N. 4 – 2005 – Cronache

 

 

Convegno Internazionale

Il Diritto patrio. Tra diritto comune e

codificazione (secoli XVI-XIX)

 

 

(Alghero, 4-6 novembre 2004)

 

Al complesso e “insidioso” tema del diritto patrio è stato dedicato il Convegno Internazionale di studi che si è svolto presso il Chiostro di San Francesco ad Alghero dal 4 al 6 novembre 2004, promosso dal Dipartimento di Scienze Giuridiche Sezione di Storia del Diritto italiano dell’Università di Roma “La Sapienza”, dalla Scuola speciale per Archivisti e Bibliotecari della stessa Università e dal Dipartimento di Storia dell’Università degli Studi di Sassari. L’iniziativa è stata resa possibile grazie ad un contributo della Fondazione Banco di Sardegna. Il Convegno ha rappresentato la conclusione di una ricerca PRIN – MIUR, fondi ex 40%, 2002, dal titolo Il diritto comune nell’alto Medioevo e lo sviluppo dei diritti patri in Europa, realizzata dalle Università di Roma “La Sapienza”, Messina e Sassari.

La prima sessione dei lavori, presieduti da Mario Da Passano dell’Università di Sassari, è stata introdotta da una relazione di Ennio Cortese dell’Università di Roma “La Sapienza” (Le radici medievali: immagini di ius commune) che ha rilevato quale “protagonista strano e sfuggente” sia stato il diritto comune e come sia difficile risalire alle sue origini, giacché le fonti medievali non ne fanno quasi cenno. Richiamando Francesco Calasso ha ricordato come egli abbia individuato il diritto comune quale derivazione del diritto imperiale. A cinquant’anni di distanza dalla pubblicazione di “Medioevo del diritto” (1954), testo di riferimento per gli studi di storia giuridica, Cortese ha posto una serie di quesiti sollecitati dall’esigenza di sapere quando sia nato il diritto comune. Si è interrogato sulla sua natura di diritto precettivo, universale e sulla sua anima unitaria, ed ha rilevato che le Scuole medievali non hanno definito un concetto chiaro di diritto comune. L’intuizione di Calasso – la cui impostazione secondo Cortese ha ormai bisogno di una revisione critica - sta nell’aver individuato che il diritto romano, dal punto di vista potenziale, ha avuto una vocazione universale mai attuata. Il suo intervento si è concluso con la considerazione: «come diritto sussidiario il diritto romano era perfetto e servì potenzialmente a unificare i diritti locali, e i diritti patri». In questa veste sussidiaria, che sopravvenne relativamente tardi, esso assunse un carattere sostanzialmente giurisprudenziale.

Italo Birocchi dell’Università di Roma “La Sapienza” nella seconda relazione introduttiva (La formazione dei diritti patri nell’Europa moderna tra politica dei sovrani e pensiero giuspolitico, prassi e insegnamento) ha sostenuto che in Italia siamo ancora troppo legati a una certa concezione del diritto comune per focalizzare l’attenzione sui diritti patri. La sua tesi è che «il sistema di diritto affermatosi  nell’Europa continentale – con intensità, tempi e modalità non coincidenti – nei secoli dell’età moderna andò differenziandosi progressivamente nei vari ordinamenti che si fondavano su una pluralità di fonti normative, e si richiamavano ad un “diritto comune” la cui individuazione non era univoca ma presentava i caratteri seguenti :  un’impronta condivisa soprattutto nei rapporti privatistici, giacché in diverse forme si richiamavano alla tradizione dello ius commune da identificarsi non nelle norme del corpus iuris giustinianeo né in quelle del diritto canonico, ma nelle categorie e dottrine da esse derivanti; davano ampio spazio all’interpretatio dei giuristi, in quanto membri dei supremi collegi giudicanti; risentivano degli interventi del sovrano; tendevano a essere espressi nelle lingue nazionali, con l’abbandono progressivo del latino; e si arricchivano al loro interno di caratteristiche “nazionali” (distintive). In questa prospettiva Birocchi ha analizzato la formazione dei diritti patri nella normativa del principe, nel diritto giurisprudenziale dei tribunali supremi e nell’insegnamento universitario del diritto.

Gian Savino Pene Vidari dell’Università di Torino (Legislazione e giurisprudenza nel diritto sabaudo) ha posto in evidenza che solo dopo la metà del Cinquecento, con Emanuele Filiberto, la legislazione sabauda afferma una sua autonomia rispetto al diritto comune. Il duca nei suoi “Ordini nuovi”  dichiara infatti che le norme da lui emanate devono prevalere su ogni altra fonte, compresa la disciplina del diritto comune. Emanuele Filiberto può essere quindi considerato il vero fondatore del “diritto patrio” sabaudo. La costituzione dei Senati, quali corti supreme,  fu uno degli elementi significativi della politica giuridica di Emanuele Filiberto, con conseguenze rilevanti soprattutto nei secoli successivi. Le decisioni senatorie costituiranno nei secc. XVI-XVII un pilastro decisivo, ancor più della legislazione principesca, per la formazione di un diritto patrio sabaudo. Alla fine del ‘700 le diverse fonti del diritto (e quindi lo stesso diritto comune) ebbero rilievo nell’ordinamento piemontese solo e in quanto volute dal re. Nel periodo napoleonico la soggezione diretta alla Francia cancellò il diritto patrio, sostituito d’autorità da quello “nazionale” transalpino. Ma nei territori della monarchia piemontese, restituiti con la pace di Vienna al Re di Sardegna, si ripristinò il precedente “diritto patrio” con annesso il diritto comune.

Rodolfo Savelli dell’Università di Genova (Lo statuto repubblicano. Aspetti dell’esperienza statutaria genovese) ha richiamato l’attenzione sugli ordinamenti della Repubblica di Genova a proposito del binomio “costituzione/legalità”. «A scavare sotto le apparenze - afferma Savelli - risulta evidente come la storia della Repubblica di Genova (e della sua organizzazione costituzionale) possa essere studiata come un caso da laboratorio». Dalla metà del Trecento Genova ebbe una “costituzione” scritta che si differenziava, come natura ed essenza, dai normali testi statutari presenti in altre città. Si chiamavano regulae (nel XIV-XV sec.), reformationes, constitutiones, leges (nel XVI secolo), era evidente dunque che in città vi erano due livelli di organizzazione giuridica di legalità: una rappresentata dalla legislazione ordinaria (civile, criminale, commerciale) e una che trovava nei testi sopra menzionati il proprio referente principale, e che si collocavano gerarchicamente ad un livello superiore, fondando e legittimando l’esercizio del potere. In questi testi (stampati dalla seconda metà del Cinquecento) si trova il fondamento di una tradizione che ha caratterizzato l’esperienza repubblicana genovese: il problema dell’amministrazione della giustizia. Se le regulae dovevano servire contro i tiranni, è anche vero che il sistema di controlli e contrappesi, poteva spiegare perché una città così turbolenta, divisa in partiti e fazioni, mantenesse una ferrea cultura della difesa della legalità “costituzionale”.

La prima parte della seconda giornata del convegno è stata introdotta e presentata da Livio Antonielli dell’Università Statale di Milano. Maria Gigliola di Renzo Villata dell’Università Statale di Milano (Tra ius nostrum e ius commune. Il diritto patrio nel Ducato di Milano) ha analizzato l’emergere di un diritto unico su base territoriale tra Cinque e Seicento nello Stato di Milano, sottolineando l’importanza che ebbe nel processo formativo di un nucleo di leggi e “consuetudines” riconoscibili come caratteristiche del Ducato, quell’opera di consolidazione del diritto principesco che sono le Novae constitutiones Dominii Mediolanensis promulgate da Carlo V. L’emergere di un diritto unico, ha affermato la relatrice, si può intravedere con contorni sufficientemente nitidi intorno ad alcuni testi normativi, ad alcune interpretazioni ed orientamenti giurisprudenziali espressi dal Senato di Milano e trasmessi alla nostra memoria dai giuristi, o conservati da raccolte di Ordini senatori o dai formulari provenienti da diverse fonti, ufficiali e meno ufficiali, attestanti una pratica consolidata. Nel Seicento la necessità di creare uniformità giuridica percepibile come elemento di certezza, di stabilità  e di identità regionale, è svolto in Lombardia da una dottrina fortemente orientata verso la prassi. Nel Settecento l’espressione “diritto patrio” comincia a  comparire negli scritti dei giuristi. Ma solo più tardi il suo uso si fa più frequente nelle fonti. Ad esempio nei progetti di codice civile redatti da Alberto de Simoni tra il 1802 e il 1803 per la Repubblica Italiana, dove ravvisa la “momentanea cristallizazzione” di quel patrimonio giuridico lombardo, disperso in tante fonti: l’incontro tra tradizione di diritto comune e statutaria, non impedisce di cogliere i tratti del quadro d’insieme, di una legislazione autoctona che tende alla completezza ma sa di non poterla raggiungere e conserva ancora forti legami con il diritto comune, pronto a svolgere il ruolo di diritto sussidiario. Claudio Povolo dell’Università di Venezia (Il diritto veneto: tra mito e realtà) ha sostenuto che  per il diritto veneto sia necessaria una operazione di decodificazione del mito per cogliere l’effettivo spessore di un fenomeno giuridico che  non può essere delineato senza ricorrere ad un’analisi politica e antropologica tesa ad individuare il rapporto controverso tra teoria e prassi. I tratti caratteristici del diritto veneto sono il timbro eminentemente consuetudinario, il rifiuto di ogni tecnicismo giuridico, la sua avversione nei confronti della mediazione giurisprudenziale operata dai giuristi e, infine la stretta connessione esistente tra la dimensione giuridica e quella politica, sottolineata al massimo grado dall’ideologia repubblicana. Il rapporto tra diritto comune e  diritto veneto è caratterizzato da scambi e reciproche influenze, ma non superò mai quella separatezza che traeva origine dalla struttura stessa dello stato veneziano. Come tutti i sistemi consuetudinari anche il diritto veneto non accettava formalmente l’innovazione: i riferimenti espliciti alla tradizione, alle antiche consuetudini e al mito erano tutti elementi che dovevano salvaguardare l’ideologia repubblicana e il predominio del ceto dirigente aristocratico.

La relazione di Luca Mannori dell’Università di Firenze (Un’istessa legge per un’istessa sovranità: la costruzione di un’identità giuridica per il Granducato di Toscana) ha avuto come oggetto l’esperienza istituzionale del  Granducato di Toscana nei secoli XVIII-XIX. A suo avviso un “diritto patrio”, propriamente toscano, non ci è mai stato, sia perché sino al 1737 è di fatto “mancata una Toscana”, ma anche per più complessi  e profondi motivi ideologici. Durante il governo della dinastia medicea non è emerso infatti non soltanto un diritto “toscano”, ma nemmeno un diritto tradizionale “fiorentino” o “senese”. Il diritto autoctono della regione ha continuato a presentarsi come una costellazione di statuti cittadini e rurali (circa 500) dai profili differenziati. Che poi al di sopra di questi iura propria si sia venuta consolidando una legislazione sovrana di qualche spessore, o una robusta giurisprudenza rotale, non cambia la questione. Locuzioni come ius patrium, o legge patria, rare fino agli anni quaranta del Settecento equivalgono ancora ai tradizionalissimi ius proprium,, ius municipale, ius statutarium cioè al diritto particolare dei singoli territori o delle città. Questa situazione si modificò con l’avvento della dinastia lorenese, durante la quale si assiste alla nascita concettuale del diritto patrio toscano che corrisponde al tentativo da parte della migliore cultura giuridica regionale di dare una risposta originale alla sfida della nuova organizzazione dello Stato. Ma il Settecento non produsse un proprio “codice civile” e neppure nessun insegnamento universitario intitolato al diritto patrio toscano, tuttavia gettò le basi di una tradizione che trova il suo cardine nel mito di Pietro Leopoldo. Chiusa la parentesi francese, nel 1814, il diritto patrio vede rafforzata la propria posizione all’interno dell’ordinamento, e si identifica con una legge sovrana moderna e razionale.

Mario Caravale dell’Università di Roma “La Sapienza” nella sua relazione (Ius patrium e Stato della Chiesa) ha affermato che nelle terre dello Stato della Chiesa si rinvengono in età moderna aspetti di tutti e tre i modelli di diritto comune generale definiti dalla concreta esperienza giuridica del mondo occidentale. Aspetti, comunque labili e secondari rispetto alla tradizione antica e consolidata di diritti particolari, consuetudinari e signorili, integrati e rapportati con lo ius commune. In sostanza il diritto vigente nelle terre della Chiesa appare quanto mai variegato, con la persistenza dei diritti propri delle singole comunità e con un diritto comune che presentava tratti diversi rispetto alle altre aree di ius commune. Ma la molteplicità non si  fermava qui: ad essa contribuivano anche provvedimenti legislativi pontifici generali e particolari, la tradizione delle Costituzioni egidiane, diritti comuni ai distretti comunali e alle grandi signorie, consuetudini procedurali. Un quadro quanto mai complesso che resistette in grande misura anche ai tentativi di coordinamento promossi dai pontefici della Restaurazione e che  si concluse soltanto con l’unità d’Italia.

La seconda sessione della seconda giornata di lavori è stata introdotta e presieduto da Aquilino Iglesia Ferreirós dell’Università Statale di Barcellona. Marco Miletti dell’Università di Foggia (“Ius commune in Regno”. Tradizione e prassi giurisprudenziale nel Mezzogiorno d’età moderna) ha posto in evidenza come l’esperienza giuridica moderna del Regno di Napoli dimostri gli effetti dell’assenza o della debolezza di un centro decisionale autorevole, in grado di stabilire regole condivise (per quanto sia possibile in una società di Antico Regime) e di veicolarle attraverso magistrature relativamente autoreferenziali ma tendenzialemente compartecipi. «Non per questo – ha sostenuto Miletti - tuttavia il diritto patrio del regno può liquidarsi come inutile specchio delle vanità tardoilluministiche. Esso si era cementato, pur tra convulse sovrapposizioni, per secoli: e grazie alla leadership saldamente tenuta nel Mezzogiorno dall’intellighenzia di estrazione giuridica, aveva contribuito a sviluppare uno spirito di appartenenza culturale che travalicava i confini della respublica doctorum. Per non dire dell’eredità tecnica di quella lunga stagione: l’ossequio portato dai primi codificatori postunitari all’antica giurisprudenza regnicola dovrebbe forse indurre gli storici ad individuare analiticamente nell’ordinamento italiano i debiti contratti con lo ius patrium neapolitanum».

Antonello Mattone dell’Università di Sassari (Il diritto patrio del Regno di Sardegna tra ius commune e costituzionalismo) ha sostenuto che il nucleo iniziale del diritto patrio del Regno di Sardegna si identifica con i Commentaria (1567) del magistrato Girolamo Olives allo Statuto trecentesco della Carta de Logu di Arborea, nei quali la lettura della tradizione consuetudinaria è filtrata attraverso il diritto comune. La simbiosi tra elemento consuetudinario e ius commune emerge anche nelle raccolte di decisiones dei tribunali supremi del Regno (Reale Udienza, Reale Governazione del Capo di Sassari) realizzate dai magistrati seicenteschi (Dexart, Quesada Pilo). Un altro filone di diritto patrio è quello che si identifica col costituzionalismo del Regno modellato sulla tradizione contrattualistica della Corona di Aragona: i giuristi  seicenteschi (Dexart, Canales de Vega, Frasso) considerarono i capitoli di Corte parlamentari come la costituzione consuetudinaria del Regno e le leggi fondamentali che non potevano essere violate dall’invadenza “assolutistica” della Corona. A questo “deposito di leggi” si ispirò il costituzionalismo  della “sarda rivoluzione” del 1793-96 che rilesse l’antica tradizione pattista con gli occhi della cultura illuminista  e delle teorie di Montesquieu e di Filangieri.

Andrea Romano dell’Università di Messina (Elementi genetici, evoluzione e fonti degli iura sicula) ha individuato l’origine del diritto patrio siciliano nella nascita del Regnum Siciliae (1130) e la sua conclusione nel 1816, anno in cui la Sicilia perse la propria autonomia nei confronti del Regno di Napoli. La costituzione concessa nel 1296 dal re Federico III, che prevedeva l’istituzione del parlamento, rappresenta una sorta di vera e propria Magna Charta siciliana, destinata a influenzare la successiva tradizione di diritto pubblico del periodo aragonese e spagnolo e persino la stessa costituzione del 1812, voluta dagli inglesi, che si rifaceva alle consuetudini costituzionali del Regno. Dal 1817 al 1819, periodo in cui furono introdotti in Sicilia gli ordinamenti napoletani, si  richiamavano ancora le fonti del diritto patrio del Regno, le leggi romane, le prammatiche e le sicule sanzioni, le consuetudini generali e locali.     

Jon Arrieta Alberdi dell’Università di San Sebastian (Ubicación de los reinos de la Corona de Aragón en la Monarquía hispanica y formas de vinculación: concepciones y supuestos) nel suo intervento ha analizzato i “diritti patri” dei Regni della Corona d’Aragona non tanto dal punto di vista del carattere peculiare di ciascuno di essi, quanto di come si collocavano rispetto alla monarchia, vale a dire dalla prospettiva della posizione che occupavano negli ordinamenti monarchici e di come, nei secoli XVI e XVII, si rapportavano con gli organi centrali del governo. L’analisi della dottrina di alcuni importanti magistrati, presi ad esempio, ci ha rivelato come essi ebbero in comune la ricerca di una sistemazione adeguata dei rispettivi ordinamenti giuridici in relazione alla stabilità e alla  consolidazione della normativa e delle istituzioni. I giureconsulti della Corona d’Aragona (Ramírez, Viñes, Crespí, Vilosa, Mateu)  confermano la tendenza ad evitare l’introduzione di modifiche nelle struttura giuridico-costituzionale dei diversi Regni, pur auspicando nel complesso una funzione di garanzia da parte delle struttura di governo locale ed un appoggio fedele, nei momenti critici, alla monarchia.  

Maria Paz Alonso Romero dell’Università di Salamanca (Derecho patrio y derecho común en la Castilla moderna) nella sua relazione ha illustrato come nella Castiglia moderna il problema della relazione tra diritto comune e diritto patrio abbia subito l’influenza delle analisi dei giuristi del XVIII secolo di idee “regaliste”. In questa prospettiva, e alla luce di quanto disposto nella normativa ufficiale di prelazione di fonti, vigente dal 1348 (Alcalá), che sanciva il primato assoluto del diritto regio sulle altre fonti del diritto, si collocano lo ius proprium e lo ius commune in spazi distinti (rispettivamente la pratica e l’insegnamento universitario) e in ambiti istituzionali diversi (giurisdizioni, sentenze di tribunali, allegazioni forensi ect.), in una realtà giuridica come quella della Castiglia. La pratica processuale e le teorie impartite nei corsi di diritto presso l’Università di Salamanca, nei secoli  XVI e XVII, si presentano come elementi di uno stesso ordinamento giuridico, quello castigliano, all’interno del quale erano entrambi protagonisti e si  integravano a vicenda.

La mattina della terza sessione di studi, coordinata da Gigliola di Renzo Villata dell’Università Statale di Milano  si è aperta con la relazione di Jean-Louis Thireau dell’Università di Parigi I, Panthéon-Sorbonne (Le droit français entre ius commune et codification nationale), che ha spiegato come la storia del diritto francese nei suoi rapporti con il diritto comune e con il diritto romano, rappresenti una questione complessa e ancora difficile da mettere a fuoco.  «A prima vista ci conduce – sostiene Thireau – a fare delle constatazioni  contraddittorie: da una parte la Francia contesta la supremazia dello ius commune; dall’altra il codice civile francese appare come il coronamento di un lavoro di formazione e di affrancamento di un diritto puramente nazionale, d’impronta e di influenza romani». Egli ha posto in evidenza come in numerose opere di studiosi si rimarchi l’esistenza di una forte tradizione di indipendenza politica e intellettuale del diritto francese, insieme al rigetto  del diritto romano. Nel corso del XIV secolo la dottrina si sforzò di precisare le prerogative regie. I sovrani avevano infatti mostrato interesse al controllo del sistema delle fonti e del loro insegnamento, preoccupati che l’applicazione del diritto comune non menomasse la propria sovranità di fronte all’impero. L’ordinanza di Filippo il Bello (1312) aveva stabilito che il Regno fosse retto dalla consuetudine e non dal diritto scritto (romano) e che l’insegnamento di quest’ultimo fosse utile per comprendere le consuetudini francesi chiarendo il rapporto di funzionalità dello studio delle fonti romane rispetto al droit coutumier. L’espressione “diritto francese” entra in uso negli anni 1570-1580. Un secolo più tardi, l’editto di Saint-Germain-en-Laye (1679) istituiva ufficialmente l’insegnamento del diritto francese nelle facoltà giuridiche. Si capisce che il diritto romano non sia stato rigettato ma esercitato a titolo diverso dal diritto comune..

Klaus Luig dell’Università di Colonia (Insegnamento e scienza del diritto patrio nella Germania dei secoli XVII-XVIII), ha sostenuto che la storia del diritto patrio inizia quando i giuristi incominciarono a vedere due masse diverse di norme in concorrenza fra loro, che potevano essere contraddittorie: il diritto romano e il diritto patrio. «All’origine delle mie osservazioni – afferma Luig – sta la predominanza del diritto romano, non solo nella pratica ma anche nella scienza e nell’insegnamento. E questa posizione eminente del diritto romano era causata dal fatto che le prime facoltà giuridiche tedesche avevano recepito il piano di studi dell’Università di Bologna». Il grande svantaggio del diritto patrio, almeno in origine, era dovuto al presupposto che scienza e insegnamento  si occupavano soprattutto di diritto romano, ignorando di conseguenza il diritto germanico. L’influenza del diritto patrio, almeno inizialmente, si limitava alla modificazione o “purificazione” di qualche regola del diritto romano secondo i valori del popolo tedesco. Molti aspetti del diritto patrio della Germania erano tratti di carattere comune europeo, e sempre  europeo era il programma di mettere da parte le regole derogate dal diritto romano e di includere quindi nel complesso della “scienza” le norme di origine locale. La peculiarità tedesca era invece quella di separare nella dottrina le norme di origine romana da quelle di origine germanica. 

Pio Caroni dell’Università di Berna (La vecchia Confederazione svizzera 1521-1798) ha evidenziato le anomalie elvetiche: rifiuto del governo monarchico, repubblicanesimo non democratico, federalismo esagerato. Una realtà istituzionale dunque contraddittoria, a livello politico, sociale economico e finanziario. Queste contraddizioni si toccano con mano quando ci si interroga sull’atteggiamento del Paese nei confronti della scienza giuridica. Gli svizzeri hanno chiuso la porta alla ricezione del diritto romano e comune. «La mancata ricezione è in realtà una chance che ha impedito – afferma Caroni - che si creasse un diaframma tra la società e la sua creazione del diritto. La ricezione diventa un problema quando è rifiutata, cioè quando c’è una logica giuridica che si fa forte del rifiuto». Se ius patrium e ius commune sono un binomio imprescindibile, in Svizzera questa coordinata massima non compare. A Berna nonostante l’Università venne fondata nel XIX secolo, si insegnava il diritto patrio già nel Settecento:nel 1748 si parla infatti del diritto bernese come una delle varianti del diritto germanico.

Il pomeriggio della terza sessione di studi si è concluso con una tavola rotonda coordinata da Luigi Berlinguer dell’Università di Siena, membro del Consiglio Superiore della Magistratura, che ha sviluppato le tematiche del rapporto fra i diritti nazionali e il diritto europeo, dell’insegnamento universitario delle materie giuridiche, della formazione dei giuristi, in cui sono intervenuti Umberto Santarelli dell’Università di Pisa, Letizia Vacca e Vincenzo Zeno Zencovich, entrambi dell’Università di Roma Tre, che hanno dato vita ad un interessante e stimolante dibattito.

 

 

Annamari Nieddu

Università di Sassari