Considerazioni critiche
sulla “guerra lecita” della tradizione pubblicistica cattolica*
* Pubblicato ne Il
Ponte, marzo-aprile 2003, 43-56.
1. – Addebito
severo che penso possa e debba muoversi a una Religione di Salvezza [quale vuol
esser quella ascritta alla predicazione del Cristo Redentore] è di non essersi
negata – nel volgere dei secoli – ai richiami d’un “ponderato realismo”:
d’essersi diffusamente accomodata – nel corso d’una vicenda millenaria – alle
occorrenze della storia: cosí mancando di recar a effetto [nella pienezza dei
suoi tratti] il programma di profonda rigenerazione spirituale di cui pure la
predicazione del Cristo Redentore s’era fatta patrocinatrice perentoria. E’
proprio delle Religioni di Salvezza [dico di quelle che, in grazia d’una più
elevante vocazione, intendono supplire al senso di angoscia e frustrazione, o
scontentezza, quale dagli uomini avvertito nella grigia quotidianità del loro
vivere] è proprio delle Religioni di Salvezza di pretendere dagli uomini un che
di più impegnante (e di diverso) rispetto agli ordinari moduli di vita. E a
esigere una intensa mutazione esistenziale (in coloro che ripongono nel Verbo
la propria speranza di riscatto) è – con segnata evidenza – il Cristianesimo
evangelico del Sermo super montem. Esso reclama – negli uomini toccati
dalla fede – una disposizione psicologica (e una condotta pratica) di singolare
tensione etica, e singolare compromissione numinosa: cosicché ne siano spinti a
sopravanzare – in un fervente slancio mistico – i termini della naturalità
propria dell’uomo.
2. – Non si tien
fermo il primigenio Cristianesimo evangelico [se lo si prende in questa sua
severità] alla “deontologia naturalistica” del Vecchio Patto, commisurata
all’ordinarietà delle occorrenze umane. Dico della “legge morale naturale” [«praticabile
dall’uomo»: né «troppo alta», né «troppo lontana»] valevole
per il primo Popolo di Dio: per quei Figlioli d’Israele [tutt’altro che
insensibili alle vicissitudini del secolo] che del mundus hic – vissuto
alla maniera teopolitica – avevano una visione discosta alquanto dall’austero escatologismo
apocalittico del primo Cristianesimo. “Lasciti vetero-testamentari” sono
difatti i capisaldi [«ama il prossimo tuo come te stesso»; «non fare
agli altri quanto non vorresti che gli altri ti facessero»] intorno ai
quali – per dirla alla maniera canonistica – s’articola il sistema normativo
del «ius naturae quod in Lege continetur». Bensí li cita – il Salvatore
– detti canoni, e li dice degni di rispetto: ma premurandosi appunto di
assegnarli all’economia del Vecchio Patto. Egli esplicitamente li menziona come
mandati pre-evangelici: da ascrivere alla lex mosayca, e al testimonio
dei prophetae. Quello che il Cristo a Sé attribuisce [quello che Egli
chiama «Suo» precetto: «praeceptum meum», «mandatum novum»] è piuttosto
il monito – tremendamente serio – [diretto ai Suoi discepoli: ai Suoi «amici»]
di amarsi l’un l’altro con singolare intensità: non «come se stessi», «più
ancora» invece che se stessi. «Do a voi un mandato nuovo: che vi amiate a
vicenda come io vi ho amato». E il Cristo è giunto a amarli – i Suoi
discepoli, i Suoi amici – sino a votare ad essi
Né
vale – aggiunge ancora il Nazareno – portare il proprio amore solo a quelli che
ci sono amici. Di ciò sono capaci anche i Gentili: e lo sono gli stessi più
impenitenti peccatori. Pur essi amano coloro che li amano. Quanto per contro si
richiede ai seguaci del Cristo [e qui il «naturalismo deontologico
vetero-testamentario» appare decisamente superato] quanto ai Cristiani si
richiede è di portare il proprio amore a quegli stessi che gli sono avversi:
che giungono sin a odiarli. Quale dal Cristo intesa, la dilectio proximi
appare affrancata dai condizionamenti “etnici” e “politici” della religiosità
dell’Ebraismo: ed affrancata da qualsiasi concessione a “reciprocità
delimitanti“. Il «prossimo» – al quale si deve portare la dilectio – non
è soltanto «il più vicino»: non è solo «colui che c’è fratello»: «figlio
dello stesso popolo». Né solo è quegli (lo ripeto) che ci ricambia del suo
affetto. «Prossimo» – nella versione evangelica della veneranda regola ebraica
– è più generalmente quel «qualunque altro» nel quale (anche
casualmente) ci s’imbatta: appartenga – pur questi – ad altra famiglia umana
[alla stessa mal sopportata Samaria]; risponda – pur egli – con odio al nostro
amore. «Voi avete udito che fu detto “ama il tuo prossimo e odia il tuo
nemico”. Ma io vi dico: “amate i vostri nemici, e pregate per quelli che vi
perseguitano”». Questo il quid proprium [questo il quid novum]
del rivoluzionamento etico evangelico.
Ripudia
l’etica evangelica [sempre che la s’intenda nella severità palingenetica delle
sue espressioni originarie] la logica retributiva dei rigidi canoni legali “oculum
pro oculo”, “dentem pro dente”. Giunge – anzi – a respingere lo
stesso principio naturalistico della auto-tutela personale [«vim vi
repellere licet»] al quale contrappone l’alto principio soprannaturalistico
di non opporsi punto all’aggressione: del «non resistere malo»: sino –
addirittura – a offrire l’altra guancia a colui che ci schiaffeggia.
3. – Di qui la
prospettazione d’una «morale eroica»: diciamo «utopica»: addirittura «folle».
La quale [“individualmente nobilissima”, ma “socialmente impraticabile”] mostra
– per sé – di disattendere il «criterio bilanciante» che per forza di cose
sovrintende alla relazionalità comunitaria: quello d’una «commisurazione
ponderata» [d’una proporzionata “aequatio”] degli interessi personali in
gioco, quali si presentano coordinati o contrapposti nelle diverse fattispecie
di vita reale. Questa «impostazione calibrata» [tale da corrispondere alle
istanze d’una deontologia naturalistica fondata su un equo contemperamento
pratico dell’amor sui con la dilectio proximi] questa
impostazione calibrata mostra di lasciar il passo – nella logica catartica
evangelica – a un criterio spiritualistico più intenso, di soprannaturale
orientazione: tale – in definitiva – da risolversi nel privilegiamento
dell’«amore per l’altro» rispetto all’«amore per se stessi». Col che [con
questo «eccesso di altruismo»] si vien appunto a pretermettere un non
preteribile fattore di “socialitas”: giacché [quanto che sia lodevole in
ragione dell’avanzamento spirituale di ciascun soggetto] quella rinuncia al “suum
particulare” sarebbe proprio tale – ove indistintamente distribuita
nell’ambito comunitario generale – da render impossibile l’instauramento
d’innumerevoli rapporti interpersonali: di quelli – almeno – che si fondano
sull’incontro pratico d’un “dare” e d’un “ricevere”.
E’
– questa – una preoccupazione societaria dalla quale può ben astrarre [per via
della sua stretta ordinazione escatologica] l’etica soprannaturalistica
evangelica. Radicalmente si distacca – il Cristianesimo evangelico – dal
“teocratismo” ebraico: da quell’economia “totalizzante” che – del Volere
imperativo di «Colui che è» – fa la legge non solamente “religiosa” ma
“civile” di tutta intera l’esperienza del Popolo eletto. Esso [il
Cristianesimo] le cure del secolo le lascia ai Principi del secolo: «reddite
Caesari quae Caesaris». Al “messianismo religioso” ma insieme
“politico-mondano” (infra-storico) del Vecchio Patto [attento dalle fortune in
terra del Popolo di Dio] sostituisce – il Cristianesimo evangelico – un
messianismo tutto invece “spirituale-escatologico”: attento al di là del tempo
storico. Esso agli uomini si volge come ad homines viatores: come a
semplici “viandanti”, chiamati a una stanza terrena transeunte: ai quali –
pertanto – non richiede di spendere i talenti che posseggono per realizzare se
stessi in hoc mundo [in ragione delle grandezze de hoc mundo:
tutte fuggevoli, fallaci] sí piuttosto chiede di cimentarsi nell’impresa d’una
propria intensa palingenesi interiore: ottenuta «per lavacrum regeneratonis
et renovationis Spiritus Sancti».
Ne
viene – negli ambienti del più rigoroso evangelismo – un distacco [non soltanto
psicologico, alla maniera filosofica, ma operativo pratico] dalle res
mundanae: spinto sino al «contemptus mundi». Di lì un’estraniazione
[non soltanto, pur essa, psicologica] dalla più elevata delle res mundanae:
dalla «res publica»: dalla «res populi», come a Roma la si
chiamava con orgoglio. Ogni «patria» è al Cristiano «peregrina»:
in essa egli risiede «uti inquilinus». Vive sí in terra, ma in cielo ha
la sua «civitas».
4. – Non poteva
[nello spirito di questo escatologismo rigoroso] non seguirne un rifiuto
radicale della guerra. A contrastare – frontalmente – il “gladius sanguinis”
[e quindi il “gladius bellicus”, che del “gladius sanguinis” è
l’espressione più corposa] non valeva soltanto il principio «non occides»
della tradizionale deontologia naturalistica: siccome riletto in chiave
neotestamentaria: integrato – cioè – dalla condanna della stessa malevolenza
che si porti agli altri nell’intimo dell’animo. Né valeva soltanto richiamarsi
a tutta la sequela dei moniti evangelici (singolarmente suggestivi) che vengono
a formare come un codice di «praecepta mansuetudinis et patientiae», e
di «praecepta remissionis»: tali da respingere ogni appello alla violenza,
soprattutto se cruenta. E’ cosa – il «venire ad arma» [comunque lo
s’intenda] – che frontalmente (e irrimediabilmente) contraddice al grande «praeceptum
dilectionis» che presiede dall’alto – non a questo o a quel singolo momento
– ma a tutta intera la vita etica cristiana; e che la illumina di sé,
qualificandone l’essenza: facendola essere ciò che vuol essere, ciò che è
tenuta ad essere. E’ nell’esaltazione piena e ferma della “pax” [della «ordinata
concordia hominum»] che tutto il sistema deontologico cristiano trova il
suo sbocco conclusivo. Dico d’una “pax” vista non solo nei suoi tratti
temporali [siccome condizione necessaria a ciò che gli uomini fra loro possano
stabilire una qualunque aggregazione] sí anche in una più pregnante significazione
religiosa: in ciò che nella pace venga a esprimersi la partecipazione
coscienziale (viva e ferma) delle creature razionali all’ordine impresso alla
creazione dalla ratio gubernatrix del Creatore.
“Vera
pace” – allora – [«quae est vinculum caritatis»] è quella che si ottiene
«secundum dilectionem Dei et proximi». “Vera pace” è la «pax
christiana»: quale si raggiunge nella Fede: nella pienezza della sudditanza
a Dio.
* *
*
5. – Sin tanto poteva
– una cosí impervia impostazione – mantenere una sua presa sull’ethos
ecclesiale storico, sin quando restassero capaci di esercitare un proprio
impatto esistenziale le condizioni psicologiche e ambientali che erano valse a
avvincere le prime generazioni cristiane e a renderle partecipi di tanto
inflessibile rigore. A accreditare una morale tanto “eroica” [a suffragarne una
tal quale operatività reale] poteva soltanto provvedere una potente “carica
entusiastica”: qual era quella (intrisa di pathos numinoso) vivificatrice del
primo Cristianesimo: preso – com’era questo – dalla angoscia d’una incombente “consummatio
temporum”, ma posseduto – al tempo stesso – dalla speranza messianica
(esaltante: sin fanatica) nel ritorno trionfale – in quel medesimo frangente –
del Cristo Signore. E poteva esser disposto ad ubbidire a simili tavole morali
[nei loro momenti più scabrosi: negatori di qual si voglia concessione al
secolo] solo un «movimento carismatico elitario» che riuscisse a mantenere –
nella prassi – una sua «separatezza dal mondo»: nei modi d’una civitas
caelestis, ricca d’un proprio codice esclusivo di valori: decisa – di
contro al mondo gentile e al mondo ebraico – a “far parte a sé” [siccome “tertium
genus”] senza confondersi con la civitas terrena, non d’altro
portatrice – si diceva – che di valori effimeri: falsanti. Laddove il protrarsi
oltre misura di quell’attesa apocalittica [la «delusione della mancata
Parousia»] non poteva non valere – giorno dopo giorno – ad allentare la
tensione psicologica (pneumatica) della massa comune dei fedeli: fatta di brava
gente, non sempre sorretta [va da sé] dal «forte animo» che spinge a «egregie
cose». Né il sempre più lungo “permanere in mundo” dell’ecclesia
peregrinans poteva mancare di promuovere un processo di crescente
omologazione dell’ecclesia al mundus: a quella realtà mondana che
– a dispetto d’ogni vaticinio apocalittico – veniva rivelando la sua
durevolezza.
Al movimento
cristiano – a questo punto – si presentava una sofferta alternativa, di
cruciale impatto fideistico: religiosamente sin drammatica. Gli si imponeva
questa impegnante opzione storica: – se doversi tener fermo sulle posizioni del
passato [tutto che “utopiche”] istituzionalizzando (se può dirsi) il proprio porsi
come «antitesi del mondo»; – o se prender invece a aprirsi, in qualche misura,
«verso il secolo»: cercando, stavolta, di raggiungere come una «sintesi col
mondo». E fu – questa seconda – la scelta che finì col prevalere nell’ambito
del “movimento cristiano principale”. Dico della «megále ekklesía» delle
antiche fonti: destinata a formare – in Occidente – l’ecclesia catholica
romana. Si trattava di mettere da un canto l’ascetismo espiatorio e
purificatorio delle origini: mortificatore delle pulsioni di natura: ché più
non s’avvertiva – con l’intensione dei primordi – di dover guardarsi dal mondo:
di dover fuggire il mondo senza condiscendenze transattive: «mundus totus in Maligno positus est». Si
prendeva a guardar invece al mondo in un’ottica meno incomprensiva: a essere
partecipi delle esperienze umane che è dato vivere nel mondo. La si iniziava ad
apprezzare – la realtà terrena – nei modi d’un «mondo storico cristiano»: d’un «saeculum christianum»: vivibile – anche
se con austerità di disciplina – dallo stesso credente nel Cristo Crocifisso.
Prendeva cosí
corpo un “processo metamorfico profondo”: atto a trasformare intimamente il
ruolo della nuova religione: a rivedere la sua medesima sostanza. Al «canone
ideologico integristico» della reiezione inflessibile d’un mondo intrinsecamente
malvagio [irrisanabile affatto] veniva sostituendosi – nell’alveo d’un
escatologismo e d’un palingenismo ammorbiditi – il «programma moderato» [spento
di spirito eversivo: quasi, diremmo, “riportato in terra”] d’una «emendazione
rettificatrice» di quello stesso mondo: venuto bensí degenerando, rimasto
tuttavia “ricuperabile”.
6. – La «evangelizatio
mundi» prendeva cosí il posto del «contemptus
mundi». Alla condanna senza scampo del tempo presente subentrava il riconoscimento
della “strumentalità” di esso rispetto al tempo a venire. Più non si trattava
di «disertare il mondo»: di «abbandonarlo al suo destino». C’era da
«riscattarlo»: c’era da «dargli un’anima». E certo – con questo – il
Cristianesimo s’assicurava l’avvenire: rimettendosi [a fronte d’un rigorismo
fattosi obsoleto] ad una più pacata disciplina etica: sempre – s’intende – di
finale incidenza oltremondana, ma attenta – frattanto – a consentire
un’ordinata conduzione della quotidianità: a farlo in ragione delle istanze del
vivere comune (quanto si voglia misere) a cui tuttavia s’informa l’ordinarietà
degli uomini nella ordinarietà dei momenti di vita. Paradossalmente – però –
[con questa «rinuncia alla utopia»] il Cristianesimo abdicava alla sua “quidditas”:
alla «rivoluzionarietà del suo messaggio» e della sua «carica purificatrice».
Abdicava alla «scandalosità della sua testimonianza»: sacrificando alle
esigenze della storia un tratto vivo della più significante «specificità
evangelica». Inevitabile che l’avvenuta «ecclesializzazione storica» d’una
«morale sostenibile» [permeata di senso comune: di “buon senso”] togliesse
spazio alla gravezza perentoria d’una «imitatio Christi» vissuta nel
ricordo della Follia del Golgota. Riprendeva piuttosto il sopravvento la
saggezza degli uomini: quella «sapientia sapientium» e quella «prudentia
prudentium» che altro non sono che «stultitia» – ce l’insegna Paolo
– a fronte della insondabile Sapienza [«in mysterio abscondita»] di Dio.
Vale riflettere
[quando di “folle utopia” si parla: anche da chi non sia partecipe d’una
impostazione numinosa] vale riflettere su quanto Paolo stesso aggiunge: essersi
il Signore compiaciuto di salvare gli uomini «per stultitiam praedicationis»:
quegli uomini che – «per sapientiam» – non erano riusciti a riconoscerLo.
7. – A
presentarcisi davanti è come un processo metamorfico, che direi di
«evoluzione-involuzione»: il quale a un ampliamento pratico della capacità di
operazione del Cristianesimo [d’un Cristianesimo ormai stabilmente stanziatosi
nel mondo] vedeva corrispondere una progressiva attenuazione della drasticità
del movimento e del suo pathos: della sua carica entusiastica. E [in una
società terrena dominata da accesi fattori antagonistici] c’era naturalmente da
aspettarsi che quel calo di tensione escatologica finisse col far sentire il
proprio effetto nel campo stesso di nostro specifico interesse: anche nel quale
veniva a imporsi l’esigenza [“normalizzatrice”] d’un “ricupero cristiano” delle
consolidate grandezze de hoc mundo. Come nella generalità degli altri
casi cosí in questo – sebbene con difficoltà segnatamene serie – la moralistica
cristiana [quella di riguardosa ortodossia, devota alla causa della Grande
Chiesa] doveva darsi cura di procedere nei modi – mutuati da certa filosofia
pratica del mondo civile circostante – d’una ponderata distinzione fra l’«uso»
e l’«abuso» che volta per volta venga a farsi dei beni e dei valori del vivere
consueto. Si trattava di affrancarsi dalla coerenza perentoria della tesi
radicale: «nulla est necessitas delinquendi quibus una est necessitas: non
delinquendi». Ma c’era – insieme – da evitare di cadere in un opposto
eccesso.
Stavano ad
esigere un più transigente atteggiamento le circostanze della storia: specie
[s’intende] dopo la pax constantiniana, col susseguente indirizzarsi del
ius publicum romanum verso l’assunzione della nova religio a
culto ufficiale dell’Impero. Erano – questi – eventi che non potevano mancare
di raccomandare al Cristianesimo ufficiale una maggior condiscendenza verso i
modi usuali dell’esercizio del potere: incluso il gladius sanguinis,
incluso il gladius bellicus. E tuttavia – se c’era da accomodarsi a
questi sopravvenuti accadimenti – non lo si poteva fare sino a punto di
procedere a una ratificazione cristiana pura e semplice del ius bellicum
romanum: il quale – per sua parte – non si dava premura di procedere a una
qualche “giustificazione” [né “giuridica”, né ancor meno “morale”] della
guerra: del “bellum” quale «de iure gentium introductum».
Non che potessero
esser ignorate – beninteso – [dall’incipiente pedagogia politica cattolica] le
molte testimonianze evangeliche [«benefacite his qui oderunt vos», «benefacite
maledicentibus vos», «benedicite et nolite maledicere»] che fanno –
con icastica evidenza – della patientia e della mansuetudo (e
cosí della remissio e condonatio) i cardini del vivere cristiano.
Nulla appariva tanto avverso alla christiana lex – a voler stare a
quelle puntuali attestazioni – quanto la «redhibitio laesionum». «Vim
vi repellere licet» – si diceva in tale logica – è proposizione della lex
naturae: non è proposizione della lex evangelii. Si trattava – però
– di saper leggerle, quelle enunciazioni: di saper farlo con giudizio. E a
questa “rivisitazione ponderata” doveva provvedere – con solerzia – tutto uno
stuolo di probati auctores. Sicché – ben presto – [a dispetto di quella
pretesa limpidezza] l’intellettualità ecclesiastica ufficiale doveva arrivare a
negar credito all’ingenua fisima ideologica d’una ricusazione radicale della
violenza bellica: per ripiegare [«melius re perpensa»] su posizioni più
cedevoli. Si continuava bensí in linea di principio [“in thesi”] a
riprovare l’uso cruento della forza. «Regulariter» – doveva ripetersi
per secoli – «regulariter bellum iniustum est et damnatum». E tuttavia
in sottordine [“in hypothesi”] si consentiva al gladio bellico “casualiter”:
in certe fattispecie, e a certe condizioni.
8. – Si reputava –
in tutto questo – [da una folla di zelanti lectores sacrae paginae] di poter
giovarsi specialmente di certi enunciati scritturali del Vecchio Testamento,
appositamente riesumati: non importa se alquanto lontani dallo spirito
evangelico: né importa se – proprio per questo – contestati da tutta una
sequela d’espliciti interventi del Cristo Redentore. Questi – è vero – ai
lasciti d’un tempo [«Audistis quia dictum est»] reiteratamente
contrappone il proprio insegnamento: «Ego autem dico vobis». Ciò non
significa – però – tagliare i ponti col passato: il quale – pur esso – attesta il
rivelarsi del Signore agli uomini. E alla sagace rilettura d’uno stuolo
giudizioso d’esegeti, la remissività misericorde del Dio evangelico [giunto a
offrirsi come agnello sacrificale in pro degli uomini] si presentava appunto
bilanciata dalla ferrea Volontà di Potenza del «Dio grande e tremendo»
dell’Antico Patto: d’un Dio [l’«Eterno degli eserciti»] che non rifugge
– all’occorrenza – dall’«estrarre dal fodero la spada»: dall’esortare il
Suo popolo a «non lasciar pietra su pietra» delle città nemiche.
E pur in questo
caso [come in molteplici altri campi dell’esperienza cristiana e dello scibile
cristiano] a imporsi – in fine – [quasi a cavallo fra l’Evo antico e l’Epoca
intermedia] sarà il genio stabilizzatore di Agostino: tale da schiudere ampi
spazi a un’appropriata teorizzazione sistematica del tema [tutt’altro che
sprovvista di risvolti pratici] destinata a largo successo nella communitas
gentium christianarum dei secoli di poi. Parlo dell’impostazione alquanto
elastica che – a sostegno d’una oculata applicabilità del gladius sanguinis
– crede di poter ridurre la mansuetudine evangelica a un fatto tutto e soltanto
“spirituale”: “interioristico”: facendola consistere – non nella «ostentatio
corporis» [in una qualche operosità concreta] – sí piuttosto nella «praeparatio
cordis»: in un intimo stato di coscienza. Non nuoce al “giusto” che egli
metta mano all’armi. Conta che sappia – nel farlo – restar “giusto”.
Di qui la
raffigurazione – nel sistema – della «non illiceità» [della tollerabilità «certis
inspectis causis»] del ricorso alla violenza armata. Di lì però ben anche
l’inserimento – nel sistema – d’un fattore (specialmente insidioso) d’erosione
interna. Fatale difatti che – col tempo – quella concessa deroga perdesse il
carattere d’una relaxatio affatto eccezionale (recata per cause
straordinarie ad una generale interdizione di rigorosa vincolatività) per
adattarsi – ben più sommessamente – al ruolo ambiguo di strumento operativo bensí
«anomalo» (discosto dai princìpi) ma «d’uso pratico comune». Fatale che – col
tempo – quella «guerra non illecita» diventasse senz’altro «guerra lecita»: per
poi far largo – nel sistema – a una «guerra giusta», o «meritoria»: a una
guerra addirittura «santa». A tutto un crescendo è dato cosí assistere di
legittimazione dell’«armorum usus»: e a tutto un diminuendo è dato
insieme assistere di rigorosità morale. Diventava la guerra – a questo modo –
uno strumento dai mille usi: al quale sempre possibile è ricorrere: nelle più
svariate circostanze: a patto semplicemente di far salve certe specifiche
cautele: non conta se rimesse – alla fin fine – al personale apprezzamento
(quanto che sia sofferto) degli stessi soggetti parti in causa.
Finirà cosí – la
guerra – col venir guardata [per dirla alla maniera della Scuola] non più tanto
come un «malum per se» (come un qualcosa di perverso nella sua
intrinseca sostanza) sí piuttosto come un «malum per accidens»: quando –
non l’«uso corretto della guerra» – ma l’«abuso» (che malamente venga appunto a
farsene) valga a caricarla d’una valenza negativa. [Né ci si dava pensiero, in
tutto questo, di quanto, anche in rapporto ai fatti dello spirito, la moneta
cattiva riesca a scacciare quella buona].
9. – A seguirne era
perciò il bisogno d’una rilettura teologico-morale del ius bellicum romanum
proprio specificamente indirizzata a superare il sostanziale “indifferentismo”
al quale quel ius si conformava circa le “ragioni giustificative” della
guerra. Era bensí aperta [lo sappiamo] – la tradizione giuridica romana – a
ravvisare la sussistenza (per natura) fra gli umani d’una «cognatio quaedam»:
onde è empietà – si sosteneva – [«est nefas»] che gli uomini vengano a
insidiarsi l’un con l’altro. E negava – quella stessa tradizione – che col
nemico venisse a infrangersi ogni vincolo giuridico. Con l’hostis populi
romani – s’affermava invece – «et totum ius fetiale et multa sunt iura
communia». Ben anche s’escludeva [benché più in termini retorici, diremmo,
che non in sede operativa pratica] che potessero le operazioni militari
comportare l’esercizio d’una indiscriminata violenza: «est enim ulciscendi
et puniendi modus». Soprattutto riservava – il ius romanum – un
trattamento paritario agli uni e agli altri combattenti: e questo tanto nel
caso della guerra che il popolo romano movesse agli altri popoli, quanto nel
caso della guerra che fossero invece gli altri popoli a muovere al popolo
romano. Quali però i suoi aspetti positivi – spiaceva al nuovo modo di volgere
al problema che il diritto bellico romano restasse insensibile al “perché” di
volta in volta la guerra fosse mossa: per quali specifici motivi, in quali
speciali circostanze. Per il ius romanum peso determinante competeva al
momento formale della “denuntiatio belli”: della “indictio belli”.
Bastava che il bellum fosse “publicum”: che fosse «denuntiatum
ante, et indictum». Non si chiedeva – in più – che a valide motivazioni sostanziali
s’appellassero le singole pretese via via commesse al patrocinio dell’azione
bellica.
Era questo
speciale aspetto [era questo «indifferentismo del sistema»] il tratto che
maggiormente urtava la sensibilità della novella pubblicistica. Alla quale [in
ossequio ai suoi moduli morali] si poneva – per contro – l’esigenza di valutare
puntualmente [distinguendo cosí caso da caso] le peculiarità reali di ciascuna
fattispecie: e ciò tanto in ragione dello “stato psicologico interiore” dei
protagonisti delle singole vicende guerresche; quanto in ragione della
“ordinazione pratica oggettiva” d’ogni data impresa. A legittimazione della
guerra non si poteva prescindere dal fatto che – volta per volta – il
dichiarante [l’indìcens] non solo procedesse «auctoritate iuris»
(spendendo il «ius indicendi bellum» di sua spettanza pubblicistica) ma
si determinasse – nel suo intimo – a agire «bono zelo»: forte – nella
profondità della coscienza – d’una «recta ratio bellandi». Occorre
battersi – si diceva – non per malanimo: non «cupiditate vel crudelitate»:
non «ad ultionem vel vindictam». Bisogna farlo per amor di pace: «pacis
studio». Occorre essere pacifici nell’intimo [«ex animo»] quand’anche
è forza essere duri (sin cruenti) «ex corpore». Di qui l’arduo concetto
[che sfida il canone di non contraddizione] d’un «bellum pacatum»: d’una
guerra che – simultaneamente – è “opera di pace”: rimessa all’impegno umano di
colui che – pur «bellando» – sappia restare tuttavia «pacificus».
E [in termini non più soggettivi, stavolta, ma oggettivi] si richiedeva il
presentarsi d’una «iusta causa bellandi»: d’una «causa bellandi»
necessitante: non altrimenti ripianabile.
Giusto [sin anche
doveroso] ricorrere alla forza per la propria auto-tutela: «pro defensione
tam sua quam patriae seu legum paternarum»; «pro pace iustitia tuenda»;
«pro defensione oppressorum». Lecito farlo a finalità recuperatorie, o a
finalità riparatrici: «propter res repetendas», «pro executione
iuris». Ammesso – con le dovute
precauzione – anche combattere a scopi punitivi: «ad iniurias ulciscendas»:
e persino – all’occorrenza – a scopi preventivi: nei modi d’una defensio
che anticipi le mosse d’un sicuro (o probabile) aggressore. Ingiusto – invece –
e illecito metter mano all’armi di là da queste ipotesi. Ingiusto il «bellum
aggressivum»: ingiusto il «bellum temerarium». Comunque iniquo il
condiscendere a gratuiti eccessi nel modo di condurre la guerra ancorché giusta.
Ci si rifaceva – rinverdendolo – al «moderamen inculpatae tutelae» della
tradizione giuridica romana.
*
* *
10. – Era questa
[fra «guerra lecita» e «guerra illecita»: fra «guerra giusta» e «guerra ingiusta»]
una distinzione di fondo destinata a larghi e durevoli sviluppi in ambito
cattolico. Era una partizione di principio sí passibile di vistose forzature
applicative [non fosse che per l’assidua vocazione della scienza paludata,
d’ogni tempo e d’ogni dove, a provvedere di non discutibili argomenti l’avida
ambizione dei Potenti] e tuttavia rappresentata – nei secoli – come
un’acquisizione ferma e certa della «cristianizzazione» [e quindi, s’intende,
del «progresso»] del diritto pubblico europeo. Del che – ancor oggi – ci si
compiace un po’ da tutti: e senza esitazioni si ravvisa – nei moduli del ius
bellicum christianum fattosi egemone in Europa – un encomiabile fattore di
ponderata delimitazione dell’ambito operativo della guerra: e – comunque – d’attenuamento
umanitario dell’efferatezza che per loro natura contrassegna le pratiche
guerresche. Meno – però – ci si domanda [ed è carenza non proprio commendevole]
se veramente ciò sia vero: se realmente il discrimine segnato [da canonisti e
da teologi] fra “guerra giusta” e “guerra ingiusta” sia tale da raggiungere gli
scopi (riduttivi, appunto, e lenitivi) che lodevolmente si prefigge. Neppure
[direi] ci si fa carico di quali “ricadute” – non altrettanto positive –
quell’accomodamento curalistico [tutto che accorto] possa aver avuto – e possa
ancor avere – sulla «integrità» della «testimonianza religiosa cristiana»: e
[più generalmente] sulla «qualità ideale» della «esperienza civile» della
umanità tutta quanta.
11. – Intanto –
quando si riflette al nostro tema – non dovrebbe sfuggire all’attenzione il
fatto che solo “situazioni conflittuali elementari” [o solo quelle sottoposte
al vaglio di certo “sbrigativo schematismo”] posson essere vedute nei modi
d’una contrapposizione netta – di timbro quasi manicheo – d’una Parte che ha
ragione [che ha “tutte le ragioni”] e d’una Controparte che invece ha “tutti i
torti”. Insegna per contro l’esperienza che – di norma – [nelle situazioni
conflittuali d’una qualche complessità] buoni e cattivi motivi si frammischiano.
Ciascun competitore ha – in esse – le sue brave ragioni da vantare, ciascuno ha
le sue colpe. [Insegna poi sempre l’esperienza quanto poco, a volte, gli stessi
animi forti sappiano restar indifferenti al fascino del proprio tornaconto:
cosí da credersi in ragione anche se sono in torto]. Può per ciò accadere che
ciascuna Parte interessata si senta formalmente sostenuta dalla legge etica
[dalla malleveria di Dio!] nell’attuamento del suo buon diritto: reale o
presunto che esso sia. E può accadere che se ne reputi superiormente
autorizzata [in questo suo impegnarsi in una “guerra lecita”: “giusta”:
addirittura “santa”] a colpevolizzare (a demonizzare addirittura) l’avversario:
quel «nemico ingiusto» che non è veduto come un qualcuno che difende a pari
titolo una sua propria utilità (degna essa stessa di riguardo) sí invece come
un reprobo: il quale si macchia della colpa di farsi violento patrocinatore
della propria iniquità.
Al venerando
principio romanistico [quello, ricordiamo, per cui, come è “vera” la guerra che
il popolo romano porta agli altri popoli, cosí “vera guerra” è quella che gli
altri popoli portano al popolo romano] a questo principio di diritto bellico se
ne oppone un altro, capace d’altri approdi: quello secondo il quale – se l’un bellator
si batte giustamente – l’altro non può che essere nel torto: «ubi iustum est
bellum ex parte una, ex altera vero iniustum». E chi versa nel torto non
altrimenti verrà a battersi che «temerarie»: meritando – pertanto – il
suo castigo: «quia non debet remanere malicia impunita». E’ – l’«iniustus
bellator» – della mala risma di coloro che vanno giustamente trattati alla
maniera dei «latrones» e dei «praedones» delle fonti
romanistiche. A quell’ingiusto combattente «neque propriam patriam licitum
est defendere». A lui diventa illecito difendere la sua stessa vita: «is
qui defendit se contra auctoritatem iuris temerarie se defendit». Donde una
catena di spiacevoli inconvenienti: tali – non già [«sicut in votis»] da
alleggerire – sí invece da esacerbare ulteriormente la crudezza della condotta
bellica. Specie le volte – va da sé – che siano entrambi i bellatores
[forti ciascuno del suo buon diritto, o della idea che se n’è fatta] a credersi
nel giusto: non trattenendosi – pertanto – dal «far pagare all’avversario le
sue colpe»: sino a sentirsi autorizzato a devastare le sue terre: a dispogliarlo
dei suoi beni: della sua personale libertà: della sua stessa vita.
12. – Soprattutto
però parrebbe poco o nulla impensierirsi – la cerchia dei probati auctores
– del «deterioramento spirituale» che ineluttabilmente s’accompagna al
riconoscimento [sia pur accompagnato da provvidi distinguo, e da sagaci
accorgimenti dialettici] della «derogabilità» – in dipendenza d’interessi umani
assai concreti – d’un «principio religiosamente fondante» di proclamata
ascendenza sovra-umana: il quale [quanto che sia chimerico: quanto che sia
straniero, nella sua strenua assolutezza, alla cruda realtà della fenomenologia
comunitaria] vuole comunque esprimere un «valore ideale» di caratura altissima.
Si tratta [è vero] d’un principio di tanto impegnante dignità spiritualistica
da sorpassare di molto la povera valenza umana degli uomini comuni: ai quali
[chiamati, come sono, a vivere in terra la propria esperienza, al metro delle istanze
del vivere consueto] non può non essere concesso – per la fragilità del loro
stato – di negare de facto il proprio assenso a canoni ideali che tanto
profondamente sopravanzano le pulsioni della loro naturalità: sino –
addirittura – a sovvertirle. Nulla di “eroico” [si sa] si può pretendere dalla
generalità indifferenziata dei mortali: nulla di “grande” da questi si può
esigere nei modi d’un mandato imperativo di rigorosa vincolatività. Non può –
una larga “duttilità d’operazione” – esser negata all’humana debilitas.
Ma – tutto ciò riconosciuto – a palesarsi come un che di viceversa
«inammissibile» è che la pochezza ideale degli uomini comuni [quella che spiega
il loro ordinario disattendere i dettami d’una austera rigorosità morale]
finisca – magari per il tramite d’una agguerrita intellettualità ufficiale –
con l’agire in via interpretativa sulla “sostanza” della norma agendi:
cosí da impoverirne il “significato ideale”, e sin banalizzarlo. Gli si fa dire
in fine – al principium primum del quale ora parliamo – un che di
diverso (di lontano a volte) da quanto – con sublimità d’accento – ha
proclamato un Uomo certamente grande: al quale proprio coloro che s’ingegnano
di «ominizzare il Suo Messaggio» riconoscono – per fede – la natura superlativa
di “Deus verus”.
Dà come un senso
di amarezza [debbo dirlo] il prender atto di quanto zelo – per secoli – abbia
messo l’intellettualità ecclesiastica nel rileggere il Messaggio in chiave
edulcorante: smussando proprio quelle asperità assiologiche che – anche a chi
manca della fede – rendono insigne il retaggio della Croce. Nulla tanto ha
nociuto a certo Cristianesimo [al suo patrimonio ideale, ben s’intende, non
alla sua capacità di «durare nel tempo»] quanto il suo abdicare alla
intangibilità di certi suoi princìpi, tutto che “scabrosi”.
* *
*
13. – Si può
sbeffeggiare quanto e come si vuole il «pacifismo»: quanto e come si vuole i
«pacifisti». Si può irridere al candore delle «anime belle» che – nella
bambinesca ingenuità che le distingue – con certe pallide illusioni si
baloccano. A tanta innocenza ben s’oppone lo «sperimentato pragmatismo» di chi
– piantano invece in terra – «sa come si vive»: di chi sa come ci si deve
comportare: come poter attendere – con sano realismo – alla risoluzione
concreta dei problemi che davvero contano. E certo [lo si deve riconoscere]
colui che sia chiamato a impegnative “scelte pubbliche” (a “scelte politiche”
importanti) non può non tener conto – con tutta ponderatezza – delle
circostanze della storia. Starà – caso per caso – al suo responsabile
equilibrio soppesare i pro e i contra quali gli si presentano nei
fatti: e questa sua “prudentia regnativa” potrà trarlo – alle volte – a
prender decisioni anche drammatiche: capaci d’esiti cruenti. Però non tutto può
essere lasciato – nella conduzione della cosa pubblica – al “senso del
concreto” e al “seno del possibile” [e al “cinismo”, sin compiaciuto a volte di
se stesso] degli uomini d’azione. Non
può ben anche non soccorrere [esente dal gravame d’un siffatto assieme di
“condizionamenti operativi pratici”] la “testimonianza ideale” di chi – non
“sul crudo terreno della prassi” – sí appunto “sul piano etereo delle idee” si
riproponga di metter a frutto i suoi talenti. Anzi sarà proprio la fermezza
intransigente che questi saprà porre nel suo dileggiato «idealismo» [dico della
forza morale e intellettuale con la quale saprà farsi custode a patrocinatore
delle sue illusioni] sarà proprio questa «civile militanza» a produrre – non
ostante tutto – un proprio effetto sul piano stesso della “operatività politica
reale”: in ciò che le riesca – nel quadro della dinamica civile – d’incentivare
certe scelte, di fare da remora a certe altre: d’ottenere il meglio; d’impedire
il peggio.
Non compete –
alla intellettualità impegnata – di governare gli uomini: sí piuttosto le
spetta di operare sul loro patrimonio di valori. E ciascuno [nella dialettica
civile: quando a venir in gioco è proprio un fitto confronto di valori]
ciascuno è chiamato a far sentire la sua voce: a far lealmente la sua parte. E
al nostro «idealista visionario» [che toto pectore si batta per le
proprie fisime ideologiche] sarà pur dato d’ottenere – nel processo di
«mediazione» qual operato dalla storia – il raggiungimento politico d’un “punto
concreto d’equilibrio” tanto meno discosto dai suoi vaghi archetipi quanto più
di questi egli si sappia rendere sostenitore tenace. Quante del resto le
chimere che – nel corso delle vicissitudini terrene – hanno saputo «farsi storia»!
E’ dominata la vicenda millenaria degli uomini dall’impressionante «realità
dell’utopia». Tante le umane idealità che ai più parevano in origine null’altro
che fantasticherie prive di senso. Tante le “folli utopie” d’un tempo che poi –
nei secoli – [in spreto della sorda inerzia delle masse, e della reazione sin
brutale dell’establishment] sono riuscite a trasformarsi in
concretissime realtà: cosí da imprimere un marchio addirittura tipizzante sul
nostro vivere civile. L’uguaglianza giuridica fra gli uomini; la loro pari
dignità: erano questi – dapprincipio – vaghi vaneggiamenti da filantropi. E
vaghi ideologismi libertari erano quelli che attestavano la facoltà di ognuno
di seguire a proprio modo i propri convincimenti di doverosità: di venerare il
Sacro cosí come l’avverte presente “intus in pectore”, e sempre che
quella presenza egli l’avverta. Seguire queste – e le tante altre fantasie
utopistiche fattesi realtà operanti – è come ripercorrere la storia
dell’Umanità in progresso.
E questa fiducia
nel valore impreteribile della «testimonianza ideale» [tutto che contrastata, sin
irrisa] questa disposizione generosa – come la si richiede viva e ferma nella
intellettualità laica, pensosa d’attestare e di trasmettere i propri
convincimenti di «doverosità umana» – cosí a più forte ragione la si può (la si
deve) esigere nella intellettualità religiosa: la quale – quei suoi
convincimenti – li vede addirittura sanzionati dall’alto Volere imperativo di «Colui
che è».