Università di Sassari
Sommario: 1. Tre parole-chiave per una teoria della
costituzione come norma superiore. – 2. La connessione indiretta tra diritto e morale nel
diritto pubblico europeo. – 2.1. Segue: i “principi supremi”
oltre la costituzione dello “Stato di partiti”. – 3. La costituzione democratico-pluralista come connessione diretta tra diritto e giustizia. –
4. Irradiamento della “costituzione dei diritti”
e disarticolazione della “costituzione dei poteri”. – 5. Conclusioni.
La costituzione è fonte di norme. Da che è
iniziata l’epoca delle costituzioni scritte questa affermazione ha un che di
scontato. Poco importa che una costituzione sia posta da un’assemblea elettiva
o concessa da un monarca su pressione delle rappresentanze popolari:
l’intenzione di redigerne una si accompagna sempre alla volontà di farla valere
come precetto di diritto.
E tuttavia, che la costituzione sia fonte di
norme non significa che sia pure fonte di norme prevalenti rispetto a qualsiasi
altra norma dell’ordinamento. La normatività di un testo costituzionale
presuppone una differenza di grado tra la “forza di legge” e la “forza di
costituzione” solo quando questa normatività intende manifestarsi come superiore[1].
Da dove deriva e quali effetti produce la
superiorità delle norme costituzionali? Le condizioni della validità e
prescrittività delle costituzioni democratico-pluraliste possono riassumersi in
tre parole-chiave: connessione, incorporazione e irradiamento.
L’espressione connessione evoca
In virtù di questa connessione essenziale la
costituzione incorpora principi di
giustizia irriducibili alla categoria delle norme-regole. Questa incorporazione – la seconda
parola-chiave – orienta in modo particolare l’operatività concreta della
costituzione; e mostra come l’argomentazione di “diritto costituzionale”
confluisca fatalmente nell’argomentazione morale pratica. Per il tramite dei
“principi”, e delle pratiche di bilanciamento che li riguardano, il discorso
giuridico disvela la propria appartenenza al discorso morale pratico.
La terza parola-chiave – l’irradiamento – segnala come l’applicazione dei principi
costituzionali di giustizia, e il tipo particolare di ragionamento che li
veicola, si irradino per tutto il
sistema, ad ogni livello. Penetrano a fondo nell’ordinamento, caratterizzando
tutte le pratiche giuridiche che ivi si svolgono. L’irradiamento sottrae dunque
specificità all’interpretazione costituzionale rispetto all’interpretazione
giuridica tout court:
l’argomentazione per principi non è più una prerogativa del giudice
costituzionale, ma diventa un modo di delineare il fatto interpretativo che
ormai accomuna tutti i giudici.
Il diritto costituzionale deriva dunque la
propria validità superiore dalla connessione necessaria tra diritto e morale.
Tuttavia, il mero dato della connessione
non costituisce un’autentica novità. Nel diritto pubblico europeo c’è sempre
stato un collegamento tra diritto e morale, seppure in forma indiretta e
mediata. Neanche la ricostruzione weberiana dello stato moderno come “potere
legale-razionale”, che trova in sé, nella propria legalità formale la ragione
della propria legittimità materiale, riesce a celare questo dato. Il potere
legale è razionale perché si esercita nel rispetto di norme generali e astratte
che da un lato escludono l’arbitrio irrazionale del funzionario pubblico, e
dall’altro permettono ai cittadini privati di prevedere l’azione pubblica, e
quindi di calcolarne o evitarne le conseguenze. Lungi dall’essere puramente
“formale”, la razionalità della legalità rimanda ad un valore sostanziale ben preciso:
la “sicurezza giuridica”, cioè la possibilità di prevedere le conseguenze
giuridiche del proprio agire. Se il diritto statuito in forma accentrata da un
sovrano deve implementare sicurezza giuridica, cioè il valore propulsivo del
modello sociale borghese, ciò attesta la presenza indefettibile di un nucleo
morale sostanziale nel diritto formale[4].
Tuttavia, nello ius publicum europaeum il punto di connessione tra diritto e morale
non è la costituzione, ma la sovranità, o meglio: il sovrano. La separazione
giuspositivistica tra legalità e giustizia si riduceva in realtà all’assunto
secondo cui la sovranità è la sola ed esclusiva dimensione nella quale la
morale si fa diritto, e attraverso la quale i contenuti di giustizia
s’immettono nell’ordinamento giuridico positivo. Il giuspositivismo quindi ha
significato non già assoluta cesura tra diritto e morale, ma solo che la
connessione tra i due termini non poteva essere diretta, bensì sempre indiretta,
cioè mediata da un sovrano. Di talché lo studio scientifico del diritto avrebbe
potuto prendere in considerazione le assunzioni etiche sottese all’ordinamento
normativo solamente nella misura in cui queste fossero incapsulate nella
volontà, nell’intento del legislatore.
Anche
nei frutti più maturi del diritto pubblico europeo si ripropone questo schema
di connessione indiretta tra diritto e giustizia.
Per
Hermann Heller il nesso tra il diritto positivo (statale) e la forza
legittimante di istanze etiche condivise socialmente è assolutamente
necessario: il potere statale ha bisogno della legittimazione offerta dai
“principi etici giuridici” perché «la legalità dello stato di diritto non è in
grado di sostituire la propria legittimità»[5].
Tuttavia, nel pensiero di Heller ancora resiste l’idea che a realizzare questo
nesso debba essere solo il sovrano statale. I principi giuridici etici dai
quali il potere sovrano dello Stato ricava la propria legittimazione ultima non
entrano a far parte direttamente
dell’ordinamento giuridico come suo elemento definitorio, ma devono essere
concretizzati in norme positive dal legislatore statale. I principi di
giustizia infatti «forniscono solo i lineamenti generali in base ai quali deve
venire costituito lo stato giuridico dei membri della comunità politica; (…)
non forniscono alcuna decisione sul caso concreto: a tal fine mancano di
determinatezza; è sempre necessaria infatti, innanzi tutto, una decisione su
ciò che in queste situazioni di interesse, determinate nel tempo, nello spazio
e nelle persone, dev’essere lecito in base a quei principi. In base agli stessi
principi giuridici possono e devono finanche essere possibili decisioni
giuridiche differenti, sia nella forma di differenti ordinamenti e
costituzioni, sia nella forma di differenti leggi, sentenze ed atti
amministrativi. Tanto l’evidenza del significato, quanto la sicurezza
dell’esecuzione richiedono però la
presenza di un potere autoritario che formuli e imponga quel che dev’essere
lecito in una situazione concreta (corsivo mio)»[6].
Insomma,
se da un parte «la norma giuridica riceve tutta la forza etica vincolante solo
da un principio etico sovraordinato”, dall’altra però questi principi etici
hanno bisogno di essere «posti, imposti ed applicati da un potere autoritario,
nella forma di norme giuridiche positive»[7].
Nonostante abbiano bisogno gli uni delle altre, «le norme giuridiche e i
principi etici non coincidono»[8].
E il loro collegamento, pur postulato come necessario, pena la delegittimazione
e il tracollo dell’ordinamento statale, si realizza solo attraverso la mediazione
di un potere unitario organizzato[9].
Se i principi etico-giuridici divengono
propriamente “diritto”, cioè norme vincolanti di un ordinamento giuridico
coercitivo, solo grazie una concretizzazione normativa operata dal legislatore
statale; se i contenuti etici di giustizia – che offrono allo stato una
legittimazione della quale non può fare a meno (pena il suo dissolvimento) -
necessitano di statuizioni legislative per divenire regole giuridico-positive,
ciò significa che anche in Heller, come in tutta la vicenda del diritto
pubblico europeo, la sovranità (statale) è il solo nodo di congiunzione tra
diritto e morale, la sola paratia attraverso la quale le assunzioni etiche si
riversano nell’ordinamento positivo. Indubbiamente, c’è un grande elemento di novità
nella dottrina helleriana, che consiste nell’avere affermato la necessità ineludibile di questa
connessione. Ma essa però viene pur sempre concepita come indiretta e mediata
dalla volontà ed attività di un soggetto sovrano che accentra il potere di normazione.
Anche l’origine (e le prime fasi) della
costituzione dell’Italia repubblicana può utilmente spiegarsi secondo lo schema
della connessione indiretta.
Della costituzione repubblicana è unanimemente
riconosciuta la natura compromissoria.
Essa scaturisce dal calcolo di utilità delle forze costituenti: e infatti non
contiene soltanto le regole meramente procedurali del metodo democratico, cioè
il principio di maggioranza ed i suoi corollari, ma incorpora anche le finalità
ideologiche, cioè i «fini politici fondamentali» (per dirlo col linguaggio di
Mortati) che in modo eterogeneo caratterizzavano le ideologie dei partiti
costituenti. Non a caso, si è equiparato il compromesso costituzionale – cioè
la convenzione che forze partitiche concorrenti hanno concluso in una
condizione di equilibrio – ad una sorta di «armistizio» o «trattato di pace»[10]:
la costituzione “armistiziale” dello Stato
di partiti non è altro che «l’espressione formale di un certo rapporto di
forze, di un equilibrio raggiunto fra i ceti politicamente attivi, e
rappresenta perciò solo uno strumento diretto a stabilizzare l’equilibrio
stesso per mezzo di un complesso di istituti giuridici ritenuti atti a garantirne
il mantenimento»[11].
Ebbene, se la validità della
costituzione formale dipende dalla fattualità di un concreto ordine
socio-politico, i suoi principi e norme programmatiche valgono perché
coincidono con i fini politici delle forze costituenti. Valgono perché e se i partiti ne sostengono
costantemente la vigenza. Senza il riferimento a specifici assetti di forze ed
interessi determinati rimarrebbero lettera morta, flatus vocis[12].
In altri termini, l’agire strategico che
aveva guidato e determinato la costituzionalizzazione dei fini politici di
parte in forma di principi e programmi è lo stesso agire strategico che, poi,
ne deve guidare e determinare lo svolgimento legislativo. Alla negoziazione
costituzionale deve dunque seguire la negoziazione legislativa; alla
costituzionalizzazione dei principi di giustizia deve seguire la loro
attuazione legislativa. Il modello giuspubblicistico continentale della connessione indiretta è, come si vede,
diligentemente rispettato: solo l’azione politica di chi regge l’ordinamento
nella sua interezza può immettere giustizia nel diritto[13].
Questo paradigma è ancora attuale? Descrive
adeguatamente la situazione costituzionale delle democrazie pluralistiche
contemporanee (e in particolare della democrazia pluralistica in Italia)? Forse
non più.
E in
effetti, se il fenomeno cui si assiste nella prima metà del ‘900 è la
trasformazione del vecchio stato borghese di diritto, monoclasse ed
oligarchico, in Parteienstaat (o, a
seconda delle diverse esperienze nazionali, in Staatspartei[14]),
il processo cui stiamo ora assistendo è quello di un mutamento dello stesso Parteienstaat, dello stesso “stato di
partiti”, in qualcosa di cui ancora non è del tutto chiara la fisionomia.
Possiamo dire che cosa la democrazia pluralistica non è più, ma non possiamo
dire che cosa sia diventata precisamente.
Il dato certo è la perdita di centralità del
partito politico, cui corrisponde una perdita di primazia dell’istituzione
politica statale. I partiti erano i soggetti della politica – nel senso che questa
non esisteva al di fuori di quelli – e lo stato era il teatro della politica
dei partiti[15].
Non mi attarderò su questo punto, perché la questione è nota ed ampiamente
dibattuta, sia dalla letteratura costituzionalistica che da quella politologica.
Qui basta solo osservare che il pluralismo complesso delle società democratiche
contemporanee è, ormai, ben più ampio del pluralismo partitico. Il partito
organizzato di massa, il partito-istituzione[16]
era strumentale ad una società divisa in blocchi omogenei di interessi sociali
contrapposti: il conflitto di classe generato dalle grandi rivoluzioni
industriali era il suo terreno di coltura, la condizione del suo svilupparsi e
radicarsi. È evidente perciò che se viene meno questo scenario, se la struttura
sociale si frammenta, determinando un’articolazione pluralistica molto più
variegata e complessa di quanto non fosse in passato, con una molteplicità di
gruppi di interesse «spesso in contrapposizione o in parziale sovrapposizione
fra loro»[17],
tutto ciò non può non ridurre grandemente la capacità integrativa dei partiti
tradizionali, o organizzati in forma tradizionale. Succede così che uno spettro
amplissimo di interessi dei più vari tipi (economici, culturali, religiosi,
ecc.) si autoorganizzano ora in modo autonomo e si fanno valere in modo diretto
ed immediato, evitando le mediazioni partitiche[18].
Se a ciò si aggiunge il fatto che le nostre società sono sempre più
multietniche, multiculturali, multietiche, ecc., il quadro è completo. Insomma,
la forma dell’unità politica – quella che Mortati avrebbe definito la
“costituzione materiale” – non è più impressa dal sistema dei partiti (tanto
più che i partiti attuali non corrispondono più ai partiti costituenti).
Bisogna dunque fondare su altre basi la validità della costituzione.
Il punto
di svolta, che suggella e dà il senso complessivo di questa evoluzione, è il
1988, con la sentenza n. 1146 e la dottrina dei “principi supremi”[19].
Nel decisionismo dello stato di partiti il momento di congiunzione tra diritto
e valori – tra ordinamento positivo e morale – era la volontà partitica
trasfusa nel patto costituzionale. I principi costituzionali erano i fini
politici fondamentali “portati” dai partiti. La dottrina dei “principi
supremi”, invece, li sgancia dalla volontà storica delle forze costituenti,
prendendo atto che la validità costituzionale non dipende più dal concreto
sostegno di queste. Grazie anche al ruolo integrativo fondamentale svolto dai
partiti nei primi decenni dell’esperienza repubblicana, i principi
costituzionali non sono più soltanto la trascrizione di concessioni reciproche,
dettate dal calcolo strategico (e quindi sempre rivedibili se la totalità delle
forze politiche o la gran parte di esse è d’accordo): ora sono patrimonio
comune della comunità nazionale, valori condivisi intersoggettivamente, con una
legittimazione ultrapartitica. La loro validità non deriva più da un
compromesso fatto di rinunce e concessioni tra forze in equilibrio: ora vigono
perché definiscono l’appartenenza di ciascun membro alla comunità; perché sono
l’oggetto di quello che J. Rawls definisce «consenso per intersezione»[20].
Con la dottrina dei “principi supremi” l’agire
strategico dei partiti non ha più una dimensione costituzionale. La riflessione
novecentesca sul legame tra costituzione e partito politico – che ha in Mortati
il teorico più lucido e nello stato di partiti (e di partito) la sua
concrezione storica – non descrive più la nuova situazione costituzionale. In
un certo senso, la costituzione armistiziale dello stato di partiti viene meno
perché i “principi supremi”, cioè i “diritti fondamentali”, sono diventati una
risorsa simbolica comune su cui fondare una comunità di principio; il
fondamento e il prodotto di un agire comunicativo che non si regge sulla
concretezza di forze ed interessi ben determinati.
Nel Parteienstaat
alla identità tra principi costituzionali e fini politici fondamentali dei
partiti corrisponde la separatezza tra ordine costituzionale e ordine legale.
La dottrina dei principi supremi, se da una parte spezza la prima identità,
separando definitivamente i “principi” dalle “politiche”, dall’altra rimuove il
diaframma tra il diritto costituzionale e il diritto subcostituzionale,
immettendo queste due dimensioni della giuridicità nel medesimo circuito.
Nel decisionismo dello stato di partiti la
giustizia e i valori non esistono se non come ideologie, indirizzi e programmi
delle forze politiche: cioè, non appartengono intrinsecamente al diritto. I principi supremi, al contrario, non
solo si “incorporano” stabilmente nel diritto costituzionale, ma pretendono di
valere giuridicamente senza il
sostegno di specifici portatori[21].
La costituzione non ha più padroni o depositari esclusivi: è diritto rispetto al quale tutti possono
e devono parametrarsi.
Nella fase attuale del costituzionalismo
democratico-pluralista la connessione tra diritto e morale da indiretta diventa diretta: la giustizia diviene un elemento definitorio del diritto:
gli appartiene intrinsecamente. Per
il tramite della costituzione i punti di connessione tra diritto e morale si
moltiplicano. La volontà accentrata di un sovrano situato al vertice
dell’ordinamento o l’accordo parlamentare tra i partiti che “portano” la
costituzione non sono più la sola paratia per la quale i contenuti etici si
riversano nel sistema normativo. L’affermarsi della costituzione come “norma
giuridica superiore” apre nell’ordinamento tanti varchi quanti sono i soggetti
che la assumono a parametro del proprio agire. Grazie soprattutto all’uso
giudiziale diffuso della costituzione, l’incorporazione
dei principi di giustizia nel diritto costituzionale diventa tutt’uno con il
loro irradiamento nel sistema
normativo complessivo. La prescrittività costituzionale si diffonde
nell’ordinamento aprendolo, in molteplici punti, alle interazioni (discorsive)
con le pretese di validità fondate eticamente.
La
dottrina dell’obbligo di interpretazione “conforme a costituzione” e i fenomeni
di applicazione diretta della costituzione da parte dei giudici comuni
rappresentano lo svolgimento pratico di questo nuovo orientamento. Per quanto
riguarda la verfassungskonforme Auslegung,
secondo
Il fenomeno
non è circoscritto all’Italia. Già nel Grundgesetz
tedesco, all’art. 1, comma 3, si legge che «i (…) diritti fondamentali
vincolano la legislazione, il potere esecutivo e la giurisdizione come diritto
immediatamente applicabile»; e all’art. 20, comma 3, che «la legislazione è
vincolata all’ordinamento costituzionale, il potere esecutivo e la
giurisdizione sono vincolati alla legge e
al diritto (corsivo mio)»[25].
I principi supremi, cioè i diritti fondamentali, sono pertanto riguardati quali precetti self-executing, applicabili diffusamente da parte di ciascun
giudice. Da un lato qualsiasi attività pubblica – ma anche privata, per effetto
della Drittwirkung – deve
parametrarsi direttamente ad essi; dall’altro il giudice, proprio perché soggetto oltre che alla legge anche al
«diritto», deve elaborare la regole del caso fondendo le prescrizioni
legislative con i principi costituzionali di giustizia[26].
La
costituzione diviene, così, parte integrante dell’ordinamento, e quindi dei
criteri che il giudice può direttamente assumere come premessa maggiore dei
propri ragionamenti. La “saldatura interpretativa” tra legge e principi
costituzionali di giustizia diventa la regola
dell’attività giudiziale[27].
Insieme ai principi costituzionali,
nell’ordinamento penetrano anche i modi argomentativi legati a questa
particolare struttura nomologica: cioè le tecniche della ragionevolezza, dei
bilanciamenti e, in genere, le forme dell’interpretazione per valori/principi[28].
E quindi, non solo perde aderenza la raffigurazione binaria secondo cui il
giudice comune applica la legge e
Con la diffusione della prescrittività costituzionale
in tutti i rami e gradi dell’ordinamento la ragionevolezza assurge
inevitabilmente a «principio architettonico del sistema»[32]:
l’irradiamento dei principi è anche
l’irradiamento della ragionevolezza, poiché ad essa si rapportano necessariamente
tutte le pratiche giuridiche che si legittimano parametrandosi ai primi.
Se ciò è vero, la ragionevolezza –
proprio per questo suo carattere pervasivamente architettonico – non ha bisogno
di un custode, non è confinata in «un’isola della ragione», al riparo dal «caos
delle opinioni»[33].
La ragionevolezza è di tutti. Ne
consegue che
La diffusione della prescrittività
costituzionale in tutti gli ambiti dell’ordinamento – fenomeno che si è
descritto con la parola “irradiamento” – induce fatalmente un effetto di destrutturazione
del modello giuspubblicistico continentale. Il postulato di matrice hobbesiana
secondo cui l’organizzazione e la normazione statale si reggono su un unico
centro ordinatore è vistosamente contraddetto da un modello costituzionale che
moltiplica le interazioni discorsive e i momenti di contatto e di reciproco
condizionamento fra l’istituzionalizzazione giuridica ed il discorso morale
pratico. Se l’idea di sovranità (o di accordo interpartitico) non è più la sola
paratia tramite la quale i contenuti morali si immettono nell’ordinamento
positivo, le istanze etiche condivise socialmente, ed espresse in forma di
diritti, penetrano direttamente nel sistema normativo attraverso una pluralità
indeterminata di paratie, di momenti di contatto.
L’imperniarsi della validità costituzionale sui
diritti e la disarticolazione del glorioso diritto pubblico statale vanno così
di pari passo, come due fenomeni collegati e complementari. E’ come se
l’irradiamento costituzionale corrodesse dall’interno i capisaldi tradizionali
delle organizzazioni statali basate sul principio di gerarchia. La
“costituzione dei poteri”, irradiata e attraversata dall’applicazione
ragionevole dei principi di giustizia, non può più imperniarsi sulla centralità
e preminenza di un sovrano statale o di un Träger,
cioè di un portatore concreto della sovranità statale, sia questo il partito
dominante o l’insieme dei partiti dominanti. E’ pertanto inevitabile che
l’assetto costituzionale si disarticoli fino al punto di sembrare una “rete” ovvero
un insieme di centri di potere che si dispongono su più livelli secondo un
ordine che prescinde da moduli gerarchici[34].
E’ come se ad una medesima “costituzione dei
diritti” che al di là delle diverse redazioni testuali presenta sostanzialmente
i medesimi contenuti in ogni parte d’Europa[35],
corrispondessero ormai più costituzioni organizzative, più livelli
organizzativi di regolazione costituzionale: una multilevel constitution, appunto, che agli assetti europeo e
nazionali somma le “costituzioni regionali” e i microsistemi delle autonomie
locali. Lo Stato – un tempo l’unica e suprema “istituzione politica”
organizzata dalla costituzione – si scompone in una pluralità di livelli di
governo, dal carattere subnazionale ma anche sovranazionale: perde così il
monopolio del “politico” e, insieme, il monopolio della organizzazione
costituzionale (del “politico”).
In questa linea di tendenza s’inserisce senza
dubbio l’art. 114 del Titolo V novellato, nella cui nuova formulazione «
Il carattere paritario degli enti costitutivi
della Repubblica deriva dal fatto che lo Stato non è più la sola istituzione
politica provvista di legittimazione elettiva. Siccome i diritti politici si
esercitano ad ogni livello di governo, tutti gli organi rappresentativi di
tutti i livelli di governo ricevono lo stesso tipo di legittimazione politica.
In altre parole, se guardiamo alla rappresentanza politica dalla prospettiva
dei diritti politici, cioè dalla prospettiva dei rappresentati (coloro il cui
consenso è fondativo della legittimazione del rappresentante), non c’è alcun
motivo per differenziare qualitativamente ed assiologicamente le funzioni
rappresentative degli organi elettivi comunali, provinciali, regionali e
statali, secondo una scala gerarchica che va dal meno pregiato al più pregiato:
ad uguale legittimazione deve corrispondere uguale valore rappresentativo; e
quindi le prestazioni rappresentative del livello di governo nazionale non
possono godere di nessun particolare plusvalore rispetto a quelle del livelli
di governo inferiori.
Il passaggio dalla struttura gerarchica di un
ordinamento statocentrico alla dinamiche reticolari di un sistema multilevel coincide col declino dello Stato di partiti.
Durante i primi quarant’anni ed oltre
dell’esperienza repubblicana, lo stato ha costituito il teatro (quasi
esclusivo) della politica. Nella democrazia pluralistica dello stato di partiti
la politica democratica era ancora una politica statale: nel senso che ancora si formava e si esprimeva
esclusivamente nella dimensione statale. I partiti che sorreggevano la
costituzione e la politica repubblicana erano partiti nazionali, con un’unità di indirizzo che dagli organismi centrali
s’irradiava fino alle articolazioni periferiche regionali e locali. Lo stesso
art. 49 della Costituzione presupponeva che la lotta concorrenziale tra i
partiti avesse come posta in gioco la determinazione della politica nazionale[37].
Soltanto con l’istituzione delle Regioni ordinarie la dinamica politica
“centripeta” dello stato di partiti subì un’attenuazione. Accadde infatti che
le articolazioni regionali e locali di partiti che a livello nazionale si
combattevano formassero insieme dei governi di coalizione. Tuttavia, si
trattava soltanto di eccezioni, di scostamenti tutto sommato marginali rispetto
ad un baricentro che rimaneva saldamente fissato nella dimensione nazionale
della politica partitica.
Ciò era confermato dal modo in cui la
giurisprudenza costituzionale intendeva il rapporto tra rappresentanza politica
nazionale e rappresentanza politica regionale e locale. Ancora nel 1981
Il nuovo art. 114 riflette una concezione, ed
una situazione, costituzionale radicalmente diversa. L’unità politica delle
forze partitiche su tutto il territorio nazionale – secondo uno schema
gerarchico e centralistico che trovava, ad esempio, una rappresentazione
perfetta in quel metodo del “centralismo democratico” in uso nel vecchio PCI –
è definitivamente spezzata dalla moltiplicazione e “parificazione” dei livelli
istituzionali di governo: in un certo senso, questi aggiungono e sovrappongono
la loro azione politica a quella dei partiti tradizionali, determinando un
intreccio complesso e polidirezionale di indirizzi e processi decisionali[39].
La giurisprudenza costituzionale non rimane
indifferente rispetto a questi sviluppi. Nelle sentenze n. 106 e 306 del 2002
L’esito dottrinale cui approda
Sintomatico di questo processo è anche
l’irresistibile emersione del principio di sussidiarietà.
Essa, infatti, esprime il criterio generale di
riarticolazione della costituzione dei poteri. Nella versione “verticale” è il
collante di un’organizzazione costituzionale multilevel. E’ ciò che tiene assieme i pezzi di una costituzione
reticolare. La sua ratio è la
moltiplicazione delle istituzioni politico-rappresentative e, insieme, la
pluralizzazione dei microsistemi delle fonti. La sua funzione è governare il
sistema dei rapporti tra i diversi livelli di governo, prescindendo da moduli
gerarchici e da congegni competenziali rigidi[41].
Così come la ragionevolezza è il tratto che accomuna le pratiche giuridiche che
si parametrano ai principi costituzionali di giustizia espressi in forma di
diritti, analogamente la sussidiarietà è la cifra espressiva delle dinamiche
interne agli assetti costituzionali di potere. La sussidiarietà è per la
“costituzione dei poteri” quello che la ragionevolezza è per la “costituzione
dei diritti”[42].
La rappresentazione teorica dell’esperienza
costituzionale dell’Italia repubblicana non può essere insensibile al
trascorrere degli eventi ed ai mutamenti di contesto. Il discorso teorico sulla
validità e normatività di un testo costituzionale deve continuamente aggiornare
categorie e formule. Senza la considerazione adeguata di una prospettiva
diacronica, il rischio è quello di non riuscire ad individuare le basi
materiali della prescrittività costituzionale.
Anche se
i partiti politici esistono ancora – e sarebbe forse sbagliato prevederne o, il
che è peggio, auspicarne la scomparsa – le formule dello Stato di partiti e del compromesso
costituzionale interpartitico non rappresentano l’essenza del
costituzionalismo democratico-pluralista nella condizione presente.
Si
impone perciò la ricerca di nuovi paradigmi; ma anche la disponibilità costante
a riconoscerne la strutturale imperfezione e quindi a rivederli e riformularli;
o, se del caso, ad abbandonarli, ogni volta che si è colti dal sospetto che
l’esperienza ne stia vanificando la capacità di presa. Del resto, viviamo un
paradosso evidente: se da una parte necessitiamo di modelli teorici sempre più
precisi, che in modo netto diano conto di tendenze e sviluppi, dall’altra si
deve pure prendere atto che la realtà costituzionale – come del resto qualsiasi
realtà – oppone sempre linee di
resistenza ai tentativi di categorizzarne il senso generale.
* Questo lavoro
è destinato agli Scritti in onore di Alessandro Pizzorusso.
[1] Nel diritto pubblico europeo a cavallo tra i secoli XIX e XX la
costituzione è normativa ma priva di un valore superiore rispetto alla legge: “è
una legge come qualsiasi altra” secondo V.E. Orlando,
Teoria giuridica delle guarentigie della
libertà, in Biblioteca di Scienze
politiche, Torino 1890, 955. Ma vedi anche P. Laband, Das Staatsrecht
des deutschen Reiches, II, Tubingen 1911, 39 ss.; G. Saredo, Trattato delle leggi, Firenze 1866, 140 ss.; R. Carré de Malberg ,
[2] R. Alexy,
Begriff und Geltung des Rechts,
Freiburg im Breisgau-Munchen 1992, trad. ital. Concetto e validità del diritto, Torino 1997, 3 ss.
[3] Per un approfondimento di questa tematica rinvio a O. Chessa, Libertà fondamentali e teoria costituzionale, Milano 2002, 259 ss.
[4] E’ lo stesso M. Weber, Wirtschaft und
Gesellschaft, trad. ital. Economia e società (a cura di P. Rossi),
Milano 1980, III,
[5] H.
Heller, Staatslehre,
Leiden 1934, trad. ital. Dottrina dello Stato, Napoli 1988, 342. E
infatti «la pretesa, che ogni potere statale solleva di essere un potere
giuridico è una necessità vitale: questo comporta però, non solo che esso operi
come un potere conforme alla tecnica giuridica, ma che valga come autorità
legittima, in grado di vincolare la coscienza anche eticamente. Ed esso non può
fondare la legittimità etica della sua pretesa al supremo sacrificio e del suo
potere coercitivo richiamandosi soltanto alla necessità della propria funzione
sociale sul territorio. Questa funzione sociale, infatti, può rendere
comprensibile e spiegare perché lo stato esiste come istituzione, non può mai
invece legittimare l’esistenza dell’istituzione statale o, addirittura, questo
stato concreto». Su questa tematica della dottrina helleriana vedi M. Dogliani, Introduzione al diritto costituzionale, Bologna 1994, 297 ss.; P. Pinna, La costituzione e la giustizia costituzionale, Torino 1999, 78 ss.;
A. Spadaro, La transizione costituzionale. Ambiguità e polivalenza di un’importante
nozione di teoria generale, in AA.VV. (a cura di A. Spadaro), Le “trasformazioni” costituzionali nell’età
della transizione, Torino 2000, 33 ss.; G. Volpe,
Il costituzionalismo del Novecento,
Roma-Bari 2000, pag. 178 ss.
[9] G. Volpe, Il costituzionalismo del Novecento,
cit., 179, scrive che secondo Heller “scopo dello Stato (giusto) è di
trasformare questi principi idealmente validi in norme giuridiche positive
socialmente valide, scegliendo, sulla base delle specifiche situazioni spaziali,
temporali e personali, tra le possibili diverse concretizzazioni del loro
generale e indeterminato contenuto”. Col risultato che, come scrive lo stesso
H. Heller, Die Souveränität. Ein Beitrag zur Theorie des Staats und
Völkerrechts, Berlin und Leipzig
1927, trad. ital. La sovranità ed altri scritti sulla dottrina del diritto e dello
Stato, Milano 1987, 113, “la positività del diritto
ha il fondamento dunque da un lato nell’idealità dei principi giuridici,
dall’altro nella fattualità sociale di un’unità volontaria che decide in ultima
istanza e positivizza la norma (…). La forza d’obbligo del diritto positivo può
essere compresa soltanto come derivante contemporaneamente da un principio
etico-giuridico e dall’autorità esistente nella comunità”.
[10] C. Mortati,
[12] Secondo M. Fioravanti,
Le dottrine dello stato e della
costituzione, in AA.VV. (a cura di Romanelli), Storia dello stato italiano, Roma 1995, 420, «la dottrina della
costituzione in senso materiale riesce ad esprimere in modo efficace il momento
in cui le forze politiche divengono veri fattori costituenti, disciplinando gli
interessi in gioco, e riconducendoli entro un progetto comune definito
attraverso la scelta di determinati valori e principi».
[13] Se letto alla luce dell’alternativa tra la costituzione come
“norma giuridica” e la costituzione come “documento politico” che A. Pizzorusso illustra ne La costituzione ferita, Roma-Bari 1999
(cap. II; ma in relazione alle vicende relative alla prima fase dell’esperienza
costituzionale repubblicana vedi anche il cap. I, dal significativo titolo:
“L’uso politico della Costituzione nella storia italiana dei secoli XIX e XX”),
il modello della connessione indiretta
risponde, per certi versi, al secondo dei due corni.
[14] Rispettivamente, “stato pluralistico di partiti” e “stato di
partito”, cioè “stato a partito unico”. Su questa trasformazione, vedi, per
tutti, C. Schmitt, Der Hüter der Verfassung, Berlin 1931,
trad. ital. Il custode della costituzione,
Milano 1981, 124 ss.
[16] Sul passaggio dalla concezione “societaria” del partito politico
(tipica dell’età liberale) a quella “istituzionale” dello Stato di partiti,
vedi M. Fioravanti, Costituzione e popolo sovrano, Bologna
1998, 70 ss.
[18] Il punto viene espresso da M.
Luciani, Il paradigma della rappresentanza
di fronte alla crisi del rappresentato, in AA.VV. (a cura di N. Zanon e F.
Biondi), Percorsi e vicende attuali della
rappresentanza e della responsabilità politica, Milano 2001, 109 ss.,
spec.117, con la formula della «crisi del rappresentato», la quale esprime
precisamente «la perdita delle identità collettive e (addirittura) individuali;
lo smarrimento del senso del legame sociale; la volatilità dei ruoli sociali»:
tutti fenomeni, questi, che rendono «problematica la stessa identificazione del
soggetto da rappresentare».
[19] Su cui vedi S. Bartole,
[20] Infatti, il «consenso per intersezione» (overlapping consensus) di cui parla J.
Rawls, Political Liberalism
(1993), trad. ital. Liberalismo politico,
Milano 1994, 130, non esprime una situazione di equilibrio negoziale tra forze
contrapposte: «la sua forma e il suo contenuto, cioè, non sono influenzati dai
rapporti politici di forza esistenti fra dottrine comprensive. Né i suoi
principi realizzano un compromesso fra quelle dominanti». Per una discussione
più approfondita del concetto di «consenso per intersezione» in relazione a
problemi di teoria costituzionale, mi sia concesso rinviare a O. Chessa, Libertà fondamentali e teoria costituzionale, cit., 280 ss.
[21] Secondo R. Alexy, Concetto e validità del diritto, cit.,
74, la «incorporazione» di principi di giustizia nella costituzione «vale per
tutti i sistemi giuridici di tipo democratico e di Stato di diritto».
[25] Non a caso su questa disposizione si appunteranno gli strali
polemici dell’allievo di Carl Schmitt, E.
Forsthoff, Rechtsstaat im wandel (1964),
trad. ital. Stato di diritto in
trasformazione, Milano 1973, 235 ss., spec. 245, convinto che esso preluda
alla «disintegrazione dello stato di diritto ad opera dello stato di
giustizia».
[26] Secondo G. Zagrebelsky,
Introduzione a R. Alexy, Concetto e validità del diritto, cit., XIX, nell’esperienza
costituzionale attuale «il diritto non è più solo la legge statuita ma è
diventato la fusione della legge con indipendenti principi di giustizia.
Secondo una formula famosa di Erich Kaufmann, lo Stato è padrone della legge,
non del diritto. Il diritto, infatti, è la legge che si fonde con i principi di
giustizia che le costituzioni attuali proclamano con abbondanza». Al di là dei
casi di applicazione giudiziale diretta della costituzione alle fattispecie
concrete per le quali non vi siano regole legislative, questo fenomeno di
“fusione”, di “saldatura” tra precetti legislativi e precetti costituzionali
(formulati in termini di “principi”) è evidente soprattutto in riferimento alla
“interpretazione adeguatrice”.
[27] Le uniche eccezioni si danno solamente quando gli elementi
normativi desumibili dalla legge coincidono esattamente con quelli desumibili
dalla costituzione –ad esempio: una regola legislativa che concretizza un
principio costituzionale e che si applica ad un fatto in cui non vengono in
rilievo interessi costituzionali diversi da quelli coperti dal suddetto principio-
ovvero quando l’ambito della regolazione legislativa insiste su uno “spazio
costituzionale neutro”. Fuori da queste ipotesi, il giudice dovrebbe
normalmente ricercare la soluzione dei casi combinando la legge con la
costituzione. Ovviamente la “saldatura” non sarà possibile qualora il giudice
si convinca della impossibilità di ricavare dalle disposizioni legislative e
costituzionali contenuti normativi che non siano logicamente incompatibili. I
testi, la “scrittura” non sono nulla, e costituiscono pur sempre un limite
ultimo e insuperabile. In tal caso, se il sindacato di costituzionalità è
accentrato, si solleverà la questione di legittimità costituzionale di fronte
alla Corte costituzionale ovvero si provvederà direttamente a disapplicare la
legge refrattaria alla saldatura interpretativa con la costituzione, se il
sindacato è diffuso.
[28] Sull’interpretazione per principi, vedi per tutti G. Zagrebelsky, Il diritto mite,
[30] Contra vedi A. Pace, Metodi interpretativi e costituzionalismo, in Quad. cost. 2001, 59 (anche nt. 85), il quale, soprattutto in
riferimento alle pratiche di bilanciamento e alla ragionevolezza, scrive che
trattasi di «linguaggio (…) e tecniche di decisione che sono ormai abituali per
[31] Secondo R. Bin, L’ultima fortezza. Teoria della costituzione
e conflitti di attribuzione, Milano 1996, 128, «i giudici, essendo la
cerniera tra società e stato, si trovano con gran frequenza a reagire contro i
tentativi del potere politico di paralizzare gli strumenti di cui dispongono
per presidiare la linea di separazione tra stato e società civile. I giudici
non appartengono – per definizione, verrebbe da dire – al novero dei poteri
“politici”, e quando agiscono a tutela delle loro prerogative agiscono sempre,
in fondo per ribadire i limiti del potere politico e la resistenza delle regole
giuridiche. In questo, essi svolgono una
funzione omogenea rispetto al giudizio della Corte costituzionale (corsivo
mio)». Il vero problema è semmai rappresentato da quest’ultima affermazione (in
corsivo): se l’omogeneità tra giudici e Corte è ormai un dato quasi di comune
esperienza, almeno per i costituzionalisti, che cosa differenzia, sotto il
profilo sostanziale, il ruolo della Corte? Se sono i giudici l’istituzione
“contromaggioritaria”, quale funzione residua alla Corte?
[32] Secondo la ricostruzione proposta da L. D’Andrea, Contributo
ad uno studio sul principio di ragionevolezza nell’ordinamento costituzionale,
Milano 2000 (ed. provv.).
[33] Secondo la nota formula di F.
Modugno, L’invalidità della legge.
Teoria della costituzione e parametro del giudizio costituzionale, I,
Milano 1970, XI.
[34] La raffigurazione in termini “reticolari” dell’attuale situazione
costituzionale è di P. Pinna, La costituzione e la giustizia
costituzionale, cit., 97 ss., spec. 98 e 99. Mentre l’immagine della
“costituzione multilivello” (Multilevel
constitution) è, come noto, di I.
Pernice, Multilevel
constitutionalism and the treaty of Amsterdam: European contitution-making
revisited?, in Common Market Law
Review 1999, 703 ss. Utilizza entrambe le immagini S. Cassese, La crisi
dello Stato, Roma-Bari 2002, 64, quando descrive l’attuale assetto dei
poteri pubblici come un «ordinamento su più livelli e a rete», perché «alla
moltiplicazione dei poteri pubblici non ha fatto riscontro una loro
gerarchizzazione (…) ruoli, compiti e posizioni sono solo parzialmente definiti;
(e) non vi sono chiare linee di confine per aree e materie, ma interdipendenza
strutturale e funzionale».
[35] Tanto da costituire il vero motore dell’integrazione
costituzionale europea. Sul punto si rinvia a O.
Chessa, La tutela dei diritti oltre lo Stato. Fra “diritto internazionale dei
diritti umani” e “integrazione costituzionale europea”, in R. Nania e P. Ridola (a cura di), I diritti costituzionali, I, Torino
2001, pag. 89 e segg., spec.pag. 106 e segg.
[36] L’espressione è di M.
Cammelli, Amministrazione (e
interpreti) davanti al nuovo Titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2001, 1274.
[37] «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in
partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica
nazionale».
[38] È la n. 35. Ma vedi pure le più risalenti sentenze n. 110 del
1970, dove si afferma che «l’analogia tra le attribuzioni delle assemblee
regionali e quelle delle assemblee parlamentari non significa identità e non
toglie che le prime si svolgono a livello di autonomia, anche se
costituzionalmente garantita, le seconde, invece, a livello di sovranità»; e n.
66 del 1964, dove si precisa che «l’Assemblea regionale siciliana non può
essere parificata alle Camere, né sotto il profilo della equivalenza degli atti
legislativi, né sotto quella della cosiddetta attività di indirizzo politico».
[39] In questo scenario, è naturale assistere alla pluralizzazione e
differenziazione delle politiche pubbliche su base territoriale, dal momento
che ciascun livello di governo persegue un proprio indirizzo legittimato dal
voto popolare. Certo, è statisticamente improbabile che i comportamenti
elettorali non si manifestino in modo omogeneo in relazione ai diversi livelli
di governo: ad esempio, se le elezioni regionali e comunali sono contestuali è
difficile che l’elettore sostenga una certa maggioranza in un caso e
l’orientamento opposto nell’altro. Anche se improbabile, tuttavia non è
impossibile, tanto più se le elezioni non sono contestuali e, quindi, non
soggette ad un qualche meccanismo di trascinamento delle preferenze elettorali.
Del resto, questo multilevel system of
government si regge proprio sulla possibilità di differenziare il voto e
quindi il giudizio sulle politiche dei diversi livelli di governo. Come
elettore del government nazionale
posso essere interessato all’offerta politica del partito o della coalizione X, mentre come elettore regionale (o
comunale o provinciale) posso trovare più allettante le proposte del partito o
della coalizione Y. È come se il “livello
variabile degli interessi” si riflettesse nelle scelte elettorali, ora
orientandole in un senso ora nell’altro. In altre parole, al voto identitario che caratterizzava lo stato
di partiti ora si sostituisce il voto come giudizio
sulle politiche.
[40] La rappresentanza –cioè il rendere “presente” ciò che è “assente”-
non postula l’unità, l’omogeneità, l’identità compatta del “rappresentato” o
della sua volontà. Bensì la disponibilità e l’idoneità di questo a farsi
ridurre in unità. Questo processo rappresentativo, questo sostituire l’assenza
con una “presenza”, e così facendo creare un’unità politica, non è possibile se
ciò che si vuole rappresentare è intrinsecamente ed irriducibilmente
molteplice, se è variamente ed esasperatamente articolato. Di fronte a quella
che M. Luciani, Il paradigma della rappresentanza di fronte
alla crisi del rappresentato, cit., 117, chiama la «crisi del
rappresentato» non basta una sola sede rappresentativa, ma ne occorrono
diverse. In definitiva, è il pluralismo complesso di un assetto sociale
fortemente frammentato ed articolato a produrre la disarticolazione della
rappresentanza politica. Tale pluralismo non tollera un unico centro di
riferimento rappresentativo; cioè che in un unico punto si concentri la
ricchezza, la varietà di composizione della sua strutturazione interna. Secondo
P. Pinna, Il diritto costituzionale della Sardegna, cit., 127, «l’accentuata
tendenza integrativa delle costituzioni della democrazia pluralistica ha
trovato nella diffusione reticolare del potere un modo più adeguato
dell’assemblea elettiva centrale per rappresentare la molteplicità sociale e
politica (…) siccome non c’è più un centro, la rappresentanza pluralistica è
oggi assicurata soprattutto da un sistema istituzionale tanto complesso e dinamico
quasi quanto la società che rappresenta».
[41] Per un approfondimento di queste tesi rinvio a O. Chessa, La sussidiarietà (verticale) come “precetto di ottimizzazione” e come
criterio ordinatore, in Diritto
pubblico comparato ed europeo, IV, 2002, 1442 ss. e Id., Sussidiarietà ed
istanze unitarie: modelli giurisprudenziali e modelli teorici a confronto,
in corso di pubblicazione ne Le regioni,
2004.
[42] Ciò a dimostrazione del fatto che l’argomentazione costituzionale
“per principi” pervade ormai tutte le partizioni della regolazione
costituzionale, non solo quelle relative ai diritti. Sulla sussidiarietà come
norma-principio rinvio a O. Chessa,
La sussidiarietà (verticale) come
“precetto di ottimizzazione” e come criterio ordinatore, cit.