Convegno
Internazionale
Il
Diritto patrio. Tra diritto comune e
codificazione
(secoli XVI-XIX)
(Alghero, 4-6 novembre
2004)
Al complesso e
“insidioso” tema del diritto patrio è stato dedicato il
Convegno Internazionale di studi che si è svolto presso il Chiostro di
San Francesco ad Alghero dal 4 al 6 novembre 2004, promosso dal Dipartimento di
Scienze Giuridiche Sezione di Storia del Diritto italiano
dell’Università di Roma “
La prima sessione dei lavori,
presieduti da Mario Da Passano
dell’Università di Sassari, è stata introdotta da una
relazione di Ennio Cortese dell’Università di Roma
“
Italo Birocchi dell’Università di Roma
“
Gian Savino Pene Vidari dell’Università di Torino (Legislazione e giurisprudenza nel diritto
sabaudo) ha posto in evidenza che solo dopo la metà del Cinquecento,
con Emanuele Filiberto, la legislazione sabauda afferma una sua autonomia
rispetto al diritto comune. Il duca nei suoi “Ordini nuovi” dichiara infatti che le norme da lui
emanate devono prevalere su ogni altra fonte, compresa la disciplina del
diritto comune. Emanuele Filiberto può essere quindi considerato il vero
fondatore del “diritto patrio” sabaudo. La costituzione dei Senati,
quali corti supreme, fu uno degli
elementi significativi della politica giuridica di Emanuele Filiberto, con
conseguenze rilevanti soprattutto nei secoli successivi. Le decisioni senatorie
costituiranno nei secc. XVI-XVII un pilastro decisivo, ancor più della
legislazione principesca, per la formazione di un diritto patrio sabaudo. Alla
fine del ‘700 le diverse fonti del diritto (e quindi lo stesso diritto
comune) ebbero rilievo nell’ordinamento piemontese solo e in quanto
volute dal re. Nel periodo napoleonico la soggezione diretta alla Francia
cancellò il diritto patrio, sostituito d’autorità da quello
“nazionale” transalpino. Ma nei territori della monarchia
piemontese, restituiti con la pace di Vienna al Re di Sardegna, si
ripristinò il precedente “diritto patrio” con annesso il
diritto comune.
Rodolfo Savelli dell’Università di
Genova (Lo statuto repubblicano. Aspetti dell’esperienza statutaria
genovese) ha richiamato l’attenzione sugli ordinamenti della
Repubblica di Genova a proposito del binomio
“costituzione/legalità”. «A scavare sotto le apparenze
- afferma Savelli - risulta evidente come la storia della Repubblica di Genova
(e della sua organizzazione costituzionale) possa essere studiata come un caso
da laboratorio». Dalla metà del Trecento Genova ebbe una
“costituzione” scritta che si differenziava, come natura ed
essenza, dai normali testi statutari presenti in altre città. Si
chiamavano regulae (nel XIV-XV sec.),
reformationes, constitutiones, leges (nel
XVI secolo), era evidente dunque che in città vi erano due livelli di
organizzazione giuridica di legalità: una rappresentata dalla
legislazione ordinaria (civile, criminale, commerciale) e una che trovava nei
testi sopra menzionati il proprio referente principale, e che si collocavano
gerarchicamente ad un livello superiore, fondando e legittimando
l’esercizio del potere. In questi testi (stampati dalla seconda
metà del Cinquecento) si trova il fondamento di una tradizione che ha
caratterizzato l’esperienza repubblicana genovese: il problema dell’amministrazione
della giustizia. Se le regulae
dovevano servire contro i tiranni, è anche vero che il sistema di
controlli e contrappesi, poteva spiegare perché una città
così turbolenta, divisa in partiti e fazioni, mantenesse una ferrea
cultura della difesa della legalità “costituzionale”.
La prima parte della seconda giornata
del convegno è stata introdotta e presentata da Livio Antonielli
dell’Università Statale di Milano. Maria Gigliola di Renzo Villata
dell’Università Statale di Milano (Tra ius nostrum e ius commune. Il
diritto patrio nel Ducato di Milano) ha analizzato l’emergere di
un diritto unico su base territoriale tra Cinque e Seicento nello Stato di
Milano, sottolineando l’importanza che ebbe nel processo formativo di un
nucleo di leggi e “consuetudines” riconoscibili come
caratteristiche del Ducato, quell’opera di consolidazione del diritto
principesco che sono le Novae
constitutiones Dominii Mediolanensis promulgate da Carlo V.
L’emergere di un diritto unico, ha affermato la relatrice, si può
intravedere con contorni sufficientemente nitidi intorno ad alcuni testi
normativi, ad alcune interpretazioni ed orientamenti giurisprudenziali espressi
dal Senato di Milano e trasmessi alla nostra memoria dai giuristi, o conservati
da raccolte di Ordini senatori o dai
formulari provenienti da diverse fonti, ufficiali e meno ufficiali, attestanti
una pratica consolidata. Nel Seicento la necessità di creare
uniformità giuridica percepibile come elemento di certezza, di
stabilità e di
identità regionale, è svolto in Lombardia da una dottrina
fortemente orientata verso la prassi. Nel Settecento l’espressione
“diritto patrio” comincia a
comparire negli scritti dei giuristi. Ma solo più tardi il suo
uso si fa più frequente nelle fonti. Ad esempio nei progetti di codice
civile redatti da Alberto de Simoni tra il 1802 e il 1803 per
La relazione di Luca Mannori
dell’Università di Firenze (Un’istessa legge per un’istessa
sovranità: la costruzione di un’identità giuridica per il
Granducato di Toscana) ha avuto come oggetto l’esperienza
istituzionale del Granducato di
Toscana nei secoli XVIII-XIX. A suo avviso un “diritto patrio”,
propriamente toscano, non ci è mai stato, sia perché sino al 1737
è di fatto “mancata una Toscana”, ma anche per più
complessi e profondi motivi
ideologici. Durante il governo della dinastia medicea non è emerso
infatti non soltanto un diritto “toscano”, ma nemmeno un diritto
tradizionale “fiorentino” o “senese”. Il diritto
autoctono della regione ha continuato a presentarsi come una costellazione di
statuti cittadini e rurali (circa 500) dai profili differenziati. Che poi al di
sopra di questi iura propria si sia
venuta consolidando una legislazione sovrana di qualche spessore, o una robusta
giurisprudenza rotale, non cambia la questione. Locuzioni come ius patrium, o legge patria, rare fino
agli anni quaranta del Settecento equivalgono ancora ai tradizionalissimi ius proprium,, ius municipale, ius
statutarium cioè al diritto particolare dei singoli territori o
delle città. Questa situazione si modificò con l’avvento
della dinastia lorenese, durante la quale si assiste alla nascita concettuale
del diritto patrio toscano che corrisponde al tentativo da parte della migliore
cultura giuridica regionale di dare una risposta originale alla sfida della
nuova organizzazione dello Stato. Ma il Settecento non produsse un proprio
“codice civile” e neppure nessun insegnamento universitario
intitolato al diritto patrio toscano, tuttavia gettò le basi di una
tradizione che trova il suo cardine nel mito di Pietro Leopoldo. Chiusa la
parentesi francese, nel 1814, il diritto patrio vede rafforzata la propria
posizione all’interno dell’ordinamento, e si identifica con una
legge sovrana moderna e razionale.
Mario Caravale dell’Università di Roma
“
La seconda sessione della seconda
giornata di lavori è stata introdotta e presieduto da Aquilino
Iglesia Ferreirós dell’Università Statale di
Barcellona. Marco Miletti dell’Università di Foggia (“Ius
commune in Regno”. Tradizione e prassi giurisprudenziale nel Mezzogiorno
d’età moderna) ha
posto in evidenza come l’esperienza giuridica moderna del Regno di Napoli
dimostri gli effetti dell’assenza o della debolezza di un centro
decisionale autorevole, in grado di stabilire regole condivise (per quanto sia
possibile in una società di Antico Regime) e di veicolarle attraverso
magistrature relativamente autoreferenziali ma tendenzialemente compartecipi.
«Non per questo – ha sostenuto Miletti - tuttavia il diritto patrio
del regno può liquidarsi come inutile specchio delle vanità
tardoilluministiche. Esso si era cementato, pur tra convulse sovrapposizioni,
per secoli: e grazie alla leadership
saldamente tenuta nel Mezzogiorno dall’intellighenzia di estrazione giuridica, aveva contribuito a sviluppare
uno spirito di appartenenza culturale che travalicava i confini della respublica doctorum. Per non dire
dell’eredità tecnica di quella lunga stagione: l’ossequio
portato dai primi codificatori postunitari all’antica giurisprudenza
regnicola dovrebbe forse indurre gli storici ad individuare analiticamente
nell’ordinamento italiano i debiti contratti con lo ius patrium neapolitanum».
Antonello Mattone
dell’Università di Sassari (Il diritto patrio del Regno di Sardegna tra
ius commune e costituzionalismo) ha sostenuto che il nucleo iniziale
del diritto patrio del Regno di Sardegna si identifica con i Commentaria (1567) del magistrato
Girolamo Olives allo Statuto trecentesco della Carta de Logu di Arborea, nei quali la lettura della tradizione
consuetudinaria è filtrata attraverso il diritto comune. La simbiosi tra
elemento consuetudinario e ius commune
emerge anche nelle raccolte di decisiones
dei tribunali supremi del Regno (Reale Udienza, Reale Governazione del Capo
di Sassari) realizzate dai magistrati seicenteschi (Dexart, Quesada Pilo). Un
altro filone di diritto patrio è quello che si identifica col
costituzionalismo del Regno modellato sulla tradizione contrattualistica della
Corona di Aragona: i giuristi
seicenteschi (Dexart, Canales de Vega, Frasso) considerarono i capitoli
di Corte parlamentari come la costituzione consuetudinaria del Regno e le leggi
fondamentali che non potevano essere violate dall’invadenza
“assolutistica” della Corona. A questo “deposito di leggi”
si ispirò il costituzionalismo
della “sarda rivoluzione” del 1793-96 che rilesse
l’antica tradizione pattista con gli occhi della cultura illuminista e delle teorie di Montesquieu e di
Filangieri.
Andrea Romano dell’Università
di Messina (Elementi genetici, evoluzione e fonti degli iura sicula) ha
individuato l’origine del diritto patrio siciliano nella nascita del
Regnum Siciliae (1130) e la sua conclusione nel 1816, anno in cui
Jon Arrieta Alberdi dell’Università di San
Sebastian (Ubicación de los reinos de
Maria Paz Alonso Romero dell’Università di
Salamanca (Derecho patrio y derecho común en
La mattina della terza sessione di
studi, coordinata da Gigliola di Renzo Villata dell’Università
Statale di Milano si è
aperta con la relazione di Jean-Louis Thireau
dell’Università di Parigi I, Panthéon-Sorbonne (Le
droit français entre ius commune et
codification nationale), che ha spiegato come la storia del diritto
francese nei suoi rapporti con il diritto comune e con il diritto romano, rappresenti
una questione complessa e ancora difficile da mettere a fuoco. «A prima vista ci conduce –
sostiene Thireau – a fare delle constatazioni contraddittorie: da una parte
Klaus Luig dell’Università di
Colonia (Insegnamento e scienza del diritto patrio nella Germania dei secoli
XVII-XVIII), ha sostenuto che la storia del diritto patrio inizia
quando i giuristi incominciarono a vedere due masse diverse di norme in
concorrenza fra loro, che potevano essere contraddittorie: il diritto romano e
il diritto patrio. «All’origine delle mie osservazioni –
afferma Luig – sta la predominanza del diritto romano, non solo nella pratica
ma anche nella scienza e nell’insegnamento. E questa posizione eminente
del diritto romano era causata dal fatto che le prime facoltà giuridiche
tedesche avevano recepito il piano di studi dell’Università di
Bologna». Il grande svantaggio del diritto patrio, almeno in origine, era
dovuto al presupposto che scienza e insegnamento si occupavano soprattutto di diritto
romano, ignorando di conseguenza il diritto germanico. L’influenza del
diritto patrio, almeno inizialmente, si limitava alla modificazione o
“purificazione” di qualche regola del diritto romano secondo i
valori del popolo tedesco. Molti aspetti del diritto patrio della Germania
erano tratti di carattere comune europeo, e sempre europeo era il programma di mettere da
parte le regole derogate dal diritto romano e di includere quindi nel complesso
della “scienza” le norme di origine locale. La peculiarità
tedesca era invece quella di separare nella dottrina le norme di origine romana
da quelle di origine germanica.
Pio Caroni dell’Università di
Berna (La vecchia Confederazione svizzera
1521-1798) ha evidenziato le anomalie elvetiche: rifiuto del governo
monarchico, repubblicanesimo non democratico, federalismo esagerato. Una
realtà istituzionale dunque contraddittoria, a livello politico, sociale
economico e finanziario. Queste contraddizioni si toccano con mano quando ci si
interroga sull’atteggiamento del Paese nei confronti della scienza
giuridica. Gli svizzeri hanno chiuso la porta alla ricezione del diritto romano
e comune. «La mancata ricezione è in realtà una chance che ha impedito – afferma
Caroni - che si creasse un diaframma tra la società e la sua creazione
del diritto. La ricezione diventa un problema quando è rifiutata,
cioè quando c’è una logica giuridica che si fa forte del
rifiuto». Se ius patrium e ius commune sono un binomio
imprescindibile, in Svizzera questa coordinata massima non compare. A Berna
nonostante l’Università venne fondata nel XIX secolo, si insegnava
il diritto patrio già nel Settecento:nel 1748 si parla infatti del
diritto bernese come una delle varianti del diritto germanico.
Il pomeriggio della terza sessione di
studi si è concluso con una tavola rotonda coordinata da Luigi
Berlinguer dell’Università di Siena, membro del
Consiglio Superiore della Magistratura, che ha sviluppato le tematiche del
rapporto fra i diritti nazionali e il diritto europeo, dell’insegnamento
universitario delle materie giuridiche, della formazione dei giuristi, in cui
sono intervenuti Umberto Santarelli
dell’Università di Pisa, Letizia Vacca e Vincenzo
Zeno Zencovich, entrambi dell’Università di Roma Tre,
che hanno dato vita ad un interessante e stimolante dibattito.
Annamari Nieddu
Università di Sassari