Da Salamanca allo Yucatan. Itinerari storico-giuridici del bellum iustum
Sommario:
1. Premessa. – 2. Justa guerra. Variazioni su tema nelle aule di
Salamanca. – 3. Un’eco
italiana. Il Tractatus di Marquardo
de Susannis.
La
dottrina giusinternazionalista elaborata nelle aule dell’università di
Salamanca da tre generazioni di “teologi-giuristi”, nel corso del XVI e del
XVII secolo, rappresenta il lascito più celebrato e discusso della Seconda
Scolastica spagnola (a scapito, forse, del contributo ‘giusprivatistico’)[1].
Di
tale speculazione, la riflessione de
iusto bello, sulla quale si era a lungo affaticata la dottrina dei
‘legisti’ e dei ‘canonosti’, rappresenta il cuore[2].
Fu
la “guerra giusta” il vero principio, il valido titolo giuridico sul quale si
fondarono le conquiste del Nuovo Mondo. La guerra contro gli indios,
sostanzialmente riconosciuta iusta
dalla speculazione teologica e giuridica spagnola -pur a diverso titolo e con
differenti sfumature- non costituì l’accidente, il momento 'patologico'
dell’impresa castigliana, bensì la sua causa giustificatrice, l’elemento
'fisiologico'.
La
maggior parte degli “intellettuali” del tempo, chiamati a sciogliere las dudas de conciencia suscitati dalla Conquista, finì per ratificarne la iustitia[3].
Fu
appunto per risolvere la questione se
La
prima justa causa di guerra presentata
nel dialogo (quella sulla quale l’umanista più insisteva), infatti, era
costituita dalla natura “servile” degli indios; questi erano «natura servi» nell’accezione aristotelica[6]
e, pertanto, ne era opportuna la sottomissione forzata da parte dei «domini natura», ovvero «qui prudentia valent et ingenio» (i
castigliani). Le altre “giuste cause” di guerra contro gli indios erano
rappresentate dai loro «peccata contra legem naturalem», dalla necessità
di salvare le vite degli innocenti sacrificati nei riti idolatrici e
dall’opportunità di diffondere la fede cristiana.
Sei
anni dopo, davanti alla giunta di Valladolid, Sepúlveda cambiò ordine di
argomentazione, conferendo maggiore importanza alle ultime tre cause. La
circostanza, talora trascurata dalla storiografia, è invece significativa, a
cagione delle specifiche ragioni che la sottintendevano. Se all’inizio del
quarto decennio del ‘500,
La
disputa di Valladolid, in sostanza, registrava un significativo revirement nella dottrina
giuridico-morale dell’era moderna: la natura servile degli indigeni come justa causa ad bellum, pur mantenendo
autorevoli sostenitori (ad esempio il canonista Diego de Covarrubias y Leiva),
stava tramontando; altri argomenti erano addotti in sua vece[8].
La
schiavitù, da causa giustificativa di un bellum
iustum, passava a diventarne un effetto: forse non era lecito combattere
gli indios in quanto tali (perchè “natura servi”), ma era certamente legittimo,
de iure communi, catturarli e ridurli
in schiavitù dopo aver combattuto contro essi una “guerra justa”. La schiavitù naturale cedeva il passo alla schiavitù
legale; si trattò di una svolta silenziosa, operata quasi in vitro con strumenti tecnici (giuridici), ma fu una svolta
epocale.
Il bellum iustum, dunque, rappresentò il
grimaldello con il quale i conquistadores
violarono il forziere del Nuovo Mondo e si impossessarono en buena conciencia delle sue preziose res.
Qualora
fosse venuto meno questo principio sul quale far leva, non sarebbe stato
possibile legittimare
Se
all’esito della riflessione sollecitata dalla duda sulla Conquista, il bellum adversos insulanos non fosse
stato considerato iustum alla stregua
dei principi giuridici condivisi, la corona castigliana non solo non avrebbe
potuto conquistare il Nuovo Mondo in buena
conciencia, ma avrebbe rischiato l’accusa di tirannia, con conseguenze
gravissime sul piano giuridico e politico.
Tutto
ciò rende opportuno richiamare, per sommi capi, quali fossero le linee portanti
della dottrina teologico-giuridica spagnola sul bellum iustum[10].
La
riflessione de bello di Francisco de Vitoria presenta
difficoltà di non poco conto; lo stesso Vitoria, del resto, ammonisce
esplicitamente il proprio lettore, avvertendolo che le sue pagine in argomento non intendevano
sciogliere tutti i numerosi dubbi nutriti dal teologo[11].
Sebbene
la maggior parte degli studi dedicati allo ius
belli di Vitoria -come si è ricordato- si basa soltanto sulle due celebri Relectiones de Indis, è opportuno
considerare anche i Comentarios alla Secunda Secundae e
In
Vitoria la distinzione tra guerra difensiva e guerra offensiva, ancora incerta
nella dottrina tomista[13],
risultava ormai netta[14].
Nulla quaestio sulla liceità della
prima. La guerra offensiva, invece, è legittimata da Vitoria in presenza di tre
requisiti, formulati sul ricalco di quelli aristotelici: dichiarazione da parte
dell’autorità legittimamente preposta al governo dello Stato[15];
justa causa, che egli identificava
con l’ingiuria ricevuta[16]
e, infine, recta intentio del
principe, che deve agire «tamquam iudex», limitandosi al recupero del maltolto
ed alla moderata punizione dell’iniura
subita, senza eccedere in violenze[17].
Con
Vitoria, infatti, il punto focale della dottrina giuridica de bello comincia a spostarsi sulle modalità con le quali il bellum iustum deve essere condotto,
aspetto sul quale Vitoria molto insistette (dedicandovi anche
Nel valutare
concretamente le ipotesi di “giusta causa”, Vitoria affrontava, nella Relectio de Temperantia, la questione se
i prìncipi cristiani possano, per autorità propria o delegata dal Pontefice,
muovere guerra a quei popoli che commettono delitti contra naturam. Egli si riferiva ad un caso specifico: la pratica
dell’antropofagia e dei sacrifici umani ai quali erano dediti gli indios dello
Yucatan[18];
ma, evidentemente, era in gioco una delle principali cause di guerra giusta
invocate nella Conquista.
La risposta al
quesito era affermativa per la maggior parte dei doctores, a cominciare dal grande commentatore di S. Tommaso, il
Gaetano[19].
Vitoria, nel testo della Relectio de
Temperantia che ci è stato restituito, formulò senza indugi una risposta
con egli accoglieva sostanzialmente l’opinio
communis. Le tredici Conclusiones
nelle quali il maestro articolò la de
Temperantia assumevano quale punto focale la relazione intercorrente tra
indios e spagnoli; questi ultimi, in linea di principio, non possono muovere
guerra per punire i crimina contra naturam dei primi, in quanto solo
i principes che li governano ne hanno
l’auctoritas[20].
Nondimeno,
Vitoria, alla luce delle Sacre Scritture, giustificava nella Quinta Conclusio la guerra mossa contro
coloro che «vescuntur carnibus humanis et sacrificant homines»[21].
E ciò, indipendentemente da una richiesta di aiuto delle vittime[22].
Inoltre,
egli affermava en passant che «aliae
possunt esse rationes inferendi bellum barbaris», come il rifiuto di ricevere i
«praedicatores fidei», e «aliae justae causae belli»; tuttavia dichiarava di
non volerne trattare[23],
rimandando implicitamente la questione ad altra occasione, che coglierà ed
espliciterà nella Relectio de Indis.
Dunque,
almeno due anni prima di quest’ultima, Vitoria già frequentava la fitta schiera
di teologi e giuristi che argomentavano la sussistenza del bellum iustum condotto contro gli indios cannibales o provocato dalla mancata accoglienza degli
evangelizzatori, anticipando in tal modo la dottrina che avrebbe formulato nel
1539[24].
Nella
Relectio prior de Indis, come è
ampiamente noto, Vitoria demoliva i tradizionali sette titoli di possesso
invocati dai giuristi all’alba della Conquista
per legittimare la guerra contro gli indios, proponendone altrettanti,
informati soprattutto all’utilitas
oeconomica (come il primus titulus,
relativo al diritto di transito e di commercio) ed all’avvenuta conversione (dal diritto di proteggere l’azione
missionaria a quello pontificio di istituire principi cristiani sugli indios
convertiti)[25].
Vitoria, poi, vi aggiungeva l’appendice di un possibile ottavo titolo (“alius titulus”), relativo allo stato di
minorità degli indios, il loro essere privi di ragione (“amentes”).
Era,
questo, uno degli “argomenti forti” dei sostenitori della Conquista, che Vitoria, pur con insistita incertezza (dichiarando
di non osare esprimere su di esso un giudizio definitivo[26]),
dimostrava di poter sostanzialmente condividere[27].
Va
evidenziato, inoltre, come il diritto di intervento bellico (“umanitario”,
diremmo oggi) a difesa degli innocentes
trovasse applicazione non solo riguardo ai sacrifici umani nei riti idolatrici,
ma anche «propter tyrannidem suorum dominorum vel propter leges tyrannicas in
iniuriam innocentium», a nulla ostando l’eventuale acquiescenza delle vittime[28].
Anche
la tirannia dei capi indigeni o delle loro leggi, dunque, costituiva un legitimus titulus ad bellum adversos indios;
quanto frequente ne sia stata l’applicazione lo si deve al tenore delle Historias verdaderas e delle Cronache
ufficiali, le quali descrivevano gli abominevoli costumi e le aberranti norme
religiose dei popoli indigeni.
Vitoria
formulò in tal guisa le ipotesi (di ampia portata) nelle quali poteva
considerarsi justum il bellum condotto contro gli indios, e
«comportarsi nei loro confronti come se si trattasse non di innocenti ma di perfidi
nemici, e trarne tutti i diritti di guerra, saccheggiare le loro terre e
ridurli in prigionia, deporre i loro capi e istituirne di nuovi», pur senza
derogare i limiti della moderazione imposti dallo ius in bello[29].
Non deve, poi,
passare inosservata la circostanza che vide Vitoria tra i primi commentatori di
S. Tommaso pronti a giustificare esplicitamente la guerra “offensiva
preventiva”, assente nella riflessione dell’Aquinate[30]
(ma in nuce presente nello ius commune[31]).
Un Vitoria pacifista, nel senso proposto da certa parte della storiografia
politica e giuridica, non mi sembra possa darsi a vedere[32].
Piuttosto,
altri sono gli spunti veramente innovativi delle sue annotazioni de bello, che, sovrappostisi nella
storiografia contemporanea all’impianto complessivo del suo pensiero, ed
utilizzati per la costruzione di una dottrina sistematica quale probabilmente
egli stesso non volle azzardare, hanno determinato una visione non sempre
bilanciata dello ius ad bellum nella Conquista, edulcorandone l’incidenza
legittimista.
Vitoria
rivela una profonda attenzione nei confronti della dimensione psicologica del bellum iustum, che egli esprime sotto un
duplice profilo. In primis, il
teologo sancisce, pur con qualche oscillazione, il diritto (rectius: dovere) di obiezione di
coscienza: «si subdito constat de iniustitia belli, non licet ei militare etiam
de praecepto principis»[33],
discostandosi in tal guisa dall’opinio
communis canonistica, fondata sul dictum
di Graziano[34].
Inoltre,
abbattendo l’inferenza logica dell’Ostiense, secondo il quale se uno dei
belligeranti è nel giusto, necessariamente l’altro versa nel torto[35],
Vitoria in più occasioni ammetteva la possibilità che la guerra sia “giusta”
per entrambi i contendenti: colui che ha la «vera iustitia» e colui che ignora
di essere nel torto[36].
Non si dà più, in altri termini, un criterio oggettivo o absolutum, una justa causa
che funga da invalicabile confine tra chi è in torto e chi in ragione.
Tale
assunto, che in Vitoria è ancora intriso di valenza sprirituale (egli non
rinuncia alla ricerca della “vera iustitia”), verrà portato alle estreme
conseguenze dalla successiva riflessione giusnaturalista, nella quale si
indagherà non più sui parametri in base ai quali valutare chi sia la pars bellum iustum movens, bensì sui
requisiti formali della (appunto) “guerre en forme” tra parti poste sul
medesimo piano. Va segnalato, infine (senza poterne segure le implicazioni
teoriche, le quali ci allontanerebbero dal nostro discorso) che l’opera di
Vitoria accenna alla pregnante presenza di una “comunità internazionale” («totius orbis»; «civitas maxima») come luogo privilegiato per la composizione dei
conflitti[37].
Mi
sembra, tuttavia, che tali aspetti abbiano suggestionato più gli studiosi
odierni che i giuristi ed i letrados
coevi. Pur con l’annunciata prudenza, Vitoria formulò otto tituli legitimi in virtù dei quali
L’innegabile
derivazione della dottrina vitoriana dalla cultura teologico-giuridica
medievale, attestata anche dal fitto richiamo alle opiniones della canonistica, permise ai contemporanei di percepire
Vitoria come una delle auctoritates
allocate nell’alveo della tradizione di ius
commune, e di affiancarne spesso – con disinvoltura, ma non con superficialità
– l’opinio a quella dell’Ostiense[38].
A
sbilanciarsi in termini più espliciti sul problema della guerra giusta nel
Nuovo Mondo fu il Covarrubias[39]. Egli si cimentò
ex professo nella questione De iustitia belli adversus Indios, che
risolveva, sulle orme di Aristotele, intersecando i profili della guerra giusta
con quelli della schiavitù.
Covarrubias,
infatti, si pronunciò nel senso della legittimità della guerra in nome della
civilizzazione e dell’evangelizzazione dei “barbari” indios; costoro, se
riconosciuti «cattivi per natura» (mali
intentione naturae), possono essere puniti de jure gentium con la prigionia di guerra e la riduzione in
schiavitù[40].
Sulla
falsariga del principio aristotelico in forza del quale i più sapienti devono
governare gli incapaci[41],
egli giustificava il ricorso alle armi
contro coloro che, nati per essere governati, rifiutassero di porsi sotto
l’autorità dei sapientes: era lo stesso diritto di natura che
qualificava un bellum come 'iustum'[42].
La
guerra intrapresa «ad utilitatem» di popoli incivili doveva tendere «non tamen ad eos puniendos», quanto
piuttosto «ad eos in moribus corrigendos»;
in questo senso Covarrubias affermava che, qualora essi si ribellassero e
dovessero venire uccisi “per il bene di ogni comunità”, il bellum iustum che ne fosse derivato «non tamen erit proprie bellum,
sed correctio»[43].
Covarrubias, in
definitiva, era il paladino dell’opinio
che, a sequela dell’auctoritas
aristotelica riformulata alla luce della lex
Christi, giustificava la guerra indetta per assogettare un popolo di natura servi, incapaci di
autogovernarsi.
Sullo
sfondo di questa teoria egli allocò l’esplicito riferimento alla Conquista spagnola[44].
La
dottrina spagnola de iusto bello si
arricchì in misura considerevole con il contributo del grande teologo Luis de Molina. Questi,
infatti, dedicò nel trattato De iustitia
et iure ampio spazio al tema della guerra giusta[45]
e la sua indagine de bello si
distingueva per molti aspetti di rilevante interesse.
In primis egli rivendicava
la dimensione giuridica dell’argomento: la questione del bellum iustum era attinente ai principi della giustizia ancor prima
che a quelli della teologia e, conseguentemente, di essa si deve argomentare sub specie juris[46].
La circostanza che fosse proprio un teologo a rivendicare la specificità
giuridica della dottrina sulla guerra giusta costituisce uno dei numerosi
aspetti affascinanti ed accattivanti che riserva
Molina
non considerava l’idolatria degli Indios una causa sufficiente per muover loro
una giusta guerra; ma quando essa comportava sacrifici umani o rituali
cannibali, il bellum contro essi era
senz’altro iustum, anche in assenza
di un’autorizzazione pontificia[48].
Tale
ipotesi di giusta causa ad bellum -
sulla falsariga dell’auctoritas di
Vitoria, espressamente richiamato- si dilata: dai sacrifici umani e dal
cannibalismo si passa ad altri ingiusti comportamenti delittuosi ('alio modo iniuste'), fino
all’oppressione esercitata con leggi tiranniche[49].
Il
ventaglio delle circostanze che rendevano opportuno un intervento bellico a
tutela degli innocentes si faceva,
dunque, assai ampio, e l’ipotesi rappresentata dalle leggi tiranniche indigene
diventava una vera e propria clausola generale residuale di amplissima
applicazione, anche in considerazione della distanza incolmabile tra i sistemi
normativi delle due civiltà a confronto.
Vale,
infine, la pena rilevare che nella disamina delle justae causae belli, Molina operava una distinzione all’interno
della categoria dell’iniuria,
contrapponendo alla «iniuria formaliter» (l’ingiustizia cui tradizionalmente si
riferisce la dottrina de iusto bello)
una «iniuria materialiter», perpetrata
«sine culpa», per errore o ignoranza invincibile. Entrambe costituiscono
un’oggettiva giusta causa di guerra[50],
ma la parte che si trovasse ad aver commesso un’iniuria materialiter era da considerarsi soggettivamente «non iniusta».
Molina sembra ammettere in proposito che «bellum illud ex utraque parte fuisse
iustum»[51].
La divaricazione tra un criterio “oggettivo” ed uno “soggettivo” per
determinare il carattere giusto o ingiusto della guerra, rappresentava senza
dubbio uno snodo cruciale nella storia del bellum
iustum: essa apriva la possibilità di configurare una “guerra giusta”
(soggettivamente) per entrambe le parti; il che vuole anche dire che una
“guerra giusta” (oggettivamente) non esiste[52]
.
In
Molina la ricerca di un regime di iustitia
sembra inferire più allo ius 'in
bello' che allo ius 'ad bellum',
come dimostrano le raccomandazioni sul modo in cui devono comportarsi i bellantes che intervengono per difendere
gli innocenti[53].
Anche
Francisco Suárez
scrisse pagine importanti sull’argomento di nostro interesse, in
particolare nei due trattati De bello
e De charitate[54].
Dopo
aver ribadito il requisito dell’iniuria[55],
e aver distinto la guerra difensiva dal bellum
aggressivum[56],
egli riconosceva iusta la guerra
offensiva intrapresa per difendere gli innocenti dalla violenza o
dall’ingiustizia[57],
affiancando in tal modo la propria autorevole opinio a quella del Gaetano e di Vitoria. Va precisato che Suárez
considera «lecito attaccare gli infedeli in difesa degli innocenti» alla luce
della legge della carità[58],
che vale per tutti gli uomini, e non in nome della evangelizzazione. Inoltre,
il bellum è iustum ad una condizione precisa: che gli omicidi per i quali si
intende intervenire con le armi siano iniusti. Altrimenti, qualora i
sacrificati siano «giustamente condannati a morte, gli infedeli non potranno
essere attaccati per questo titolo», in quanto gli indios «peccheranno in
questo caso non già contro la giustizia, ma unicamente contro la religione»,
circostanza nella quale «viene così meno la difesa degli innocenti»[59].
Si
deve ricordare, infine, che Suárez rilanciò esplicitamente, da un lato,
l’approccio giuridico-economico (inaugurato da Tommaso Moro e da Vitoria) al
tema del bellum iustum, confermando
nel De bello la violazione dei
diritti fondamentali di commercio e di transito quale iusta causa belli[60],
e, dall’altro -soprattutto nel De
charitate- l’opportunità di porre le gentes
che vivono in stato di “minorità” sotto la tutela di un popolo “civile”. La
protezione di questo era da Suárez intesa come un dovere caritatevole nei
confronti di un popolo fanciullo, che doveva essere educato e portato al giusto
grado di civilizzazione e di emancipazione.
Mi sembrano
alquanto significative, da una parte, la puntualizzazione formulata da Molina
sull’irrilevanza dell’autorizzazione pontificia all’intervento bellico
“umanitario”, e, dall’altra, la contrapposizione in Suárez tra giustizia e
religione, tra carità ed evangelizzazione.
Il
diritto-dovere dei principi cristiani di convertire gli infideles in forza di un’investitura del Pontefice, a sua volta
radicata nella iurisdictio di
quest’ultimo quale dominus mundi,
viene progressivamente sostituita dall’ideale di una lex naturalis, di un’unica iustitia
vigente da una parte e dall’altra del gran
Mar Oceano, vincolante per tutti gli uomini, senza distinzione di religio. Legge naturale il cui braccio
armato era il sovrano, ormai sciolto dall’auctoritas
pontificia.
Se
il frate francescano Motolinìa riaffermava il principio agostiniano del compelle intrare, ovvero della
conversione forzata degli indios, giacchè «más vale bueno por fuerza que malo
por grado», il teologo domenicano Juan de
A
legittimare pleno iure l’impresa
castigliana nel Nuovo Mondo sarà l’utilitas
oeconomica (quello stesso concretissimo valore rivendicato nell’Utopia di
Tommaso Moro), che rappresentava il contenuto dello ius communicationis nelle sue declinazioni (diritto di transito, di
commercio, di approvigionamento ecc.), e che era tutelata dallo ius naturale e dalla sanzione del bellum iustum.
I
giuristi spagnoli impegnati in quella grandiosa operazione culturale volta a
legittimare
Quanto tale esegesi sia stata foriera di
risultati e di applicazioni pratiche è dato rilevare da un passo della Politica Indiana dello stesso Solorzano,
nel quale sono condensati pressochè tutti i principii e gli istituti giuridici
in giuoco nella questione delle Indie[62].
L’evangelizzazione, il principio del bellum iustum, l’intervento bellico in forza di un’alleanza[63],
i trattati de iure gentium e lo ius commune sono fusi in un unico argumentum iuris in virtù del quale
viene legittimata la guerra spagnola nel Nuovo Mondo.
La
trattatistica italiana del XVI non restò del tutto estranea alla riflessione de
iusto bello relativa alla Conquista
delle Indie, espressa dalla Scuola di Salamanca. Fu il giurista friulano Marquardo
de Susannis[64]
a diffondere nella cultura giuridica della penisola la questione «Utrum bella per hispanios mota contra
barbaros quos Indos vocamos fuerint licita et de eorum coactione ad fidem
catholicam»[65].
L’interrogativo
sulla legittimità della guerra riceveva dal giureconsulto udinese una sicura
risposta affermativa, argomentata sul calco dell’Apologia pro libro de iustis belli causis di Sepúlveda (non a caso
una della auctoritates di riferimento
del giurista, seconda soltanto all’Ostiense) e dei quattro argomenti ivi
riassunti (peccata contra naturam, natura servile, difesa degli innocenti e
predicazione evangelica).
Dopo
aver presentato le tesi contrarie alla guerra di conquista nel Nuovo Mondo,
Marquardo le chiosa in senso contrario[66].
Lo
statuto morale attribuito dal giurista friulano agli indios è senza dubbio
assai vicino a quello dei natura servi
di Aristotele (e di Sepúlveda) [67].
È interessante rilevare come egli operasse in proposito una precisa selezione
delle fonti utilizzate: l’aver privilegiato l’Apologia, a totale discapito del Democrates alter, risponde ad una precisa logica argomentativa.
In
primo luogo, il Democrates era andato
incontro, in Spagna, ad una censura che ne aveva inibito nel 1547 la
pubblicazione[68],
e la circostanza era di per sé sufficiente a renderlo inutilizzabile da parte
di un autore vicino al vertice della Chiesa.
Ma
forse ciò che indirizzò la scelta di Marquardo era la diversa argomentazione
formulata nei due scritti dell’umanista. Nel Democrates alter, pur a malincuore, Sepúlveda riconosceva
l’esistenza nel Nuovo Mondo di legittimi señores
indigeni, titolari di un dominium
originario («ubi natura servis paolo intelligentiores praeficiebantur»), inteso
sia come sovranità politica che come proprietà di beni, del quale,
successivamente, erano stati spogliati dai conquistadores
legitime, ovvero in seguito al bellum iustum.
Nell’Apologia, invece, l’umanista recuperava
le tesi di Enrico da Susa[69],
corroborandole con il pensiero di John Mair[70],
secondo il quale l’avvento di Cristo aveva caducato ogni iurisdictio ed ogni dominium
in capo agli infideles. Lo statuto
giuridico dell’indio era in tal modo del tutto svuotato. Marquardo condivideva
appieno la posizione dell’Ostiense sulla suprema iurisdictio papale sugli infideles, e sul punto la sua opinio è categorica[71].
Il
giureconsulto udinese non osava affermare esplicitamente ciò che pensava,
ovvero che la mera infidelitas può
rappresentare una iusta causa ad bellum,
opinio ormai minoritaria; tuttavia,
configurando l’idolatria come titulus
legitimus per indire una “guerra giusta”, perviene in pratica al medesimo
risultato[72].
Si noti: non “guerra giusta” per ridurre in schiavitù, ma riduzione in
schiavitù a seguito del bellum iustum.
Infatti, sostiene Marquardo sulla scorta dell’opinio magis communis attestata da Bartolo[73],
nel caso che i principi cristiani avessero vinto e catturato in iusto bello nemici infideles, questi ultimi potevano legitime diventarne gli schiavi;
circostanza che, al contrario, nel caso in cui i prigionieri fossero christiani, non era riconosciuta
legittima, bensì «ad ignominiam totius fidei christianae».
Risulta
assai interessante, per la nostra prospettiva, il richiamo operato da
Marquardo, a sostegno delle proprie tesi, all’auctoritas di Vitoria[74].
Accreditare
l’opinio del maestro di Salamanca a
difesa delle sue ragioni rappresentava, per Marquardo, un’operazione esegetica
certamente non imparziale, ma neppure troppo temeraria: gli agganci testuali
c’erano, e Vitoria troverà a lungo ospitalità negli elenchi delle auctoritates evocate dai sostenitori, doctores e letrados, della Conquista.
Ma
con Marquardo siamo tornati sul Vecchio Continente; lo ius commune, salpato da Salamanca e giunto nello Yucatan, ha
compiuto il suo viaggio di ritorno.
[1] Recentemente Birocchi I., Juan Ginés Sepúlveda internazionalista moderno?, Una discussione sulle
origini della scienza moderna del diritto internazionale, in Aa. Vv., A Ennio Cortese, I, Roma 2001, 81-
Tra la vastissima
bibliografia di lingua spagnola sulla “Escuela
de Salamanca” mi limito a segnalare, senza pretesa di completezza, alcuni
tra gli studi più significativi per la prospettiva che ci riguarda. Innanzi
tutto, per un inquadramento generale, si veda il ponderoso lavoro di J. Belda Plans,
Nella
storiografia italiana, per un inquadramento generale vedasi ancora Giacon C.,
Sotto il profilo
‘giusprivatistico’, va rammentato che, in tempi ormai non recenti, un
importante incontro di studi dedicato a “
[2] Si deve rilevare
la mancanza, nella storiografia giuridica, di un’indagine dedicata allo
sviluppo del concetto di ‘guerra giusta’. Sul punto mi permetto di segnalare le
linee di ricerca proposte in A.A. Cassi Dalla santità alla criminalità della
guerra. Morfologie storico-giuridiche del bellum iustum, in Seminari di Storia e di Diritto, a cura
di A. Calore, Milano 2003, 101 ss. ed alle indicazioni bibliografiche ivi
segnalate; sul bellum iustum nella Conquista mi si consenta di rinviare a
Ius commune tra Vecchio e Nuovo Mondo.
Mari, terre oro nel diritto dei conquistadores, Milano 2003, 273 ss. Dai
due scritti citati ho tratto alcune delle riflessioni che seguono, e ad essi
rinvio per ulteriori indicazioni in argomento.
[3] «Haec conclusio satis
patet, quia si licet bellum indicere, ergo etiam iura belli persequi […]. Sed
haec omnia licerent adversus christianos, si semel esset iustum bellum. Ergo
etiam licent adversus illos [indios]»: Sono le parole con le quali Vitoria
chiosava la qualifica dello ius
communicatonis come titolo legittimo di guerra giusta contro gli indios
(cfr. infra nel testo): Vitoria, Relectio de Indis, I, 3, 7
(ed. ‘Relectio de Iindis’ o libertad de los Indios Madrid 1967, Corpus Hispanorum de Pace [d’ora in poi solo CHP] vol. V,
86).
[4] Cfr. Archivo General de Indias, Indiferente General
[5] La bibliografia sulla
disputa è copiosa; cfr. le indicazioni fornite in Ius commune tra Vecchio e Nuovo Mondo, cit., 61 ss.
[6] Aristotele, Politica I, 3. Sul punto vedasi Goldschmidt
V., La teoria aristotelica della
schiavitù e il suo metodo, in AaVv., Schiavitù
antica e moderna, a cura di L. Schirollo,
Napoli 1979, 186 ss. Cfr. anche Brams J.,
La riscoperta di Aristotele in Occidente,
Milano 2003.
[7] Cfr.
[8] Accanto ai tre
argomenti sui quali Sepúlveda basò la propria discussione avanti la giunta di
Valladolid, un altro titolo era destinato ad acquisire crescente adesione:
quello relativo alla tirannia dei capi indiani. La guerra mossa contro costoro,
infatti, era in re ipsa “giusta”.
Tale titolo ad bellum iustum, già
accreditato nella prima metà del ‘500 dallo stesso Vitoria (si tratta del quintus titulus legitimus: «Aliud
titulus posset esse propter tyrannidem vel ipsorum dominorum apud barbaros vel
etiam propter leges tyrannicas in iniuriam innocentium […]»; Relectio de indis, I, 3, 14; CHP V,
93-94), sarà al centro dell’operazione politico-culturale pianificata dal viceré
Francisco de Toledo a partire dal 1571, quando conferì al cosmografo Gamboa
l’incarico di dimostrare la tirannia dei capi inca.
[9] «Se Su Mag. es señor de las tierras del reino de Castilla,
por habellas conquistado con justa guerra, no lo es de las tierras destos
reinos, pues no los hubo por justa guerra; y si de otra manera lo hicieria,
fuera tirania»; cfr Representación hecha
por el licenciado Falcon en Concilio provincial de Lima”, Biblioteca
Nacional Madrid, Ms.3042, cit., fols. 220-223 v. (anche in CHP, vol. XXVII,
178). Anche Bartolomé de Las Casas evocava l’idea di una guerra tirannica: cfr. Bartolomé de Las Casas, Del Unico Modo de atraer a todos
los pueblos a la verdadera religion, Mexico 1975 (2a ed. 1992), 415.
[10] Lo si farà entro
la prospettiva di questo studio, limitandoci ad alcuni cenni ai “grandi” di
Salamanca: Vitoria, Covarrubias, Molina e Suarez.
[11] «Sed quia
temporis angustia compressi non poterimus hic tractare omnia…sed quantum
temporis brevitas patiebatur. Itaque solum notabo propositiones in hac materia
cum brevissimis probationibus, abstinens a me multis dubiis, quae hac
disputatione conferri possunt», Francisco
de Vitoria, Relectio de jure belli
o paz dinamica, Praeludium (ed.
Madrid 1981 CHP, vol. VI, 96). Cfr. Ius commune, cit., 52 ss. e 379 ss.
[12] Francisco de Vitoria, Comentarios a
Sul ritrovamento
del frammento mancante della Relectio de
Temperantia, che ne ha ormai permesso la lettura integrale, cfr. il saggio
del suo scopritore V. Beltra de Heredia,
Ideas del Maestro Fray Fr. de Vitoria
anteriores a las Relecciones “De Indis”, acerca de la colonización de America
según documentos inéditos, in “
[14] Francisco de Vitoria, De jure belli, cit.: «Sed
respublica habet auctoritatem non solum defendi se sed etiam vindicandi se et
suos»; «Princeps autem non solum res alias sed onorem et auctoritatem reipublicae
difendere habetur», 139.
[15] Francisco de Vitoria, De jure belli, cit., 133. Vitoria
respinge l’argomento di Bartolo escludendo che il privato possa proclamare un
guerra: «Quia privata persona habet quidam ius defendendi se et sua, ut dictum
est ; sed non habet ius vindicandi iniurias, immo nec repetundi ex intervallo
temporis res ablatas. Sed defensio oportet ut fiat in praesenti, quod
iurisconsulti dicunt in continenti. Unde transacta necessitate defensionis,
cessat causa belli. Credo tamen quod per iniuriam percossus posset statim
repercutere, etiam si invasor non deberet ultra progredi» (ibidem, 116).
[16] Francisco de Vitoria, De jure belli, cit., 127: «Et ratione
probatur quod bellum offensivum est ad vindicandam iniuriam».
[17] Francisco de Vitoria, De jure belli, cit., 133: «Licet
occupare ex bonis hostibus impensam belli et omnia damna ab hostibus ingiuste
illata. Haec patet quia ad omnia haec tenentur hostes qui iniuriant fecerunt.
Ergo principes possunt omnia illa accipere et bello exigere. Item si quis esset
legitimus iudex utriusque partis gerentis bellum, potest condemnare iniustos
aggressores et actores belli, non solum ad restituendas res ablatas, sed etiam
ad resarcendum impensam belli et omnia damna. Sed princeps qui gerit iustum
bellum, habet se in casu belli tanquam iudex, ut statim dicemus».
[18] «Utrum si
propter sacrilegam consuetudinem comedendi carnes humanas, vel utendi hostia
humana in sacrificiis, ut inventi sunt barbari in provincia Yucatan, possint
principes christiani sua auctoritate et ratione bellum illis inferre et
quatenus liceat, etsi hoc non possint auctoritate sua, an saltem ex mandato et
commissione summi pontificis possint»: cfr. Francisco
de Vitoria, Relectio de
temperantia, Quaestio V, in Obras de Fr. de Vitoria, a cura di T.
Urdanoz, Madrid 1960 (1004-1069), 1038.
[20] «Principes
christiani non possunt inferre bellum infidelibus ratione delictorum contra
naturam» (Conclusio IV); l’argomento
si fonda su quel medesimo principio di reciprocità (e quindi di uguaglianza)
con il quale Vitoria negherà valore al titolo di acquisizione delle Indie
costituito dall’inventio. Se si
rispondesse affermativamente alla Quaestio
posta, «item sequeretur quod principes infideles possunt etiam inferre bellum
christianis qui peccant contra naturam», così come si dovrebbe ammettere che
gli indios avrebbero potuto acquisire il dominio dell’Europa se vi fossero
sbarcati prima della inventio di
Colombo: «Et sic, licet iste titulus [de iure inventionis] cum alio aliquid
facere possit, tamen per se nihil iuvat ad possessionem illorum, non plus quam
si ipsi invenissent nos»; cfr. Francisco
de Vitoria, Relectio de indis,
I, 2, 10 (CHP, vol. V, 54).
[21] Francisco de Vitoria, Relectio de Temperantia, Conclusio V:
«Principes christianorum possunt inferre bellum barbaris quia vescuntur
carnibus humanis et quia sacrificant homines’. Probatur. Primum, si comendant
aut sacrificent innocentes, quia possunt illos defendere ab illa iniura, iuxta
illud, ‘Erue eos qui ducuntur ad mortem’
[Prov. 24,11]. Confirmatur: ipsi possunt se defendere; ergo principes possunt
eos defendere» (ed. cit. 110, corsivo nel testo).
[22] Il passo riportato
alla nota precedente così prosegue: «Nec valet dicere quod illi non petunt nec
volunt hoc auxilium; nam licitum est defendere innocentem, etsi ipse non petat,
immo etiamsi renuat, maxime quando patitur iniuriam, in qua non potest cedere
iuri suo, ut est in proposito. Non enim potest quis dare alicui ius occidendi
seipsum, sive ad vescendum, sive ad sacrificandum», ibidem.
[23] Francisco de Vitoria, Relectio de Temperantia, cit., Concluisio VII: «De quibus in praesenti
non ago, quia non fuit nostri instituti in universum hoc disputare».
[24] Cfr.
rispettivamente il quinto e l’ottavo “giusto titolo” (su cui cfr. infra nota) in Francisco de Vitoria,
Relectio de indis, op. cit., rispett. I, 3, 14 e I, 3, 17).
[25] Tra i sette tituli non legitimi v’erano quelli che
qualificavano, alternativamente, l’imperatore o il pontefice come dominus mundi (rispettivamente, titulus
primus e titulus secundus in Francisco de
Vitoria Relectio de indis, I,
2, 1-4) e il titolo di “scoperta”. Tra i tituli
legitimi acquisirà importanza, nello ius
gentium dell’era moderna, quello che Vitoria qualifica come titulus naturalis societatis et
communicationis, il quale comprende lo «ius peregrinandi ad indorum
barbarorum provincias» e «negotiari apud illos». (Cfr. Relectio de indis prior, I, 3, 1-2).
Per comodità si
riportano di seguito. Titoli non legittimi: I) autorità universale
dell’Imperatore; II) autorità universale del Pontefice; III) diritto di
scoperta; IV) diritto di conversione forzata; V) peccati contro natura; VI)
scelta volontaria degli indios; VII) donazione papale. Titoli legittimi: I)
Diritto di libero transito e commercio; II) diritto di evangelizzazione e sua
difesa; III) diritto di intervento a difesa dei convertiti; IV) diritto del
Pontefice di investire un principe cristiano della sovranità sui popoli
convertiti; V) diritto di intervento a difesa degli innocenti contro i
sacrifici umani e la tirannia; VI) per libera, vera et voluntaria, scelta; VII) diritto di intervento in aiuto
agli alleati; VIII) alius titulus: diritto
di sottomettere barbaros si certo
constaret eos esse amentes.
Si rinvia alla
bibliografia segnalata supra,
Introduzione, note 117 ss.
[26] Francisco de Vitoria, Relectio de indis prior, I, 3, 17: «[…]
de quo ego nihil affirmare audeo, sed
nec omnino condemnare» (CHP vol. V, 97).
I “giusti titoli”
di Vitoria sono pertanto otto, e non sette come spesso si legge.
[27] Ibidem (da connettersi al passo finale
in Francisco de Vitoria, Relectio de indis prior, I, 1, 16).
[28] «[…] in his enim
non ita sunt sui iuris, ut possint se ipsos vel filios suos tradere ad mortem»:
Francisco de Vitoria, Relectio de indis prior, I, 3, 14 (CHP,
vol. V, 93-94)
[29] «[…] iam tunc
non tamquam cum innocentibus, sed tamquam cum perfidis hostibus agere possent,
et omnia belli iura in illos prosequi et spoliare illos et in captivitatem
redigere et dominos priores deponere et novos constituere, moderate tamen pro
qualitate rei et iniuriarum»; Francisco
de Vitoria, Relectio de indis
prior, I, 3, 7 (CHP, V, 85).
[30] L’argomento
svolto da Vitoria chiama in causa i santi e i giusti, «[…] qui non solum in
bello defensivo tutati sunt patriam resque suas, sed etiam bello offensivo
prosecuti sunt iniurias ab hostibus acceptas vel etiam attentatas, ut patet de Ionatha et Simone […]»; cfr. Relectio de jure belli, I, 2 (CHP, vol.
VI, 108, corsivo aggiunto).
In realtà, la
prima lucida distinzione tra guerra offensiva e guerra difensiva si deve al
Caetano: cfr. Thomas de Vio (Caietanus), Rev.mi Domini Thomae de Vio Caietani Cardinalis Sancti Sixti perquam
docta, resoluta ac compendiosa de peccatis summula, Parisiis 1539, ad vocem
Bellum, 13 ss. Egli, inoltre, è tra i
primi doctores ad attribuire uno
statuto giuridico ai non cristani che permetta loro di avere il dominium sulle loro terre e non esserne
privati a cagione della loro infedeltà, individuando così quello che sarà il
tema centrale della speculazione di Vitoria (il dominium) ed il principio (illegittimità di una guerra di
espropriazione) che il teologo di Salamanca farà proprio (oscurando nella storiografia
coeva, ed odierna, la paternità del Gaetano. Il Gaetano si sofferma sul
problema della condizione giuridica dei non cristiani nei suoi celebri Commentarii alla Summa theologiae. Nell’illustrare la quaestio 66, art. 8 della Secunda
Secundae, egli distingue gli infedeli in tre categorie: coloro che sono
sudditi dei cristiani di fatto e di diritto, come gli ebrei ed i mori che si
trovano nelle terre possedute dai cristiani (l’esempio era quello della Spagna
della Reconquista); coloro che ne
sono sudditi solo di diritto, in quanto occupano territori dei cristiani, come
i mori di Terra Santa; infine, coloro che non sono sudditi di principi
cristiani né de facto né de jure, come gli indios. Questi ultimi
sono legittimi padroni dei territori che abitano, e non ne possono essere
privati in forza della loro infedeltà. Cfr. Caietanus, Commentarius in IIam IIae, q.
Il chiaro
precedente del Caietanus ed il reimpiego che Vitoria fece di tale fonte nella Relectio de Indis (peraltro
esplicitamente citata: «ut late et eleganter deducit Caietanus»; cfr. De Indis, I, I, 11; il Gaetano è una
della auctoritates richiamate con
maggior frequenza), vengono, invece, ridimensionati da T. Urdanoz, Introducción
biografica a De Indis prior, in Obras de
Francisco de Vitoria, Relecciones
Teológicas, Madrid 1960, 501-502.
Lo sviluppo della
dottrina del Caetano portava a conseguenze interessanti riguardo il «bellum contra
indianos». Egli, infatti, riconosceva come ‘giusta’ la guerra intrapresa per
punire una grave ingiuria perpetrata a danno di un popolo extraneus («Respublica autem et quorum membrorum et sui sic curam
habet ut non solum possit moderate vim vi repellere sed etiam vindicare
injurias sui vel suorum, non solum contra sibi subditos, sed extraneos»; cfr. Commentarius in IIam IIae, q.
[33] Francisco de Vitoria, Relectio de jure belli, cit., 140; cfr.
tuttavia anche ibidem, 152-154: «Non
est dubium quin in bello defensivo liceat subditis in re dubia militare et
sequi principem suum in bello, immo quod teneantur sequi; sed etiam de bello
offensivo. Probatur primo quia princeps nec potest semper nec debet reddere
rationes subditis, et si subditi non possent militare nisi postquam scirent
iustam causam belli, respublica periclitaretur vehementer [et pateretur
iniurias hostium] (…) Sed si
subditi in casu dubii non sequerentur principem suum, exponunt se periculo
prodendi hostibus rempublicam, quod multo peius est quam pugnare contra hostes
cum dubio».
[35] Se é dato «is qui gladio utitur iuste», allora «per consequens is qui defendit se, temerarie
se defendit»; cfr. Hostiensis
(Henricus de Segusio), Summa Aurea,
in tit. de tregua et pace, par. quid sit iustum bellum, n. 4 (ed.
Lugduni
[36] Francisco de Vitoria, Relectio de iure belli, cit., 156:
«Esclusa ignorantia manifestum est quod non potest contingere […]. Posita
ignorantia probabili facti aut iuris, potest esse ex ea parte qua est vera
iustitia bellum iustum per se; ex altera autem parte bellum iustum, id est,
excusatum a peccato bona fide».
Cfr. anche Relectio de indis prior, I, 3, 5: «Nec est inconveniens quod, cum
ex una parte est ius et ex altera ignarantia invincibilis, quod sit bellum
iustum ex utraque parte».
[39] Diego de
Covarrubias y Leyva (1512-1577), insigne canonista e cattedratico a Salamanca,
ricoprì anche la carica di giudice all’Audiencia
di Granada.
[40] Covarruvvias a Leyva, Didacus, De iustitia belli adversus
Indios, ed. Madrid 1981 (CHP, vol. VI), 347: «Natura enim prima intentione
intendit ut quis sit bonus, sed si non fuerit bonus sed malus, eius intentio
secunda est ut puniatur; et sic servitus contra naturam est inducta ad
puniendum peccantem, et licet a iure naturae non sit determinata poena ista in
specie sed in genere, ius tamen positivum [est]. Ius gentium ex
secunda intentione naturae potuit determinare et definire poenam in specie ut
ipsi doctores concludunt».
[41] Ibidem, ult. loc. cit.: «[…] Nempe hi
qui sunt minus sapientes, minus perfecti; qui quidem natura ipsa sapientioribus
subditi sunt et indigent ut ab eis regnantur».
[42] Ibidem, 348: «[…] homines qui cum sint
ad parendum nati, imperium recusant; est enim huiusmodi bellum natura iustum».
Cfr. Aristotele, Politica, 1255b.
[43] Ibidem, 349: «[…] Iustum tamen bellum
intelligo ad eorum utilitatem et ita ad effectum ut cogantur mores instituere,
ita ut sit bellum ad hoc, non tamen ad eos puniendos sed ad eos in moribus
corrigendos; quod si corrigi atque institui recusent, armis cogi possunt et
erit iustum bellum quoad hoc; non tamen erit hoc proprie bellum, sed correctio
in moribus; nec inconvenit quod ad correctionem plurium et ad institutionem
necessariam republicae aliquot rebelles occidantur. Id enim necessarium est ad
totius communitatis optimam conservationem».
[44] Ibidem, ult. loc. cit.: «Quo fit si indi
vel hi barbari sint omnino amentes, stolidi et minime idonei ad istituendum
regimen republicae sibi ipsis utile ad eorum conservationem, possint a
princibus Hispanae instrui ed institui in optimo regimine ac possent principes
iuste ad eos mittere rectores eisque dare leges, sicuti possumus, immo tenemur
ex charitate, amentes regere et infantes instruere, se per tamen ad eorum
utilitatem».
[45] La prima
versione di una dissertazione de bello
fu redatta da Molina elaborando le lectiones
universitarie sulla famosa quaestio
40 di S. Tommaso; venne edita in Luis
de Molina, De Bello. Comentario a
[46] Luis de Molina, De iustitia et iure tomi sex, op. cit., tomo I, vol. III: «Licet
bellum iniustum cum charitate quadam ex parte pugnet […] multo tamen magis cum
iustitia pugnat et tam iustum quam iniustum bellum ex principiis iustitiae
longe maiori ex parte, quam ex principiis charitatis, expendendum
examinandumque est» (171)
[47] Sembra un
contrappunto alle proteste espresse da Vitoria nei confronti della prassi,
invalsa presso
D’altro canto, Solorzano Pereira, in nome e per conto dei
jurisperiti, replicava nella Politica Indiana che «los teologos, por
doctos que sean, no penetran bastantemente la teoría y la práctica de
[48] «Licitum est prohibire eiusmodi infidelibus, et
quibuscumque aliis hominibus, peccata, quae in innocentium iniuriam cedunt.
Quod si ab illis desistere noluerint, fas est movere adversus eos ea de causa
bellum, iuraque illius persequi, idque absque ulla summi Pontificis
autoritate», ibidem, Disputatio CVI, § 5 (349).
[49] «Exempla sunto, si innocentes immolent, aut eos interficiant,
ut eorum carnibus vescantur, aut quovis alio modo iniuste perimant; vel si
innocentes tyrannicis legibus opprimant, aut alia simili ratione divexent. Hanc affirmant Victoria in relect. de Indis et alii», ibidem.
[50] Luis de Molina, De Iustitia et Iure, cit., [De
bello, Disputatio CII, 2]: «Observa tamen, ad bellum
iustum sufficere interdum iniuriam materialiter, hoc est, absque peccato» (ed.
cit. 176).
[51] Molina indica
come esempio la guerra tra Israeliti e Cananei: «Ex parte quidem filorum Israel
materialiter et formaliter: ex parte vero illarum gentium formaliter solum,
quatenus invincibiliter ignorantes donationem et voluntatem Dei, absque peccato
se, resque suas tuebantur». Cfr. Luis de Molina, De Iustitia et Iure, ult. loc. cit.
[52] Vale la pena
ricordare che il teologo della libertà umana si opponeva radicalmente al
principio di obiezione di coscienza formulato da Vitoria, ed affermava
l’obbligo per il cristiano, in specifiche situazioni, di prendere le armi: «Non
solus fas est Christianis bella gerere, servatis conditionibus; de quibus in
sequentibus, sed etiam aliquando melius id est, quam contrarium. Poterit esse
eventus, un quo culpa lethalis sit non bellare». Luis de Molina, De
Iustitia et Iure, [De bello, Disputatio I, § 2], ed. cit. 171.
Molina si riporta
all’auctoritas di S. Agostino: «prima
pars huius conclusionis fuit semper in Ecclesia, et eam affirmat Augustinus»
(ult. loc. cit).
[53] Cfr. De Iustitia et Iure tomi sex, Disputatio CVI, § 6: Cum bellum ad subveniendum infantibus infertur,
qui bellantes se gerere debeant (ed. cit. 351).
[54] Quest’ultimo è
costituito dalle lectiones romane
tenute nel 1583 e nel 1584, edite postume nel 1621; cfr. Francisco Suárez, Opera Omnia, Parisiis 1858, vol. XII, 737 ss. Per il De bello
vedasi anche l’edizione Francisco Suárez,
Guerra, intervenciòn y paz
internacional. Estudio y Traduccion por L. Pereña, Madrid 1956.
[55] «Nullum potest
esse iustum bellum, nisi subsit causa legitima et necessaria. Causa haec iusta et
sufficiens, est gravis iniura illata»; Francisco
Suárez, Opera Omnia, op. cit.,
IV, 1.
[60] Tale violazione
rappresenta (assieme all’appropriazione di beni altrui e di grave offesa
all’onore) una delle tre ipotesi di iniuria
che legittima il bellum iustum: cfr. De bello, Pars Prima, cap. IV, Conclusio Prima § 3 (ed. cit. 77).
[62] Solorzano Pereira, De iure indiarum, op. cit., CHP2, t. III, 331 (corsivo aggiunto
nella traduzione italiana proposta nel testo).
Si noti che l’argumentum dell’alleanza castigliana con
un popolo indigeno impegnato in un iustum
bellum contro altri indios era già presente nella “Relectio de indis”, e
costituiva il settimo titulus legitimus
ad bellum iustum: «Cum enim ipsi barbari inter se gerant aliquando legitima
bella, et pars quae iniuriam passa est, habet ius bellum inferendi, potest
accersere hispanos in auxilium et praemia victoriae illis communicare»; Francisco de Vitoria, Relectio de indis, op. cit. 95
[64] Questo giurista
udinese del XVI secolo è ancora poco noto agli studiosi; cfr. le indicazioni
segnalate in Ius commune, cit., 68 ss.
[65] Marquardus de Susannis, Tractatus de Iudaeis et aliis infidelibus
circa concernentia originem, contracta, bella, foedera, ultima voluntates,
iudicia et delicta Iudaeorum et aliorum infidelium, et eorum conversiones ad
fidem, Venetiis 1613, Pars I, cap. XIV.
[66] «Quibus tamen et
aliis non obstantibus, puto partem affirmativam esse veriorem; constat enim
gentes illas fore natura barbaras et absque aliqua prudentia, et barbaricis
vitiis contaminatas, ut legere est in Historia de eis exarata, unde potuerunt
armis cogi, et id bellum contra tales est iustum, iure naturae, secundum Arist.
I, Polit. 6.3 et 5, ut eorum vitia comprimerentur […]».
[67] «Subsistentibus
maxime eorum detestandis criminibus, in mactandis innocentibus et adoratione
idolorum, propter quod delevit Deus omnipotens totgentes et ipsum etiam populum
Israelis in captivitatem et desolationem redigi permisit in captivitate
Babylonica et universali diluvio[…]; quae quidem praecepta si fuerunt servata
antequam Christus coleretur, eo magis post eius adventum observari debent […]
et quod iusta sit causa belli pro extirpandis idolatris probatur»; ibidem ( 166-167).
[69] «Papa super
omnes habet potestatem et iurisdictionem de iure, licet non de facto»: cfr. Hostiensis (Henricus de Segusio), In tertium Decretalium librum commentaria,
Venetiis 1631, cap. VIII, §§ 14-16, fol. 128
Sulla figura di
Enrico da Susa, oltre ai saggi raccolti in Aa.Vv.,
Il Cardinale Ostiense. Atti del Convegno
Internazionale di studi su Enrico da Susa detto il Cardinale Ostiense, Susa
30 settembre – Embrun 1 ottobre
[71] Marquardus de Susannis, Tractatus, op. cit., 167: «Nam infideles
peccantes contra legem naturae et idola colentes sunt sub potestate Papae, qui
est Vicarius generalis Christi […] ideo puniri possunt […] ut tradunt Doctores, maxime Hostiensis».
[72] «Non posse
bellum indici infidelibus propter infidelitatem, quia id verum est, propter
solam infidelitatem, sed secus est, si etiam legem naturae non servent, et
idola colant, peccando contra legem naturalem contemnendo verum Deum. Potuerunt
ergo legitime Christianorum imperio subiici, non ut servi fiant, aut eorum
bonis priventur, sed ut ab talibus flagitiis liberentur et potissimum ab illo
nefandissimo scelere imolationis innocentium». (Ibidem).
[74] «Si Christianus
Princeps movet bellum contra infideles et barbaricas nationes, nam tunc omnia
iura loquentia de captivis, tam respectu servitutis quam predae (sic), locum
habent et remanent integra»; cfr.
Marquardus de Susannis, Tractatus,
ed. 1568, I, VI, § 10. E’ interessante notare come il passo non sia più
presente nell’edizione del 1613; dopo la morte dell’autore (1578), in effetti,
il testo subì alcune emende, le quali risentirono evidentemente del clima di
sospetto che le tesi di Vitoria andavano sollevando.