N. 4 – 2005 – Contributi

 

 

Dal manoscritto alla stampa: il libro universitario italiano nel XV secolo

 

Antonello Mattone

Tiziana Olivari

Università di Sassari

 

Sommario: 1. Libro manoscritto o libro a stampa? Continuità e rotture. – 2. Il libro universitario nella produzione editoriale del secondo Quattrocento. – 3. I centri dell’editoria universitaria italiana. – 4. Padova e Venezia, due casi emblematici. – 5. Verso l’umanesimo giuridico.

 

 

1. – Libro manoscritto o libro a stampa? Continuità e rotture

 

Fra i primi libri stampati da Gutenberg a Magonza, intorno al 1460-62, figura la grammatica latina di Elio Donato (circa 310-380 d.C.), la celebre Ars minor per i principianti, il manuale scolastico propedeutico più importante della tradizione medievale. Gutenberg ne fece almeno 24 tirature con i suoi protocaratteri in stile gotico, detti appunto “caratteri del Donato”: nonostante il consistente numero di edizioni non ci è pervenuto un solo esemplare completo della grammatica, segno che il volumetto, di sole 28 pagine stampato in pergamena, passando di mano in mano, era stato letteralmente “macinato” dagli studenti[1]. Secondo una leggenda tramandata dal XVI secolo, un artigiano di Haarlem in Olanda, Laurent Janszoon, detto Coster, nel 1441, avrebbe inventato prima di Gutenberg l’arte di comporre con caratteri mobili, stampando fra l’altro proprio una grammatica di Donato[2]. Nel 1464 due lavoranti di Gutenberg, Konrad Sweynheym e Arnold Pannaratz, impiantarono nel monastero benedettino di Subiaco presso Roma la prima tipografia sorta fuori dei territori tedeschi: dove stamparono, come rivela un documento coevo, un Donatus pro puerulis, di cui purtroppo non si conoscono esemplari[3].

Già dagli esordi, quindi, l’arte tipografica aveva individuato nel mondo della scuola un favorevole mercato in cui piazzare quella nuova produzione. Basti soltanto pensare che nella seconda metà del Quattrocento l’Ars minor avrebbe avuto più di trecento edizioni[4]. In principio, però, il mercato era assai ristretto e si potevano prevedere vendite regolari solo per pochi testi: la Bibbia, le grammatiche, i libri di preghiera. Le tirature erano basse: Sweynheym e Pannaratz avevano stampato solo trecento copie del Donato e 275 copie del loro primo volume, il De divinis institutionibus adversus gentes di Lattanzio (1465); Andrea Belfiore nel 1471 a Ferrara stampava duecento esemplari delle Institutiones di Giustiniano[5]. La possibilità di una riproducibilità tecnica di serie con una produzione quantitativa superiore a quella del manoscritto non rivoluzionò affatto, nei primi anni, l’offerta e la domanda di libri[6].

La pubblicazione di un libro costituiva nel XV secolo un’operazione economica e commerciale assai delicata: si trattava di valutare il mercato, considerando le edizioni eventualmente già in circolazione, stimando il numero di acquirenti, ad esempio, in una sede universitaria per un testo giuridico, teologico o medico, adottato nei corsi, stabilendo la tiratura, preventivando il costo per copia, assicurandosi la materia prima, soprattutto la carta, organizzando il lavoro nell’officina, avvalendosi di collaborazioni esterne per la revisione del manoscritto e per la correzione delle bozze, promuovendo la diffusione dei volumi.

L’invenzione della stampa è stata una delle più radicali trasformazioni nella vita intellettuale della società occidentale, perché ha rappresentato un fattore rivoluzionario non soltanto nel mutamento delle «comunicazioni scritte nella repubblica delle lettere», ma anche nella circolazione delle idee e dei processi di alfabetizzazione[7]. Non a torto i contemporanei avvertirono la funzione rivoluzionaria di quelle «nobili scoperte», che dovevano essere annoverate tra le più eminenti «tra le imprese umane». Secondo Tomaso Garzoni, il canonico romagnolo che nel 1585 pubblicò una vera e propria enciclopedia delle arti e mestieri, la stampa era un’«arte veramente rara, stupenda e miracolosa, la quale ha aperto gli occhi a’ ciechi e dato il lume agli ignoranti»[8]. Francesco Bacone considerava la «forza, la virtù e gli effetti» di quelle «tre invenzioni che erano ignote agli antichi […]: l’arte della stampa, la polvere da sparo, la bussola. Queste tre cose infatti – affermava il filosofo inglese –, mutarono l’assetto del mondo tutto, la prima nelle lettere, la seconda nell’arte militare, la terza nella navigazione»[9]. Mutamento, però, che si sarebbe fatto sentire nel medio-lungo periodo: nel breve, la stampa non avrebbe del tutto sconvolto la tradizionale produzione editoriale perché, come giustamente ha osservato Sigfrid Henry Steinberg, i «libri stampati si distinguevano appena dai manoscritti»[10]. Il dibattito storiografico tra i sostenitori della continuità e i fautori di un profondo e radicale mutamento è ancora aperto[11]. Per quanto riguarda il mondo universitario, comunque, nella prima fase di sviluppo della stampa, gli elementi di resistenza alle novità e le consolidate eredità del passato prevalgono nettamente sugli aspetti innovativi.

Le ragioni per cui le università furono toccate solo marginalmente dalla nuova produzione tipografica sono dovute in primo luogo alla ben efficiente e collaudata organizzazione del libro peciato ed alla capacità degli artigiani della scrittura e della pergamena di rispondere ancora alle esigenze del mercato. Per impiantare una tipografia erano necessari non soltanto ingenti capitali – il prezzo di vendita del libro stampato, per gli alti costi di produzione da ammortizzare e per le esigue tirature (200-300 copie), risultava spesso superiore a quello del libro manoscritto –, ma anche un’organizzazione del tutto nuova sul piano della distribuzione e del commercio, «a causa – secondo Balsamo – del ribaltamento del mercato librario nel quale l’offerta venne a superare la domanda, proprio l’opposto di quanto era avvenuto fino ad allora in un mercato artigianale che operava per lo più su commissione»[12].

Molti bibliofili erano inoltre convinti che in seguito alla diffusione dei libri a stampa il valore di quelli manoscritti sarebbe stato ben presto svalutato. La sensazione di aver perso con l’avvento della produzione tipografica buona parte del proprio patrimonio è chiaramente espressa da un famoso maestro dello Studio senese, il giurista Bartolomeo Sozzini (morto nel 1507), che nel 1491 considerava i propri libri «di poca valuta oggi dì per la copia grande di libri in forma» (cioè a stampa), che in quegli anni erano ormai «abondanti»[13].

Dalla documentazione del tempo risulta che il prezzo di un volume a stampa era, alla fine degli anni sessanta del Quattrocento, di 4/5 inferiore a quello dello stesso libro manoscritto, pressappoco uguale, quindi, al costo delle sole pergamene su cui era copiato[14]. In quegli anni un volume di 35 quinterni costava al libraio veneziano Paolo Bondulmier, che ne aveva acquistato 60 copie, un ducato e tre quarti[15]. Per avere un’idea del costo dei primi libri a stampa basti pensare che la Bibbia di 42 righe, stampata da Gutenberg, rilegata e miniata a mano, costava ben 100 ducati. Il De civitate Dei di Sant’Agostino, stampato a Subiaco nel 1467, costava 8 ducati e mezzo. Konrad Haebler ha calcolato che il prezzo dei volumi in folio, non rilegati e non miniati, oscillassero negli anni settanta del Quattrocento intorno ai 7 ducati. I libri stampati con caratteri greci da Aldo Manuzio erano particolarmente cari, e costavano un ducato ogni 15 o 16 quinterni. Nel 1480 una grammatica di Donato, stampata da Moretus, era posta in vendita a 16 soldi (più 10 per le eventuali miniature) e il Decretum Gratiani a un ducato e mezzo (2 ducati con miniature)[16]. La carta gravava in misura considerevole sui costi e costituiva sovente i ¾ delle spese totali. Di solito incideva sul 50% dell’intero costo di stampa[17].

Il sistema della pecia continuava a godere dell’appoggio ufficiale delle università (Bologna e Parigi, soprattutto, ma anche quelle minori), degli stazionari, dei bidelli, dei professori: a Siena, sede di un famoso Studio, ad esempio, gli artigiani del libro manoscritto, cioè gli amanuensi e i miniatori di codici, inoltrarono una supplica al Comune contro l’introduzione della stampa in città, riuscendo a far ritardare di almeno un decennio l’affermazione dell’arte tipografica[18]. La gran massa degli scrivani, di solito ex-studenti, proveniva dalle aule degli Studi, erano cioè «intellettuali» che conoscevano il mondo dei maestri e degli allievi, mentre i tipografi erano in genere ex-orafi o artigiani del metallo: del tutto estranei all’ambiente delle lezioni, delle dispute, degli esami, avevano estremo bisogno di autorevoli interlocutori all’interno delle università per le scelte e le cure editoriali e per l’individuazione dei libri di testo più richiesti. A questo proposito alcuni episodi assumono un valore emblematico: quando nel 1455 Johannes Fust, l’imprenditore finanziatore della tipografia Gutenberg a Magonza, ebbe a disposizione la celebre Bibbia latina delle 42 righe, stampata in pergamena con caratteri gotici e capilettera miniati ad imitazione dei manoscritti, si recò con una dozzina di copie a Parigi, dove circa dodicimila studenti frequentavano l’università o erano iscritti ai collegi, per vendere quel prezioso prodotto. La sua intrusione suscitò le ire della potente Confrérie dei librai, rilegatori, miniatori, scrivani, produttori di pergamene, che lo accusarono non soltanto di aver violato i privilegi corporativi ma di essere addirittura in combutta col diavolo per avere a disposizione tante copie di un bene così pregiato. Fust dovette scappare da Parigi per non essere arrestato dalla polizia e punito come uno stregone.

Un ex-dipendente di Fust, Peter Schöffer, attivo a Magonza dal 1457 al 1503, era un ex-studente del Collegio della Sorbona (1449-52) di Parigi, città dove aveva ottenuto il baccellierato e dove aveva lavorato come copista nell’artigianato dell’editoria manoscritta: egli, pertanto, come era abituato nell’attività precedente, riproduceva l’exemplar che aveva a disposizione il più fedelmente possibile, correggendone gli errori e le sviste. Tuttavia, mentre il copista poteva riprodurre un’unica copia, il tipografo poteva riprodurre centinaia di copie o più di quel testo accuratamente revisionato: nel lavoro di Schöffer si verificava quindi una strana combinazione di «continuità apparente» e di «cambiamento radicale»[19].

Nella produzione editoriale del secondo Quattrocento il libro universitario non occupa una posizione preminente rispetto, ad esempio, alle edizioni di classici, ai testi devozionali o di edificazione religiosa, alle grammatiche, alla pubblicazione delle leggi e degli statuti locali o di opere utili alle pratiche liturgiche. Secondo il severo giudizio di Armando Petrucci quello dei testi stampati in Europa nella seconda metà del XV secolo resta «un repertorio di opere non moderne», caratterizzato da «prodotti senza alcun programma culturale e senza alcun progetto complessivo: un repertorio, in generale, più povero di quello offerto dalla produzione manoscritta dello stesso periodo»[20]. Ciò è indubbiamente dovuto all’occasionalità di tante pubblicazioni, stampate in genere dietro richiesta di un committente, e – ad eccezione degli editori umanisti come Aldo Manuzio o Johannes Froben – alla quasi generale assenza di precise strategie editoriali. Dai dati elaborati da Rudolph Hirsch su un significativo campione di incunaboli (cioè, come è noto, i libri editi dall’invenzione della stampa sino al 1° gennaio 1501) risulta che circa la metà, il 44, 49%, dell’intera produzione editoriale era di opere riguardanti le pratiche religiose e l’attività liturgica; seguivano i classici, i libri di filosofia e di letteratura con il 36,07%, i testi di diritto con il 10,93%, quelli scientifici con l’8,51%, la poesia col 4,30, il teatro, le orazioni, le lettere col 4,12%, i romanzi e le novelle col 3,81%, la storia, le biografie, le vite dei santi col 3,36%, la magia e l’occultismo con lo 0,88%. La prevalenza del latino rispetto alle lingue volgari era ovviamente assoluta con il 77,42: seguivano l’italiano con il 7,39%, il tedesco con il 5,82%, il francese con il 4,56%, l’olandese e il fiammingo con il 2%, il castigliano con l’1,27% e infine l’inglese con lo 0,66%[21].

Si capisce quindi la posizione per certi versi defilata dell’incunabolo universitario. La didattica negli Studi europei prescindeva da un manuale così come noi oggi lo concepiamo: il professore dettava le lezioni che costituivano l’oggetto del corso e che avevano lo scopo di illustrare, spiegare e commentare le auctoritates, i padri e i dottori della Chiesa in teologia, le istituzioni, il Digesto e i Canoni in diritto, Galeno e Ippocrate in medicina. Gli studenti trascrivevano le lezioni, che costituivano la base su cui sostenere l’esame. L’oralità e la scrittura resteranno a lungo la quintessenza dell’insegnamento universitario. Il libro a stampa era – e lo sarà a lungo – un’integrazione, uno strumento ausiliario, insomma un optional. È impensabile che uno studente della Sorbona potesse acquistare le opere di Tommaso d’Aquino, o uno studente bolognese svenarsi per comprare i vari tomi del Corpus iuris giustinianeo. Eppure, nonostante tutto, il libro circolava dentro le università: fra le mani dei professori più colti e curiosi che avevano desiderio di aggiornarsi o di confrontare le proprie teorie; fra quelle degli studenti più ricchi che spesso acquistavano i volumi in vista di una futura, redditizia attività professionale; fra quelle degli studenti più poveri che copiavano i testi o si facevano dare in prestito le opere cui erano interessati. I dati sull’editoria del secondo Quattrocento vanno però presi con beneficio d’inventario, considerando anche e soprattutto la fruibilità e l’utenza extrauniversitaria del libro filosofico, teologico, giuridico e medico[22].

 

 

2. – Il libro universitario nella produzione editoriale del secondo Quattrocento

 

Jules Michelet osservava con una punta di ironia che la stampa aveva contribuito a far sopravvivere in forma rinnovata molte opere già condannate all’oblio[23]. In effetti molti testi della tradizione medievale vengono pubblicati in numerose edizioni nella seconda metà del XV secolo: segno, da un lato, della non sempre facile affermazione della cultura umanistica, e dall’altro del radicato conservatorismo delle scuole e delle università. Fra questi, oltre le grammatiche (Ars minor e Ars maior) e i commenti letterari di Elio Donato, stampati in ben 364 edizioni, spiccano i Disticha Catonis, cioè la collezione di sentenze morali a coppie di esametri di paternità e origine assai incerta, forse del II secolo d.C., attribuite a Catone (una delle auctoritates dei corsi di retorica medievali), pubblicate in 262 edizioni[24]. Anche le Auctoritates Aristotelis et aliorum philosophorum, un’antologia di scritti filosofici adottata nelle facoltà di arti, ebbe 32 edizioni, in corsi di taglio dichiaratamente aristotelico – le opere dello Stagirita contano 169 edizioni – e non platonico (solo 7 edizioni)[25]. In questa prospettiva il Canone di Avicenna, utilizzato pure nei corsi di medicina, conobbe 14 edizioni[26].

Accanto alle eredità del passato vi sono però anche le novità, come le grammatiche latine di derivazione umanistica, i Rudimenta grammatices di Niccolò Perotti edite a Roma nel 1475 e nel 1476, fortunatissima grammatica in cui per la prima volta sono presentate insieme morfologia e sintassi del verbo, con una sessantina di edizioni incunabole, le Cornucopiae (postuma del 1489), un vastissimo repertorio filologico e grammaticale del latino, con almeno ventritrè edizioni sino al 1536, gli Elegantiarum linguae latinae libri sex (1435-44), di Lorenzo Valla, con 26 edizioni, un lavoro monumentale che tende a ripristinare la «vera» lingua latina di Cicerone e di Quintiliano, al di là delle degenerazioni medievali e delle impurità dei primi umanisti, il Dialogus parvulis scholaribus ad idioma latinum perutilissimum di Paul Schneevogel (Paulus Niavis), pubblicato nel 1489 che ebbe 17 edizioni, il Modus latinitatis di Ulrich Ebrard (Ebrardus), 25 edizioni, le Elegantiolae dell’umanista senese Agostino Dati, che con le 107 edizioni ebbero un successo superiore a quello di qualsiasi altro manuale scolastico italiano del Quattrocento e, infine, le Introductiones Latinae dello spagnolo Elio Antonio de Nebrija (Nebrissenses) con 10 edizioni[27]. Nebrija è inoltre autore della Gramática de la lengua castellana (1492), la prima di una lingua moderna europea ad essere pubblicata. «A che serve?», chiese la regina Isabella quando il libro le venne presentato. E il vescovo di Avila per conto dell’autore rispose: «Vostra Maestà, la lingua è lo strumento perfetto per dominare»[28]. I filologi umanisti composero dizionari, come il Vocabolarius breviloquus di Johannes Reuchlin che ebbe 17 edizioni, il Vocabolarius rerum (latino-tedesco) di Wenceslaus Brack con 10 edizioni nei territori germanici, il Dictionarium hispano-latinum e latino-hispanicum di Nebrija con 2 edizioni, e il Vocabolarius theutonicus (tedesco-latino), edito nel 1482, con 9.800 lemmi[29]. Il primo dizionario italiano-tedesco, Vocabolista italiano-tedesco, fu stampato a Venezia nel 1477 da Adam von Rottweil – conferma degli stretti legami commerciali e culturali della città veneta con la Germania – ed ebbe tre riedizioni successive; il Vocabolario Tedescho e Italiano fu stampato da Johann Hamman, detto Hertzog, sempre a Venezia nel 1493[30].

I condizionamenti del passato sono più evidenti nella riedizione dei testi adoperati nei corsi della facoltà di teologia. Fra questi si distinguono le opere dei padri della Chiesa in latino: innanzitutto Sant’Agostino, con 186 edizioni, San Gerolamo, con 81 edizioni, Gregorio Magno, con 68 edizioni, San Giovanni Crisostomo, con 31, Sant’Ambrogio con 14, e via dicendo[31]. Le Etymologiae di Isidoro di Siviglia, uno dei classici dell’enciclopedismo medievale, con le loro 36 edizioni continuarono ad essere apprezzate anche nel mondo rinascimentale. Fortuna editoriale simile a quella del De consolatione philosophiae di Severino Boezio che ebbe 72 edizioni[32]. Tra i dottori della Scolastica, le opere di Tommaso d’Aquino ebbero 195 edizioni, quelle di Alberto Magno ben 202, fra cui 19 del Compendium theologicae veritatis, quelle di Giovanni Duns Scoto 27, quelle di Guglielmo di Ockham 15, quelle di Pietro Ispano (futuro papa Giovanni XXI), fra cui le Summolae logicales, 39 edizioni[33]. I Quatuor libri sententiarum di Pier Lombardo (dopo la Bibbia il testo più utilizzato nei corsi teologici) ebbero solo 17 edizioni, segno della notevole, persistente vitalità del libro manoscritto[34]. Fra gli altri teologi, gli scritti di Anselmo di Canterbury (Anselmus Cantuarensis) ebbero 13 edizioni, quelli di Bernardo di Chiaravalle 43 (oltre le 129 edizioni dello Pseudo Bernardo), il De miseria conditionis humanae di Lotario di Segni (papa Innocenzo III) 13 edizioni, le opere di Bonaventura da Bagnoregio 64 edizioni. Dei teologi del XV secolo i tipografi pubblicarono soprattutto gli scritti di Jean Gerson (1363-1429), in particolare il suo De consolatione theologiae (1418), con 110 edizioni, di Tommaso da Kempis (1379/80 – 1471) con le 55 edizioni del De imitatione Christi, e di Gabriel Biel (1410 circa - 1495), l’«ultimo scolastico», con 11 edizioni[35].

Diverso è il caso dei libri di diritto, i cui acquirenti universitari, docenti e studenti, erano in genere più ricchi dei loro colleghi di teologia e medicina, ma il cui mercato non si limitava alle aule degli Studi ma guardava soprattutto alle istituzioni di governo, alle curie ecclesiastiche, alle rote e ai tribunali e a un pubblico di magistrati, burocrati, avvocati, notai. Troneggia nel panorama editoriale quattrocentesco il Corpus iuris civilis giustinianeo con le sue ripartizioni, Institutiones, Digestum (Digestum vetus, Infortiatum, Digestum novum), Codex e Novellae, con ben 193 edizioni[36]. È uno dei primi libri ad essere pubblicati: il 24 maggio 1468 Peter Schöffer terminava di stampare a Magonza le Institutiones Justiniani; si trattava di una perfetta imitazione del manoscritto giuridico: il testo romanistico era riprodotto con un tipo di carattere maggiore rispetto al commento che, come nelle glosse medievali, era composto invece in un corpo più piccolo. Le Institutiones vennero ristampate da Schöffer nel 1472 e nel 1476, cui seguirono il Codex nel 1475 e le Novellae nel 1477. Le Institutiones vennero inoltre stampate da Heinrich Eggestein a Strasburgo nel 1472, in due edizioni, a Roma da Lauer e Pflugl e da Hahn e Cardella nel 1473, da Andrea Gallo a Ferrara nel 1473, da Hahn a Roma nel 1475, nello stesso anno a Lovanio da Giovanni di Paderborn, a Roma da Vitus Puecher nel 1476 e a Mantova da Paul von Butzbach, e così via. Il Digestum vetus a Perugia nel 1476 da Heinrich Klein (o Kleyn), a Venezia nel 1477 da Jakob Rubens, sempre a Venezia nel 1478-80 da Nicholas Jenson, e via dicendo. A Parigi venne pubblicato nel 1486 un testo delle Institutiones tradotto addirittura in versi francesi[37].

Fra i libri più stampati nella seconda metà del Quattrocento figurano le opere dei commentatori civilisti e in particolare quelle di Bartolo da Sassoferrato – le Lecturae sul Codice, sul Digesto vecchio e su quello Nuovo, sull’Infortiato (della cui attribuzione oggi si discute), le Questiones disputatae, i trattati, i Consilia e gli opuscoli vari – con 191 edizioni, soprattutto di area italiana (di cui ben 109 stampate a Venezia)[38]. A grande distanza seguono gli altri giuristi, Baldo degli Ubaldi con 72 edizioni, Angelo degli Ubaldi con 28 edizioni, Alberico da Rosciate con 8 edizioni[39]. Un certo rilievo hanno le fonti di diritto canonico e, in particolare, le Decretales di Gregorio IX con 52 edizioni, il Sextus liber Decretalium di Bonifacio VIII con 57 edizioni, le Clementine di Clemente V con 40 edizioni, le Decisiones della Rota Romana con 13 edizioni e il Decretum Gratiani con 41[40].

Tra i canonisti si segnalano Giovanni d’Andrea con 82 edizioni – tra cui ben 49 del trattato Super arboribus consanguinitatis et affinitatis e 15 della Summa de sponsalibus et matrimoniis –, Guglielmo Durante con 55 edizioni, Paolo di Castro con 48, Giovanni Nicoletti da Imola con 20, Antonio da Butrio con 14, Francesco Zabarella con 9, Enrico da Susa (cardinale Ostiense) con 7[41].

Tra i giuristi della prima metà del XV secolo figurano il canonista Niccolò Tedeschi (Panormitanus, 1386-1445), col suo Apparatus in Clementinas, con ben 63 edizioni, il professore padovano Bartolomeo Cipolla (1420-1475) con 29, il senese Mariano Sozzini senior (1397-1467) con 15, l’aretino Angelo Gambiglioni (morto nel 1461), professore a Bologna e a Ferrara, autore di uno dei più celebri trattati di diritto criminale, De maleficiis, con ben 44 edizioni. Il nascente artigianato tipografico dedicava un’attenzione del tutto nuova alla produzione dei giuristi viventi come Alessandro Tartagni (1423/24-1477), i cui commentari al Digesto e i Consilia ebbero 79 edizioni, Giason del Maino (1435-1519), la cui opera esegetica ebbe 33 edizioni, Felino Sandei (1444-1503), professore di diritto canonico a Ferrara e a Pisa, giudice rotale e poi vescovo di Lucca, con 45 edizioni, Francesco de Accolti (1418-1485), aretino, professore a Bologna, Ferrara e Siena con 25 edizioni, Bartolomeo Sozzini (1436-1507), professore a Siena, Ferrara, Padova, Pavia, Torino e Pisa, i cui commentari civilistici ebbero 19 edizioni e il giurista milanese Filippo Decio (1454-1535/36) con 2 edizioni[42].

Nell’ambito della medicina il numero delle edizioni a stampa appare nettamente inferiore a quello dei testi teologici o giuridici, segno di un mercato relativamente ristretto. Tra i “manuali” utilizzati nelle università, le opere di Ippocrate godono di una scarsa considerazione tra i tipografi quattrocenteschi, con 2 edizioni degli Aphorismi e 2 del De natura hominis, oltre ad alcuni scritti pseudo-ippocratici[43]. Anche gli scritti di Galeno, a parte l’Opera pubblicata a Venezia nel 1490 da Filippo Pinzi, sono inseriti nella collezione detta Articella (5 edizioni), che raccoglieva i testi di medici greci e arabi. Il Fasciculus medicinae di Giovanni di Ketham, assai apprezzato per le xilografie, fu stampato 4 volte in latino, una in italiano a Venezia nel 1493 e una in castigliano a Saragozza[44]. Il De materia medica di Dioscoride (I sec. d.C.) ebbe soltanto 2 edizioni: la prima in latino nel 1478, la seconda in greco da Manuzio nel 1499[45]. Anche degli otto libri del De medicina di Aulo Cornelio Celso (I sec. d.C.), un’opera di riferimento per la trattazione della dietetica, della patologia, della terapia e della chirurgia, si segnalano soltanto 4 edizioni dal 1478 al 1497[46]. Assai scarse le edizioni dei medici arabi Aliabate, Rhazes, Mesue, Averroè (un’edizione del De venenis), Isræli (Ishāq al-Isrāili ben Salomon, con un’edizione del Tractatus de particularibus diaetis), mentre il Regimen sanitatis Salernitanum, l’opera più nota della Scuola medica di Salerno, venne stampata, soprattutto fuori dell’Italia, 16 volte[47]. Ovviamente del patrimonio medico-scientifico rinascimentale faceva parte anche la Historia naturalis di Caio Plinio Secondo, una sorta di enciclopedia delle scienze dell’antichità, stampata la prima volta a Venezia nel 1469 da Giovanni da Spira e in altre 15 edizioni successive in latino e 3 in traduzione italiana[48].

Il grande trattato in cinque libri Cyrurgia del piacentino Guglielmo da Saliceto (1210-1276/80), che affrontava tutte le infermità del corpo e i loro trattamenti, dall’idrocefalia infantile ai tumori, dai calcoli all’ernia, dalle ferite alle contusioni, dalle fratture alle lussazioni, dopo la prima del 1476 ebbe 9 edizioni, anche in traduzione tedesca[49]. Un altro classico della chirurgia medievale la Chirurgia magna di Guy de Chauliac (1298 circa - 1367 circa), un’opera di natura onnicomprensiva articolata in sette libri che procedono dalla teoria alla pratica e dal generale al particolare e si concludono con un antidotario di 750 medicamenti, stampato la prima volta a Lione nel 1477 con illustrazioni xilografiche, ebbe altre 8 edizioni in latino, italiano e spagnolo. I “classici” della medicina medievale, come il Conciliator differentiarum ac praecipue medicorum o la Physiognomica, del professore e astrologo padovano Pietro d’Abano (1250 circa - 1315) con 17 edizioni, le opere, fra cui la Practica medicine di Arnaldo da Villanova (1240-1311 circa), con 28 edizioni, furono pubblicate nel corso del XV secolo insieme alla produzione scientifica dei contemporanei, come Bartolomeo da Montagnana docente nello Studio padovano (3 edizioni), Pietro di Argellata, professore di medicina a Bologna (morto nel 1423), con la sua Cirurgia (4 edizioni), o Michele Savonarola, nonno del celebre predicatore, lettore nell’Università di Padova e poi professore a Ferrara, i cui trattati ebbero 15 edizioni[50].

 

 

3. – I centri dell’editoria universitaria italiana

 

Henry-Jean Martin ha forse sopravvalutato l’impatto della stampa sul mondo universitario, ritenendo che la presenza o la creazione di un’università provocasse «quasi subito l’apparizione di un centro tipografico». In realtà il rapporto è molto più complesso: se l’affermazione dello storico francese si adatta assai bene per Parigi, dove i laboratori tipografici nacquero e si svilupparono «per la clientela di clercs che frequentavano l’università», diventando ben presto un centro editoriale a livello europeo, o per altre «grandi città universitarie», come ad esempio Colonia, risulta indubbiamente più problematica per la realtà italiana[51].

Il primo libro stampato in Francia (1470) è un manuale per l’insegnamento, le Epistolae di Gasparino Barsizza, un testo che aveva lo scopo di offrire agli studenti un modello di buona latinità. L’opera, edita a Parigi con la modesta tiratura di un centinaio di copie, era rivolta soprattutto alla ristretta cerchia del mondo universitario. Il testo era stato stampato per impulso di una società editoriale di tipografi tedeschi, di cui facevano parte Guillaume Fichet e Jean Heynlin, docenti del Collegio della Sorbona, nel quale avevano ricoperto le cariche di priore e di bibliotecario[52]. L’iniziativa era nata per contrastare il monopolio dei testi classici tenuto saldamente in mano da Fust e da Schöffer, tramite il loro rappresentante francese Hermann da Staboen. Tra il 1470 e il 1473 la società pubblicò una trentina di  opere, soprattutto classici latini e le grammatiche di Valla e di Dati. Non a caso a Parigi le prime tipografie e le botteghe dei librai si stabilirono in rue Saint-Jacques, nel Quartiere latino, nei pressi della Sorbona, quasi a dimostrare il forte legame tra l’editoria e il mondo degli studi.

Se le tipografie parigine erano prevalentemente impegnate nella stampa di opere di teologia, retorica e humanitates, le botteghe artigiane di Lione, città priva di università, si specializzarono nella pubblicazione di testi giuridici e medici, destinati al commercio internazionale e al mercato universitario europeo. Nel 1475 Guillaume Le Roy, il primo tipografo lionese, pubblicava le Cautelae di Bartolomeo Cipolla, mentre era ancora vivo l’autore, docente di diritto nello Studio padovano. Tra il 1478 e il 1482 Barthélemy Buyer realizzò la titanica impresa di stampare, per la prima volta insieme, in otto volumi in folio, i commentari di Bartolo da Sassoferrato al Corpus iuris civilis: impresa che costituisce il vero punto di avvio delle edizioni giuridiche lionesi. In questo ambito lo stampatore-libraio Johannes Syber svolse, tra il 1481 e il 1498, un ruolo di primo piano nella pubblicazione e nella commercializzazione delle grandi opere giuridiche, dal Corpus iuris civilis al Corpus iuris canonici ed ai testi dei glossatori e ai trattati dei commentatori. Anche nell’editoria medica le tipografie lionesi svolsero un ruolo importante con la pubblicazione di testi classici in latino – come l’Opera medicinalia dell’arabo Mesue, le Pandectae medicinae di Matteo Silvatico da Salerno, il Canone di Avicenna con i commenti del medico francese Jacques Despars – o di traduzioni in francese come Le Guidon (1478), versione in volgare della Chirurgia di Guy de Chauliac, o la Pratique ou Fleur de lye en médicine (1495) di Bernard de Gordon, professore di Montpellier[53].

A differenza dell’editoria universitaria francese quella spagnola non si cimentò, nel XV secolo, nella stampa a fini didattici delle grandi opere di diritto e di medicina. Predominano, soprattutto nella fase iniziale di diffusione delle tipografie, gli incunaboli (in tutto 856) di argomento religioso o linguistico, come le Introductiones latinae o la celebre Gramática castellana di Antonio de Nebrija, edite entrambe a Salamanca da due tipografie anonime rispettivamente nel 1481 e nel 1492, il Vocabulario latino-spagnolo dello stesso Nebrija, in due edizioni salamantine del 1492 e del 1495, un altro Vocabulario latino-spagnolo di Alonso Fernández de Palencia, stampato a Siviglia nel 1490 da una società di tipografi tedeschi, il Comprehensorium vel vocabularius ex aliis collectus di Johannes Grammaticus, stampato a Valencia nel 1475 e attribuito a Lambert Palmart, la Gramatica del Perotti pubblicata a Barcellona nel 1475 dal tedesco Paul Hurus di Costanza; infine, nel 1485 a Burgos Federico di Basilea stampava la Grammatica di Andrés Guriérrez[54].

A Valencia, sede di un’antica e importante università, tra i libri pubblicati fra il 1473 e il 1506 prevalgono nettamente quelli di argomento religioso, con ben il 50,46% dell’intera produzione, di tema letterario, con l’11,65%, e filologico, con il 10,67%, su quelli di filosofia, 5,79%, di diritto, 4,85%, e di medicina, 1,94%[55]. Fra le edizioni valenzane di ambito universitario si distinguono alcune opere di Aristotele stampate nel 1473 dal tedesco Jakob Vizlant e la Tertia pars summae di Tommaso d’Aquino edita nel 1477 da Lambert Palmart. Tra il 1477 e il 1478 una società costituita da Vizlant, Palmart e dal tipografo spagnolo Alonso Fernández de Cordoba pubblicò la cosiddetta Biblia Valenciana, con la traduzione in volgare di Bonifacio Ferrer, condannata dall’Inquisizione nel 1498. Nel 1490 il tedesco Niccolas Spindeler stampava il Regiment preservatiu e curatiu de la pestilencia di Lluis Alcanyis, cattedratico di medicina nello studio valenzano[56].

A Barcellona, città mercantile e marittima, la produzione editoriale si concentra soprattutto su grammatiche, dizionari, messali, libri liturgici, ma anche su opere legate in qualche modo agli studi, come la Metaphisica (1473) di Bonetus  o la bella edizione in folio di 246 carte, con la traduzione latina di Leonardo Aretino, della Ethica ad Nicomachum. Politica. Oeconomica (1473) di Aristotele, stampata da una società formata da Enrique Botel con due tipografi tedeschi[57]. Il libro giuridico è destinato a una clientela di avvocati, magistrati, ufficiali regi e notai come ad esempio le due opere di Andrea Barbazza, Super titulos de testamentis e Repetitio super titulo de testamentis, edite rispettivamente nel 1492 e nel 1493, il Consolat de Mar (1494), curato da Pere Posa, e le Constitucions de Catalunya (1495)[58]. Tra le altre edizioni delle “leggi patrie” si segnalano Las siete partidas di Alfonso X el Sabio, edite a Siviglia nel 1491 col commento di Alfonso Díaz de Montalvo, autore fra l’altro del Repertorium quaestionum super Nicolaum de Tudeschis, pubblicato sempre a Siviglia nel 1477, le Ordenanzas reales de Castilla, raccolte e commentate dallo stesso Díaz de Montalvo in un’edizione sivigliana del 1485[59].

Anche nei paesi di lingua tedesca il rapporto tra produzione editoriale e mondo universitario è assai stretto. A Magonza, la «culla» della stampa a caratteri mobili, dove nel 1476 venne istituita l’università, Schöffer, nella doppia veste di stampatore e di editore, investì ingenti capitali nella propria azienda, guardando non soltanto al mercato locale ma commercializzando opere di medicina, di diritto, testi classici destinati al mondo degli studi: l’imprenditore tedesco vendeva libri a Lubecca e ad Angers, partecipava con la propria produzione alle fiere di Lipsia e di Francoforte, aprì una bottega a Parigi. Suo figlio Johann, subentrato al padre nel 1503, divenne una sorta di stampatore non ufficiale dell’università, pubblicando soprattutto classici latini, incarico che durò sino alla sua morte (1531). A Colonia, sede di una rinomata università fondata nel 1388 e di una delle più antiche facoltà di teologia europee, erano attive nel XV secolo ben 29 tipografie. Si calcola che tra il 1464, anno in cui Ulrich Zell impiantò la prima stamperia, e la fine del secolo venissero pubblicati nella città renana circa milletrecento titoli. Quasi tutti i libri apparsi a Colonia erano opere di teologia, di cui la buona metà testi della tradizione tomista e albertiana. Nel 1474 un breve di Sisto IV affidava alla facoltà teologica la sorveglianza sulla produzione editoriale e la censura sulla stampa: alcuni incunaboli recano la scritta «in alma universitate Coloniensi» (cioè pubblicazione autorizzata dell’Università di Colonia).

La stampa arrivò a Basilea nel 1467, sette anni dopo l’istituzione dell’università, con un allievo diretto di Gutenberg, Berthold Ruppel, che pubblicò l’editio princeps dei Moralia super Iob di Gregorio Magno, il più popolare commento di un libro della Bibbia. In pochi anni la stampa divenne una delle attività artigianali più rinomate della città svizzera che, grazie alle tipografie di Johann Amerbach (1443-1513) e di Johannes Froben (1460-1527), acquisì una rilevanza europea nella pubblicazione dei testi umanistici e delle edizioni critiche delle opere dei padri della Chiesa[60]. Si calcola che le tipografie attive nell’area germanica nella seconda metà del XV secolo siano state intorno alle 1.200, distribuite in circa 200 città: fra queste, numerose sono le sedi universitarie, fra le quali Erfurt  in Sassonia, il cui Studio era stato istituito nel 1392, e dove la stampa fu introdotta nel 1482 da Paul Wider; Heidelberg nel Palatinato, con la sua autorevole università (1386) specializzata nei corsi di diritto e medicina, dove la tipografia iniziò ad essere attiva dal 1492; Treviri in Renania, col suo Studio del 1453, conobbe la stampa nel 1481; Ingolstadt, università bavarese (1472), con la tipografia attiva dal 1482; l’Università di Tubinga (1476) nel Wüttenberg con la bottega di Johann Otmar (1498); lo Studio di Rostock, città della Lega Anseatica, con la tipografia del convento di San Michele (1476); l’Università di Friburgo (1455) in Brisgovia con le stamperie di Friedrich Riederer (1493) e di Killian Fischer (1494); infine l’Università di Lipsia (1409), uno dei centri culturali più importanti d’Europa, poteva diporre di diverse tipografie e godeva i vantaggi delle fiere che si svolgevano in città e costituivano un importante mercato librario[61]. Le nuove sedi universitarie permisero agli studenti di non agiate condizioni economiche di studiare più vicino alle loro città, tanto che la popolazione studentesca passò da meno di un migliaio agli inizi del XV secolo a più di quattromila nel 1520.

Un discorso a parte merita Norimberga, città priva di università, che svolse un «ruolo di guida» nel commercio del libro e delle stampe: era infatti la sede della «più grande impresa capitalistica del Quattro-Cinquecento nel settore editoriale», la tipografia di Anton Koberger (1455-1513), stampatore, editore, libraio, che disponeva di ventiquattro torchi e di oltre cento dipendenti, compositori, correttori, impressori, illuminatori, legatori. Il suo catalogo, relativo agli anni 1473-1513, elencava circa duecento titoli di diverso argomento, per lo più grandi volumi in folio[62].

Già nell’ottavo decennio del XV secolo l’Italia superava di gran lunga la Germania per il numero di città o di piccoli centri dotati di tipografia. Nel quindicennio 1464-1480 sui 52 laboratori tipografici sorti in Italia 9 nascono in città dotate di università: nel 1467 a Roma; nel 1470 a Bologna; nel 1471 a Ferrara, Firenze, Napoli, Perugia e a Padova; nel 1473 a Pavia; nel 1474 a Torino. A cui si aggiunsero Pisa nel 1482 e Siena nel 1484[63]. Negli anni ottanta del Quattrocento la produzione tipografica appare comunque nettamente preminente rispetto all’artigianato del libro manoscritto. Lo testimonia nel 1480 Antonio Sinibaldi, l’ultimo rappresentante della tradizione calligrafica dell’antiqua, che in un ricorso al catasto fiorentino lamentava la crisi ormai inarrestabile delle attività scrittorie: «Et lo exercitio mio – scriveva – è solo di scrivere a pretio. Quale è ridocto per mezzo della stampa in modo che appena ne trago il vestito. Et è exercitio infermissimo»[64].

Si è calcolato, ovviamente con larga approssimazione, che intorno al 1450 circolassero in Europa duecento-trecentomila codici manoscritti, frutto del lavoro dei copisti e dell’attività degli scriptoria ecclesiastici e laici che avevano operato per circa otto secoli. Cinquant’anni dopo, nel 1500, dovevano essere stati pubblicati nelle varie città europee tra i dieci e i venti milioni di libri a stampa. Pur considerando che nella storia delle idee i numeri hanno sempre un valore relativo, tenendo conto che sono state censite 26.783 edizioni di incunaboli (secondo alcuni sarebbero circa 35.000), suddivisi in 10.511 editi nelle regioni dell’Impero, 10.514 nelle città italiane, 4.596 in Francia, 810 nella penisola iberica, 286 in Inghilterra, e calcolando che in media ogni libro veniva stampato in 250-500 copie, non sarà difficile spiegare l’enorme consistenza dei libri in circolazione nella seconda metà del Quattrocento[65].

Lo Studium Urbis di Roma, ristrutturato nel 1432-35 da papa Eugenio IV, non era, a differenza di Parigi, Bologna e Padova, un’università capace di accogliere masse di studenti. Roma non era una città  universitaria e il suo Studio esercitava di fatto un’attrazione a livello non più che regionale e costituiva, quindi, un mercato assai limitato per i testi stampati[66]. Già nel marzo del 1472 Sweynheym e Pannaratz si rivolgevano a Sisto IV per chiedere aiuto, dichiarando di avere la bottega carica di una mole immensa di libri e di essere al tempo stesso sprovvisti dei mezzi per vivere. La supplica elencava 28 titoli con una tiratura media di 644 esemplari per i libri di argomento religioso e di 351 per quelli di argomento profano, ad eccezione delle 1.100 copie delle Epistolae di San Gerolamo e della Postilla super totam Bibliam di Nicolò da Lyra. In sostanza, in soli otto anni, i due artigiani tedeschi avrebbero prodotto dai loro torchi oltre dodicimila libri[67]. Sui 1.825 titoli pubblicati a Roma tra il 1467 e il 1500, dedicati in gran parte agli autori latini classici e cristiani, ai padri e ai dottori della Chiesa, al diritto civile e a quello canonico, alle guide per i pellegrini, ai provvedimenti normativi del governo pontificio, il libro universitario occupava una posizione per certi aspetti marginale[68]. Ebbero comunque un certo successo le grammatiche latine per le scuole inferiori e, in particolare, i Rudimenta del Perotti che in un ventennio, dal 1473 al 1493, furono stampati 13 volte, per i tempi un vero e proprio best seller. Alcune edizioni avevano una precisa destinazione scolastica, come il De lingua latina di Varrone, le Comoediae di Terenzio curate da Angelo Sabino, i Dialoghi di Luciano, le Vitae et sententiae philosophorum di Diogene Laerzio curate da Francesco Elio Marchese su sollecitazione di Pomponio Leto e, infine, i Punica di Silio Italico, di cui ci sono pervenuti tre esemplari con gli appunti presi dagli studenti del corso su Silio tenuto allo Studio romano nel 1473 da Domizio Calderoni. I tipografi tedeschi Sachsel e Golsh si servirono per le loro edizioni di classici della collaborazione dei maestri dello Studio, Sabino che curò le Historiae di Ammiano Marcellino e compose i Paradoxa in Iuvenalem, pubblicati entrambi nel 1474, Calderini che scrisse i Commentarii in Ibin Ovidii, finiti di stampare nel settembre dello stesso anno. Ma la virulenta polemica filologica sui criteri editoriali sorta tra i due curatori portò i tipografi a modificare i loro programmi[69].

Nell’ambito dell’editoria universitaria rientrano anche le tre edizioni delle Institutiones di Giustiniano con le glosse di Accursio: una pubblicata nell’aprile del 1473 da Ulrich Hahn, grazie al finanziamento e all’impegno commerciale del mercante lucchese Simone Cardella, una nel novembre dello stesso anno da due chierici tedeschi Georg Lauer e Leonhard Pflugl, e la terza, nel 1475, di nuovo da Hahn. E, ancora, il Digestum Infortiatum, curato dall’avvocato concistoriale Coronato da Planca, stampato nell’aprile del 1475 da Vitus Puecher, anch’egli ex chierico di Frisinga[70]. Si trattava di quelli che a ragione Petrucci ha definito «libri da banco», le cui caratteristiche principali erano il grande formato in folio, la disposizione del testo su due colonne con ampi margini esterni ed inferiori necessari per le annotazioni, l’uso dei caratteri gotici per la fonte romanistica e dei caratteri romani per le glosse. Insomma, la riproposizione tipografica di «un modello di codice nato in ambiente universitario fra XII e XIII secolo e sopravvissuto nello stesso ambiente sino a tutto il Quattrocento»[71]. L’Infortiatum stampato da Puecher era un’edizione di pregio, un lussuoso volume decorato da preziosi capilettera e illustrato da raffinate miniature, che si rivolgeva soprattutto al ricco mercato degli ambienti curiali e prelatizi.

Ancora più sfumata che a Roma appare la presenza del libro universitario a Napoli, dove lo Studio, che era rimasto chiuso per un decennio, venne riattivato nel 1465 con un’apertura alla cultura umanistica, con l’inserimento di cattedre di humanitates, oltre che con la riorganizzazione dei corsi di diritto necessari per la formazione dei magistrati e dei burocrati del Regno. Le premesse per lo sviluppo della stampa c’erano tutte. Non a caso il primo libro stampato nella città partenopea nel 1471 dal tipografo strasburghese Sixtus Riessinger è la Lectura super Codicem di Bartolo. Secondo le stime di Marco Santoro, dei 153 incunaboli pubblicati a Napoli dal 1470 al 1479 ben 37 (cioè il 24,1%) sono di diritto; seguono le opere letterarie, 36 (23,5%), quelle religiose, 30 (19,7%), la trattatistica con 29 titoli (18,9%), la medicina e la botanica con 10 (6,6%). Nel 1473 il “legum studens” Francesco Del Tuppo, colto umanista e segretario del re Ferrante d’Aragona, fondava a proprie spese, con maestranze tedesche e olandesi, una tipografia, cui si devono pubblicazioni di grande raffinatezza quali La commedia (1473 circa) dantesca, i Capitula, leges et constitutiones Regni Neapolitani (1485-92?) e le Fabulae (1493) di Esopo tradotte in volgare dallo stesso editore[72].

Ma è soprattutto a Bologna che si consuma la grande battaglia tra il libro universitario a stampa e il libro manoscritto. L’arte tipografica venne introdotta nella città emiliana da una società «per la stampa dei libri» costituita nel 1470 tra un professore dello Studio, non a caso di materie non giuridiche, il parmigiano Francesco Dal Pozzo (Puteolano), docente di retorica, un dottore in medicina e arti, Annibale Malpigli, e un ricco imprenditore, il «banchista» Baldassarre Azzoguidi. La società prevedeva per i soci compiti differenziati: Puteolano svolgeva al tempo stesso un ruolo di editor e di promoter, impegnandosi a reperire l’exemplar da stampare, a revisionarlo, a correggere le bozze e, nel contempo, a curare la promozione delle vendite, adottando o facendo adottare i testi all’università; Malpigli e Azzoguidi seguivano tutte le fasi del lavoro tipografico e si occupavano degli aspetti finanziari. I primi libri pubblicati nel 1471-72 dalla società erano classici e testi di edificazione religiosa: l’editio princeps dell’Opera di Ovidio, frutto di intense fatiche filologiche ed erudite del Puteolano, «nuper a me recognita impressaque», come scriveva nella dedica al cardinal legato Francesco Gonzaga a proposito del suo apporto scientifico, le Epistolae di Falaride tradotte in latino da Francesco Aretino, il De metris di Nicolò Perotti, l’editio princeps della Bibliotheca historica di Diodoro Siculo e tre edizioni dei Confessionali di Sant’Antonino in volgare[73].

La potente corporazione del manoscritto guardava intanto con diffidenza i nuovi procedimenti a stampa destinati a semplificare la produzione dei testi didattici. Il primo libro giuridico venne stampato a Bologna nel 1472, auspice lo stesso Puteolano – che sino al suo trasferimento a Milano nel 1475 fu uno dei protagonisti della vita culturale bolognese –, il quale suggerì al notaio Antonio delle Tuate di farsi editore della Lectura super secunda parte Digesti veteris di Alessandro Taragni, giurista di fama e professore di diritto all’università, utilizzando per l’intrapresa il tipografo torinese Andrea Portilia, fatto venire apposta da Parma, sua città natale[74]. Si trattava ancora, però, di una pubblicazione nata al di fuori del monopolio degli stazionari. È probabile che il successo editoriale del Tartagni abbia iniziato ad incrinare le resistenze corporative dell’artigianato manoscritto e del commercio delle pecie. È significativo, ad esempio, che nell’autunno del 1473 Lazzaro della Penna, bidello generale dello Studio bolognese – che controllava l’affitto dei manoscritti didattici – costituisse una società con due studenti in legge siciliani, Francesco de Vincentio e Onofrio de Advena, per la pubblicazione di 440 copie del primo dizionario giuridico dell’età umanistica, il Repertorium utriusque iuris del giureconsulto veneziano Piero da Monte (morirà nel 1475), incaricando del lavoro il tipografo Portilia. Poco dopo i soci si impegnavano a versare per «mercede, stipendio et salario» 120 ducati d’oro e un esemplare dell’opera a stampa al dottore civilista bolognese Petronio de Zoni per la cura e la correzione del testo. L’impresa, però, era nata sotto una cattiva stella: il lavoro editoriale andò avanti con lentezza per l’inesperienza dei tipografi nella stampa di un’opera particolarmente complessa a causa della vastissima serie di allegazioni legali comprese nel Repertorium; i costi inevitabilmente lievitarono creando dissapori e litigi. Si decise pertanto di ricorrere a nuovi soci e a nuovi curatori. Dopo la pubblicazione nel settembre del 1474 del primo volume, de Zoni fu sostituito nel lavoro di revisione da due studenti del Collegio di Spagna, Pedro de Lodeña, baccelliere in diritto canonico a Salamanca, e Francisco de Huesca chierico della diocesi di Siviglia. Finalmente nell’autunno del 1475, dopo rinnovati litigi, cambio delle maestranze tipografiche (Portilia fu sostituito con Stefano Merlini da Lecco), ulteriore ingresso di nuovi soci, i tre volumi del Repertorium risultavano stampati[75].

Questa vicenda mette in evidenza un  intreccio di interessi economici e un complesso di rapporti col mondo universitario che coinvolge non soltanto un’importante figura amministrativa dello Studio, come il bidello generale, ma anche docenti e allievi che entravano nel vivo dell’affare, seguendo direttamente la pubblicazione con le proprie competenze filologiche e erudite nella cura, nella revisione e nella correzione del testo, all’interno di un’operazione che aveva come principale obiettivo la diffusione dei libri tipografici presso gli studenti[76]. In effetti il libro a stampa iniziò gradualmente a sostituire le pecie manoscritte anche negli affollati corsi di diritto: nel 1474 Azzoguidi con una nuova società pubblicava la prima parte dello Speculum judiciale di Guglielmo Durante; nel 1476 Puteolano e Malpigli, in società con l’intraprendente libraio Sigismondo de’ Libri, facevano stampare la Repetitio capituli cum contingant de iure iurando di Giovanni Nicoletti da Imola.

Quando Sigismondo morì, nel 1484, venne redatto un inventario del suo magazzino librario bolognese: nella bottega erano presenti più di 400 volumi a stampa e 45 manoscritti – ulteriore testimonianza di come il libro a stampa continuasse a convivere, seppur su posizioni di forza, con quello manoscritto –, per lo più testi giuridici, presenti in una sola copia, e 20 copie della grammatica latina del Perotti. Nel piano superiore erano conservate le opere destinate ai corsi universitari di diritto e al pubblico dei giureconsulti: fra cui 422 copie dell’edizione della Lectura super VI parte Codicis di Baldo degli Ubaldi, stampata nel 1477 da Domenico de’ Lapi a spese di Sigismondo, 172 copie della Repetitio di Giovanni da Imola, e 150 copie di un’opera medica, il De conservatione sanitatis di Benedetto da Nursia, tutte fatte pubblicare dal libraio bolognese. In tutto ben 1.605 volumi. In un altro locale erano ammassate 659 copie di varie edizioni «in charta magna», edite anch’esse da Sigismondo. Il numero totale dei libri a stampa immagazzinati era di 2.664, una cifra rilevante che dimostra come il commercio librario non si limitasse alle vendite al dettaglio effettuate nella bottega sottostante, ma rientrasse in una rete di distribuzione che andava ben al di là delle mura cittadine[77].

La pubblicazione di testi e manuali giuridici sarebbe stata d’ora in poi inarrestabile. La quota più consistente delle edizioni bolognesi del XV secolo (oltre cinquecento titoli) riguarda soprattutto l’ambito del diritto ed è superiore a un quarto del totale. I libri di argomento scientifico, in prevalenza di autori contemporanei, sono circa il 22%, anche se sono compresi i numerosi Pronostici redatti dai docenti di astrologia. Scarsissimi i libri devozionali o liturgici. La battaglia contro il manoscritto era in gran parte vinta, anche se summae e appunti delle lezioni continuarono a circolare a lungo nelle aule bolognesi[78]. Non a torto nel 1486 il tipografo-editore Ugo Ruggeri poteva presentare con orgoglio il volume del professore di diritto Ludovico Bolognini (1447 circa-1508), Syllogianthon decretorum, sottolineando che si trattava di una pubblicazione importante, frutto della sua abilità professionale («editus arte mea»), e rivolgersi direttamente al pubblico universitario e non («Doctoribus et scolaribus, notariis et Secularibus Ecclesiasticisque professoribus omnibus») per invitarlo ad acquistare e a far conoscere il libro.

Diverso è il caso dello Studio di Perugia, dove la stampa si affermò grazie ad una società di cui faceva parte il dottore Matteo degli Ubaldi, esponente di una famiglia di giuristi che da circa un secolo controllava i corsi universitari di diritto, e che godeva dell’appoggio e del sostegno finanziario del signore della città, Braccio Baglioni. Il libro a stampa venne così introdotto nell’ateneo perugino attraverso le vie “ufficiali”, cioè tramite un forte legame garantito dalla presenza di un membro autorevole dell’istituzione. L’obiettivo era quello di pubblicare i trattati dei commentatori civilisti della scuola perugina per uso degli studenti dell’università. Vennero chiamati due tipografi tedeschi, Petrus di Colonia e Johannes di Bamberga, che grazie a una società costituita nell’aprile del 1471, poterono stampare tre opere giuridiche: la Lectura super VI parte Codicis di Baldo degli Ubaldi, la Lectura super I et II parte Digesti Veteris di Bartolo da Sassoferrato e la Lectura super titulo de appellationibus et nullitatibus sententiarum di Filippo Franchi. La società, che rimase in vita 16 mesi, dovette affrontare lo spinoso problema della commercializzazione dei tre volumi in folio, giacché l’ambiente universitario locale non era in grado di assorbire tutte le eccedenze. Il libro perugino ebbe comunque una discreta circolazione in altre città universitarie, come Bologna, Pisa, Ferrara, Padova, Siena, Roma e Napoli[79]. Tra Padova e Perugia, ad esempio, si era stabilito un canale per la commercializzazione dei libri fin dal 1475-76, che legava Giovanni de Trimonia, bidello dello Studio padovano, agli stampatori perugini[80].

Come avveniva spesso in quegli anni le società si scioglievano quando avevano raggiunto lo scopo per cui si erano costituite – cioè la pubblicazione dei volumi – e si ricostituivano con nuovi soci e con nuovi capitali: i due artigiani tedeschi in un rinnovato sodalizio col Baglioni e con altri cittadini di Perugia stamparono altre opere giuridiche, tra cui Circa materiam statutorum (Regulae generales statutorum. Contrarietates Bartoli)[81] di Baldo, la Lectura super quinque libros Decretalium (1473) di Niccolò Tedeschi, lo Speculum iudiciale di Guglielmo Durante, la Repetitio super materia irregularitatis di Mariano Sozzini e, in seguito, la Grammatica latina di Giovanni Sulpizio Verulano. Nella seconda metà degli anni settanta sono sempre i tipografi tedeschi a gestire in regime di semi-monopolio la stampa perugina: Heinrich Kleyn di Ulm e Johannes Wydenast stamparono il commento Super II parte Infortiati di Bartolo (1474-75) e, insieme al sassone Jakob Langenbeke, professore di teologia alla Sapienza vecchia, progettarono di pubblicare l’editio princeps del Corpus Iuris Civilis, ma l’ambiziosa impresa fallì con numerosi strascichi legali: vennero solo stampati la prima parte della Pandette e il Digestum Vetus cum glossa (aprile 1476), a cui si aggiunse la Lectura in sextum codicis di Pier Filippo della Corgna, professore perugino[82]. Anche alla fine del secolo il rapporto tra Studio e attività tipografica continuò a restare assai stretto: lo stampatore perugino Francesco Calzolari, esponente di una famiglia che aveva fatto fortuna col commercio della carta, iniziò nel 1500 un’attività in proprio, pubblicando la Lectura super II parte Infortiati di Angelo Perigli, professore nell’università locale[83].

Nel 1472 Lorenzo de’ Medici decise il trasferimento dello Studio generale da Firenze a Pisa, dove già dall’anno successivo vennero attivati i corsi di diritto, teologia e medicina. A Firenze rimasero i corsi propedeutici di retorica e di poetica e quelli di lingua e filologia greca[84]. La stampa era giunta nella città toscana relativamente tardi, nel 1471: operavano soltanto due tipografi, rispetto alla dozzina attiva a Venezia nello stesso anno. Questo ritardo era in gran parte dovuto alla diffidenza dei Medici e dei circoli umanisti verso le prime imprese tipografiche tedesche: «bibliofili raffinati ed esigenti – ha scritto Roberto Ridolfi –, certamente inorridirono davanti a quelle rozze meccaniche riproduzioni: l’industriosa trovata di barbari oltremontani dovette parere loro non arte, ma il rinnegamento, la rovina dell’arte»[85]. D’altra parte negli stessi anni anche il duca di Urbino, Federico da Montefeltro, detestava i libri tipografici: secondo la testimonianza del libraio Vespasiano da Bisticci nella sua biblioteca «non ce n’era ignuno a stampa, ché se ne sarebbe vergognato»[86]. Sin dal principio, quindi, dall’Opera virgiliana stampata nel 1471 da Bernardo Cennini alla Commedia dantesca col commento di Cristoforo Landino e le incisioni di Sandro Botticelli, edita da Niccolò Tedesco nel 1481, la produzione libraria fiorentina si orientò sul versante letterario e su quello umanistico[87]. Una delle poche eccezioni è il De medicina di Aulo Cornelio Celso, edito a Firenze nel 1478 per i tipi dei Giunta, uno dei primi trattati medici ad essere stampati in Italia.

L’editoria universitaria venne relegata a Pisa, sede dello Studio, dove il primo libro stampato (1482) non a caso è un testo giuridico, i Consilia seu responsa juris di Francesco Accolti (1418-1486), noto anche come Francesco Aretino, professore di diritto nella locale università. Nel 1483 veniva stampata da Gregorio de Gente, «civis pisanus et impressor librorum», la Repetitio legis primae De vulgari et pupillari substitutione di Mariano Sozzini. Lo stesso stampatore pubblicava anche opere di medicina come il De aqua ardenti (1484) di Michele Savonarola e probabilmente il Regimen sanitatis salernitanum (sempre del 1484) di Arnaldo da Villanova. Nel 1484 venne pubblicata inoltre De christiana religione di Marsilio Ficino e, sempre da tipografi locali, altre opere di diritto dei maestri dello Studio,come Felino Sandei e Bartolomeo Sozzini (e fra di esse i Commentaria super rubrica de iudiciis (1494) di Filippo Decio)[88].

A Siena la stampa nacque nel 1484 in stretta relazione con i corsi universitari: il tipografo tedesco Enrico da Colonia, che aveva già operato a Brescia, a Bologna e a Modena, venne chiamato nella città toscana da tre giovani professori di diritto dello Studio locale, Jacopo Germonia, Lorenzo Cannucciari e Luca di Nicolò Martini, che erano riusciti ad ottenere dalle autorità municipali un privilegio a favore della nuova arte, considerando che all’università «era molto commodo habere copia di libri» per evitare di «andare altrui» alla ricerca dei testi didattici[89]. Nel XV secolo lo Studio senese aveva acquisito una notevole reputazione per la qualità e la regolarità dei corsi, grazie all’insegnamento di famosi maestri forestieri – Francesco Filelfo, Francesco Accolti, Benedetto Barzi, Giovanni Battista Caccialupi, Filippo e Lancillotto Decio – che affiancavano un nutrito corpo di docenti locali fra i quali Bartolomeo Sozzini, Agostino Dati e Niccolò Borghesi[90]. Il primo libro stampato a Siena da Enrico da Colonia è la Lectura super sexto libro Codicis di Paolo di Castro, uno dei più grandi maestri del Quattrocento, a cui seguono i trattati dell’Accolti e, soprattutto, quelli di Caccialupi, professore di diritto civile dal 1452 al 1483, autore nel 1467 del De modo studendi et vita doctorum, considerato da Carlo Dionisotti come un testo fondamentale «per la storia del diritto fino alla metà del Quattrocento e per l’incontro [...] dei giuristi con la nuova tradizione umanistica»[91]. Fra i testi filologici vennero pubblicati a Siena le Elegantiole di Dati e il Compendium Elegantiarum Laurentii Vallae di Bono Accursio, entrambi nel 1487. Nell’editoria senese sono comunque i testi di diritto, legati ai corsi universitari, a caratterizzare la produzione libraria: tra le 74 opere edite tra il 1484 e il 1500 ben 57 sono di argomento giuridico, 9 di impianto filologico, 4 di contenuto scientifico, 3 di carattere religioso e le Mirabilia di Roma, in volgare italiano, stampate nel 1490 da Enrico di Haarlem, una guida destinata ai pellegrini che, lungo la via Cassia, si recavano alla Città eterna[92]. A Colle Valdelsa non lontano da Siena la presenza delle cartiere favorì la nascita dell’officina tipografica dell’olandese Jan Medemblick che nel 1478 stampò il De materia medica di Dioscoride[93].

Anche a Pavia la stampa visse in simbiosi con lo Studio, fra i circa trecento testi stampati nella seconda metà del secolo gli 8/10 sono di argomento giuridico e per il resto medico: i bidelli e i peciari, che traevano guadagni dalla produzione e dall’affitto dei manoscritti, si convertirono con prontezza alla nuova arte. La prima tipografia viene allestita da una società costituita nel 1472 tra il dottore Manfredo de Guarguaglia, lettore di medicina all’università, il giovane stampatore milanese Giovanni di Sedriano e lo studente Guniforto de Regalibus. Il primo libro, finito di stampare nell’ottobre del 1473, fu la Lectura super institutionum libros quatuor, in folio, di Angelo Gambiglioni, un manuale che godeva di un’ampia popolarità presso il pubblico dei giuristi pratici. Le società pavesi appaiono estremamente attive nella stampa dei testi universitari, come quella del milanese Antonio Carcano, bidello dell’università, che pubblicò i Consilia (1475 circa) di Angelo degli Ubaldi, l’Anatomia (1478) di Mondino de’ Liuzzi, il Pillurarium di Pantaleone di Vercelli, professore di medicina nello Studio, e il Canone di Avicenna, o quella di Damiano de’ Confalonieri che tra il 1478 e il 1479 pubblicò fra l’altro i commenti al Codice di Bartolo, i quattro grossi tomi dei Sermones medici (1481-84) di Nicolò Falcuzio e il Super tertium canonis Avicennae di Gentile da Foligno[94].

Sempre a Pavia venne pubblicato nel 1492 la Rosa anglica practica medicinae a capite ad pedes di John di Gaddesden (Johannes Anglicus), uno dei classici della cosiddetta “medicina pratica”. Nello stesso anno Giovanni Antonio Beretta e Francesco Girardengo, editori e commercianti, incaricarono il tipografo Jacopo Suigo di stampare una delle opere di riferimento della letteratura canonistica, la Lectura super Clementinis di Francesco Zabarella: l’opera doveva essere stampata in 600 copie «bene correpta e bene impressa»[95]. A Voghera presso Pavia, nella piccola tipografia di Jacopo di Sannazaro da Ripa venne pubblicato nel 1486 le Apostillae ad Bartolum del Tartagni, chiaramente rivolte al mercato universitario pavese[96]. Pavia subì comunque la diretta concorrenza di Milano che, con la trentina di tipografie attive tra il 1471 e il 1500 che pubblicarono un migliaio circa di titoli di vario argomento, era, dopo Venezia e Roma, il centro editoriale più rilevante della penisola[97].

 

 

4. – Padova e Venezia, due casi emblematici

 

Assai emblematico risulta il caso di Padova, dove l’attività tipografica, specializzata soprattutto nella produzione di testi universitari, fu segnata dalla concorrenza della vicina Venezia, che rappresentava il più importante centro europeo del libro a stampa[98]. La supremazia del libro veneziano su quello stampato in Terraferma venne favorita dalla politica protezionistica della signoria attraverso la concessione del privilegio di stampa – accordato  per la prima volta al tipografo Bernardo Benalio nel 1492 – che garantiva l’esclusività della pubblicazione di un’opera per dieci o vent’anni a Venezia e in tutto il territorio della Repubblica veneta[99]. Ovviamente le società tipografiche più forti per danneggiare la concorrenza si accaparravano un numero elevato di privilegi anche di opere che non stampavano. In uno degli esempi contenuti nell’Opuscolum scribendi epistolas di Francesco Negri, pubblicato a Venezia nel 1488, uno studente recatosi a Padova a studiare giurisprudenza si lamenta della mancanza di libri con un amico veneziano, sostenendo che, invece, nella città lagunare «apud publicos impressores abundanter reperiuntur», e lo prega di acquistare per proprio conto un libro di diritto col commento di Bartolo[100]. Eppure, con gli oltre 800 studenti e i numerosi professori Padova rappresentava nella seconda metà del Quattrocento un mercato di indubbio rilievo[101]: «il libro padovano era soprattutto il testo universitario, un poco tradizionale e raramente aggiornatissimo – ha osservato Angelo Colla –, poiché doveva adattarsi a programmi collaudati e, soprattutto, non doveva suscitare orgogli e rivalità tra i professori, ai quali in parte, era affidata la promozione dei libri stampati. Il progresso scientifico dell’umanesimo lagunare procedeva con un ritmo più spedito della cultura elaborata nelle istituzioni scolastiche ufficiali»[102].

A Padova si cominciò a stampare nel 1471 per opera di Lorenzo Canozi di Lendinara, intarsiatore e pittore, allievo nella fervida officina di Francesco Squarcione e condiscepolo di Andrea Mantegna: fra i primi libri pubblicati figura uno dei classici della medicina medievale, il Liber de complexionibus proprietatibus simplicium medicinarum laxativarum ed altri aforismi di Mesue il vecchio (il medico arabo Abū Zakaryya Yūhannā ibn Māsawaih, vissuto nella prima metà del IX secolo), finito di stampare il 9 giugno 1471[103]. Come avveniva in altre città universitarie, il commercio librario padovano non era colpito dai dazi civici: come emerge ancora dal loro statuto del 1550 i bidelli-librai tentarono di rimanere a lungo esenti da tutte le gabelle per il transito e l’introduzione dei libri destinati in gran parte allo Studio[104]. Nel 1474 il doge di Venezia, Niccolò Marcello, ordinava ai rettori di Padova di non far pagare gabella a chi introduceva libri nella loro città e, viceversa, di imporre dazi a chi ne esportava, dando così un colpo durissimo all’editoria patavina a vantaggio di quella veneziana[105].

La società tipografica, costituita dal dottore in legge Bartolomeo Valdezocco, esponente di una delle principali famiglie della città, e dall’artigiano tedesco Martin Seibeneichen, che poteva disporre anche di un locale concesso dall’università, pubblicò il 21 aprile 1472 il primo trattato moderno di pediatria, il Libellus de aegritudinibus et remediis infantium di Paolo Bagellardo: era il primo libro di medicina concepito per essere stampato, e passato direttamente dallo scrittorio dell’autore, lettore nell’ateneo padovano, al banco del compositore[106]. Tra le altre opere dirette a soddisfare le richieste dell’ambiente universitario bisogna ricordare il De arte cognoscendi venena di Arnaldo da Villanova, edito nel 1473, i Consilia medica, il più importante degli scritti casistici di Bartolomeo da Montagnana, celebrato professore dello Studio padovano dal 1422 al 1441, stampato nel 1476 in cinquecento copie da una società animata dal nobile Paolo Dotti, e i commenti di Gentile da Foligno Super tertium librum Avicennae, stampati nel 1477 da Pietro Maufer in 600 copie. Questo trattato aveva avuto una tormentata vicenda: il docente universitario Giovanni Pietro Carrari si era impegnato a fornire il manoscritto accuratamente corretto, consegnando ogni giorno il numero delle pagine revisionate per tenere attivi i quattro torchi della tipografia Maufer, in cambio di 22 esemplari dell’opera a titolo di compenso. La stampa dei tre volumi in folio si rivelò particolarmente complessa: durò sei mesi, con uno sciopero dei compositori e degli stampatori, subito licenziati: ogni volume fu venduto dagli editori a quattro ducati e mezzo la copia[107]. Per commercializzare questo gigantesco in folio di 531 carte la società Maufer-Valdizocco ingaggiò come distributore, col salario mensile di sei ducati, Giacomo Bordegazzi, che era stato uno dei parziali finanziatori dell’edizione e il correttore di bozze dell’opera: egli avrebbe dovuto vendere 25 copie dei commentari a Ferrara, a Bologna e nelle altre sedi universitarie[108].

La tipografia padovana si cimentò anche col libro giuridico: nell’autunno del 1475, auspice un ricco studente di giurisprudenza, Giovanni Frascati da Brescia, veniva costituita una società per la stampa di una «certa quantità de i volumi» dei Consilia di Angelo degli Ubaldi: dal contratto si evince che i libri dovevano essere commercializzati nelle città dell’Italia settentrionale (Vicenza, Verona, Udine, Brescia, Bergamo, Pavia, Milano, Mantova, Reggio, Parma) al non modico prezzo di tre ducati e mezzo la copia[109]. I costi globali di un’edizione erano particolarmente alti, soprattutto se il volume superava le 500 copie. La Lectura super Infortiatum di Bartolo, pubblicata nel 1481 da una società di otto persone e stampata da Maufer in 1.250 esemplari, costò più di 1.600 ducati: le spese più rilevanti erano state quelle per l’inchiostro (100 ducati), per la carta e per i caratteri (20 ducati per ogni cassa di 80 libbre). Un’officina attrezzata come quella del tipografo di Rouen aveva in funzione da quattro a sei torchi: in genere ogni torchio era attrezzato per due casse e ciò comportava un immobilizzo di capitali, soltanto per i caratteri, di almeno 160 ducati[110]. A ciò bisognava aggiungere le spese per i salari delle maestranze: negli anni settanta del Quattrocento nella tipografia Maufer il salario mensile degli operai che imprimevano al torchio dai 2.650 ai 3.000 fogli al giorno era di 10 lire. Quello dei compositori, ai quali si chiedeva in media la composizione di due pagine dell’in folio reale al giorno, o quattro del formato minore, andava da 2 ducati e mezzo a 3 ducati. Gli apprendisti, ovviamente, non guadagnavano nulla ma imparavano il mestiere. A tutti erano assicurati alloggio e vitto: le condizioni di lavoro in tipografia erano molto dure con giornate lavorative che si estendevano dalle 12 alle 14 ore. Gli operai vivevano nella casa del tipografo, anche per evitare la fuga di notizie o, peggio, la sottrazione di bozze a favore della concorrenza[111].

Nel 1529 nel dialogo Opulentia sordida Erasmo tracciò un ritratto satirico della tipografia veneziana di Andrea Torresani, suocero di Aldo Manuzio, vicino a Rialto – nella quale aveva vissuto dal gennaio al settembre 1508 per mettere a punto una nuova edizione dei suoi Adagia –, caratterizzata dal lavoro affannoso e talvolta frenetico, dall’avarizia del proprietario e dalla convivenza forzata dei lavoranti e di molti dotti ospiti (l’umanista olandese condivideva la stanza col grecista Girolamo Aleandro)[112]: «Quella casa aveva una tale quantità di pulci e di cimici – ricorda Erasmo –, che di giorno non si poteva stare in pace, e di notte non era possibile prendere sonno». Torresani era talmente avaro che risparmiava su tutto: sulla legna, sul cibo, sul vino. «Per lui, che era cresciuto in questo genere di miseria, l’unica cosa piacevole era far soldi»: «trafficava in tutto», in quella città che «più di tutte le altre» era «devota a Mercurio». Erasmo ritiene che «il suo patrimonio non fosse inferiore a ottocentomila ducati come minimo»[113]. Una cifra davvero considerevole (un palazzo sul Canal Grande valeva da 10.000 a 20.000 ducati).

Di fronte al prepotente sviluppo dell’editoria veneziana e dinanzi alle capacità imprenditoriali e commerciali dei tipografi attivi nella metropoli lagunare, la stampa nelle città della Terraferma veneta si riduceva via via entro ambiti sempre più ristretti, con una produzione libraria destinata al consumo locale o, come nel caso padovano, a quello universitario. Tra il 1469 e il 1500 avrebbero operato a Venezia oltre duecento tipografi, pari a quanti ne ebbe negli stessi anni l’intera Germania[114]. La città di San Marco era una delle grandi capitali dell’editoria europea: soltanto nel primo decennio di attività tipografica (1469-1480) furono pubblicati 596 incunaboli, fra i quali erano naturalmente comprese anche opere destinate all’insegnamento universitario, come i 76 titoli relativi a grammatiche e a libri scolastici, i 121 testi teologici, i 100 giuridici e i 71 scientifici[115]. Nel XV secolo Venezia da sola pubblicò 4.500 titoli (un ottavo di tutta l’Europa e un terzo dell’Italia) contro le 1.800 di Roma, le circa 1.000 di Milano e di Firenze, le 700 di Bologna[116].

Quando nel 1469 i due fratelli Giovanni e Vendelino da Spira si trasferirono a Venezia, dove prosperava un’attiva colonia tedesca, la Serenissima era una città cosmopolita, ricca, in piena espansione, culturalmente aperta, inserita in un ampio circuito commerciale che abbracciava al tempo stesso il mondo orientale, i paesi dell’Europa centrale e dell’est. Sin dal principio i più importanti tipografi-editori veneziani – Giovanni e Vendelino, Nicholas Jenson, Cristoforo Valdarfer, Giovanni da Colonia, Erardo Ratdolt, Lorenzo Canozi – dovettero affrontare due aspetti decisivi per lo sviluppo della loro attività, come il rinnovamento tecnologico dei mezzi di stampa e l’adeguamento societario alla commercializzazione su vasta scala del prodotto.

I caratteri tondi delle Epistolae ad familiares (1469) di Cicerone stampate da Giovanni da Spira, desunti dall’Alphabetum Romanum (1463) del calligrafo veronese Felice Feliciano (Antiquarius), costruiti sui quadrati e sui circoli delle lettere trascritte dalle antiche iscrizioni latine, erano di straordinaria eleganza ed esprimevano il meglio della scrittura umanistica[117]. Jenson, che era stato orefice e incisore nella zecca di Tours e si favoleggiava fosse stato incaricato dal re di Francia di carpire il segreto dell’invenzione di Gutenberg, creava negli stessi anni dei punzoni con un carattere romano rotondo, sottile, proporzionato, di raffinata bellezza[118].

Ancora esteticamente più belli sono i «tipi» che appaiono nel De Aetna di Pietro Bembo, stampato da Aldo Manuzio tra il 1495 e il 1496, per il quale Francesco Griffo, rinnovando l’estetica dei caratteri romani, aveva disegnato il carattere poi detto «aldino», che si affiancava a quello greco e al corsivo cancelleresco realizzati dalle «mani dedalee» dell’artigiano bolognese[119]. Il nuovo carattere non a caso si sarebbe accompagnato con la nascita di un libro a stampa profondamente diverso dai modelli del passato, spesso tardiva riproposizione del manoscritto medievale: il volume di piccolo formato. Manuzio, d’altra parte, ebbe piena coscienza della novità e del suo significato: «nell’aprile del 1501 – ha scritto Petrucci a proposito del Vergilius in ottavo, con i caratteri in minuscola italica, che inaugurava la nuova produzione editoriale –, dunque, si sarebbe svolta a Venezia, per iniziativa del più geniale editore europeo del tempo, una vera rivoluzione libraria, dalla quale sarebbe scaturito, come Minerva dalla testa di Giove, il libro moderno, nuovo nei caratteri e nuovo nel formato “portatile”»[120]. Il nuovo formato ebbe una diffusione enorme, come è testimoniato dalla ritrattistica del primo Cinquecento: «Partitomi del bosco, io me ne vo a una fonte, et di quivi in un mio uccellare – scriveva Niccolò Machiavelli nella famosissima lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513 –. Ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o un di questi poeti minori, come Tibullo, Ovvidio et simili: leggo quelle loro amorose passioni et quelli loro amori, ricordomi de’ mia, godomi un pezzo in questo pensiero»[121]. Si affermavano in sostanza due tipologie di libro e due generi di lettura: la prima è quella, appunto, dei classici tascabili in ottavo, sia latini che volgari, stampati in caratteri corsivi in poche centinaia di pagine, corredati da prefazioni ma privi di commento, che potevano essere letti  in qualsiasi situazione; la seconda è quella della trattatistica giuridica, scientifica, teologica con pesanti volumi di solito in folio, con commenti sovrabbondanti, scarsamente maneggevoli, che dovevano essere letti necessariamente sullo scrittoio[122].

L’altra importante innovazione dell’editoria veneziana riguarda l’illustrazione in serie dei libri realizzata con la tecnica xilografica: con la stessa impressione si potevano infatti stampare facilmente il testo e le figure incise nelle matrici di legno, in rilievo come i caratteri. Come ha osservato Erwin Panofsky «il passo veramente importante fu fatto qundo si cessò di imprimere a mano e si affermò l’uso dei torchi; ciò permise lo sviluppo di motivi lineari tanto densi e intricati che si sarebbero immediatamente confusi se stampati a mano»[123]. Dalle tavole della Passio stampate intorno al 1450, primo esempio xilografico italiano, si giunge alla Hypnerotomachia Poliphili, attribuita a Francesco Colonna, edita nel 1499 da Aldo Manuzio con splendide incisioni, considerato non a torto come il più bel volume illustrato stampato nel Rinascimento[124].

Fernand Braudel, analizzando l’«irradiamento» italiano in Europa durante il Rinascimento, ha posto l’accento sulla «diffusione dei beni culturali» e, in particolare, sui «prodotti delle botteghe dei fonditori di bronzi padovani», sulle «esportazioni precoci dei marmi di Carrara», sulla commercializzazione dei gioielli, degli argenti e delle opere d’arte[125]. Lo storico francese sottovaluta però il fatto che l’Italia – e, in particolare, Venezia – è stata anche una grande produttrice ed esportatrice di libri. Secondo calcoli attendibili l’Italia avrebbe infatti prodotto nel primo secolo della stampa il 40,2% dei libri pubblicati in Europa, pari a circa 35-40.000 volumi, mentre la Germania ne avrebbe prodotto il 31,1%, la Francia il 16%, i Paesi Bassi l’8,6%, Spagna e Portogallo il 2,3%[126].

Rispetto all’editoria romana, che nei primi anni settanta era stata duramente colpita dalla crisi, quella veneziana riuscì nel complesso a fronteggiare le difficoltà, sia aumentando le tirature, sia differenziando l’offerta, sia, soprattutto, individuando un mercato più vasto su cui piazzare il prodotto. Grandi balle di libri percorrevano tutte le vie commerciali d’Europa: secondo l’indovinata espressione di Vittore Branca, la «via delle spezie» aveva predisposto i percorsi della «via del libro»[127]. La società tipografica di cui faceva parte dal 1471 Vindelino da Spira sceglieva come area di distribuzione dei libri soprattutto le regioni germaniche. Viceversa, il gruppo di cui era socio dal 1473 Jenson diffondeva la propria produzione nell’Italia nord-occidentale e nell’area francese.

Per gran parte degli anni settanta la società di Vendelino, con i suoi finanziatori e congiunti, Giovanni da Colonia e Giovanni Manthen, e quella di Jenson esercitarono una sorta di monopolio sull’editoria veneziana: sui 207 libri pubblicati nella città lagunare dal 1476 al 1478 quasi il 40% con 82 titoli erano di Jenson «et socii» (45 titoli) e dei tedeschi (37 titoli)[128]. Le due aziende rivali avevano ormai raggiunto un livello di impresa capitalistica, assai lontana dall’originaria dimensione artigianale. Nel 1480 i due gruppi si fusero e nacque la società «Zuan de Cologna, Niccolò Jenson e compagni», con un capitale di circa 10.000 ducati. Nello stesso anno la nuova società pubblicava ben venti edizioni di opere giuridiche e teologiche destinata al mercato europeo, in gran parte universitario, per complessive 5.300 pagine di grande formato: una produzione di gran lunga superiore a quella di ogni altra casa editrice del tempo (la sola che poteva competere era quella dei Koberger a Norimberga). Ma la morte di Jenson nell’autunno del 1480 interruppe l’attività editoriale dell’azienda, che continuò comunque ad operare nel campo commerciale[129].

Rinaldo di Nimega, nuovo marito della vedova di Giovanni da Spira, puntava sul mercato inglese, pubblicando nel 1483 un Ordo psalterii secundum ritum et consuetudines Ecclesie Sarum Anglicane, uno dei più antichi offici di rito britannico. Johann Hamman stampava un salterio in catalano, un messale per Burgos, uno per Parigi, breviari per Utrecht e per la Polonia. Si pubblicavano opere in latino, in italiano, in greco, in slavo. Era stato Vindelino ad adoperare per primo i caratteri greci per il De finibus di Cicerone, apparso nel 1471. Nel 1491-92 veniva pubblicato il primo breviario romano in caratteri glagolitici, destinato ai sacerdoti croati che officiavano in lingua paleoslava[130]. Anche la traduzione in volgare italiano della Bibbia, curata dal camaldolese Nicolò Malerbi e pubblicata nel 1471 da Vindelino, ebbe uno straordinario successo editoriale e continue ristampe (44 edizioni sino al 1547, tutte, tranne 3, veneziane)[131].

L’editoria veneziana incise profondamente anche sul libro universitario, giacché molte delle opere pubblicate nella città lagunare erano destinate agli Studi, oltre che al pubblico dei giuristi e degli ecclesiastici di mezza Europa, in tirature molto più alte di quelle che si potevano permettere i tipografi che operavano accanto agli atenei. È il caso, ad esempio, dei commentari del Panormita alle Decretalia di Gregorio IX, stampati nel 1471 da Vindelino con la consistente tiratura di mille copie che si differenziava nettamente dalle poche centinaia di copie, prodotte dai tipografi suoi contemporanei[132]. Nel 1472 Vindelino, in società con Giovanni da Colonia, pubblicava la monumentale raccolta delle Repetitiones, disputationes necnon tractatus diversorum doctorum, un’opera destinata soprattutto ai giureconsulti e ai professori degli Studi. Nel 1491 Battista de Tortis avrebbe stampato le Decretalia in 2.300 copie[133]. Un fiume di libri usciva dunque dalle tipografie veneziane. Se si considera, secondo i calcoli di Scholderer, una media di 250 copie per ciascuno dei 4.500 libri editi a Venezia nel Quattrocento, si giunge all’impressionante dato di 1.125.000 volumi stampati[134]. E si tratta di un dato in difetto, perché alla fine del secolo molti libri avevano una tiratura di mille/duemila copie e Manuzio stampò nel 1502 il suo Catullo in una tiratura di tremila[135]. Come ha osservato Marino Zorzi, nel campo della stampa quattrocentesca Venezia era una «superpotenza» che a partire dal 1475 «non conosceva rivali»[136].

L’editoria veneziana riuscì ad organizzare su basi completamente nuove il commercio internazionale dei libri attraverso una ramificata rete di distribuzione che si collegava assai spesso ai librai delle sedi universitarie di Padova, Pavia, Ferrara, Bologna, Perugia, Pisa, Siena, Roma e Napoli[137]. Ad esempio, il Decretorum codex, stampato in folio nel 1474 da Jenson, venne acquistato da uno studente di giurisprudenza nella libreria padovana di Antonio d’Avignone per 9 ducati. L’incunabolo aveva avuto un rincaro di quattro volte il prezzo di stampa, pur in una piazza relativamente vicina come quella di Padova[138]. A proposito del giro d’affari del libraio veneziano Francesco de’ Madi, Martin Lowry ha calcolato che in quattro anni, dal 1484 al 1488, aveva commercializzato ben 13.000 libri e potuto mettere in vendita contemporaneamente 1.361 volumi[139]. Sin dal 1476 il commercio librario veneziano utilizzava cataloghi a stampa delle opere in vendita, edite nella città lagunare o provenienti dalle altre regioni italiane, come conferma quello pubblicato dalla tipografia di Giovanni da Colonia e Giovanni Manthen[140]. A questo segue il catalogo edito da Jenson intorno al 1478-79, di cui ci è pervenuto solo un frammento (Index librorum venalium). Il primo catalogo di Aldo Manuzio risale al 1498: dedicato esclusivamente alle edizioni greche, fornisce tutte le informazioni possibili sulle opere e sui prezzi; il secondo, del 1503, riporta i frontespizi dei volumi in greco e in latino con un elenco dei ricercati libri portatiles, dei libri in via di pubblicazione e di quelli, non prodotti dalla tipografia aldina ma presenti e in vendita nel negozio presso Rialto; il terzo, del 1513, in carattere corsivo, riporta le edizioni greche ancora disponibili a un prezzo ribassato rispetto a quello dei cataloghi precedenti[141].

Non bisogna dimenticare, a questo proposito, che il grande successo editoriale delle edizioni aldine è in qualche misura il prodotto della «rivoluzione commerciale» libraria veneziana del XV secolo, del rinnovamento tipografico e della nuova organizzazione societaria per la produzione e la vendita dei libri. Sicuramente Aldo non avrebbe potuto iniziare la sua straordinaria avventura editoriale, per la quale utilizzò i letterati e i filologi più autorevoli del suo tempo e investì cospicui mezzi nel rifacimento dei caratteri tipografici, senza avere alle spalle una società con una potente organizzazione finanziaria: di essa facevano parte, oltre allo stesso Manuzio, che disponeva del 10% delle quote, Pietro Francesco Barbarigo, esponente di una famiglia patrizia, proprietario di cartiere, principale finanziatore dell’impresa col 50% delle quote, e il tipografo Andrea Torresani, che aveva  lavorato nella stamperia di Jenson e delle cui attrezzature e caratteri era entrato in possesso, che deteneva il 40% delle quote[142].

Quando quarantenne giunse a Venezia nel 1490, Aldo non aveva alcuna esperienza editoriale, era un umanista, un linguista, un maestro di grammatica e metrica latina e greca: non a caso nel 1501, ripubblicando la sua grammatica latina edita nel 1494, modificò il titolo originario di Institutiones grammaticae in quello di Rudimenta grammatices latinae linguae, dedicando l’opera agli anonimi, umili colleghi, «literarii ludi magistris»[143]. Nel 1494, all’inizio, dell’attività di «editore principe dell’età sua» vi erano già, secondo Carlo Dionisotti, tutte le premesse per l’affermazione di quel «dominio così prepotente su tutti gli aspetti dell’arte, sulla scelta, sulla produzione e sul mercato dei libri». Erano tre, infatti, «gli elementi della nuova editoria, inseparabili nel momento decisivo e però distinti [...]: i caratteri, il formato e la preparazione dei testi»[144]. La politica editoriale di Aldo era ispirata a un disegno preciso e coerente: la pubblicazione in edizioni filologicamente corrette dei classici greci (Omero, Esopo, Erodoto, Demostene, Sofocle, Euripide, Tucidide, Senofonte, Luciano), di quelli latini (Plinio, Virgilio, Orazio, Catullo, Lucrezio, Giovenale, Marziale, Lucano, Cicerone, Ovidio, Cesare) e di opere grammaticali greche e latine (gli Erotemata di Costantino Lascaris, quella greca di Theodoro Gaza, il dizionario greco-latino del Crastonus, la Cornucopiae linguae latinae del Perotti, etc.). Manuzio si cimentò anche col delicato problema della critica testuale delle sacre scritture, pubblicando nel 1501 una Bibbia trilingue (ebraico, greco, latino); curò inoltre edizioni di classici italiani (Dante, Petrarca) e di fortunate opere di autori contemporanei come Gli Asolani (1505) di Pietro Bembo e gli Adagia (1508) di Erasmo[145]. In questo caso Aldo collaborò intensamente con gli autori, tanto che il lavoro tipografico procedeva man mano che questi redigevano il testo.

Le edizioni dei classici aldini trascuravano deliberatamente le aule universitarie per rivolgersi al mondo degli umanisti: in fondo l’Organon (1495) o il De animalibus (1497-98) di Aristotele, stampati in greco senza commenti, o il De materia medicinali (1499) di Dioscoride, sempre in greco, erano di difficile utilizzazione nella didattica. Tra i 150 titoli pubblicati da Aldo dal 1494 al 1515 sono assai poche le opere di argomento scientifico, fra queste il De epidemia quam Itali morbum gallicum vocant (1494) del suo collaboratore editoriale e medico umanista Nicolò Leoniceno, professore all’Università di Ferrara, che ebbe vasta eco in Europa, gli Scriptores astronomici (1499) di Francesco Negri e il De gradibus medicinarum (1497) del medico genovese Lorenzo Maiolo, docente nello studio ferrarese[146]. Non figura nessun libro di diritto.

Eppure, nonostante tutto, l’impianto filologico delle edizioni aldine ha avuto una ricaduta positiva nell’ambito universitario: ad esempio, dopo la realizzazione del monumentale corpus aristotelico, offerto agli studiosi nella sua interezza, senza mutilazioni o interpolazioni spesso fuorvianti, non era più possibile continuare ad utilizzare i vecchi testi di eredità medievale. Le edizioni di Aldo non avevano note o pesanti commenti, ma solo agili presentazioni esplicative. Da buon umanista Aldo era infatti convinto che le opere dei classici dovessero parlare da sole, senza alcuna intermediazione.

Nei primi tempi dell’invenzione della stampa i tipografi pubblicavano in modo frenetico e per esclusivi fini di lucro tutti i manoscritti che gli passavano fra le mani, senza alcuna verifica della qualità del testo, spesso revisionato da curatori superficiali o poco preparati. La Historia naturalis di Plinio, edita a Roma nel 1472 da Sweynheym e Pannartz, era talmente piena di errori che spinse Niccolò Perotti ad avanzare la richiesta di una censura preventiva di tipo filologico sulle stampe: a suo avviso una commissione di eruditi avrebbe dovuto autorizzare preventivamente le edizioni dei classici per evitare che circolassero testi così scorretti[147].

Nelle Castigationes Plinianae (1493) l’umanista veneziano Ermolao Barbaro, mostrando, secondo Vittore Branca, «una dottrina poderosa e enciclopedica da erudito e naturalista», metteva sotto accusa le edizioni della Historia naturalis del 1473, pure curata dallo stesso Perotti, e quella veneziana stampata da Jenson nel 1472, per dimostrare, alla luce di una rigorosa critica filologica, che gli errori più che alle sviste dei tipografi erano imputabili alle mende della tradizione manoscritta[148]. Ma anche Venezia non era da meno: la editio princeps di Catullo, stampata nel 1472 da Vindelino, conteneva, ad esempio, ogni sorta di fraintendimento: «Annali Volusi, cacata carta» diventavano un titolo «Ad Lusi Cacatam», e così via[149].

 

 

5. – Verso l’umanesimo giuridico

 

Anche nelle materie giuridiche, caratterizzate nel complesso da una forte adesione alla tradizione, iniziava lentamente a farsi strada l’idea della necessità di disporre di edizioni dei testi romanistici conformi all’originale, depurate dall’intermediazione delle interpretazioni successive, dalle glosse e dai commenti medievali. Per gli umanisti, come ha osservato Francesco Calasso, era infatti «ragione di stupore e di sdegno il metodo col quale i giureconsulti studiavano i testi giuridici, antichi di un millennio, senza alcuna preoccupazione di farli rivivere nel mondo che li aveva generati, paghi di ricavare il senso delle parole e di costruirvi sopra delle teoriche»[150].

Fra i primi a criticare severamente il metodo dei giuristi era stato Francesco Petrarca: in una celebre lettera, scritta tra il 1355 e il 1359, in risposta a un certo Marco da Genova, studente di diritto, che gli chiedeva aiuto e conforto. Petrarca, studente svogliato di giurisprudenza a Montpellier e a Bologa, dove era giunto alle soglie della licenza e del «privilegium doctoratus», esprime un giudizio estremamente acuto e per certi versi premonitore, col consiglio di sfruttare meglio la conoscenza della storia e delle antiche fonti nella stessa pratica professionale: «La maggior parte dei nostri legisti – scrive – poco o nulla curando il conoscersi delle origini del diritto e dei primi padri della giurisprudenza, né ad altro fine mirando che a trar guadagno dal suo mestiere […] non pensa che il conoscersi delle arti, e i primordi e gli autori è di aiuto grandissimo all’uso pratico delle medesime»[151].

L’esortazione ad accostarsi al diritto romano con gli occhi dello storico implicava l’adozione di un metodo filologico e di critica testuale per la migliore comprensione delle fonti, destinato a rimettere in discussione interpretazioni e teorie secolari ormai consolidate. Il rischio era infatti quello di «minare una tradizione ermeneutica, di sovvertire prassi giudiziarie, di sconvolgere insomma un intero sistema ormai affermato»[152]. Ogni ipotesi di verifica della fondatezza delle teorie giuridiche insegnate nelle università che si ispiravano all’opera dei glossatori bolognesi e dei commentatori trecenteschi, in particolare di Bartolo, era considerata quasi un sacrilegio. Nel marzo del 1433 Lorenzo Valla, giovane professore (aveva 28 anni) di retorica nell’Università di Pavia, dove era stato chiamato grazie all’appoggio del Panormita, componeva di getto uno dei suoi scritti più radicali, l’Epistula dedicata a Pier Candido Decembri, destinata a suscitare la reazione indignata dei giuristi pavesi, che lo avrebbero costretto ad abbandonare lo Studio e a rifugiarsi a Milano. L’Epistula era stata scritta per confutare l’insulsa affermazione di un anonimo legista, ammiratore incondizionato di Bartolo, secondo cui anche un trattatello minore del giurista di Sassoferrato, il De insigniis et armis, avrebbe avuto più valore di qualsiasi opera di Cicerone. Valla demoliva senza mezzi termini tutto l’edificio del diritto medievale: iniziava con Giustiniano, la cui compilazione avrebbe, a suo avviso, distrutto l’armonia della sapienza giuridica romana, e proseguiva con Bartolo, Baldo, Accursio, accusati di non conoscere il latino classico ma di adoperare una lingua «barbara» e rozza («non urbanam quondam morum civilitate, sed agrestem rusticanam»)[153].

Nella prefazione al terzo libro delle Elegantiae (1435) Valla avrebbe riproposto in modo molto più meditato e convincente il suo invito ad utilizzare gli strumenti filologici nella scienza giuridica: «Meritano, infatti quei sommi antichi – scriveva a proposito degli autori classici – che qualcuno li esponga secondo verità e come conviene e li difenda da quanti li interpretano male, e da Goti piuttosto che da Latini […]. E non dico ciò per attaccare gli studiosi di diritto – spiegava –, ma piuttosto per esortarli e convincerli che senza una cultura letteraria non possono acquistare perizia nella disciplina a cui aspirano, se vogliono rassomigliare a giuristi piuttosto che a legulei»[154]. I contemporanei accusavano Valla di praticare una critica tanto radicale da non fermarsi nemmeno davanti ad acquisizioni culturali e ad autori universalmente ritenuti indiscutibili, come, ad esempio, la tradizione giuridica medievale o l’opera di Bartolo. Eppure, pochi anni dopo, nel 1440, nella Declamatio sulla donazione di Costantino, Valla avrebbe rivendicato la fondatezza di quel metodo che, attraverso la critica storica e filologica, era riuscito a dimostrare in modo inoppugnabile la falsità di quel documento, su cui pure avevano espresso dubbi e riserve gli stessi giuristi medievali[155]. Le Elegantiae – con le loro 150 edizioni a stampa, dal 1471 alla fine del Cinquecento, un vero e proprio best seller –, col loro stile asciutto e severo, finirono per esercitare una profonda influenza sulla cultura umanistica che, fra l’altro, incominciò a recepire l’esigenza dell’uso degli strumenti filologici nella scienza giuridica[156].

Si incominciava dunque a guardare con occhi diversi alle antiche fonti e iniziava a prendere consistenza quel movimento definito «umanesimo giuridico» che si contrapponeva allo «scolasticismo» di eredità medievale[157]. L’attenzione dei giuristi e degli eruditi si concentrava sul manoscritto delle Pandette, fonte antichissima dell’età giustinianea, chiamato sin dal XII secolo littera Pisana. La leggenda tramandava che fosse stato scoperto ad Amalfi dai conquistatori pisani tra il 1135 e il 1137[158]. In realtà, è probabile che il codice avesse un’origine meridionale, «forse una delle copie fatte eseguire per le province dell’impero», o che provenisse da Montecassino, come indurrebbe a pensare una noterella del X secolo vergata in scrittura beneventana, ampiamente usata nello scriptorium dell’abbazia benedettina[159]. Dopo la conquista fiorentina di Pisa, nel 1406, il codice delle Pandette venne ribattezzato littera Florentina. Nel 1419-20 venne costruito nel Palazzo dei priori di Firenze un apposito tabernacolo per custodire l’antico e prezioso manoscritto, che veniva mostrato in pubblico solo in situazioni eccezionali: nel Gargantua Rabelais si fece gioco di quelle «cerimonie e solennità», con «tanti zendadi, fiaccole, torce, paramenti e santimoníe», con le quali venivano mostrate «le Pandette di Giustiniano a Firenze, o la Veronica a Roma»[160].

Il codice fiorentino, custodito in sacrario del sommo magistrato della città, consultato da giuristi e eruditi, venne analizzato per la prima volta con estremo scrupolo filologico da un umanista di formazione non giuridica, Angelo Poliziano, che ipotizzò un’edizione critica del manoscritto attraverso un puntuale raffronto col testo che veniva normalmente utilizzato negli Studi sin dal tempo dei glossatori, la cosiddetta littera Bononiensis, inficiata da errori e inesattezze. Poliziano, grazie all’intercessione di Lorenzo de’ Medici, potè studiare il manoscritto senza alcuna restrizione, come annotava nell’ultima pagina dell’incunabolo del Digestum vetus glossato, nell’edizione veneziana del 1486, che aveva utilizzato per la collazione con la littera Florentina. Il suo obiettivo era restituire la purezza e la lezione originaria del testo e di apprestare dei sistematici commenti filologico-linguistici, utilizzando anche la consulenza del giurista Bartolomeo Sozzini[161]. Purtroppo, questo ambizioso progetto venne vanificato dalla morte di Poliziano, avvenuta nel 1494.

L’idea di un’edizione critica del Digesto, enunciata nella Miscellanea (1489) di Poliziano, ebbe comunque una forte eco, accreditata ulteriormente dai progressi dell’arte tipografica, e stimolò la curiosità di Ludovico Bolognini, professore di diritto nello Studio di Bologna, che, dopo la morte dell’umanista fiorentino, si cimentò dal 1501 al 1507, grazie anche ad un prolungato soggiorno nella città toscana, nel tentativo di pubblicare un testo critico della Florentina[162]. Ma all’entusiasmo del docente bolognese non corrispondeva uno spirito filologico, e il suo tentativo riuscì nel complesso velleitario ed infruttuoso[163]. L’istanza metodologica del Poliziano sarebbe stata raccolta soltanto dai giuristi della generazione successiva, quelli della cosiddetta Scuola Culta, e in particolare dalla triade costituita da Guillaume Budé, da Ulrich Zäsy (Zasius), da Andrea Alciato, che avrebbero applicato gli strumenti filologici allo studio del diritto. Come ha scritto Domenico Maffei, i Culti «ritenevano aberrante il modo con cui gli interpreti si erano avvicinati al diritto romano […], l’adattamento che essi avevano fatto di quel diritto ad una diversa realtà sociale. Per l’umanista, la giurisprudenza medievale è barbara perché forza la storia, non ha il senso della storia»[164].

 

 

 



 

Il presente lavoro realizzato col contributo del Miur, fondi Prin (ex 40%) è frutto di uno stretto rapporto di collaborazione tra i due autori nella ricerca e nella stesura del saggio. Tuttavia i paragrafi 1, 5 sono di Antonello Mattone, 2 e 4 sono di Tiziana Olivari, il 3 è di entrambi.

 

[1] Cfr. Stephan Füssel, Gutenberg. Il mondo cambiato, Milano 2001 (I ed. Frankfurt am Main-Leipzig 1999), 32-33; Id., Edizioni gutenberghiane minori, «L’oggetto libro. Arte della stampa, mercato e collezionismo», 2000, 34-35; il ricco catalogo della mostra, Gutemberg aventur und Kunst Von Geheimunternehmen zur ersten Medienrevolution, Mainz 2000.

 

[2] Lucien Febvre e Henri-Jean Martin, La nascita del libro, a cura di Armando Petrucci, Roma-Bari 1977 (I ed. Paris 1958), 49.

 

[3] Cfr. Francesco Barberi, Per una storia del libro. Profili, note, ricerche, Roma 1981, 10-11; cfr. in generale Gabriele Paolo Carosi, La stampa da Magonza a Subiaco, Subiaco 1976; Gutenberg a Roma. Le origini della stampa nella città dei papi (1467-1477), a cura di Massimo Miglio e Orietta Rossini, Napoli 1997. Sugli artigiani tedeschi a Roma e nelle altre città italiane cfr. Demetrio Marzi, I tipografi tedeschi in Italia durante il secolo XV, in Otto Hartwig, Festschrift zum fünfhundjähringen Geburtstage von Johann Gutenberg, Leipzig 1900, 407-501.

 

[4] Cfr. Febvre, Martin, La nascita del libro cit., 323. Anzi, 355 edizioni secondo il Gesamtkatalog der Wiegendrucke, hrsg. von der Kommission für den Gesamtkatalog der Wiegendrucke, Leipzig 1925-96 (d’ora in poi GW), nn. 8674-9029.

 

[5] Cfr. Konrad Haebler, The study of incunabula, New York 1933, 171 ss.

 

[6] Cfr. Denys Hay, Fiat lux, in Printing and the mind of man, edited by John Carter and Percy J. Muir, London 1967, XXI-XXIII.

 

[7] Elisabeth L. Eisenstein, La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di mutamento, Bologna 1985 (I ed. Cambridge 1979), 8; della stessa cfr. anche l’edizione epitomata del volume del 1979, Le rivoluzioni del libro. L’invenzione della stampa e la nascita dell’età moderna, Bologna 1995 (I ed. Cambridge 1983), e il saggio, L’invenzione della stampa: il libro e la nuova circolazione delle idee, in La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all’Età Contemporanea, dir. Nicola Tranfaglia e Massimo Firpo, IV, L’Età Moderna, 2, La vita religiosa e la cultura, Torino 1986, 41-60.

 

[8] Tomaso Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, a cura di Paolo Cherchi e Beatrice Collina, II, Torino 1996, 1337. Cfr. inoltre Ottavia Niccoli, Garzoni Tomaso, in Dizionario Biografico degli Italiani, LII, Roma 1999, 449-453.

 

[9] Francesco Bacone, Novum Organum (aforisma n. 129), a cura di Enrico De Mas, Bari 19683, 101-102.

 

[10] Sigfrid H. Steinberg, Cinque secoli di stampa, Torino 1962 (I ed. London 1955), 21. Cfr. anche Five hundred years of printing, new edition, revised by John Trevitt, London 1996, e Curt F. Bühler, Scribi e manoscritti nel Quattrocento europeo, trad. it. parziale di The fifteenth century book, Philadelphia 1960, ora in Libri, scrittori e pubblico nel Rinascimento. Guida storica e critica, a cura di Armando Petrucci, Roma-Bari 1979, 39-57.

 

[11] Sui termini del dibattito cfr. Armando Petrucci, I percorsi della stampa da Gutenberg all’Encyclopédie, in La memoria del sapere. Forme di conservazione e strutture organizzative dall’antichità a oggi, a cura di Pietro Rossi, Roma-Bari 1990, 135-139, e Lodovica Braida, Stampa e cultura in Europa tra XV e XVI secolo, Roma-Bari 2000, 3-40, con aggiornata bibliografia a cui si rinvia.

 

[12] Luigi Balsamo, Il libro per l’università nell’età moderna, in Le università dell’Europa. Le scuole e i maestri. L’età moderna, a cura di Gian Paolo Brizzi e Jacques Verger, Milano 1995, 47; cfr. in generale Severin Corsten, Universities and early printing, in Bibliography and the study of 15th-century civilisation, edited by Lotte Hellinga, John Goldfinch, London 1987, 83-123; C. Tristano, Economia del libro in Italia tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo: il prezzo del libro “vecchio”, «Scrittura e civiltà», 14 (1990), pp. 199-241.

 

[13] Curzio Bastianoni, Giuliano Catoni, Impressum Senis. Storie di tipografi, incunaboli e librai, Siena 1988, 10.

 

[14] Cfr. Massimo Miglio, Introduzione a Giovanni Andrea de’ Bussi, Prefazioni alle edizioni di Sweynheim e Pannaratz, prototipografi romani, a cura di Massimo Miglio, Milano 1978, LV-LIX. Cfr. anche Malcolm Beckwith Parkes, Produzione e commercio dei libri manoscritti, in Produzione e commercio della carta e del libro secc. XIII-XVIII, a cura di Simonetta Cavaciocchi, Firenze 1992, 338-342.

 

[15] Antonio Sartori, Documenti padovani sull’arte della stampa nel secolo XV, in Libri e stampatori in Padova. Miscellanea di studi in onore di mons. Bellini, tipografo, editore, libraio, Padova 1959, doc. n. XIV.

 

[16] Haebler, The study of incunabula cit., 221-228.

 

[17] Cfr. Edler de Roover, Per la storia dell’arte della stampa in Italia. Come furono stampati a Venezia tre dei primi libri in volgare, «La Bibliofilia», 55 (1953), 110.

 

[18] Cfr. Luciano Bianchi, Gli annali della tipografia senese compilati dal conte Scipione Bichi-Borghesi, «Il Bibliofilo», 2 (1881), n. 8-9, 117.

 

[19] Per i due episodi cfr. Eisenstein, La rivoluzione inavvertita cit., 70-72. Cfr. inoltre Lotte Hellinga, Peter Schöffer and the book-trade in Mainz: evidence for the organisation, in Bookhindings and other bibliophily. Essays in honour of Anthony Hobson, edited by Dennis E. Rhodes, Verona 1994, 131-183.

 

[20] Petrucci, I percorsi della stampa cit., 137-138.

 

[21] Rudolph Hirsch, Stampa e lettura fra il 1450 e il 1550, trad. it. parziale di Printing, selling and reading 1450-1550, Wiesbaden 1967, ora in Libri, editori e pubblico nell’Europa moderna. Guida storica e critica, a cura di Armando Petrucci, Roma-Bari 1977, 8-10, 17. Sul volume di Hirsch cfr. l’acuta recensione di Roberto Ridolfi in «La Bibliofilia», 69 (1967), 113-114.

 

[22] I dati sono tratti da GW, da Ludwig Friedrich Theodor Hain, Repertorium bibliographicum in quo libri omnes ab arte typographica inventa usque ad annum MD, Berlin 1925 (I ed. Stuttgartiae et Lutetiae Parisiorum 1826-38, d’ora in poi Hain), revisionato da Walther Arthur Copinger, Supplement to Hain’s repertorium bibliographicum, Milano 1950 (I ed. London 1895-1902, d’ora in poi Cop.), e da Kornard Burger, The printers and the publisher of the XVth century with lists of their works: index to the supplement to Hain’s repertorium bibliographicum, London 1902; Dietrich Reichling, Appendices ad Hainii - Copingeri Repertorium bibliographicum. Additiones et emendationes, Monachii 1905-1914; Robert Proctor, An Index to the early printed books in the British Museum: from the invention of printing to the year MD, London 1893-1903; Indice generale degli incunaboli delle biblioteche d’Italia, Roma 1943-81 (d’ora in poi IGI). A proposito di questi repertori Roberto Ridolfi, Proposta di ricerche sulle stampe e sugli stampatori del Quattrocento, «La Bibliofilia», 51 (1949), 2-9, «senza voler nulla detrarre alle lodi grandissime che sono loro dovute», ha sostenuto che gli autori «spesso non si curarono neppure di dare un’occhiata al contenuto dei libri che venivano descrivendo e classando». A maggior ragione, quindi, i dati vanno considerati più come linee di tendenza, che come riscontri assoluti. Cfr. inoltre Ferdinand Geldner, Inkunabelkunde. Eine Einführung in die Welt des frühestern Buchdrucks, Wiesbaden 1978, cap. XI, per il quale abbiamo utilizzato la traduzione spagnola, Manual de incunables. Introducción al mundo de la imprenta primitiva, Madrid 1998, 238-278; il vecchio, ma sempre utile, Domenico Fava, Manuale degli incunaboli, Milano 1953.

 

[23] Cit. in Armando Petrucci, Per una nuova storia del libro, Introduzione a Febvre, Martin, La nascita del libro cit., XXIX.

 

[24] GW, nn. 8674-9038, nn. 6250-6384.

 

[25] GW, nn. 2806-2838, nn. 2334-2498, Hain, nn. 13062-13069.

 

[26] GW, nn. 3113-3127.

 

[27] Hain, nn. 11698-11715; nn. 12697-12707; GW, nn. 9185-9209, nn. 8032-8138, nn. 2225-2235. Cfr. inoltre Giovanni Mercati, Per la cronologia della vita e degli scritti di Niccolò Perotti arcivescovo di Siponto, Città del Vaticano 1925; Giuseppe Lombardi, L’editio princeps dei “Rudimenta grammatices” di Niccolò Perotti, in Cultura umanistica a Viterbo, per il V Centenario della stampa a Viterbo (1488-1988), Viterbo, 12 novembre 1988, a cura di Giuseppe Lombardi e Teresa Sampieri, Viterbo 1991, 123-150; sulla filologia latina del Valla cfr. le penetranti osservazioni di Leighton D. Reynolds e Nigel G. Wilson, Copisti e filologi. La tradizione dei classici dall’antichità ai tempi moderni, Padova 1987 (I ed. col titolo Scribes and scholars, Oxford 1968), 146-150, di Franco Gaeta, Lorenzo Valla. Filologia e storia nell’umanesimo italiano, Napoli 1955, 79-126; e di Vincenzo De Caprio, Elegantiae di Lorenzo Valla, in Letteratura italiana, Le Opere, 1, Dalle origini al Cinquecento, diretta da Alberto Asor Rosa, Torino 1992, 647-679, con ampia bibliografia cui si rinvia;  Paolo Viti, Dati Agostino, in Dizionario biografico degli italiani, XXXIII, Roma 1987, 15-21; cfr. anche lo stimolante, seppur discutibile lavoro di Françoise Waquet, Latino. L’impero di un segno (XVI-XX secolo), Milano 1998 (I ed. Paris 1998), 33-38; Paul F. Grendler, La scuola nel Rinascimento italiano, Roma-Bari 1991 (I ed. Baltimore & London 1989), 443-450, e più in generale, Anthony Grafton and Lisa Jardine, From humanism to humanities. Education and liberal arts in fifteenth and sixteenth century Europe, London 1986, 22 sgg.

 

[28] L’episodio è riportato in John H. Elliott, La Spagna imperiale 1469-1716, Bologna 1982 (I ed. London 1981), 142. Cfr. inoltre Antonio de Nebrija. V centenario 1492-1992, Actas del congreso internacional de historiografía lingüística, editors Ricardo Escavy Zamora, José Miguel Hernández Terrés, Antonio Roldán Pérez, Murcia 1994.

 

[29] Cop., nn. 6281-6298; Hain, nn. 10539-10545; GW, nn. 4984-4993; nn. 2219-2220; Cop., n. 6333.

 

[30] Cop., n. 6304.

 

[31] GW, nn. 2862-3048; Hain, nn. 8549-8630; nn. 7926-7994; nn. 5024-555; GW, nn. 1599-1613.

 

[32] Hain, nn. 9270-9306; GW, nn. 4513-4585.

 

[33] Hain, nn. 1328-1543; GW, nn. 581-783, nn. 9065-9092; nn. 11905-11920; nn. 8677-8716.

 

[34] Hain, nn. 10183-10200. Cfr. Ernst Schulz, The study of incunables: problems and aims, Philadelphia 1977, 14 ss.

 

[35] GW, nn. 2032-2045; Hain, nn. 10209-10222; GW, nn. 4644-4708; Hain, nn. 7621-7731, nn. 9081-9136; GW, nn. 4329-4340; Mario Schiavone, Il “De Imitatione Christi” di Tommaso da Kempis, «L’Esopo», 1993, n. 58, 51-56.

 

[36] GW, nn. 7580-7773. Inferiore è il numero delle edizioni, 152, riportate da Hain, nn. 9486-9638. Cfr. anche Catalogue of books printed on the continent of Europe from the beginning of printing to 1600 in the library of the Max-Planck-Institut für Europäische Rechtsgeschichte, Frankfurt am Main, compiled by Douglas J. Osler, Frankfurt am Main 2000, nn. 1019-1125.

 

[37] Cfr. GW, nn. 7580-7773, Geldner, Manual de incunables cit., 253-254.

 

[38] GW, nn. 3475-3665. Sul problema delle attribuzioni cfr. Ennio Cortese, Il diritto nella storia medievale, II, Il basso medioevo, Roma 1995, 440-441.

 

[39] Hain, nn. 2271-23243; IGI, nn. 9929-10000, con 71 edizioni; Hain, nn. 15861-15889; IGI, nn. 9906-9927, che ne riporta 21; GW, nn. 522-530.

 

[40] GW, nn. 11450-11502; nn. 8197-8210; nn. 4848-4905; nn. 7077-7117.

 

[41] GW, nn. 1675-1757; nn. 9101-9162; nn. 9138-9158; nn. 8959-8966; nn. 5816-5830; Hain, nn. 4598-4646; nn. 16250-16259.

 

[42] Hain, nn. 12308-12371; GW, nn. 6474-6512; Hain, nn. 14852-14867; nn. 15799-15830; nn. 15253-15332; nn. 10939-10972; nn. 14280-14325; GW, nn. 141-166; Hain, nn. 14831-14850; nn. 6064-6065.

 

[43] Hain, nn. 8673-8674, nn. 8669-8670.

 

[44] GW, nn. 2678-2683. Cfr. inoltre Tiziana Pesenti, Editoria medica tra Quattrocento e Cinquecento. L’“Articella” e il “Fasciculus medicinae”, in Trattati scientifici nel Veneto fra il XV e il XVI secolo, a cura di Ezio Riondato, Vicenza 1985, 1-28; Hain, nn. 9773-9777; IGI, nn. 5297-5300.

 

[45] GW, nn. 8435-8436.

 

[46] GW, nn. 6456-6459.

 

[47] Hain, nn. 13747-13763. Cfr. L. Hellinga, Medical incunabula, in Medicine, mortality and the book trade, edd. R. Myers-M. Harris, New Castle, 1998, pp. 73-86. sulle edizioni mediche Geldner, Manual de incunables cit., 269-272.

 

[48] Hain, nn. 13087-13106.

 

[49] Hain, nn. 14144-14153. Sulla chirurgia medievale cfr. Giovanna Ferrari, Chirurgia e strumenti chirurgici, in Storia della scienza, dir. Sandro Petruccioli, IV, Medioevo Rinascimento, Roma 2001, 453-454.

 

[50] Hain, nn. 4809-4818, nn. 1-18, nn. 11550-11553, nn. 14480-14495; GW, nn. 2321-2324, 2519-2547; cfr. Dominique Coq, Les incunables: textes anciens, textes noveaux, in Histoire de l’édition française, sous la direction de Henri-Jean Martin et Roger Chartier, I, Le livre conquérant. Du Moyen Âge au milieu du XVIIe siècle, Paris 1982, 179-181; Luis García Ballester, La nueva industria del libro médico y el renacer del humanismo médico latino, in La cultura del Renaixement. Homenatge al pare Miquel Battlori, Bellaterra (Barcelona), Monografies Manuscrits, 1993, 111-128, e più in generale sull’editoria medica quattrocentesca William Osler, Incunabula medica. A study of the earliest printed medical books 1467-1480, London 1923; Arnold Carl Klebs, Incunabula scientifica et medica, Hildesheim 1963; Margaret Bingham Stillwell, The awakenig interest in science during the first century of printing, 1450-1550, New York 1970; e Giorgio Montecchi, La stampa e la diffusione del sapere scientifico, in Storia della scienza cit., IV, 699-710, con aggiornata bibliografia.

 

[51] Cfr. Fevbre, Martin, La nascita del libro cit., 221. Come è noto, Febvre, cui si deve la parte introduttiva, morì prima che il lavoro fosse terminato. Il libro va quindi attribuito soprattutto a Martin e costituisce ancor oggi un’opera di sintesi per certi versi insuperata.

 

[52] Cfr. Robert Brun, Le livre français, Paris 1969, 10-17; Henri-Jean Martin, Storia e potere della scrittura, Roma-Bari 1990 (I ed. Paris, Perrin, 1988), 248-249; Robert Marichal, Le Livre des prieurs de la Sorbonne (1431-1485), Paris 1987; Jacques Monfrin, Les lectures de Guillaume Fichet et de Jean Heynlin d’après de prêts de la Bibliothèque de la Sorbonne, «Bibliothèque de l’humanisme et Renaissance», 17 (1955), 7-23; Jeanne Veyrin-Forrer, Aux origines de l’imprimerie française: l’atelier de la Sorbonne et ses mécènes (1470-1473), in La lettre et le texte. Trente années de recherches sur l’histoire du livre, Paris 1987, 161-187.

 

[53] Cfr. Coq, Les incunables cit., 177-193, e Albert Labarre, Les incunables: la presentation du livre, 195-225, entrambi in Histoire de l’edition française cit., I; Henry-Jean Martin, L’apparition de l’imprimerie, in Le Siècle d’or de l’imprimerie lyonnaise, Paris 1972, 60-105; Id., Le livre français sous l’Ancien Régime, Paris 1987, 29-39; e in generale Aime Vingtrinier, Histoire de l’imprimerie à Lyon de l’origine jusqu’à nos jours, Lyon 1894.

 

[54] Cfr. il quadro generale offerto da Amalia Sarría Rueda, Los inicios de la imprenta, in Historia ilustrada del libro español. De los incunables al siglo XVIII, bajo la dirección de Hipólito Escolar, Madrid 1994, 35-93; José García Oro, Los reyes y los libros. La politica libraria de la Corona en el Siglo de Oro (1475-1598), Madrid 1995, 11-39, e soprattutto Francisco Vindel, El arte tipográfico en España durante el siglo XV, 8 voll., Madrid 1945-50, ricchissimo di dati; J. Delgado Casado, Diccionario de impresores españoles (siglos XV-XVII), Madrid 1996, ad nomina.

 

[55] Cfr. Philippe Berger, Libro y lectura en la Valencia del Renaicimiento, I, Valencia 1987, 33-57.

 

[56] Cfr. Carmè Gómez-Senent i Martínez, Història del llibre valencià, in El llibre valencià, Valencia 1991, 19-29; Ricard Blasco, Síntesi històrica de la impremta valenciana, in La impremta valenciana, Valencia 1991, 51-69.

 

[57] Cfr. Vindel, El arte tipográfico cit., I, passim; Delgado Casado, Diccionario cit., passim; Sarría Rueda, Los inicios cit., 52-53; Jordi Rubiò Balaguer, Imprenta i llibreria a Barcelona (1474-1553), in Llibreters i impressors a la Corona d’Aragó, Barcelona 1993, 23 ss.; Manuel Peña, Cataluña en el Renacimiento: libros y lenguas (Barcelona, 1473-1600), prólogo de Ricardo García Cárcel, Lleida 1996, 79 ss.

 

[58] Cfr. l’edizione anastatica Constitucions de Catalunya incunable de 1495, intr. de Josep M. Font i Rius, Barcelona 1988.

 

[59] Cfr. Henry Thomas, Short-title catalogue of books printed in Spain and of spanish books printed elsewhere in Europe before 1601 now in the British Museum, London 1921, ad indicem; Jorge Rubiò, Cultura de la época Ferdinandina, in V Congreso de Historia de la Corona de Aragón, V, Estudios, Zaragoza 1961, 9-25.

 

[60] Cfr. Steinberg, Cinque secoli di stampa cit., 41-54; Lotte Hellinga, Gutenberg et ses premiers successeurs, in Les trois révolutions du livre, Genève 2001, 19-44; Geldner, Manual cit., 52-57, 157-167; Id., Das Fust-Schöffersche Signet und das Schöffersche Handzeichen, «Archiv für Geschichte des Buchwesens», 1 (1958), 171-174; Heinrich Grimm, Das vermeintliche Allianz-signet Fust-Schöffer und seine Schildinhalte, «Gutenberg Jahrbuch», 1962, 446-455; Sven Dahl, La prototipografia tedesca, in Marco Santoro, Il libro a stampa. I primordi, Napoli 1990, 187-196; Fava, Manuale cit., 39-57.

 

[61] Sulla diffusione della stampa nella Germania del XV secolo cfr. oltre, The German book 1450-1750: studies presented to David L. Paisey in his retirement, edited by John L. Flood and Willia A. Kelli, London 1995, i vecchi, solidi studi di Ernst Vouillième, Die deutschen Drucker des fünfzeheuten Jahrhunderts, Berlin 1922; Konrad Haebler, Die deutschen Buchdrucker des XV Jahrhunderts im Ausland, München 1924; Ferdinand Geldner, Die deutschen Inkunabeldrucker, 2 voll., Stuttgart 1968-70; Der deutsche Buchhandel in Urkunden und Quellen, hrsg. von Hans Widman, 2 voll., Hamburg 1965.

 

[62] Steinberg, Cinque secoli di stampa cit., 49-50.

 

[63] Cfr. i dati di Geldner, Manual cit., 57, cui si fa riferimento, e di William Turner Berry, H. Edmund Poole, Annals of printing, a chronological encyclopaedia from the earliest times to 1950, London 1966, 21.

 

[64] Cit. in Tammaro De Marinis, La biblioteca napoletana dei re d’Aragona, II, Milano 1947, 312-313.

 

[65] Cfr. Febvre, Martin, La nascita del libro cit., 231-232, e soprattutto K. Dachs, W. Schmidt, Wieviele Incunabelausgaben giht es wirklich?, «Bibliotheksforum Bayern», 2 (1974), 83-95. I dati sono tratti da Uwe Neddermeyer, Von der Handschrift zum gedruckten Buch: Schriftlichkeit und Leisenteresse im Mittelalter und in der frühen Neuzeit, I, Text, Wiesbaden 1998, 121. Un quadro generale è offerto da Brian Richardson, Printing, writers and readers in renaissance Italy, Cambridge 1999.

 

[66] Cfr. Carla Frova, Massimo Miglio, «Studium Urbis» e «Studium Curiae» nel Trecento e nel Quattrocento: linee di politica culturale, e Rino Avesani, Appunti per la storia dello «Studium Urbis» nel Quattrocento, entrambi in Roma e lo Studium Urbis. Spazio urbano e cultura dal Quattro al Seicento, Atti del convegno, Roma, 7-10 giugno 1989, Roma 1992, rispettivamente 26-39, 69-87.

 

[67] Bussi, Prefazioni cit., 83-84.

 

[68] Cfr. gli atti dei convegni Scrittura, biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento. Aspetti e problemi, Atti del seminario 1-2 giugno 1979, a cura di Paola Casciano, Giustina Castoldi, Maria Pia Critelli, Giovanna Curcio, Paola Farenga, Anna Modigliani, I, Città del Vaticano 1980, e II, con l’Indice delle edizioni romane a stampa (1467-1500); Scrittura, biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento, Atti del 2° seminario, 6-8 maggio 1982, a cura di Massimo Miglio con la collaborazione di Paola Farenga e Anna Modigliani, Città del Vaticano 1983; Barberi, Per una storia del libro cit., 197-254; Gutenberg a Roma cit., i saggi di Anna Modigliani, Paola Farenga, Massimo Miglio e Orietta Rossini; Anna Modigliani, Tipografi a Roma prima della stampa. Due società per fare libri con le forme (1466-1470), Roma 1989, 45-56. Sulla stampa romana dei decenni successivi cfr. Maria Grazia Blasio, Cum gratia et privilegio. Programmi editoriali e politica pontificia. Roma 1487-1527, Roma 1988, 11-35.

 

[69] Cfr. Maria Grazia Blasio, Lo Studium Urbis e la produzione romana a stampa: i corsi di retorica, latino e greco, in Un pontificato ed una città. Sisto IV (1471-1484), Atti del convegno, Roma 2-7 dicembre 1984, a cura di Massimo Miglio, Francesco Niutta, Diego Quaglioni, Concetta Ranieri, Roma 1986, 481-501, ed anche Massimo Miglio, Dalla pagina manoscritta alla forma a stampa, «La Bibliofilia», 85 (1983), 249-256.

 

[70] Cfr. Paola Farenga, Tipologia del libro, in Gutenberg a Roma cit., 76-80, Indice delle edizioni romane cit., nn. 184, 191, 364, 403. Cfr. anche Luigi De Gregori, La stampa a Roma nel secolo XV. Mostra di edizioni romane nella R. Biblioteca Casanatense, Roma, Tipografia Cuggiani, 1933, passim.

 

[71] Armando Petrucci, Alle origini del libro moderno. Libri da banco, libri da bisaccia, libretti da mano, «Italia medioevale e umanistica», 12 (1969), 295-313, ora in Libri, scrittori e pubblico nel Rinascimento. Guida storica e critica, a cura di Armando Petrucci, Roma-Bari, Laterza, 1979, 141.

 

[72] Cfr. Marco Santoro, La stampa a Napoli nel Quattrocento, Napoli 1984, 12-57. Cfr. anche Carlo De Frede, Sul commercio dei libri a Napoli nella prima età della stampa, «Bollettino dell’Istituto di Patologia del libro “Alfonso Gallo”», 14 (1955), n. 1-2, 62-78; Id., I lettori di umanità nello studio di Napoli durante il Rinascimento, Napoli 1960, e Riccardo Filangieri, L’età aragonese, in Storia dell’Università di Napoli, Napoli 1924, 157 ss.

 

[73] Cfr. i sempre validi lavori di Albano Sorbelli, I primordi della stampa a Bologna. Baldassarre Azzoguidi, Bologna 1908, 54-57, 125-139; Id., Storia della stampa a Bologna, Bologna 1929, 4 sgg., L. Sighinolfi, Francesco Puteolano e le origini della stampa in Bologna e in Parma, Firenze, 1914; ed inoltre Curt F. Bühler, The University and the press in Fifteenth-century Bologna, Notre-Dame (USA) 1958, 15 sgg.; Alfredo Cioni, Azzoguidi Baldassare, e Rosario Contarino, Dal Pozzo Francesco, detto il Puteolano, entrambi in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, rispettivamente III, 1962, 765-766, XXXII, 1986, 213-216; Leonardo Quaquarelli, Verifiche su Baldassarre Azzoguidi: un tratto di storia incunabolistica italiana rivisitato da bibliologia, filologia e informatica, e Luisa Avellini, Promozione libraria nel Quattrocento bolognese, entrambi in Sul libro bolognese del Rinascimento, a cura di Luigi Balsamo e Leonardo Quaquarelli, Bologna 1994, rispettivamente 27-75, 77-127; Luigi Balsamo, Imprese tipografiche in Emilia nel ’400: aspetti economici, in Produzione e circolazione libraria in Emilia (XV-XVIII secolo), Parma 1983, 11-43, Id., Editoria e Umanesimo a Parma fra Quattro e Cinquecento, in Parma e l’Umanesimo italiano, Atti del convegno internazionale, Parma 20 ottobre 1984, Padova 1986, 77-95.

 

[74] Cfr. Mostra del Digesto e della storia dello Studio di Bologna nella biblioteca dell’Archiginnasio. Catalogo, a cura del Comitato ordinatore del Congresso internazionale di diritto romano, Bologna 1933, n. 208, 28; ed anche Paul Oskar Kristeller, The University of Bologna and the Renaissance, in Studies in Renaissance tought and letters, II, Roma 1985, 135-146, e Ezio Raimondi, Umanesimo e Università nel Quattrocento bolognese, «Studi e memorie per la storia dell’Università di Bologna», n.s., 1 (1956), 325-356, sulla diffusione delle idee umanistiche nello Studio bolognese.

 

[75] La vicenda è stata dettagliatamente ricostruita da Diego Quaglioni, Dal manoscritto alla stampa. Agli inizi della tipografia giuridica bolognese, in Juristische Buchproduktion im Mittelalter, her. von Vincenzo Colli, Frankfurt am Main 2002, 599-617, a cui si rinvia per ogni ulteriore approfondimento.

 

[76] Cfr. Pier Silverio Leicht, Rapporti giuridici intorno al libro nel primo secolo della stampa, in Studi e ricerche sulla storia della stampa del Quattrocento. Omaggio dell’Italia a Giovanni Gutenberg nel V Centenario della sua scoperta, Milano 1942, 197-210; Leandro Perini, Stamperie quattrocentesche: vocabolario, tecniche e rapporti giuridici, in Tecnica e società nell’Italia dei secoli XII-XVI, Pistoia 1987, 59-70, oltre ovviamente Hirsch, Stampa e lettura cit., 38-40, e Geldner, Manual de incunables cit., 191-206.

 

[77] Cfr. Domenico Fava, Un grande libraio-editore di Bologna del Quattrocento: Sigismondo dei Libri, «Gutenberg Jahrbuch», 1941, 80-97; Liliana Poli, Contributi sopra Sigismondo de’ Libri, «La Bibliofilia», 51 (1949), 9-27; Angela Nuovo, Il commercio librario nell’Italia del Rinascimento, Milano, Angeli, 1998, 49-52.

 

[78] Cfr. Luigi Balsamo, Università e editoria nel Quattrocento e Cinquecento, in Università a Bologna. Maestri, studenti e luoghi dal XVI al XX secolo, a cura di Gian Paolo Brizzi, Lino Marini, Paolo Pombeni, Milano 1988, 125-127.

 

[79] Cfr. Giuseppe Ermini, Storia dell’Università di Perugia, I, Firenze 1971, 146 ss.; Adamo Rossi, L’arte tipografica in Perugia durante il secolo XV e la prima metà del XVI. Nuove ricerche, Perugia 1868; Giocondo Ricciarelli, I prototipografi in Perugia. Fonti documentarie, e dello stesso, Mercanti di incunaboli a Perugia, entrambi in «Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l’Umbria», rispettivamente 67 (1970), 2, 77-161, 70 (1973), 1, 1-20; Andrea Capaccioni, Tipografi e librai (secoli XV-XVIII), in Perugia. Storia illustrata delle città dell’Umbria, III, Milano 1993, 929 ss.; Geldner, Manual de incunables cit., 254-255. Per i testi cfr. Giuseppe Fumagalli, Lexicon typographicum Italiae. Dictionnaire géographique d’Italie pour servir à l’histoire de l’imprimerie dans ce pays, Florence 1905, 294-296.

 

[80] Cfr. Nuovo, Il commercio librario cit., 67.

 

[81] Cfr. Short-title catalogue of books printed in Italy and of Italian books, printed in other countries from 1465 to 1600 now in the British Library, London, The British Library, 1986, ad vocem, 702; Rossi, L’arte tipografica cit., 7-12.

 

[82] Hain n. 9545, GW n. 36240, Fumagalli, Lexicon cit., 295-296; Steinberg, Cinque secoli cit., 101-102.

 

[83] Cfr. Ermini, Storia dell’Università cit., I, 500-507. Sulla stampa perugina quattrocentesca cfr. Andrea Capaccioni, Lineamenti di storia dell’editoria umbra. Il Quattrocento e il Cinquecento, Perugia 1996, 25-32, con relativa bibliografia.

 

[84] Cfr. Armando F. Verde, Lo Studio fiorentino, 1473-1503, I e II, Firenze 1973; Rodolfo Del Gratta, Gli studi di Pisa e di Firenze nel XV secolo, ora in Scritti minori, Pisa 1999, 101-119; ed inoltre Eugenio Garin, La tradizione umanistica, e Gian Carlo Garfagnini, Lo studium generale regie civitatis Florentiae: 1321-1472 (antologia di documenti), in Storia dell’ateneo fiorentino. Contributi di studio, I, Firenze 1986, 26-37, 57-107; Roberta Bargagli, Bartolomeo Sozzini, Lorenzo de’ Medici e lo  Studio di Pisa (1473-1494), in La Toscana al tempo di Lorenzo il Magnifico. Politica, economia, cultura, arte, III, Pisa 1996, 1165-1171. Lo Studio fiorentino, come ha osservato Gene A. Brucker, Florence and its university, in Action and conviction in early modern Europe. Essays in memory of E.H. Harbison, edited by Theodore K. Rabb and Jerrold E. Seigel, Princeton 1969, 220-236, stentava a porsi sul piano degli Studi più importanti della penisola.

 

[85] Roberto Ridolfi, La stampa a Firenze nel secolo XV, Firenze 1958, 14; cfr. anche La stampa a Firenze 1471-1550. Omaggio a Roberto Ridolfi, a cura di Dennis E. Rhodes, Firenze 1984, 27-40.

 

[86] Cit. in Ridolfi, La stampa cit., 15.

 

[87] Cfr. Dennis E. Rhodes, Gli annali tipografici fiorentini del XV secolo, Firenze 1988, 27-135, che segnala solo libri di argomento umanistico, letterario e religioso; Bruno Santi, Bernardo Cennini, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIII, Roma 1979, 563-565; su Niccolò Tedesco cfr. Ridolfi, La stampa a Firenze cit., 49-62; Id., Le ultime imprese tipografiche di Niccolò Tedesco, «La Bibliofilia», 67 (1965), 143-152; Berta Maracchi Bigiarelli, Incunaboli fiorentini «sine notis», «La Bibliofilia», 67 (1965), 155 sgg.; Paolo Trovato, Il libro toscano nell’età di Lorenzo. Schede e ipotesi, in La Toscana al tempo di Lorenzo cit., II, 525-563.

 

[88] Cfr. Fumagalli, Lexicon cit., 307-308; Silvano Burgalassi, Incunaboli stampati a Pisa, «Antichità Pisane», 1975, n. 1, 14-27, con l’elenco dei libri stampati dal 1482 al 1499 a cui si rinvia.

 

[89] Cfr. Bastianoni, Catoni, Impressum Senis cit., 17-40, e degli stessi, Studenti, tipografi e librai a Siena fra Repubblica e Principato, in Lo Studio e i testi. Il libro universitario a Siena (secoli XII-XVII), a cura di Mario Ascheri, Siena 1996, 183-184. Sul tipografo tedesco cfr. Albano Sorbelli, Enrico di Colonia e altri tipografi tedeschi a Bologna nel secolo XV, «Sonderdruck aus dem Gutenberg. Jahrbuch», 1929, 109-126; Marzi, I tipografi tedeschi in Italia cit., 407 sgg.; Luigi Balsamo, Primordi della stampa tipografica a Modena: 1473 anziché 1475, in Produzione e circolazione libraria cit., 97-99.

 

[90] Cfr. oltre il vecchio studio di Leo Zdekauer, Lo Studio di Siena nel Rinascimento, Milano 1894 (rist. anast. Bologna 1977), Peter Denley, Dal 1357 alla caduta della Repubblica, in L’Università di Siena 750 anni di storia, Siena 1991, 27-38; Gianfranco Fioravanti, Università e città, cultura umanistica e cultura scolastica a Siena nel ’400, Firenze 1980-81 (estratto da «Rinascimento»), 117-167; Paolo Nardi, Umanesimo e cultura giuridica nella Siena del Quattrocento, «Studi Senesi», 93 (1981), 425-445; Giovanni Minnucci, Bibliografia sulla storia dell’Università di Siena dalle origini fino al XVI secolo, in I tedeschi nella storia dell’Università di Siena, a cura di Giovanni Minnucci, Siena 1988, 159-165, per ulteriori riferimenti bibliografici.

 

[91] Carlo Dionisotti, Filologia umanistica e testi giuridici fra Quattrocento e Cinquecento, in La critica del testo, Atti del secondo congresso internazionale della Società italiana di storia del diritto, I, Firenze 1971, 192-198; Giuliana D’Amelio, Caccialupi Giovanni Battista, in Dizionario Biografico degli Italiani, XV, Roma 1972, 790-797; Mario Ascheri, Giuristi, umanisti e istituzioni del Tre-Quattrocento: qualche problema, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico di Trento», 3 (1977), 62-70.

 

[92] Cfr. Bastianoni, Catoni, Impressum Senis cit., 62-73; Dennis E. Rhodes, The incunabula of Siena, in Essays in honour of Victor Scholderer, Mainz, Karl Pressler, 1970, 337-348.

 

[93] Cfr. Fava, Manuale degli incunaboli cit., 112.

 

[94] Cfr. Fava, Manuale degli incunaboli cit., 95-96; Rodolfo Maiocchi, L’introduzione della stampa a Pavia, «Bollettino della Società Pavese di Storia Patria», 2 (1902), 66-85; Fumagalli, Lexicon cit., 289-291; Agostino Sottili, Università e cultura a Pavia, in età visconteosforzesca, in Storia di Pavia, III, 1, Pavia 1990, 359-451; Arnaldo Ganda, Guarguaglia Manfredo, in Dizionario Biografico degli Italiani, LX, Roma 2003, 323-325; E. Gualandi, La tipografia in Pavia nel secolo XV, «Bollettino della Società Pavese di Storia Patria», 59 (1959), 43-45; Arnaldo Ganda, Giovanni Sedriano e Manfredi Guarguaglia. Nuovi documenti sulla prototipografia pavese, «Accademie e Biblioteche d’Italia», 68 (2000), 66-85.

 

[95] Tullia Gasparrini Leporace, Notizie e documenti inediti su Jacopo Suigo tipografo del sec. XV, «La Bibliofilia», 49 (1947), 44; G. Deabate, Jacopo Suigo da San Gennaro celebre tipografo piemontese del secolo XV, Torino, 1899.

 

[96] Cfr. Fava, Manuale cit., 97.

 

[97] Cfr. Caterina Santoro, Gli inizi dell’arte della stampa, in Storia di Milano, VII, L’età sforzesca, 1450-1500, Roma 1956, 872-882; Teresa Rogledi Manni, La tipografia a Milano nel XV secolo, Firenze 1980; Arnaldo Ganda, I primordi della tipografia milanese: Antonio Zarotto da Parma, Firenze 1984; Id., Niccolò Gorgonzola editore e libraio in Milano (1496-1536), Firenze 1988.

 

[98] Cfr. sull’editoria padovana del XV secolo soprattutto Angelo Colla, Tipografi, editori e libri a Padova, Treviso, Vicenza, Verona, Trento, in La stampa degli incunaboli nel Veneto, Vicenza 1984, 47-61, e Neri Pozza, L’editoria veneziana da Giovanni da Spira ad Aldo Manuzio. I centri editoriali di Terraferma, in Storia della cultura veneta, III/2, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, 240-244; Dennis E. Rhodes, Rettifiche e aggiunte alla storia della stampa a Padova, 1471-1600, in Studi di bibliografia e storia in onore di Tammaro de Marinis, IV, Verona 1964, 25-28; il più vecchio, ma utilissimo studio di Erice Rigoni, Stampatori del secolo XV a Padova, «Atti e memorie della Regia Accademia di scienze lettere ed arti in Padova», n.s., 50 (1933-34), 277-333; e i documenti editi da Sartori, Documenti padovani cit., 111-231.

 

[99] Cfr. a questo proposito Pier Silverio Leicht, L’editore veneziano Michele Tramezino ed i suoi privilegi, in Miscellanea di scritti di bibliografia ed erudizione in memoria di Luigi Ferrari, Firenze 1952, 357-367.

 

[100] Cit. in Colla, Tipografi, editori e librari cit., 56; IGI, n. 6910.

 

[101] Cfr. François Dupuigrenet Desroussilles, L’Università di Padova dal 1405 al Concilio di Trento, in Storia della cultura veneta cit., III/2, 615.

 

[102] Colla, Tipografi, editori e librai cit., 56-57.

 

[103] Cfr. Short-title catalogue of books printed in Italy cit., 739; Roberto Ridolfi, Lo «stampatore del Mesue» e l’introduzione della stampa in Firenze, «La Bibliofilia», 56 (1954), 1-20, Id., La stampa a Firenze cit., 29-48, che modificò l’attribuzione del tipografo di Mesue da Firenze a Padova; cfr. Dennis E. Rhodes, Ancora per lo stampatore del Mesue, in Studi offerti a Roberto Ridolfi direttore de «La Bibliofilia», a cura di Berta Maracchi Biagiarelli e Dennis E. Rhodes, Firenze 1973, 407-412. Cfr. anche Aurora Cano Ledesma, Medicina generale, in Storia della scienza, III, La civiltà islamica, a cura di Roshdi Rashed, Roma 2002, 760, 783-784, a proposito dello scienziato arabo.

 

[104] Pietro Verrua, Studenti, librai, bidelli, strozzini e dazio, «La Bibliofilia», 30 (1928), 223-228, e Nuovo, Il commercio librario cit., 67.

 

[105] Sartori, Documenti cit., doc. n. LXXXII.

 

[106] Cfr. Colla, Tipografi, editori cit., 59; Enrico Carone, Bagellardo Paolo, in Dizionario Biografico degli Italiani, V, Roma 1963, 179-180.

 

[107] Cfr. Silvia Reymond Munari, La stampa dei «Consilia» di Bartolomeo Montagnana e dei «Consilia» di Angelo degli Ubaldi in due contratti del 1475, «Quaderni per la storia dell’Università di Padova», 13 (1980), 182-187; Giuseppe Ongaro, La medicina nello Studio di Padova e nel Veneto, in Storia della cultura veneta cit., III/3, 78-79, 98; Giovanni Mardersteig, La singolare cronaca della nascita di un incunabolo. Il commento di Gentile da Foligno all’Avicenna stampato da Pietro Maufer nel 1477, «Italia medioevale e umanistica», 8 (1965), 249-267; ed inoltre Tiziana Pesenti Marangon, La miscellanea astrologica del prototipografo padovano Barlolomeo Valdizocco e la diffusione dei testi astrologici e medici tra i lettori padovani del ’400, «Quaderni per la storia dell’Università di Padova», 11 (1978), 87-106.

 

[108] Cfr. Sartori, Documenti cit., n. XXVIII; Nuovo, Il commercio librario cit., 67.

 

[109] Reymond Munari, La stampa dei «Consilia» cit., 185-187.

 

[110] Cfr. Rigoni, Stampatori cit., 13; Colla, Tipografi, editori cit., 40, 42-43.

 

[111] Le notizie sugli stipendi e sulle prestazioni delle maestranze si ricavano da Rigoni, Stampatori cit., 5-9, 18; Mardersteig, La singolare cronaca cit., 251, 259-260; Sartori, Documenti cit., n. VII; Colla, Tipografi, editori cit., 40-41. Per un quadro comparativo cfr. anche Giuseppe Dondi, Apprendisti librai e operai tipografi in tre officine piemontesi del secolo XVI, in Contributi alla storia del libro italiano. Miscellanea in onore di Lamberto Donati, Firenze 1969, 115-116; Frédéric Barbier, Storia del libro dall’antichità al XX secolo, postfazione di Mario Infelise, Bari 2004 (I ed. Paris 2001), 157-160. I collaboratori meglio retribuiti erano il correttore delle bozze e il curatore dell’opera. Le bozze dovevano essere corrette appena le pagine erano composte: data la penuria di caratteri bisognava riutilizzarli subito per le pagine successive. La correzione era affidata a studenti universitari, maestri di grammatica e di retorica, ma spesso anche a professori dello Studio o a colti umanisti. Il curatore, cioè colui che preparava l’exemplar da affidare ai compositori, aveva spesso un utile nella compartecipazione all’impresa editoriale e veniva talvolta compensato con un certo numero di copie appena stampate.

 

[112] Cfr. Deno J. Geanakoplos, Erasmus and Aldine Academy of Venice, «Greek, Roman and Byzantine Studies», 3 (1960), 107-134; Manlio Dazzi, Aldo Manuzio e il dialogo veneziano di Erasmo, Vicenza 1969, 131-145; Gigliola Fragnito, Gasparo Contarini. Un magistrato veneziano al servizio della cristianità, Firenze 1988, 146-151; Gino Benzoni¸ Venezia 1508, in Erasmo, Venezia e la cultura padana nel ’500, a cura di Achille Olivieri, Rovigo 1995, 29-47.

 

[113] Erasmo da Rotterdam, Colloquia, progetto editoriale e introduzione di Adriano Prosperi, edizione con testo a fronte a cura di Cecilia Asso, Torino 2002, 1205, 1225.

 

[114] Cfr. Carlo Castellani, La stampa in Venezia dalla sua origine alla morte di Aldo Manuzio seniore, Venezia 1889, 35, e gli altri vecchi studi di Horatio Forbes Brown, The Venetian printing press: 1469-1800. An historical study based upon documents for the most part hitherto umpublished, London 1891; Ferdinando Ongania, L’arte della stampa nel Rinascimento italiano, I, Venezia, Venezia 1894; Ester Pastorello, Bibliografia storico-analitica dell’arte della stampa in Venezia, Venezia 1933, Ead., Tipografi, editori, librai a Venezia nel secolo XVI, Firenze 1924, tutti assai ricchi di informazioni.

 

[115] Cfr. Neri Pozza, L’editoria veneziana da Giovanni da Spira ad Aldo Manuzio, in La stampa degli incunaboli nel Veneto, cit., 12, e più in generale il fondamentale lavoro di Marino Zorzi, Dal manoscritto al libro, in Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, IV, Il Rinascimento. Politica e cultura, a cura di Alberto Tenenti e Ugo Tucci, Roma 1998, 872-892.

 

[116] Cfr. Francesco Barberi, La tipografia italiana del Quattrocento, in Per una storia del libro cit., 13; Neddermeyer, Von der Handschrift cit., I, 121.

 

[117] Cfr. Giovanni Mardersteig, Nuovi documenti su Felice Feliciano da Verona, «La Bibliofilia», 49 (1939), 106-108. Il manoscritto del calligrafo veronese conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana è stato ripubblicato: Felice Feliciano, Alphabetum Romanum, a cura di Giovanni Mardersteig, Verona 1960. Cfr. anche Giovanni Pozzi, Giulia Gianella, Scienza antiquaria e letteratura. Il Feliciano. Il Colonna, in Storia della cultura veneta cit., III/1, 460-477; Franco Pignatti, Feliciano Felice, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLVI, Roma 1996, 82-90.

 

[118] La biografia del tipografo francese e la vicenda della sua attività editoriale sono state ricostruite nel bel volume di Martin Lowry, Nicholas Jenson and the rise of Venetian publishing in Renaissance Europe, Oxford-Cambridge Mass, 1991, tradotto in italiano Nicolas Jenson e le origini dell’editoria veneziana nell’Europa del Rinascimento, Roma 2002.

 

[119] Cfr. Steinberg, Cinque secoli di stampa cit., 58-64; Giovanni Mardesteig, Aldo Manuzio e i caratteri di Francesco Griffo da Bologna, in Studi di bibliografia e di storia cit., III, 105-147; Aldo Manuzio tipografo 1494-1515, catalogo, a cura di Luciana Bigliazzi, Angela Dillon Bussi, Giancarlo Savino, Piero Scapecchi, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, 17 giugno-30 luglio 1994, Firenze 1994, 33-34; Ralph Exter, Aldus, Greek, and the shape of the “classical corpus”, e Nicolas Barker, The Aldine Italic, entrambi in Aldus Manutius and Renaissance culture. Essays in memory of Franklin D. Murphy, edited by David S. Zeidberg, with the assistence of Fiorella Gioffredi Superbi, Firenze, Olschki, 1998, 143-160, e soprattutto Luigi Balsamo e Alberto Tinto, Origini del corsivo nella tipografia italiana del Cinquecento, Milano 1967, 25-60.

 

[120] Petrucci, Alle origini del libro moderno cit., 140. Cfr. anche Aldo Manuzio tipografo cit., 82.

 

[121] Niccolò Machiavelli, Opere scelte, a cura di Gian Franco Berardi, introduz. di Giuliano Procacci, Roma 1981, 595. Cfr. anche Francesco De Leonardis-Angela Nuovo, Il libro nella pittura del Rinascimento, in Il libro nell’Italia del Rinascimento, a cura di Angela Nuovo-Ennio Sandal, Brescia 1998, 105-159, dove il libro portatile è raffigurato nei ritratti di Raffaello, Giorgione, Tiziano, Bronzino, Lotto e Moroni.

 

[122] Cfr. Anthony Grafton, L’umanista come lettore, in Storia della lettura nel mondo occidentale, a cura di Guglielmo Cavallo e Roger Chartier, Roma-Bari 1995, 199-204.

 

[123] Erwin Panofsky, La vita e le opere di Albrecht Dürer, Milano 1979 (I ed. Princeton 1955), 27.

 

[124] Cfr. Fumagalli, Lexicon cit., 454; Domenico Fava, I libri italiani a stampa del secolo XV con figure della Biblioteca Nazionale di Firenze, Milano 1936, 91-148; Max Sander, Le livre à figures italien depuis 1467 jusqu’à 1530. Essai de bibliographie et de son histoire, Milano 1942; Sergio Samek Luduvici, Arte del libro. Tre secoli di storia del libro illustrato dal Quattrocento al Seicento, Milano 1974, 88-93; Gianvittorio Dillon, Sul libro illustrato del Quattrocento: Venezia e Verona, in La stampa degli incunaboli cit., 81-96; Pietro Scapecchi, L’“Hyperatomachia Poliphili” e il suo autore, «Accademie e biblioteche d’Italia», 51 (1983), 286-298; Id., Aldo Manuzio. I suoi libri, i suoi amici, tra XV e XVI secolo, Firenze 1994, 62-64; Alessandro Parronchi, Lo xilografo della Hypneratomachia Poliphili: Pietro Angelo Agabiti?, «Prospettiva», 1984, n. 33-36, 101-111; Maurizio Calvesi, Il sogno di Polifilo Prenestino, Roma 1980; Id., “Hypnerotomachia Poliphili”. Nuovi riscontri e nuove evidenze documentarie per Francesco Colonna signore di Preneste, «Storia dell’arte», 60 (1987), 85-136. Cfr. anche Zorzi, Dal manoscritto cit., 889-892, e, più in generale, Armando Petrucci, Il libro illustrato italiano del Quattrocento, in Libri, scrittura e pubblico nel Rinascimento cit., 81-97, e The painted page. Italian Renaissance book illumination 1450-1550, edited by Jonathan James Graham Alexander, Münich-New York 1994, pp. 162-238, con ampia bibliografia, pp. 258-269.

 

[125] Fernand Braudel, L’Italia fuori d’Italia. Due secoli e tre Italie, in Storia d’Italia, II, 2, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, Torino 1974, 2144-2147.

 

[126] Cfr. Jean-François Gilmont, Les centres de la production imprimée aux XVe et XVIe siècles, in Produzione e commercio della carta cit., 351; Barberi, La tipografia italiana del Quattrocento cit., 13.

 

[127] Vittore Branca, L’umanesimo veneziano e l’arte del libro, «Revue des Études Italiennes», 27 (1981), 327.

 

[128] Cfr. Zorzi, Dal manoscritto cit., 882.

 

[129] Cfr. Victor Scholderer, Printing a Venice to the end of 1481, in Fifty essays in fifteenth-and-sixteenth-century bibliography, edited by Dennis E. Rhodes, Amsterdam 1966, 86; Marino Zorzi, Introduzione a Aldo Manuzio e l’ambiente veneziano 1494-1515, a cura di Susy Marcon e Marino Zorzi, Venezia 1994, 14-15, e i più vecchi studi di Bartolomeo Cecchetti, Stampatori, libri stampati nel secolo XV: testamento di Nicolò Jenson e di altri tipografi in Venezia. Note, «Archivio Veneto», 33 (1887), 457-467; Gustavo Ludwig, Contratti tra lo stampatore Zuan di Colonia e i suoi socii e inventario di una parte del loro magazzino, «Miscellanea di storia veneta», serie II, 8 (1902), 45-88; Andrea F. Gasparinetti, Un documento inedito della società «Giovanni da Colonia, Nicolò Jenson e compagni», in Studi e ricerche sulla storia della stampa del Quattrocento cit., 185-190.

 

[130] Cfr. Luigi Balsamo, Tecnologia e capitali nella storia del libro, in Studi offerti a Roberto Ridolfi cit., 85-89, e soprattutto Zorzi, Dal manoscritto cit., 888-889; Giorgio Montecchi, Dalla pagina manoscritta alla pagina stampata nei breviari in caratteri glagolitici, Anica Nazor, I libri glagolitici stampati a Venezia, entrambi in Il libro nel bacino adriatico (secc. XV-XVIII), a cura di Sante Graciotti, Firenze 1992, 3-30, 75-84, e infine, sui libri in greco cfr. Deno J. Geneakoplos, Greek scholars in Venice. Studies in the dissemination of Greek learnig from Byzantium to Western Europe, Cambridge Mass., 1962, che descrive il contributo dato dall’umanesimo veneziano agli studi greci; Nicolas Barker, Aldus Manutius and the development of Greek script and type in the fifteenth century, Sandy Hook Conn. (USA), Chriswich Book Shop inc., 1985; Despina Vlassi Sponza, I greci a Venezia: una presenza costante nell’editoria (secc. XV-XX), in Armeni, ebrei, greci stampatori a Venezia, catalogo della mostra, Venezia 1989, 71-99; Le edizioni di testi greci da Aldo Manuzio e le prime tipografie greche di Venezia, Catalogo e cura di Manoussos Manoussacas e Kostantinos Staikos, Atene 1993; Evro Layton, The sixteenth century Greek book in Italy. Printers and publishers for the Greek world, Venice 1994, 3-55.

 

[131] Cfr. Edoardo Barbieri, Le Bibbie italiane dal Quattrocento al Cinquecento. Storia e bibliografia ragionata delle edizioni in lingua italiana dal 1471 al 1600, I, Milano 1992, 37-70, con relativa bibliografia; Luigi Balsamo, La Bibbia in tipografia, in La Bibbia a stampa da Gutenberg a Bodoni, a cura di Ida Zatelli, Firenze 1996, 18-19; The Bible as book the first printed editions, edd. P. Saenger-K. Van Kampen, London, 1999; Ugo Rozzo, Linee per una storia dell’editoria religiosa in Italia (1465-1600), Udine 1993, 14-18.

 

[132] Cfr. Febvre, Martin, La nascita del libro cit., 273.

 

[133] Cfr. Zorzi, Introduzione cit., 17.

 

[134] Cfr. Victor Scholderer, Printers and readers in Italy in the fifteenth century, in Fifty essays, 202 sgg.; Gedeon Borsa, Clavis typographorum librariorumque Italiae 1463-1600, II, Aureliae Aquensis 1980, 386 sgg.; Martin C. Lowry, La produzione del libro, in Produzione e commercio della carta cit., 375-382.

 

[135] Cfr. Lowry, Nicholas Jenson cit., 173-206, ritiene che fin dagli anni ottanta del Quattrocento le tirature medie si avvicinassero alle 2.000 copie; Aldo Manuzio tipografo cit., n. 55, 97.

 

[136] Zorzi, Introduzione cit., 17.

 

[137] Sul commercio del libro cfr. Nuovo, Il commercio librario nell’Italia cit., 66-90, con relativa bibliografia a cui si rinvia, e della stessa, Il commercio librario a Ferrara tra XV e XVI secolo. La bottega di Domenico Sivieri, Firenze 1998, 23-27, sulla diffusione del libro veneziano nella città emiliana alla fine del XV secolo, anche Luigi Balsamo, Commercio librario attraverso Ferrara fra 1476 e 1481, «La Bibliofilia», 85 (1983), 277-298; Richardson, Stampatori, autori cit., pp. 5-6. Cfr. inoltre il recente volume miscellaneo, Incunabula and Their Readers. Printing, Selling and Using Books in the Fifteenth Century, edited by Kristen Jensen, London 2003, in particolare i saggi di Mary Kay Duggan, Kristen Jensen e John L. Flood.

 

[138] Cfr. Sartori, Documenti cit., doc. n. XIII; Colla, Tipografi, editori cit., 46.

 

[139] Cfr. Lowry, Nicholas Jenson cit., 182; Brown, The Venetian printing cit., 431-452.

 

[140] Cfr. Gedeon Borsa, Eine gedruckte venediger Buchführeranzeige um das Jahr 1476, «Gutenberg Jahrbuch», 1961, 43-48.

 

[141] Cfr. Bernd Breitenbruch, Ein Fragment einer bisher unbekannten Buchhändleranzeige, «Gutenberg Jahrbuch», 1987, 138-145, e per i cataloghi aldini, Aldo Manuzio tipografo cit., n. 30, 61, n. 76, 119, n. 118, 164-169; Martin Lowry, The Manutius publicity campaign, in Aldus Manutius and Renaissance culture cit., 31-46; Klaus Wagner, Aldo Manuzio e i prezzi dei suoi libri, «La Bibliofilia», 77 (1975), 77-82; Carlo Dionisotti, Aldo Manuzio umanista, in Aldo Manuzio umanista e editore, Milano 1995, 23-36.

 

[142] Cfr. Martin Lowry, Il mondo di Aldo Manuzio. Affari e cultura nella Venezia del Rinascimento, Roma 1984 (I ed. Oxford 1979), 99-146.

 

[143] Aldo Manuzio tipografo cit., n. 46, 84.

 

[144] Carlo Dionisotti, Aldo Manuzio editore, in Aldo Manuzio umanista cit., 91; Id., Aldo Manuzio, in Dizionario critico della letteratura italiana, a cura di Vittore Branca, III, Torino 1986, 42-44. Fondamentali per la conoscenza di Aldo sono i testi raccolti in Aldo Manuzio editore. Dediche, prefazioni, note ai testi, a cura di Giovanni Orlandi, introduzione di Carlo Dionisotti, Milano 1975, e in Ester Pastorello, Di Aldo Pio Manuzio: testimonianze e documenti, «La Bibliofilia», 67 (1965), n. 2, 163-220. Cfr. anche Aldo Manuzio e l’ambiente veneziano cit.; Aldus Manutius and renaissance culture cit.; Martin Davies, Aldus Manutius, printer and publisher of Renaissance Venice, London 1995. Sugli aspetti tecnici cfr., fra gli altri, Giorgio Montecchi, L’imposizione nei libri in ottavo di Aldo Manuzio, e Piccarda Quilici, La legatura aldina, entrambi in La stampa in Italia nel Cinquecento, Atti del convegno, Roma, 17-21 ottobre 1989, a cura di Marco Santoro, I, Roma 1992, rispettivamente 355-376, 377-400.

 

[145] Cfr. Antoine Augustin Renouard, Annales de l’imprimerie des Alde ou histoire des trois Manuce et de leurs éditions, New Castle, Delaware (USA), 1991 (I ed. Paris 1834), 1-45; Aldo Manuzio tipografo cit., 27-145. Cfr. anche Brian Richardson, Bembo and his influence, 1501-1503, in Print culture in Renaissance Italy. The editor and the vernacular text, 1470-1600, Cambridge 1994, 48-63.

 

[146] Cfr. Daniela Mugnai Carrara, Nicolò Leoniceno, «Interpres», 2 (1979), 169-212; e della stessa, La biblioteca di Nicolò Leoniceno. Tra Aristotele e Galeno: cultura e libri di un medico umanista, Firenze, Olschki, 1991.

 

[147] Cfr. John Monfasani, The first call of press consorship: Niccolò Perotti, Giovanni Andrea Bussi, Antonio Moreto, and the editing of Pliny’s “Natural History”, «Reinassance Quaterly», 41 (1988), 1-31.

 

[148] Cfr. Vittore Branca, L’umanesimo veneziano alla fine del Quattrocento: Ermolao Barbaro e il suo circolo, in Storia della cultura veneta cit., III/1, 150-155; anche in Id., La sapienza civile. Studi sull’umanesimo a Venezia, Firenze 1998, 59-103; Id., L’umanesimo, in Storia di Venezia cit., IV, 731-739; Emilio Bigi, Barbaro Ermolao, in Dizionario Biografico degli Italiani, VI, Roma 1964, 96-99.

 

[149] Cfr. Zorzi, Dal manoscritto al libro cit., 893. Le imprecisioni tipografiche e le mende degli originali sono anche una caratteristica successiva, cfr. Robert Darnton, Le licenze del tipografo, «The New York Review of Books. La rivista dei libri», 14 (2004), n. 5, 18-22, e soprattutto Donald F. McKenzie, Stampatori della mente e altri saggi, con un saggio introduttivo di Michael Suarez, Milano 2003 (I ed. Amherst-Boston 2002), 29-99.

 

[150] Francesco Calasso, Medioevo del diritto, I, Le fonti, Milano 1954, 598, e più in generale dello stesso, Umanesimo giuridico, in Introduzione al diritto comune, Milano 1970, 181-205.

 

[151] Francesco Petrarca, Epistulae de rebus familiaribus et variae, edizione e traduzione di Giuseppe Fracassetti, I, Firenze 1859, XX, IV. Per la datazione cfr. Ugo Dotti, Vita di Petrarca, Roma-Bari 1987, 16-17. Cfr. soprattutto Maurizio Manzin, Il petrarchismo giuridico. Filosofia e logica del diritto agli inizi dell’umanesimo, Padova, Cedam, 1994, 34-51, 147-152, 193-198.

 

[152] Cortese, Il diritto nella storia medievale cit., II, 465-466.

 

[153] Lorenzo Valla, Epistula carissimo et eloquentissimo viro Candido Decembri, in Opera, Basileae, apud Henricum Petrum, 1540, ora ristampa anastatica Opera, I, prefaz. di Eugenio Garin, Torino 1962, 633-643. Cfr. a questo proposito, oltre Eugenio Garin, L’umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, Roma-Bari 1994 (I ed. 1952), 62-69, soprattutto Domenico Maffei, Gli inizi dell’umanesimo giuridico, Milano 1956, 37-39, ed inoltre Gaeta, Lorenzo Valla cit., 120-126, con un giudizio sostanzialmente riduttivo; Giacomo Manfredi, Lorenzo Valla e i giuristi medievali, «Archivio storico per le province parmensi», serie 4, 9 (1957), 267-270; Riccardo Fubini, Umanesimo e secolarizzazione da Petrarca a Valla, Roma, Bulzoni, 1990, 340 ss.; Mariangela Regoliosi, Due nuove lettere di Lorenzo Valla, «Italia medioevale e umanistica», 25 (1982), 164-185.

 

[154] Lorenzo Valla, Prefazione al terzo libro delle Eleganze, in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di Eugenio Garin, Milano-Napoli 1952, 613. Cfr. Lorenzo Valla e l’Umanesimo italiano, Atti del Congresso internazionale di studi umanistici, Parma, 18-19 settembre 1984, a cura di Ottavio Besomi e Mariangela Regoliosi, Padova 1986; Simona Gavinelli, Le «Elegantie» di Lorenzo Valla: fonti grammaticali latine e stratificazioni compositive, «Italia medioevale e umanistica», 31 (1988), 205-257; Vincenzo Di Caprio, Appunti sul classicismo delle «Eleganze» di Lorenzo Valla, «FM. Annali dell’Istituto di Filologia Moderna dell’Università di Roma», n. 1-2, 1981, 59-80; Id., Elegantiae di Lorenzo Valla cit., 647-679, con ulteriore bibliografia; David Marsh, Grammar, method and polemic in L. Valla’s “Elegantiae”, «Rinascimento», 19 (1979), 91-116; Mariangela Regoliosi, Nel cantiere di Valla. Elaborazione e montaggio delle “Elegantiae”, Roma 1993, che costituisce il lavoro di riferimento.

 

[155] Cfr. Domenico Maffei, La donazione di Costantino nei giuristi medievali, Milano 1964, 321-346, e l’efficace traduzione italiana La falsa donazione di Costantino, a cura di Gabriele Pepe, Milano 1996.

 

[156] Cfr. a questo proposito Iozef Ijsewijn e Gilbert Tournoy, Un primo censimento dei manoscritti e delle edizioni a stampa degli «Elegantiarum linguae latinae libri sex» di Lorenzo Valla, «Humanistica Lovanensia», 18 (1969), 25-41, e l’integrazione, 20 (1971), 1-3, col titolo Nuovi contributi per l’elenco dei manoscritti e delle edizioni delle «Elegantiae» di Lorenzo Valla.

 

[157] Cfr., oltre il classico lavoro di Maffei, Gli inizi dell’umanesimo giuridico cit., 81 ss., sempre attuale e stimolante, Cortese, Il diritto nella storia medievale cit., II, 452-484, con bibliografia aggiornata cui si rinvia.

 

[158] Cfr. Enrico Spagnesi, La «littera Florentina»: miti e documenti, in Le Pandette di Giustiniano. Storia e fortuna di un codice illustre, due giornate di studio (Firenze, 23-24 giugno 1983), Firenze 1986, 99-130; Ennio Cortese, Il diritto nella storia medievale, I, L’alto Medioevo, Roma 1995, 380-382; e la riproduzione anastatica del codice in facsimile Justiniani Augusti Pandectarum. Codex Florentinus, a cura di Alessandro Corbino e Bernardo Santalucia, Firenze 1988.

 

[159] Guglielmo Cavallo, Libro e pubblico alla fine del mondo antico, in Libri, editori e pubblico nel mondo antico. Guida storica e critica, Roma-Bari, Laterza, 1975, 129, e dello stesso, La circolazione libraria nell’età di Giustiniano, in L’imperatore Giustiniano. Storia e mito, Giornate di studio a Ravenna, 14-16 ottobre 1976, a cura di Gian Gualberto Archi, Milano 1978, 232-234.

 

[160] François Rabelais, Gargantua e Pantagruele, a cura di Mario Bonfantini, II, Torino 1953, 293. Cfr. anche Enzo Nardi, Rabelais e il diritto romano, Milano 1962, 223 ss.

 

[161] Cfr. Severino Caprioli, Visite alla pisana, in Le Pandette di Giustiniano cit., 37-98. Sul tentativo di Poliziano, cfr. il vecchio studio di Francesco Buonamici, Il Poliziano giureconsulto o della letteratura nel diritto, Pisa 1863, e soprattutto Maffei, Gli inizi dell’umanesimo giuridico cit., 84-90, Vittore Branca, Poliziano e l’umanesimo della parola, Torino 1983, 182-189, oltre la penetrante lettura di Calasso, Medioevo del diritto cit., I, 599-600.

 

[162] Cfr. Severino Caprioli, Indagini sul Bolognini. Giurisprudenza e filologia nel Quattrocento italiano, Milano 1969, 205-269; Id., Bolognini Ludovico, in Dizionario Biografico degli italiani, XI, Roma 1969, 337-352.

 

[163] Cfr. Dionisotti, Filologia umanistica e testi giuridici cit., 196-198.

 

[164] Maffei, Gli inizi dell’umanesimo cit., 22. Cfr. inoltre Italo Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino 2002, 1-49.