani.
Nel caleidoscopio dei fatti citati si delinea l’importanza dell’istituto
della civitas romana in confronto con
le altre strutture di tipo poliade in Italia. Con la sostanza giuridica
immutabile della civitas romana si
intravvede una tendenza alla sua trasformazione in quanto collettivo della
comunità civile, caratterizzata dal carattere chiuso, autarchico e autonomo.
Proprio quest’ultimo tratto verrà perduto dalla civitas romana in seguito alla guerra sociale, ma il contenuto
giuridico della comunità civile romana persisterà. Verranno modificate, nel
corso della storia, le civitates
italiche e le poleis greche
dell’Italia. Esse acquisteranno i diritti della cittadinanza romana, ma non
riavranno mai quel tratto così proprio della comunità civile antica classica,
com’è l’autonomia. Un fattore stimolante di questi mutamenti furono le guerre
puniche e quelle successive nel Mediterraneo orientale. In questa maniera le strutture poliadi in Italia non
furono perdute, ma rimasero in vita in una versione modificata.
[1] Tra le più importanti indicherò le opere seguenti: A. Afzelius, Die römische
Eroberung Italiens // Acta Jutlandica. XIV. Kobenhavn 1942; K.-J. Beloch, Campanien,
Berlin 1879; K.-J.
Beloch, Der
Italische Bund unter Roms Hegemonie, Leipzig 1880; A. Biscardi, I cives sine
suffragio, in Athenaeum, n.s.
[2] Фюстель
де Куланж Н. Д.
Гражданская
община
античного
мира, рус. пер.
Корша, Москва
1867. E. Kornemann, Polis und Urbs, in Klio 5, 1905; H. Rudolph, Stadt und Staat im römischen Italien, Leipzig 1935; E. Manni, Рer
[3] Dionys. I.18.5; 21.4; 24.2; 25.3; 26.2; 41.1; 47.3; 49.4; 54.1;
II.3.1; 6.1; V.1.3, passim.
[4] Маркс
К. Формы,
предшествующие
капиталистическом
производству,
в Маркс
К и Энгельс Ф.
Сочинения, т.
46. ч. 1. Маяк
И. Л. Pимляне
Ранней
Республики,
Москва 1993.
[5] Liv. VIII.11.13; 13.8; 14.1-4; IX.16.2 et 6-8; 37.12. И. Л. Маяк, Взаимоотношения
Рима и
италийцев в III-II вв. до н. э.,
Москва
[6] A. Toynbee, Hannibal’s legacy (con altra argomentazione): Маяк И. Л. Взаимоотношения… In particolare il cap. 1. Eadem. Характер
и роль colonia Romana в
распространении
римской
власти на
Апеннинском
полуострове, в
ВДИ, 3 1956.
[9] F. Nečaj (Нечай Ф. М. Рим и италики, Минск 1963, 70) si
oppose alla tesi di Rudolph (H. Rudolph, Stadt und Staat…) che la colonizzazione del
secondo secolo a.C. avesse come scopo solo le assegnazioni delle terre. Secondo
F. Nečaj, ebbe un’importanza decisiva l’aspirazione della nobiltà romana a
fissare il dominio sui popoli d’Italia sottomessi.