Università di Sassari
Sommario: 1. Gli strumenti giuridici di attuazione: posizioni comuni e azioni
comuni. – 2. Le azioni statali unilaterali
degli Stati membri alla luce del Trattato sull’Unione europea. – 3. La funzione «conciliativa». – 4. Le missioni di aiuto umanitario,
le missioni di soccorso e le operazioni di gestione delle crisi. – 5. L’adozione di misure sanzionatorie
di tipo economico. – 6. Il finanziamento delle operazioni
di pace.
1. – Gli strumenti giuridici di attuazione: posizioni comuni
e azioni comuni
Per perseguire gli obiettivi della PESC, uno dei quali,
come si è sottolineato, è il mantenimento della pace, sono previste due
procedure: 1) la cooperazione sistematica tra gli Stati membri per la condotta
della loro politica e la definizione di una posizione comune; 2) l’adozione di
azioni comuni.
Il Trattato sull’Unione europea omette di definire l’azione
e la posizione comune, limitandosi a delineare la procedura per l’adozione
delle medesime. La posizione comune costituisce uno strumento della cooperazione
sistematica tra gli Stati membri di cui all’art. 11 par. 3 del Trattato, che si
affianca alle tradizionali dichiarazioni e comunicati stampa. In particolare,
in base all’art. 15, il Consiglio può definire, all’unanimità, posizioni comuni
quando lo ritiene giustificato. In tale ipotesi, gli Stati membri devono
provvedere a conformare le loro politiche nazionali alla posizione comune.
Più articolata si presenta la disciplina delle azioni
comuni, cui è dedicato l’art. 14. Preliminarmente, il Consiglio europeo
stabilisce quali settori possano costituire oggetto di un’azione comune[1]; in seguito, il
Consiglio dei Ministri ne determina la portata precisa, gli obiettivi, i mezzi,
le condizioni e le procedure. A differenza di quanto avveniva nel contesto
della cooperazione politica europea, dove vigeva la regola del consensus, la decisione viene
presa all’unanimità, con voto palese[2]. Decisioni a
maggioranza qualificata sono possibili relativamente a determinate questioni,
solo se il Consiglio delibera all’unanimità in tal senso. Le azioni comuni sono
vincolanti per gli Stati membri, che hanno anche l’obbligo di informare il
Consiglio di ogni azione sul piano nazionale. È prevista anche l’ipotesi di azioni
unilaterali dello Stato, in caso di urgenza e in presenza di una inattività del
Consiglio, nonché una clausola di opting
out non automatico per lo Stato in difficoltà nell’applicazione dell’azione
comune.
Il Consiglio, nel silenzio del Trattato, ha scelto di
adottare posizioni comuni e azioni comuni nella forma di decisioni. Benché
queste ultime siano atti diversi dalle decisioni di cui all’art. 249 CE
all’art. 15 CECA e all’art. 161 CEEA, in quanto non adottati secondo le
procedure previste dai Trattati comunitari[3], posizioni comuni e
azioni comuni sono caratterizzate dal fatto di essere entrambe strumenti per il
perseguimento dei medesimi obiettivi, quali definiti all’art. 11.1; anzi,
qualsiasi questione in cui acquistino rilievo importanti interessi in comune
può costituire oggetto di una decisione PESC. Viene così superata la
distinzione tra aspetti economici della sicurezza, compresi nella CPE, e
aspetti militari della sicurezza e difesa, esclusi dalla concertazione[4]: qualunque questione
può ora costituire oggetto di decisione PESC[5].
La differenza tra posizioni e azioni comuni deve essere
rinvenuta nelle caratteristiche peculiari, quali emergono non già dal Trattato,
ma dalla prassi. Dalla circostanza che solo l’adozione dell’azione comune deve
essere preceduta da una deliberazione del Consiglio europeo, discende che la
posizione comune è lo strumento più idoneo a fronteggiare situazioni di crisi
improvvisa, oppure a delineare la posizione di massima dell’Unione e degli
Stati membri, nell’attesa che una più approfondita analisi politica suggerisca
ulteriori e più articolati provvedimenti. Le posizioni comuni tendono a
tratteggiare la linea di condotta di Stati e Unione, lasciando quindi
all’iniziativa dei singoli soggetti il compito di definire le modalità
attraverso cui realizzare gli obiettivi perseguiti. Ne è un esempio l’azione in
materia di sicurezza, volta a rafforzare il meccanismo internazionale di
controllo dell’uso di certe armi.
È con le azioni comuni che l’Unione svolge un ruolo
operativo, intervenendo sulla scena internazionale con gli strumenti di
pressione politica che le sono propri. Con l’azione comune l’Unione può quindi
decidere di sollecitare l’organizzazione di una conferenza in materia, ma è
attraverso posizioni comuni relative ad aspetti specifici che gli Stati sono
stati invitati ad agire nel senso voluto dall’Unione. La dimensione operativa
propria delle azioni comuni si traduce anche nella nomina di inviati nelle
regioni teatro di crisi. In linea di massima è con azioni comuni che vengono
assunti impegni finanziari; con alcune eccezioni[6], la prassi si è sempre
orientata in questo senso. In questo settore l’Unione provvede
alternativamente, destinando somme alla realizzazione di un certo obiettivo,
oppure assumendosi l’onere delle spese che deriveranno da una certa attività.
Sempre molto analitiche sono le disposizioni relative all’utilizzo dei fondi,
sia per quanto attiene alle modalità di spesa, sia in relazione agli obiettivi
da perseguire. Nella maggioranza dei casi le spese sono poste a carico del
bilancio generale della Comunità[7].
Le azioni e le posizioni comuni costituiscono un
presupposto indispensabile per l’azione comunitaria in tema di attuazione di
misure economiche, che costituiscono l’espressione più concreta offerta
dall’Unione europea nell’ambito del mantenimento della pace. Occorre fare
riferimento a tale proposito all’art. 301, che si riferisce a posizioni comuni e ad azioni comuni come
presupposto per l’adozione di un atto comunitario che interrompa o riduca le relazioni
economiche con uno Stato terzo. Detto articolo stabilisce, infatti, che «quando
una posizione comune o un’azione comune adottata in virtù delle disposizioni
del trattato sull’Unione europea relative alla politica estera e di sicurezza
comune prevedano un’azione della Comunità per interrompere o ridurre
parzialmente o totalmente le relazioni economiche con uno o più paesi terzi, il
Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata su proposta della Commissione,
prende le misure urgenti necessarie».
I regolamenti comunitari fondati su questa norma sono stati
fino a oggi preceduti sempre da una posizione comune. In particolare, tali
provvedimenti, estremamente succinti nel contenuto, si limitano a stabilire che
le relazioni economiche con un dato Stato terzo devono essere modificate in
conformità con le disposizioni delle risoluzioni adottate dal Consiglio di
Sicurezza, espressamente citate[8]. Bisogna ricordare,
però, che altre misure motivate dalla condotta politica di un paese terzo sono
state decise con posizione comune, ma non attuate con atto comunitario ex art. 301. Si tratta, da un lato, di
alcune misure che non incidono sugli scambi, bensì attengono alle relazioni
diplomatiche e alla circolazione delle persone, quali il diniego dei visti di
ingresso a persone appartenenti a governi invisi, o la riduzione del personale
diplomatico e militare[9], materie rientranti
nella competenza degli Stati membri; e, dall’altra, di provvedimenti relativi
alle esportazioni di armi[10], che tradizionalmente
fuoriescono dalla competenza comunitaria e sono sempre stati attuati dagli
Stati membri. In particolare, le decisioni in materia di armi finora adottate
si caratterizzano non solo, come già accennato, in quanto sono eseguite dagli
Stati e non dalla Comunità, ma perché costituiscono iniziative autonome
dell’Unione.
La prassi ha mostrato un favore per le posizioni comuni
come atti PESC propedeutici all’adozione di sanzioni, nonostante il richiamo
contenuto nell’art. 301 alle azioni comuni.
Sulla base di quanto sopra esposto
sembra di poter concludere che la posizione comune sia la più adatta a decidere
la riduzione o l’interruzione delle relazioni economiche, sia perché la
rapidità è un elemento essenziale per la riuscita delle sanzioni, sia perché
l’Unione non può agire direttamente, essendo priva di mezzi, ma deve servirsi
della Comunità o degli Stati membri a seconda del contenuto della misura.
Diverso è il caso delle strategie comuni, che costituiscono
la maggiore novità dell’art. 12 e sono disciplinate nell’art. 13 del TUE. Esse,
infatti, possono essere decise solo nei settori in cui gli Stati hanno
importanti interessi in comune, hanno carattere cogente e fissano gli
«obiettivi, la durata nonché i mezzi che l’Unione e gli Stati membri devono
mettere a disposizione». Questi atti però non sono immediatamente efficaci,
poiché necessitano di una successiva attuazione da parte del Consiglio. È
evidente peraltro che, quanto più le strategie comuni saranno dettagliate,
tanto minore risulterà la discrezionalità politica di quest’ultimo, con la
conseguenza di uno spostamento del potere di indirizzo politico e decisionale a
favore dell’organo intergovernativo[11]. Secondo quanto emerge
dai lavori preparatori, le strategie comuni avrebbero lo scopo principale di
rinforzare il potere di direzione del Consiglio europeo, permettendogli di
adottare anche degli atti vincolanti. Secondo alcuni autori[12], in realtà, la
strategia comune si distinguerebbe dall’azione comune esclusivamente per
l’organo (il Consiglio europeo), che la adotta. Le maggiori perplessità
sollevate da tali atti hanno riguardato l’aspetto dell’utilità stessa delle
strategie, quali mezzi per razionalizzare e rendere più effettiva
Ultimo strumento e in un certo senso residuale rispetto a
quelli sopra enunciati è la cooperazione rafforzata, che introdotta con il
Trattato di Amsterdam ha subito alcune modifiche con il Trattato di Nizza.
Mentre rimane l’astensione motivata, sono state aggiunte anche delle
disposizioni relative alla cooperazione rafforzata, per rendere più facile, da
un lato l’adozione degli atti (azioni e posizioni comuni) e, dall’altro, più
flessibile l’ambito di operatività degli stessi. La cooperazione rafforzata,
che riguarda tutti gli articoli relativi alla PESC, presenta però un duplice
limite materiale, in quanto essa riguarda esclusivamente l’attuazione di azioni
e posizioni comuni, ed inoltre non può riguardare le questioni aventi
implicazioni militari o nel settore della difesa, salvo quanto disposto
dall’art. 17 comma 4 ai sensi del quale le disposizioni ivi contenute» non
ostano allo sviluppo di una cooperazione rafforzata tra due o più stati membri
a livello bilaterale, nell’ambito dell’UEO e della Alleanza Atlantica». Si ha
una sorta di doppio regime sulla cooperazione rafforzata: uno generale
disciplinato dagli art. 27 A-E, l’altro relativo alla difesa, per il quale
«vige un’autorizzazione preventiva e che, quindi, appare in realtà molto più
liberale»[15].
2. – Le azioni statali unilaterali degli Stati membri alla luce
dell’art. 297 del Trattato CE
Le
diverse modifiche apportate, nel corso degli anni, al Trattato istitutivo della
CE hanno lasciato inalterato il disposto dell’art. 297 del Trattato CE (ex art.
224), nonostante l’introduzione di una competenza dell’Unione nel settore del
mantenimento della pace. Tale articolo stabilisce che «gli Stati membri si
consultano al fine di prendere di comune accordo le disposizioni necessarie ad
evitare che il funzionamento del mercato comune abbia a risentire delle misure
che uno Stato membro può essere indotto a prendere nell’eventualità di gravi
agitazioni interne che turbino l’ordine pubblico, in caso di guerra o di grave
tensione internazionale che costituisca una minaccia di guerra ovvero per far
fronte agli impegni da esso assunti ai fini del mantenimento della pace e della
sicurezza internazionale»[16].
Come hanno sottolineato
i commentatori del Trattato CEE[17], abbiamo, da un lato, una clausola di salvaguardia che
consente direttamente agli Stati di adottare, senza necessità di un previo
intervento della Commissione, al di là dei limiti derivanti dalle regole
generali del Trattato, tutte le misure necessarie per far fronte alle
situazioni o agli impegni ivi contemplati, dall’altra ritroviamo un obbligo di
consultazione comune fra gli Stati membri in relazione a tali contingenze,
avente per oggetto l’adozione da parte di essi delle disposizioni necessarie ad
assicurare che il Mercato comune continui a funzionare regolarmente[18].
La
norma prevede, inoltre, che la consultazione abbia luogo in un momento
anteriore rispetto all’adozione delle misure in questione.
È perciò doveroso che
ogni Stato che si trovi in una delle situazioni contemplate dalla norma,
nell’adottare delle misure suscettibili di ripercuotersi sfavorevolmente sul
funzionamento del mercato comune informi previamente gli altri Stati membri.
Tale obbligo di previa
consultazione non significa che sia necessario l’accordo unanime degli altri
Stati membri perché lo Stato interessato possa adottare le misure suddette.
L’obbligo non sussiste quando vi siano ragioni di urgenza o di segretezza che
giustifichino l’adozione di misure eccezionali[19].
In base alla lettera
della norma, quindi, gli Stati membri si consultano, non in seno al Consiglio,
organo comunitario, bensì nell’ambito di una Conferenza a livello
internazionale, appositamente convocata. Niente tuttavia potrebbe opporsi a che
gli Stati, per ragioni procedurali, preferiscano effettuare tale consultazione
avvalendosi dei loro rappresentanti in seno al Consiglio.
La
questione è di particolare interesse, in considerazione della diversa natura
giuridica e portata degli atti adottati dai rappresentanti degli Stati
riunitisi in una Conferenza a livello internazionale, nonché delle misure da
essi prese in quanto componenti del Consiglio. Solo in questa seconda ipotesi
siamo in presenza di atti che avranno efficacia in tutta
Poiché la clausola di
salvaguardia è applicabile, come abbiamo visto, in caso di guerra o di grave
tensione internazionale, è sufficiente anche una minaccia di guerra risultante
da un grave stato di tensione fra lo Stato membro in questione e Stati terzi.
In presenza di tali
situazioni, nell’eventualità che manchi un accordo unanime tra gli Stati
membri, è ben possibile che per controbilanciare gli effetti negativi i singoli
Stati membri danneggiati agiscano attraverso azioni unilaterali.
Il Trattato di Nizza,
come già accennato, ha lasciato immutato l’art. 297. Scarse indicazioni sulla
portata della norma vengono sia dalla prassi diplomatica[20], che dalla giurisprudenza[21]: quest’ultima desume come l’art. 297 sia un’ipotesi
eccezionale, chiaramente delimitata, che non si presta ad un’interpretazione
estensiva.
Prima dell’adozione
dell’art. 301, taluni autori che negavano la legittimità del ricorso alla
politica commerciale comune a fini sanzionatori, propendevano per un ricorso
all’art. 297 ai fini dell’adozione delle misure di embargo, nel senso che gli Stati membri, consultandosi in
quell’ambito, potevano decidere il ricorso allo strumento comunitario come
mezzo per realizzare il fine perseguito[22].
Successivamente la
dottrina ha espresso al riguardo opinioni diverse.
Alcuni autori hanno
riservato un ruolo molto limitato all’art. 297, riconoscendo ai singoli Stati
«to act on its remaining core of sovereignty»[23], sia pure limitatamente, ad avviso di parti della
dottrina, nella sola ipotesi di inerzia dell’Unione[24].
Altri autori hanno
previsto il ricorso a misure unilaterali ex
art. 297 per quanto riguarda l’adempimento degli obblighi relativi al
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale[25].
Diverso il pensiero di
quegli autori che, in assenza di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza e
nell’inerzia delle istituzioni, hanno ritenuto che nessuna misura statale possa
essere adottata, eccetto che nel settore dei pagamenti e movimenti di capitale;
in presenza di una risoluzione delle N.U., la competenza spetta alle
Istituzioni, tuttavia gli Stati membri possono invocare l’art. 297 per
procedere unilateralmente nel settore dei pagamenti e dei movimenti di capitale[26].
A nostro avviso è
possibile concordare con quanti hanno affermato che l’art. 297 conserva un suo
ambito di applicazione; nel senso che si può ritenere che all’art. 297 «sia
legittimo ricorrere, in via residuale, in assenza di una decisione comunitaria:
la competenza statale è destinata a soccombere di fronte ad un intervento della
Comunità»[27].
L’art. 297 dovrebbe
trovare applicazione nel caso in cui la stessa decisione PESC imponga agli
Stati di agire. Tuttavia gli Stati membri nel darvi attuazione non possono
ricorrere a misure che pregiudichino il funzionamento del mercato e, a tal
fine, come abbiamo detto, devono consultarsi.
Inoltre, una ulteriore
ipotesi potrebbe verificarsi quando una decisione PESC non sia stata raggiunta
per mancanza della necessaria unanimità o qualora sia mancata la volontà di
adottare sia una misura comunitaria, sia misure statali coordinate. Gli Stati
membri dovrebbero allora essere liberi di agire unilateralmente, nel rispetto,
però, dell’obbligo di collaborazione di cui all’art. 11, che nel caso di specie
si trasfonde nell’art. 297.
Il ricorso all’art. 297
dovrebbe, comunque, essere eccezionale rispetto alla sempre preferibile azione
comunitaria. A riprova di tale affermazione si può invocare sia il fatto che
l’Unione deve assicurare la coerenza della sua azione esterna (coerenza che si
realizza essenzialmente attraverso comportamenti conformi), sia l’obbligo
gravante sugli Stati membri, in forza del principio di lealtà di cui all’art.
11 del Trattato sull’Unione, di facilitare
È opportuno accennare
da ultimo a come l’eventuale dissenso di uno Stato possa influire sull’adozione
di misure comunitarie.
La valutazione del
comportamento dello Stato membro è diversa a seconda del momento in cui esso
viene in rilievo. Se l’opposizione emerge sin dal momento iniziale
dell’elaborazione della decisione PESC, costituirà un ostacolo all’adozione di
un atto che, come si è già ricordato, deve essere adottato all’unanimità.
Eventualmente, gli Stati favorevoli all’adozione di misure potranno agire sul
piano nazionale, salvo l’obbligo del rispetto dell’art. 297.
Per contro, se la
decisione PESC è già stata adottata, e il dissenso viene manifestato non già
sul principio dell’adozione di misure comunitarie, bensì sulle modalità
concrete in cui porle in essere, questo emergerà in seno al Consiglio che, in
base all’art. 301, deve votare a maggioranza qualificata. Possono a questo
proposito delinearsi due situazioni: o gli Stati dissenzienti riescono ad
impedire l’adozione dell’atto, oppure se i loro voti sono insufficienti a
bloccare l’atto ne saranno vincolati.
Nessuna norma
disciplina specificamente l’ulteriore aspetto di un’opposizione che emerga
successivamente all’adozione della posizione comune, a causa dell’intervenuto
dissenso di uno Stato. A differenza dell’ipotesi dell’adozione di azioni
comuni, non è, infatti, previsto un meccanismo per modificare la decisione
precedente. La risposta va allora trovata nei principi generali che regolano la
materia. L’art. 11 par. 4 stabilisce che gli Stati si impegnano a sostenere
attivamente l’Unione, e si astengono da ogni misura che possa porsi in
contrasto con l’azione della medesima. Di conseguenza, si deve escludere
l’ammissibilità di un’azione unilaterale dello Stato dissenziente[28].
3. – La funzione
«conciliativa»
Come abbiamo visto nel
Cap. I, nella nozione di funzione conciliativa rientrano i classici mezzi di
soluzione pacifica delle controversie, quali la mediazione, i negoziati, i
buoni uffici, l’inchiesta e la conciliazione, sia tutte quelle azioni che, pur
differenziandosi da tali istituti, hanno come fine quello di ristabilire la
pace in zone in cui si sono manifestati conflitti o forti tensioni, senza il
ricorso all’uso della forza, ma con il consenso delle parti direttamente coinvolte.
A differenza di quanto
si verifica il più delle volte nell’ambito degli Statuti di organizzazioni
internazionali, nei Trattati istitutivi della Comunità e dell’Unione europea
non si prevedono competenze specifiche al riguardo[29]. Ciò non esclude, peraltro, che l’Unione, qualora
insorgano controversie tra Stati membri suscettibili di mettere in pericolo la
pace e la sicurezza internazionale, possa occuparsene. Il processo di
integrazione ha raggiunto un livello tale che ben difficilmente l’Unione
potrebbe astenersi dall’intervenire se si dovesse verificare un caso del genere[30].
Per quanto riguarda la
partecipazione della Comunità e dell’Unione alla soluzione delle controversie
che possano sorgere tra Stati non membri, occorre accertare se nel diritto
internazionale esistono dei limiti ad un loro intervento.
Rispetto al diritto
internazionale generale è fondato affermare che l’eventualità dell’intervento
di un terzo, sia esso un individuo, uno Stato o una Organizzazione regionale,
volto a favorire l’accordo fra le parti, è certamente ammesso se le parti di
una controversia espressamente lo richiedono.
La funzione
conciliativa delle Organizzazioni internazionali si sviluppa attraverso le
stesse procedure che riguardano gli Stati, ma ha la caratteristica di svolgersi
all’interno di un quadro istituzionale. Ciò comporta che le procedure devono
essere conformi alle norme statutarie per poter dar vita ad atti produttivi di
effetti particolari. Generalmente tali atti si concretano in raccomandazioni,
ossia in atti che pur non avendo valore vincolante producono il c.d. effetto di
liceità[31].
Circa il diritto
pattizio, la stessa Carta delle Nazioni Unite all’art. 2 par. 3 stabilisce che
gli Stati membri hanno l’obbligo di risolvere le loro controversie con mezzi
pacifici precisando all’art. 33, par. 1 che «le parti di una controversia, la
cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo la pace e la
sicurezza internazionale, devono, anzitutto, perseguirne una soluzione mediante
negoziati, inchiesta, mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento
giudiziale, ricorso ad organizzazioni od accordi regionali, o altri mezzi
pacifici di loro scelta».
Una previa
autorizzazione da parte degli organi delle Nazioni Unite perché
un’Organizzazione possa mettere in atto una procedura conciliativa non è una
condizione necessaria per il suo perfezionamento, ma un coordinamento tra le
due Organizzazioni sarebbe quantomeno auspicabile.
Per quanto riguarda
Indicativo
al riguardo è il precedente della «guerra del Kippur» nel corso della quale gli
Stati membri avevano proposto i buoni uffici della Comunità per cercare di
arrivare ad una soluzione pacifica della controversia[34]. In un comunicato emanato il 13 ottobre del
Veniamo ora a due casi, entrambi relativi al conflitto
dell’ex-Jugoslavia, che hanno fatto
registrare i più incisivi tentativi di mediazione. Quando si verificarono i
primi scontri armati in Slovenia tra l’esercito nazionale jugoslavo e
l’esercito sloveno, sulla base di una decisione assunta nell’ambito CPE il 3
settembre 1991 furono inviati nella regione dei rappresentanti degli Stati
membri. A seguito dell’intervento europeo si arrivò alla firma dell’accordo di
Brioni, il 7 luglio 1991, nel quale veniva innanzitutto prevista sia la
sospensione della dichiarazione di indipendenza della Slovenia e della Croazia
per un periodo di tre mesi, sia il rispetto del cessate il fuoco. Era
stabilito, inoltre, che una missione di monitoraggio, costituita da personale
civile, privo di armi, dovesse esercitare un controllo sull’attuazione del
cessate il fuoco, svolgendo tale compito con totale imparzialità. Tale
missione, costituita il 13 luglio 1991, venne denominata «Community Monitor
Mission»[36]. Se da un lato tale denominazione può far pensare a una
missione esclusivamente comunitaria, dall’altro lato la procedura di adozione
dell’atto induce a configurare un atto facente capo agli Stati membri agenti
nell’ambito della CPE, piuttosto che alla Comunità in quanto tale. L’atto in
questione sarebbe, infatti, un accordo in forma semplificata e non un accordo
comunitario[37].
Un altro tentativo di
mediazione che occorre qui richiamare è costituito dalla convocazione della
Conferenza europea di pace in Jugoslavia, decisa dai Ministri degli affari
esteri in sede CPE il 3 giugno 1991.
Due sono le questioni
che conviene a questo punto affrontare: In primo luogo, se ci si trovi di
fronte ad una prassi certa, tale da far pensare che si sia formata una norma
consuetudinaria in tal senso; e, secondariamente, quale sia la natura degli
atti nei quali queste proposte si sono concretate.
Per quanto riguarda la
prima questione è da rilevare che tutte queste iniziative non hanno avuto un
seguito, nel senso che
Da ciò si evince come
Nel caso dell’Unione
europea dobbiamo constatare che la situazione è mutata, in quanto è l’Unione, e
non gli Stati membri, che prende le decisioni seguendo le procedure indicate
dagli artt. 14 e 15 del Trattato per l’adozione di due tipi di atti PESC: le
azioni e le posizioni comuni[39].
Le iniziative prese
dall’Unione sul piano delle azioni conciliative si è concretata nell’invio di
rappresentanti speciali in zone di crisi, nell’invio di osservatori elettorali
e nell’amministrazione della città di Mostar.
Osservatori elettorali
sono stati inviati per le elezioni parlamentari in Russia[40] nel
Per quanto riguarda le
missioni di monitoraggio occorre ricordare quelle nello Yemen nel 1997 e nel
Togo nel
L’Unione europea ha
anche partecipato ad attività di ristabilimento della pace a Lusaka[46]. In quella occasione ha dato il proprio sostegno in
relazione all’assistenza tecnico militare alla commissione mista istituita
dagli accordi di cessate il fuoco in quella zona di crisi.
È opportuno ricordare,
inoltre, la partecipazione dell’Unione alle strutture di attuazione
dell’Accordo di pace in Bosnia[47]: di particolare rilievo, per l’importanza data
all’intervento e il grado di coinvolgimento dell’Unione, è sicuramente quello
che riguarda l’amministrazione della città di Mostar. Successivamente alla
stipulazione del Memorandum d’intesa, firmato a Ginevra nel luglio 1994 dagli
Stati membri dell’Unione e dell’UEO, da una parte, e dalla Repubblica di
Bosnia-Erzegovina, dalla Federazione di Bosnia-Erzegovina, dall’amministrazione
locale di Mostar est e ovest e dai Croati di Bosnia-Erzegovina, dall’altra[48], la responsabilità dell’amministrazione di Mostar viene
assunta dall’Unione.
A questo riguardo, è stata sostenuta la tesi che il
Memorandum sia un accordo internazionale concluso dagli Stati membri al di
fuori delle procedure previste dall’ordinamento comunitario per la stipulazione
degli accordi. Una tesi, questa, che trova fondamento nel fatto che alla
stipulazione di tale accordo si è addivenuti pochi mesi dopo l’entrata in
vigore del Trattato di Maastricht , quando ancora gli Stati membri avevano dei
dubbi sul fatto che si potesse concludere un accordo attribuendolo alla sola
Unione[49].
Gli ulteriori
interventi dell’Unione a Mostar sono manifestamente ispirati ai precedenti ora
richiamati. È, infatti, attraverso decisioni prese nel quadro della PESC che
sono stati definiti gli obiettivi, la durata, i mezzi e le condizioni
dell’azione. Con lo stesso tipo di atti si è proceduto anche al finanziamento
dell’azione medesima[50]. È stato, inoltre, il Consiglio dell’Unione a nominare
l’Amministratore di Mostar e i Consiglieri dell’Unione europea che dovevano
svolgere compiti di assistenza all’Amministratore. Lo stesso Consiglio ha
impartito direttamente istruzioni all’Amministratore per l’adempimento dei suoi
compiti[51], finalizzato al ristabilimento di una convivenza civile
attraverso l’istituzione di una amministrazione unica e multietnica della
città.
L’Unione ha svolto a
Mostar diversi tipi di interventi. Da un punto di vista di una funzione
conciliativa l’Amministratore ha svolto un compito determinante nel cercare di
trovare un accordo tra croati bosniaci e mussulmani in relazione alle divisioni
amministrative della città sulle quali erano sorte le maggiori divergenze che
avevano impedito l’adozione dello Statuto della città[52].
4. – Le missioni di aiuto umanitario, le missioni di soccorso e le
operazioni di gestione delle crisi
Come abbiamo visto, l’Unione europea è competente per la
costituzione e gestione di operazioni di mantenimento della pace. Operazioni
comprensive sia delle classiche missioni di peace-keeping di «prima
generazione», per lo più limitate a compiti di mera osservazione o di
interposizione tra due o più parti in conflitto, sia di quelle più ampie di
ristabilimento della pace anche con l’uso della forza militare. Il Trattato
sull’Unione, infatti, riconosce a quest’ultima la competenza a svolgere una
serie d’attività quali «le missioni umanitarie e di soccorso, le attività di
mantenimento della pace e le missioni di unità di combattimento nella gestione
delle crisi ivi comprese le missioni tese al ristabilimento della pace» (art.
17, par. 2). Si tratta delle c.d. missioni
Petersberg, individuate dal Consiglio dei Ministri
dell’UEO[53] nelle attività svolte
con l’impiego delle unità militari degli Stati membri di quella organizzazione
e riprese in termini identici dal Trattato di Amsterdam[54].
Con queste norme, dunque, l’Unione riceve un forte impulso
a svolgere sul piano internazionale non più soltanto un mero ruolo diplomatico ma un vero e proprio
intervento di stabilizzazione regionale. Si tratterà ora di vedere se gli
strumenti di cui attualmente essa dispone siano effettivamente di natura tale
da consentire l’assolvimento di un impegno di così ampie proporzioni, visti e
considerati i deludenti interventi della Comunità nel tentativo improduttivo di
trovare una soluzione per la crisi dei Balcani.
L’aspetto, peraltro, più importante di questa nuova
disciplina è l’aver individuato in modo formale la sede competente in Europa a
discutere di questi problemi e a adottare misure di intervento. Secondo alcuni
autori, allo stato attuale, è forse prematuro parlare di «comunitarizzazione»[55] della gestione delle
crisi, non sussistendo alcun obbligo degli Stati Membri, sulla base dell’art.
17.2, di agire collettivamente in questa materia. Sottolineano, tuttavia, che
all’occorrenza ogni Stato Membro potrà legittimamente chiedere la convocazione
del Consiglio o del Comitato Politico costituito ad hoc per discutere la questione. Per contro, nessuno Stato Membro
in questi casi potrà opporsi all’inserimento di tale questione all’ordine del
giorno del Consiglio, né decidere il ricorso ad azioni unilaterali qualora
l’Unione sia già stata investita della questione.
Un altro aspetto che merita di essere esaminato riguarda la
questione se l’Unione europea abbia la capacità di concludere gli accordi
necessari per la presenza sul territorio ed il funzionamento di missioni di peace-keeping, quali gli Status for Force Agreements o
gli accordi di transito[56]. Alla luce delle nuove
disposizioni introdotte con l’art. 24, nonché sulla base delle indicazioni
della prassi, sembra di dover dare una risposta positiva[57]. L’art. 24 attribuisce
all’Unione un limitato treaty making
power, consentendo la
conclusione di accordi con Stati o Organizzazioni internazionali «ai fini
dell’attuazione» delle disposizioni del secondo e del terzo pilastro. In tali
circostanze «il Consiglio, deliberando all’unanimità, può autorizzare la
presidenza, assistita se del caso dalla Commissione, ad avviare i negoziati a
tal fine necessari». Gli accordi saranno conclusi «dal Consiglio che delibera
all’unanimità su raccomandazione della Presidenza». Ad ogni modo uno Stato
membro potrà opporsi all’entrata in vigore immediata dell’accordo, facendo
valere quanto previsto dalle proprie norme costituzionali[58].
In linea con il principio della astensione motivata,
l’accordo potrà, comunque, essere sottoscritto dai soli Stati che prendono
parte alla missione. La «Dichiarazione dell’Atto finale del Trattato di
Amsterdam relativa agli artt. J.14 e K.10» (ora rispettivamente art. 24 e art.
38) chiarisce che le disposizioni di tali articoli «gli eventuali accordi da
esse derivanti non implicano alcun trasferimento di competenze dagli Stati
membri all’Unione europea»[59].
La previsione delle operazioni di peace-keeping nel Trattato sull’Unione europea crea dunque le
premesse per la costruzione di un sistema europeo di gestione della crisi,
laddove, in un primo momento, le modalità di messa in opera delle operazioni di
pace erano basate sulla collaborazione tra l’Unione europea e l’UEO.
Numerosi sono i casi di positiva collaborazione. Spiccano
il contributo fornito dall’UEO in Albania all’operazione denominata MAPE,
l’operazione di bonifica dalle mine in Croazia[60], l’utilizzazione da
parte dell’Unione europea del centro satellitare dell’UEO per il monitoraggio
della situazione in Kossovo[61]. Tutto ciò indica che
per gli interventi di tipo umanitario e di peace-keeping,
la collaborazione Unione europea/UEO ha funzionato senza sollevare conflitti di
competenza con
Importanti sviluppi in questa materia si sono avuti, come
abbiamo visto, con il Trattato di Nizza del 2001, che ha portato alla
costituzione di forze di pace proprie dell’Unione.
Prendiamo in primo luogo in considerazione le missioni di aiuto umanitario (art. 17
par. 2 del TUE) e i due tipi di intervento che in tali missioni rientrano: da
un lato, l’intervento relativo alle missioni di aiuto a popolazioni che si
trovano, a causa di eventi eccezionali, in situazioni di grave
sofferenza;dall’altro, quello volto a proteggere la popolazione civile di uno
Stato da gravi e ripetute violazioni dei diritti fondamentali.
Nel primo caso le missioni dovrebbero consistere nell’invio
e nella distribuzione di beni materiali (cibo, alloggi, medicine) e di
assistenza di tipo medico. Questi interventi sono stati realizzati dalla
Comunità Europea a partire dal 1996 con l’adozione del regolamento 1257/96[62]. Tuttavia, come indica
lo stesso regolamento, le azioni di assistenza umanitaria mirano a contribuire
al «finanziamento e all’inoltro dell’aiuto e del suo accesso ai suoi
destinatari con tutti i mezzi logistici disponibili e con la protezione dei
beni e del personale umanitario ad esclusione delle azioni aventi implicazioni
di difesa». L’art. 17, par. 2, può
costituire la base giuridica sia dell’utilizzo di mezzi e supporto logistico
militare per agevolare l’invio l’inoltro e la distribuzione di aiuti in
condizioni di difficoltà (si pensi a catastrofi naturali)[63] che di azioni
coercitive implicanti l’uso della forza (per difendere ad esempio i convogli
umanitari). In base al diritto internazionale generale e alla Carta delle
Nazioni Unite non si pone il problema della liceità di tali missioni se
quest’ultime siano svolte con il consenso dello Stato territoriale (o, in
ipotesi di guerra civile, con il consenso delle parti coinvolte).
In tali situazioni, è irrilevante l’esistenza o meno di
un’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, non trattandosi di una azione
coercitiva.
Nel caso in cui il consenso dello Stato manchi, il ricorso
unilaterale all’uso della forza per assicurare l’invio e la distribuzione di
soccorsi alla popolazione civile non sarebbe, invece, ammesso dal diritto
internazionale, almeno secondo la dottrina dominante[64]. Solo dopo
un’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza sarebbe ammissibile il ricorso a
mezzi coercitivi implicanti l’uso della forza per garantire la distribuzione di
aiuti. Secondo alcuni autori vi sarebbe stato un ampliamento della nozione di
minaccia alla pace, che ricomprenderebbe, oggi, anche situazioni di grave
emergenza umanitaria[65], ed un ampliamento dei
poteri del Consiglio di Sicurezza, nel senso che esso potrebbe, con una
risoluzione adottata ex Cap. VII,
oltre che intraprendere direttamente azioni coercitive armate, autorizzare gli
Stati al ricorso a misure coercitive implicanti l’uso della forza, come si è
verificato nel caso della Somalia, della Iugoslavia e del Ruanda[66]. Accettando la tesi
dell’ampliamento della nozione di minaccia alla pace, a norma dell’art. 53
della Carta, il Consiglio avrebbe il potere di autorizzare le organizzazioni
regionali ad usare la forza per la distribuzione dei soccorsi anche contro la
volontà dello Stato territoriale. In definitiva, qualora le missioni umanitarie
contemplate nell’art. 17, par. 2, abbiano avuto il consenso dello Stato
territoriale esse possono essere autonomamente decise e attuate dall’Unione
anche nel caso in cui sia necessario fare ricorso all’uso della forza. Nel caso
in cui il consenso non ci sia stato, sembra invece indispensabile una
autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, dopo che esso abbia accertato
l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace o di un atto
di aggressione[67].
È dubbio se ad una simile conclusione si debba pervenire
nel caso in cui il ricorso all’uso della forza sia motivato da ragioni di
umanità, ovvero per far cessare violazioni gravi e sistematiche dei diritti
dell’uomo. Un dibattito si è avuto in relazione all’intervento della NATO in
Kossovo, nel 1999, che secondo alcuni autori, come si è già evidenziato,
dovrebbe essere visto come la manifestazione di una nuova tendenza in via di
affermazione nel diritto internazionale[68]. Si tratterebbe, in
sostanza, del riconoscimento di una nuova eccezione al divieto di uso della
forza oltre a quella della legittima difesa[69]. Se si affermasse tale
tendenza, e si formasse una norma consuetudinaria autorizzante gli Stati a
ricorrere alla forza armata per fini umanitari, sarebbe comunque preferibile
che questi interventi fossero decisi e realizzati non unilateralmente, ma
all’interno di un quadro istituzionale precostituito. L’Unione europea potrebbe
assicurare, da un lato, l’obiettività e l’imparzialità di eventuali missioni
umanitarie e, dall’altro, costituire un foro di discussione più trasparente,
dove la prevalenza degli interessi individuali sarebbe in parte contrastata
dalla presenza di istanze diverse.
Per quanto riguarda le
missioni di soccorso, da interpretarsi
come quelle missioni volte a salvare la vita di cittadini dello Stato
interveniente che si trovano in uno Stato terzo, le motivazioni che stanno alla
base dell’intervento, come dimostra la prassi internazionale[70], sono tra le più
diverse, ma hanno in comune l’elemento dell’imminente e grave pericolo per la
vita dei cittadini dello Stato interveniente. È a questa nozione che
sembrerebbe richiamarsi il Trattato Unione europea.
In questa materia si deve segnalare una decisione del
Consiglio dell’Unione adottata il 27 giugno
È bene sottolineare che, nonostante le missioni di soccorso
siano state previste esplicitamente solo nel Trattato di Amsterdam, già in
precedenza l’Unione riteneva che esse potessero formare oggetto di decisioni
comuni. Il Trattato di Amsterdam, in altre parole, si sarebbe limitato a
«codificare» una competenza già esistente. La decisione ammette che le missioni
di soccorso possono fare uso di mezzi militari. Questo non implica che essi
siano necessariamente utilizzati contro la volontà del governo dello Stato
territoriale. In assenza di tale consenso, tuttavia, è dubbio che il ricorso
alla forza sia lecito sul piano del diritto internazionale. Nonostante
autorevoli opinioni in questo senso[72], sembra che non esistano
elementi sufficienti per sostenere con certezza che l’uso della forza in
soccorso di propri cittadini all’estero si sia affermato nella prassi come
eccezione al divieto dell’uso della forza[73].
Anche l’invio delle missioni di soccorso potrebbe, quindi, comportare
una violazione della sovranità territoriale dello Stato. La loro liceità
dipende dalla sussistenza delle condizioni indicate per le missioni umanitarie.
Per quanto riguarda le missioni istituite dall’Unione, ovvero le missioni
dirette al salvataggio di cittadini degli Stati membri in uno Stato terzo, il
Trattato dell’Unione europea non chiarisce se intenda fare riferimento
esclusivamente alle missioni di soccorso che avvengono col consenso dello Stato
territoriale od anche a quelle che avvengono in assenza di tale consenso.
Alcuni autori[74] sostengono che
l’interpretazione da preferire è che il Trattato intenda riferirsi solo al
primo tipo di missioni, in quanto la protezione diplomatica svolta da uno Stato
membro a favore di un cittadino di un altro Stato membro non può esercitarsi
senza il consenso dello Stato territoriale.
Relativamente alle
operazioni di gestione delle crisi, l’art. 17, par. 2, del Trattato
dell’Unione europea fa riferimento alle missioni sia di mantenimento che di
ristabilimento della pace. La distinzione presenta non poche difficoltà. Varie
classificazioni, come abbiamo visto[75], sono state proposte
sia dal Segretario Generale delle Nazioni Unite che in dottrina[76], per tentare di
inquadrare giuridicamente una prassi piuttosto incerta. La sopra citata
disposizione è tuttavia formulata in termini sufficientemente ampi da
consentire di ricomprendervi vari tipi di intervento. Se vengono rispettati i
limiti dei requisiti classici delle operazioni di peace-keeping, in particolare quando si realizzano
sulla base del consenso dello Stato territoriale e quando il ricorso alla forza
è strettamente circoscritto ad ipotesi di legittima difesa, vi è piena
autonomia dell’Unione di decidere il ricorso a tali operazioni. Vi è chi[77] ha sostenuto che in
queste missioni non sarebbero compresi invece gli interventi di peace-enforcement. Questa opinione si
fonda su di un dato testuale, ossia sulla mancanza di una espressa menzione di
questa ipotesi nell’art. 17, par. 2. È bene notare che il riferimento alle
«unità di combattimento nella gestione delle crisi», contenuta nella stessa
disposizione, sembra rendere superfluo un esplicito riferimento al ricorso a
forze militari competenti a svolgere funzioni non implicanti l’uso della forza[78].
Poiché comunque le stesse definizioni di peace-keeping, peace-enforcement e peace-building sono poco chiare e molto
discusse, e dato che non si può escludere che azioni di mantenimento della pace
nel senso classico possano richiedere interventi di carattere militare[79], il problema sta nel
domandarsi entro quali limiti forze militari facenti capo all’Unione ed
impegnate in una «missione di pace» possano legittimamente fare ricorso alla
forza. Anche in questo caso ci sembra si debba concludere, sulla base di quanto
già affermato, che qualora si prevedano interventi implicanti l’uso della
forza, in assenza di un consenso dello Stato territoriale sia necessaria una
autorizzazione del Consiglio di Sicurezza[80].
A conferma di quanto precede possiamo ricordare le quattro
operazioni che l’Unione europea ha istituito recentemente, denominate
rispettivamente EUPM (European Union Police Mission), CONCORDIA, PROXIMA e
ARTEMIS.
Per quanto riguarda l’EUPM, prima operazione PESD avviata
nel 2003, il 28 febbraio 2002 il Consiglio dell’Unione europea ha annunciato la
disponibilità dell’Unione europea a garantire il proseguimento delle attività
della forza di polizia internazionale delle Nazioni Unite (IPTF) in
Bosnia-Erzegovina. Successivamente, il 5 marzo, le Nazioni Unite, con la
risoluzione 1396 del Consiglio di Sicurezza, hanno accolto favorevolmente la
richiesta dell’Unione. Il Consiglio «welcomes
the acceptance by the Steering Board of the PIC on 28 February 2002 of the
offer made by the European Union (EU) to provide an EU Police Mission (EUPM),
from January 2003, to follow the end of UNMIBH’s mandate, as part of a
coordinated rule of law programme, and the EU’s intention to also invite non-EU
member States to participate in the EUPM»[81]. L’Unione europea,in seguito, ha iniziato a preparare un piano
per l’invio di una propria forza di polizia in Bosnia-Erzegovina.
All’istituzione della forza si è pervenuto con l’azione comune del Consiglio
dell’11 marzo 2002[82], mentre la successiva
decisione n. 968[83] del Consiglio,
relativa alla sua attuazione, ha provveduto a disciplinare la struttura della
missione e tutti gli aspetti atti a consentirne il funzionamento.
Nell’allegato viene delineato il mandato dell’EUPM, che
dovrebbe mirare, entro il 2005, nel contesto di un’impostazione più ampia ai
fini dell’attuazione dello stato di diritto, a stabilire «dispositivi di
polizia sostenibili sotto l’autorità della Bosnia-Erzegovina conformemente alle
migliori pratiche europee e internazionali, elevando in tal modo gli attuali
standard della polizia della Bosnia-Erzegovina».
Successivamente l’Unione europea ha
stipulato con
In attuazione dell’art. 8 della suindicata azione comune
(che prevede la partecipazione di paesi terzi), l’Unione europea ha concluso
diversi accordi[84] al fine di arrivare ad
una contribuzione adeguata per costi operativi dell’EUPM.
Il 31 marzo
Quella in Macedonia è la prima missione militare
organizzata nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune dell’Unione
europea, e allo stesso tempo è il primo dispiegamento delle forze di pronto
intervento europee. Il Consiglio ha definito nei dettagli, con una delibera del
27 gennaio 2003[85], gli obiettivi della missione
militare dell’Unione europea in Macedonia: «l’UE è pronta a guidare
un’operazione militare che prosegua quella della NATO nella FYROM, al fine di
continuare a favorire l’esistenza di un contesto stabile e sicuro, di aiutare
il governo della FYROM nell’implementazione degli accordi di Ohrid», così
recita il primo articolo della delibera. Il contributo dell’Unione si basa su
un approccio di ampio respiro, con attività che coprono l’intero spettro dello
stato del diritto, ivi inclusi i programmi per la creazione di istituzioni e
per le attività di polizia, che devono reciprocamente sostenersi e
rafforzarsi», prosegue il documento, aggiungendo che le attività dell’Unione
contribuiranno all’implementazione complessiva della pace in Macedonia e al
successo generale della politica comune dell’Unione nella regione, in
particolare al processo di stabilizzazione e associazione. Nella delibera si
ricorda che l’Unione ha nominato un rappresentante speciale incaricato di
contribuire al consolidamento del processo di pace e alla completa applicazione
dell’accordo-quadro di Ohrid dell’agosto 2001, di fornire aiuto al
rafforzamento della coerenza dell’intervento esterno dell’Unione europea e di
assicurare la coordinazione degli sforzi della comunità internazionale per
favorire l’implementazione e il rispetto dell’accordo di Ohrid. La decisione
del Consiglio dell’Unione in tal senso rispondeva ad una richiesta del
Presidente macedone Trajkovski ed era fondata sulla risoluzione n. 1371 del
Consiglio di Sicurezza del 26 settembre 2001[86]. In tale risoluzione si dichiarava di accogliere «the efforts of the
European Union and the Organization for Security and cooperation in
La missione, subentrata ad una operazione della NATO,
«Allied Harmony», giunta al termine il 31 marzo 2003, si è avvalsa di mezzi e
di capacità della NATO grazie alla conclusione dei lavori sugli accordi Unione
europea-NATO.
Il contributo dell’Unione europea è risultato basato su
attività che abbracciano tutta la gamma di aspetti dello stato di diritto,
compresi i programmi di costruzione istituzionale ed attività di polizia per
fare in modo che si sostengano e rafforzino a vicenda.
La finalità fondamentale dell’operazione, su esplicita
richiesta del governo ospite, è stata quella di apportare un ulteriore
contributo alla creazione di un contesto di stabilità e sicurezza e permettere
di attuare il citato accordo-quadro di Ohrid.
Sempre nell’ex-Repubblica
jugoslava di Macedonia è stata avviata il 15 dicembre 2003, con l’azione comune
2003/681/PESC del Consiglio dell’Unione, la missione denominata PROXIMA, in
stretta collaborazione con le autorità di quel Paese ed in linea con il summenzionato
accordo-quadro di Orhid e la risoluzione 1371 del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite.
Il fine di questa operazione era quello di preservare e di
rafforzare i risultati già conseguiti dall’Unione europea nelle attività di
polizia. Più in particolare essa doveva consolidare l’ordine pubblico,
provvedere all’attuazione concreta della riforma del Ministero degli interni,
compresa la polizia, creazione di una polizia di frontiera, rafforzare la
cooperazione con gli Stati limitrofi.
Per quanto riguarda l’operazione ARTEMIS nella Repubblica
democratica del Congo, essa è stata istituita con l’azione comune del 5 giugno
2003. Subito dopo il Consiglio ha adottato il piano operativo e la decisione di
avviare l’operazione stessa[87]. È stata condotta conformemente
alla risoluzione n. 1484 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 30
maggio 2003[88]. Dichiarando di agire
sulla base del Cap. VII della Carta delle Nazioni Unite, il Consiglio
autorizzava lo spiegamento di una forza multinazionale di emergenza a Bunia,
nel Congo. La forza militare dell’Unione europea, senza l’apporto dei mezzi
della NATO, ha operato in stretto coordinamento con la missione delle Nazioni
Unite (MONUC). Le finalità della missione consistevano nel contribuire alla
stabilizzazione delle condizioni di sicurezza e al miglioramento della
situazione umanitaria. L’operazione si è ufficialmente conclusa il 1° settembre
2003.
Alla luce di quanto sopra delineato si possono fare alcune
osservazioni riguardo all’iter che è stato seguito per la costituzione
delle quattro operazioni di mantenimento della pace condotte dall’Unione
europea.
In primo luogo, in tutte le decisioni PESC prima citate
viene in rilievo il richiamo alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite che hanno dato l’assenso alla costituzione e all’invio delle
forze dell’Unione, a conferma di quanto l’Unione ha sempre dichiarato, e cioè
quello di voler agire esclusivamente in conformità a quanto deciso in sede ONU.
Secondariamente, la costituzione delle suddette operazioni
è stata preceduta dall’assenso dello Stato ospite, che in alcuni casi ha
addirittura fatto una precisa richiesta in proposito.
In terzo luogo, infine, l’Unione europea ha concluso
accordi sia con il paese ospite per il funzionamento delle missioni che con gli
Stati che si sono dichiarati disposti a fornire i propri contingenti.
5. – L’adozione
di misure sanzionatorie di tipo economico
La partecipazione
dell’Unione europea all’attuazione delle misure di pressione economica adottate
dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è considerato dalla dottrina[89] il contributo più concreto che questa istituzione possa
offrire al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Intendiamo
fare riferimento al già citato art. 41 della Carta delle Nazioni Unite, che è
dedicato alle misure che il Consiglio di Sicurezza può adottare quando si è in
presenza di una minaccia della pace, di una violazione della pace o di un atto
di aggressione A tutte queste risoluzioni ha sempre fatto seguito un
provvedimento comunitario, con il quale si è data applicazione alle misure
decise in sede ONU[90].
Occorre precisare,
inoltre, che la procedura così come è prevista dal diritto dell’Unione per l’adozione di
sanzioni commerciali, nata su una prassi volta a conciliare una competenza
comunitaria esclusiva in materia commerciale con le competenze degli Stati
membri in materia di politica estera, si è dimostrata sempre adeguata per
assicurare l’attuazione delle misure decretate dal Consiglio di Sicurezza e vincolanti
per gli Stati membri con gli strumenti previsti dal diritto dell’Unione.
L’art. 301, come in
precedenza ricordato, prevede che il Consiglio, a maggioranza qualificata su
proposta della Commissione, possa interrompere o sospendere le relazioni economiche
con un paese terzo, quando una decisione adottata in sede PESC richieda
un’azione comunitaria.
Dalla formulazione
della norma si evince che la decisione adottata in sede PESC costituisce un
presupposto indispensabile dell’azione comunitaria per l’adozione di un atto
comunitario che interrompa o riduca le relazioni economiche. I regolamenti
finora adottati sono stati sempre preceduti da un’azione comune.
Tali provvedimenti,
estremamente sintetici nel contenuto, si limitano a stabilire che le relazioni
economiche con un dato Stato terzo devono essere modificate in virtù di quanto
disposto nelle ivi richiamate risoluzioni del Consiglio di Sicurezza.
L’adozione di sanzioni
da parte dell’Unione consta di due fasi: ad una prima delibera (una decisione
PESC), presa sulla base delle disposizioni del Trattato sull’Unione[91], fa seguito l’adozione da parte del Consiglio di un
regolamento secondo quanto disposto dagli artt. 301 e 60 del Trattato CE. Il
regolamento in parola, che stabilisce in concreto le misure che devono essere
attuate, ha come base giuridica sia le disposizioni del Trattato che la
decisione PESC[92].
Se l’Unione non desse
attuazione alle misure decise dal Consiglio di Sicurezza, per i motivi che
abbiamo indicato prima, si verificherebbe un inadempimento degli obblighi posti
dalla Carta a carico degli Stati membri.
In questo caso ci si
chiede di chi sia la responsabilità, se degli Stati membri o dell’Unione. La
soluzione da dare al problema nell’ambito del mantenimento della pace si pone
negli stessi termini rispetto alle altre materie in cui gli Stati si sono
spogliati delle loro competenze per trasferirle a quest’ultima, quando un
obbligo internazionale ricade sopra di essi.
A questo riguardo
occorre osservare che il Trattato CE prevede la possibilità che gli Stati
membri adottino, in determinati casi, misure nazionali tra cui figurano gli
obblighi assunti in tema di mantenimento della pace. Infatti, secondo il già
menzionato art. 297, gli Stati membri si consultano «al fine di prendere di
comune accordo le disposizioni necessarie ad evitare che il funzionamento del
mercato comune abbia a risentire delle misure che uno Stato membro può essere
indotto a prendere nell’eventualità di gravi agitazioni interne che turbino
l’ordine pubblico, in caso di guerra o di grave tensione internazionale che
costituisca una minaccia di guerra ovvero
per far fronte agli impegni da esso assunti ai fini del mantenimento della pace
e della sicurezza internazionale»[93].
In questo caso lo Stato
può adottare una misura nazionale, ma deve necessariamente rispettare l’obbligo
di consultazione con gli altri Stati membri per evitare distorsioni nel
mercato. Alcuni autori[94] sostengono che la misura unilaterale sarebbe ammessa in
mancanza di una delibera in sede PESC.
Non esistono problemi
quando la risoluzione del Consiglio di Sicurezza richiede l’adozione delle
misure che non rientrano nella competenza comunitaria[95]. Gli Stati membri sono quindi liberi di adottare o meno
delle misure.
Lo stesso accade nel
caso in cui il Consiglio di Sicurezza si sia limitato a raccomandare l’adozione
di misure. Gli Stati possono o meno dar seguito a quanto richiesto. Il problema
nasce se la risoluzione ha un contenuto commerciale, rientrando quindi nel
settore della competenza comunitaria esclusiva. L’art. 60 par. 2 prevede che lo
Stato possa fare ricorso anche in questo caso a misure di carattere nazionale,
che costituiscono un’eccezione all’esclusività delle competenze comunitarie.
Quando, invece, siano state adottate misure comunitarie, non potrebbe, di tutta
evidenza, invocare gli articoli suindicati[96].
La
questione della compatibilità delle misure adottate dall’Unione europea e
quelle decise dal Consiglio di Sicurezza presenta gli stessi problemi che si
pongono quando gli Stati agiscono uti
singuli.
Il Consiglio di
Sicurezza istituisce di regola un Comitato delle sanzioni per il controllo
delle proprie risoluzioni[97]. Spetta all’Unione, nella persona del Presidente di turno,
comunicare al Segretario Generale delle Nazioni Unite tutte le informazioni
relative all’attuazione di tali atti. Sembra
trasparire da quanto osservato in precedenza che le norme del Trattato
CE e di quello sull’Unione europea contengono la base giuridica per poter porre
in essere misure di carattere sanzionatorio in ottemperanza a quanto disposto
in sede ONU.
Prendiamo ora in
considerazione le misure che vengono adottate senza una delibera del Consiglio
di Sicurezza.
L’esame
della prassi seguita in materia di sanzioni prima dell’entrata in vigore del Trattato
di Maastricht indica come, in assenza di una delibera del Consiglio di
Sicurezza,
Per quanto riguarda la
crisi jugoslava, sono stati i paesi membri ad adottare delle sanzioni
economiche in sede CPE[100]. Vennero adottati tre regolamenti comunitari relativamente
alla sospensione dell’Accordo di cooperazione in vigore tra
È bene porre in
evidenza che il primo regolamento (n. 3300/91[102]) contiene al suo interno un richiamo sia alla decisione
deliberata in ambito CPE che ad una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, la
n. 713 del 25 settembre 1991, con la quale si decretava un embargo
generale sull’invio delle armi nel territorio della ex Repubblica di Jugoslavia. Si trattava di una misura diretta ad
eliminare la minaccia della pace piuttosto che di una misura sanzionatoria nei
confronti di una delle parti in conflitto. Dalle dichiarazioni degli Stati in
sede CPE[103] e dalla linea seguita dalla Comunità nei confronti della
Croazia e della Slovenia, parti nel conflitto jugoslavo, nei confronti delle
quali ripristinava le concessioni commerciali, risulta che le misure adottate
dalla Comunità avevano un intento dichiaratamente sanzionatorio nei confronti
della ex Jugoslavia[104].
La
sospensione e la successiva denuncia dell’accordo di cooperazione suindicato
costituivano dunque una misura diversa da quella prevista nella risoluzione del
Consiglio di Sicurezza, sia sotto il profilo del contenuto che sotto quello
delle finalità perseguite. Nel regolamento comunitario il fondamento della
sospensione dell’accordo viene rinvenuto nel mutamento fondamentale delle
circostanze[105]. Adottando questa soluzione,
Quando le truppe
irachene invasero il Kuwait, tra il l° e il 2 agosto del 1990, il Comitato
politico dei dodici (organo della CPE) annunciava una serie di provvedimenti
che sarebbero stati adottati dagli Stati membri e dalla Comunità. Per quel che
riguarda quest’ultima la sospensione dell’Iraq dal sistema delle preferenze
generalizzate, adottata con atto unilaterale comunitario, è stata considerata
una ritorsione piuttosto che una misura sanzionatoria[106].
Altro caso
particolarmente interessante di adozione di misure comunitarie in assenza di
risoluzione del Consiglio di Sicurezza è quello di Haiti. In quella occasione
Sotto il profilo
comunitario, la circostanza che la decisione della misura da parte della Commissione
sia stata adottata, senza che ci fosse stata una previa decisione della CPE,
non sembra essere particolarmente significativa, in considerazione soprattutto
del fatto che la decisione degli Stati membri in ambito CPE è stata comunque
adottata quasi contemporaneamente.
6. – Il finanziamento delle operazioni di pace
L’analisi del sistema di finanziamento delle
missioni di pace costituisce uno degli aspetti più importanti della materia. È
di tutta evidenza, infatti, la differenza che intercorre per uno Stato membro
tra l’esprimersi favorevolmente nei riguardi di una missione di pace, e quello,
assai più impegnativo, di assumere gli oneri che dal funzionamento di tale
missione discendono.
La disciplina del finanziamento degli oneri
derivanti da operazioni di peace-keeping /
peace-enforcement intraprese
dall’Unione europea risulta sia dalle disposizioni dettate dall’art. 28 del
Trattato dell’Unione europea che dall’«Accordo interistituzionale tra il
Parlamento europeo, il Consiglio e
I meccanismi per il finanziamento della
politica estera e di sicurezza previsti dal Trattato di Maastricht si erano
mostrati nel corso degli anni precedenti non sufficientemente adeguati ed
avevano finito per comportare non pochi contrasti interistituzionali[109]. Di qui la
riformulazione, nel Trattato sull’Unione europea, dell’art. 28 che stabilisce
in via prioritaria il ricorso al bilancio comunitario per le spese
amministrative. Una deroga a tale impostazione generale è prevista stabilendo
una procedura specifica per le operazioni che hanno implicazioni nel settore
militare o della difesa. Per quanto riguarda le spese operative, cioè quelle
connesse all’attuazione concreta delle missioni in parola, queste sono,
infatti, poste a carico degli Stati membri, salvo che il Consiglio,
all’unanimità, decida altrimenti. Tali spese devono essere poste a carico del
bilancio di quegli Stati membri che hanno espresso il loro assenso alla
realizzazione di una operazione di pace.
L’aspetto più interessante è costituito dagli
effetti dell’applicazione, in questo settore, della procedura c.d. di
«astensione costruttiva» di cui all’art. 23 del Trattato dell’Unione europea.
Questa disposizione, richiamata dall’art. 28, prevede che gli Stati membri che
al momento della decisione abbiano dichiarato di astenersi dalla votazione,
motivando la propria astensione con una dichiarazione formale, non siano obbligati
a partecipare al finanziamento della operazione[110]. La scelta di far
ricadere sugli Stati membri il finanziamento delle operazioni aventi
implicazioni nel settore della difesa mette in evidenza il carattere
intergovernativo della cooperazione in tale settore. Mentre da un lato l’Unione
è in grado di intraprendere missioni di pace anche in presenza di un numero
limitato di Stati favorevoli, dall’altro è su questi ultimi, e non più
sull’Unione, che grava il costo complessivo dell’operazione.
In dottrina[111] ci si è chiesti se
nell’attuazione di tale norma si presenteranno gli inconvenienti e gli attriti
istituzionali emersi in passato in occasione del finanziamento di azioni comuni
nel quadro della politica estera e di sicurezza comune. La prassi di questi ultimi
anni ha mostrato infatti che il tentativo di definire un regime ad hoc per la conduzione e il
finanziamento di operazioni collettive non ha avuto, per il momento, successo.
Prima di tutto è impossibile finanziare una azione collettiva che richieda un
impegno consistente e di lunga durata ricorrendo al bilancio degli Stati membri[112], perché questo
potrebbe comportare ritardi e incertezze; secondariamente è altresì da scartare
l’ipotesi di finanziare una simile azione con le risorse del bilancio comunitario eludendo l’applicazione
delle procedure di bilancio previste dal Trattato, perché questo porta a
sollevare contenziosi interistituzionali con il Parlamento[113].
Si dubita[114], inoltre, in merito
alle reali possibilità di mantenere il finanziamento delle operazioni di peace-keeping al di fuori dalle procedure e dagli schemi di decisione
comunitari. Di fronte ad emergenze complesse e che coinvolgono necessariamente
le relazioni tra Stati è prevedibile che accanto alla presenza sul territorio
di contingenti militari si renda necessario il ricorso, da parte dell’Unione,
ad altre azioni di accompagnamento, quali missioni civili di assistenza
umanitaria, monitoraggio elettorale o programmi di assistenza economica. Il già
ricordato Accordo interistituzionale sul finanziamento della PESC annesso al
Trattato di Amsterdam precisa che le spese per le missioni di osservazione ed
organizzazione di elezioni, partecipazione a processi di transizione
democratica, inviati dell’Unione europea, prevenzione di conflitti, processi di
pace e sicurezza, assistenza finanziaria a processi di disarmo, contributi a
conferenze internazionali, siano poste a carico del bilancio comunitario in
linee predefinite del capitolo riservato alla PESC, e quindi sottoposte a
procedure decisionali e di controllo diverse dalle spese derivanti dall’impiego
di contingenti militari. Questo carattere dualistico del sistema di
finanziamento potrebbe produrre due effetti, opposti ma allo stesso tempo
connessi. L’Accordo interistituzionale detta, infatti, procedure per un
coinvolgimento più intenso del Parlamento
rispetto a quello previsto dall’art. 21, consentendo a quest’ultimo di
esercitare un controllo su tutti gli aspetti della gestione delle crisi inclusi
quelli militari. Le norme sul finanziamento rischiano di comportare
un’intrusione nella politica di gestione delle crisi della Commissione e del
Parlamento.
Prima del Trattato di Nizza vi era un problema
di coordinamento tra il diritto dell’Unione europea e le norme esistenti in
seno all’UEO[115]. Vi era comunque una
seconda possibilità per il finanziamento: il Consiglio dell’Unione si sarebbe
limitato a constatare la necessità di una operazione di peace-keeping ed avrebbe invitato l’UEO a procedere al suo
reclutamento, alla sua costituzione ed alla sua esecuzione, e a provvedere
quindi al finanziamento.
Va, infine, ricordato che nel febbraio del
2001, come abbiamo già avuto occasione di notare[116], è stato istituito un
meccanismo di reazione rapida elaborato dalla Commissione che permette il
finanziamento rapido della gestione delle crisi. L’assistenza si concretizza in
aiuti non rimborsabili a breve termine e copre tutte le attività che possono
rientrare nel mantenimento della pace, ad esclusione di quelle che sono di
competenza dell’Ufficio per gli aiuti umanitari (ECHO). È un meccanismo che si
propone di coordinare vari strumenti giuridici comunitari, come gli aiuti
alimentari, la ricostruzione e le ONG, mettendo a disposizione di tali
interventi 20 milioni di euro per il 2001 nel caso di crisi reali o potenziali
che minaccino l’ordine pubblico o la vita delle persone, in situazioni che
rischino di degenerare in conflitti. Sulla base di tale strumento, che rientra
nell’ambito del primo pilastro, l’Unione europea può agire al fine sia di
prevenire i conflitti, sia di agevolare le operazioni per il mantenimento della
pace[117].
* Si pubblica il
capitolo III della monografia di Alessandra
Bassu: «Il mantenimento della pace nel Diritto dell’Unione Europea»,
Milano, Giuffrè, 2005, 97-152. Di seguito anche l’Indice del volume:
Introduzione. – Capitolo I. Il ruolo delle organizzazioni regionali nel
mantenimento della pace. – Capitolo II. Lo sviluppo delle competenze
dell’Unione Europea nell’ambito del mantenimento della pace. – Capitolo
III. La tipologia delle azioni svolte
dall’Unione Europea e dagli Stati membri in tema di mantenimento della pace.
– Capitolo IV. I rapporti tra l’Unione
Europea, le altre organizzazioni regionali e le Nazioni Unite in tema di mantenimento
della pace. – Conclusione. – Bibliografia.
[1] Il concetto
dell’azione comune era già noto nell’Atto Unico europeo, ma quale aspetto della
cooperazione politica, non nell’accezione attuale.
[2] Per i criteri utili ad identificare i settori che possono
costituire oggetto di azione comune, v. Relazione
per il Consiglio europeo di Lisbona sui probabili sviluppi della politica
estera e di sicurezza comune (PESC), intesa ad individuare settori in cui sia
possibile un’azione comune nei confronti di singoli paesi o gruppi di paesi,
allegata alle conclusioni del Consiglio europeo di Lisbona del 26-27 giugno
[3] L’art. 28 elenca le norme del Trattato che istituisce
[4] Per le differenze tra CPE e PESC v.
inoltre Eaton, Common Foreign and Security Policy,
in O Keefe-Twomey (eds.), Legal Issues of the
Maastricht Treaty, Chichester, 1994, 217 ss.
[5] L’art. 14 stabilisce, però, che le questioni che hanno
implicazioni nel settore della difesa non possono costituire oggetto di azioni
comuni. L’unico provvedimento finora adottato ex art. 14, non è né un’azione né una posizione comune: v. dec.
96/670/PESC del 22 novembre
[6] Un esempio di posizione comune che prevede un impegno finanziario
è la dec. 95/206/PESC. Vengono,
infatti, stanziati 1,5 milioni di ECU come sostegno all’OUA per l’invio di
osservatori in Burundi.
[7] L’art. 28, come del resto anche l’art. 268 del Trattato di Roma,
prevede che le spese amministrative siano a carico del bilancio della Comunità,
mentre le spese operative dovranno costituire oggetto di apposita previsione.
All’unanimità possono essere poste a carico del bilancio generale della
Comunità; altrimenti sono sopportate dagli Stati membri, eventualmente secondo
il criterio di ripartizione deciso dal Consiglio. Fino ad oggi, solo nel caso dell’assistenza
all’inoltro dell’aiuto umanitario in Bosnia-Erzegovina si è previsto che metà
della somma stanziata fosse a carico degli Stati membri, e ripartita tra essi
secondo il criterio del prodotto interno lordo.
[8] Le posizioni comuni finora adottate, classificate con riferimento
al paese destinatario delle stesse cui sono destinate sono: per
[9] V. le misure adottate contro
[10] V. dec. 94/165/PESC,
del 15 marzo
[11] V. Novi, op. cit.,
444 s. e Neuhold, op. cit.,
502.
[12] V. Dumond-Setton,
op. cit., 92
[13] V. il rapporto dell’Ufficio dell’Alto Rappresentante dopo il
Consiglio di Nizza, che è stato poi approvato dal Consiglio Affari generali del
26/27 febbraio 2001 (Press Release, nr. 6506/01 del 26-2-2001, http://ue.eu-int
/ Newsroom / LoadDoc.cfin?, 10 ss.).
[14] Vedi Missiroli, European
Security Policy, cit., 193.
[15] V. Morviducci, La politica estera e di sicurezza comune
dell’Unione Europea, cit., 57.
[16] Si può trattare di impegni anteriori al Trattato, come quelli che
comporta la qualità di membro delle NU (artt. 1, 39, 41, 42, 43, 48 dello
Statuto dell’Organizzazione), sia anche d’impegni contratti successivamente
purché abbiano ugualmente lo scopo del mantenimento della pace e della
sicurezza internazionale.
[17] Sull’art. 297, v. Gori,
Commentario CEE (a cura di Quadri-Monaco-Trabucchi),
Milano, 1963, 1633 ss.; Commentaire
MEGRET, vol. 15, Dispositions
générales et finales, Bruxelles, 1987, 435 ss.; Verhoeven, in Constantinesco, Jacqué, Kovar, Simon, Traité instituant
[18] Scopo della consultazione degli Stati è quello di evitare che le
misure che uno Stato membro potrà prendere incidano negativamente sul
funzionamento del mercato comune considerato in tutti i suoi aspetti, e non già
limitatamente al mantenimento delle condizioni di concorrenza volute dal
Trattato, la tutela delle quali in base all’art. 298 comma 1 è affidata in modo
più specifico alla Commissione nell’ipotesi in cui le misure adottate da uno
Stato in base all’art. 297 abbiano l’effetto di alterarle.
[19] La norma non precisa per iniziativa di chi e sotto quale forma
avrà luogo la consultazione fra gli Stati membri. Costituisce però un
corollario dell’obbligo di consultazione imposto allo Stato che vuole avvalersi
degli eccezionali poteri previsti dalla norma, che sia tale Stato a promuovere
la consultazione. In difetto potrà essere qualsiasi Stato membro, ovvero la
stessa Commissione in virtù dell’art. 211 del Trattato CEE.
[20] Contiene un riferimento alla
norma solo il reg. 877/82, cit., dove nel preambolo si dice che gli Stati
membri si sono consultati a norma dell’art.
[21]
[22] In questo senso v. Dewost,
[23] V. in tal senso Everling, Reflections
on the Structure of the European Union, in Common Market Law Review, 1992, 176 ss.
[24] In proposito v. Angelet, La mise en
œuvre des mesures coercitives économiques des Nations Unies dans
[25] V. Davì, Comunità europee e sanzioni economiche
internazionali, Napoli, 1993, 591 ss.
[26] V. Lo Savio, Sulla competenza comunitaria ad adottare
«sanzioni» economiche internazionali, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 1993, cit., 458.
[27] V. in proposito Lang,
Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e
politica estera dell’Unione europea, obblighi comunitari, in Comunicazioni
e Studi, vol. XXI, 1997, 586.
[28] Questo è, invece, quanto
accaduto in occasione della crisi delle Falkland-Malvinas, in quanto
[29] Occorre ricordare, comunque, che lo scopo delle Comunità europee
prima e dell’Unione europea dopo è stato quello di garantire una condizione di
stabilità e di pace in una regione che era appena uscita da un sanguinoso
conflitto. È da considerare, inoltre, che l’Unione europea si fa garante di una
serie di diritti, compresi i diritti dell’uomo, quelli dello stato di diritto
sia nei confronti dei nuovi Stati che sono entrati a far parte dell’Unione che
in quelli che sono già membri.
[30] È stato rilevato che «un principio informatore del sistema
comunitario sia che la violazione delle sue norme deve essere sanzionata
indipendentemente dall’insorgere di una controversia tra gli Stati membri, non
dovendo indurre in errore la formulazione dell’art. 292 del Trattato CE: un
articolo che, come è noto, stabilisce che «gli Stati membri si impegnano a non
sottoporre una controversia relativa all’interpretazione e all’applicazione del
presente trattato a un modo di composizione diverso da quelli previsti dal
trattato stesso». V. Fois, Il
nuovo ordine internazionale, il regionalismo e la soluzione pacifica delle
controversie, in Studi in onore di Arangio-Ruiz, Napoli, 2004, 509.
[31] V. Conforti, Diritto internazionale, Napoli, 2002,
180 ss.
[32] V. supra, 55 ss.
[33] V. decisione del Consiglio del
29 ottobre 2001 (GUCE L 286 del 30
ottobre 2001) relativa al contributo dell’Unione europea al processo di
risoluzione del conflitto nell’Ossezia meridionale; decisione del Consiglio
dell’8 maggio 2003 (GUCE L 115 del 9
maggio 2003) relativa al sostegno del processo di pace nella Repubblica democratica
del Congo; decisione del Consiglio del 25 giugno 2003 GUCE L 157 del 26 giugno 2003) relativa al contributo dell’Unione
europea al processo di risoluzione del conflitto in Georgia/Ossezia
meridionale; decisione del Consiglio del 21 luglio 2003 (GUCE L 184 del 23 luglio 2003) che nomina il rappresentante
speciale dell’Unione europea per il processo di pace in Medio Oriente.
[34] Si veda in merito Allen,
Pijpers (a cura di), European
Foreign Policy Making and the Arab-Israeli Conflict, The Hague, 1984. V.
anche le dichiarazioni riportate nei Bollettini
CEE 6-1980, 9-10, 12-1980, punto 1.1.1327, e 6-1981, punto 1.1.14.
[35] In una dichiarazione
del l0 aprile 1980 i Ministri degli esteri degli Stati membri confermavano
l’incarico affidato ai rispettivi ambasciatori di agire presso il Presidente
della Repubblica iraniana per sollecitare il rilascio degli ostaggi
statunitensi (Boll. CEE 4-1980, punto 1.2.2).
[36] Il testo del Memorandum of
Understanding on the Monitor Mission to Yugoslavia si può leggere in
I rapporti venivano
inviati agli Stati membri attraverso il sistema COREU, ovvero un sistema di
informazioni previsto in ambito CPE, e la missione era diretta da un
diplomatico appartenente allo Stato membro che aveva in quel momento
[37] V.
Lopandic, op. cit., 561. L’A. afferma che «Les mémorandums d’entente ne
peuvent être considérés comme des traités internationaux ou des
accords communautaires mais comme des arrangements spécifiques». Essi «sont des
instruments informels…; ils prennent effet lors de leur signature et il
n’existe pas de procédure spécifique d’adoption/ratification». Altri autori (v.
Eisemann, Le «gentlemen’s
agreement» comme source du droit international, in Journal du Droit
International, 1979, 326 ss.) li definiscono «accords informels normatifs».
[38] Sulla vicenda v. Stucchi,
Il conflitto nella ex Iugoslavia, in Sacerdoti (a cura di), Diritto e istituzioni della nuova Europa,
Milano, 1998, 575 ss.
[39] V. tra i numerosi commenti alle disposizioni del titolo V del
Trattato UE, Morviducci, Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC),
in Digesto delle Discipline
Pubblicistiche, in corso di pubblicazione; Novi, Le
novità del Trattato di Amsterdam in tema di PESC, in Il diritto dell’Unione, 1998, 433 ss. Si ricordi, inoltre,
che il Trattato UE prevede una nuova tipologia di atti, le strategie comuni, di
competenza del Consiglio Europeo. Sul punto v. inoltre Dashwood,
External Relations Provisions of the
Amsterdam Treaty, in Common
Market Law Review, 1998, 1019 ss.
V. inoltre la
decisione 93/604/PESC, in GUCE L 286
del 20 novembre 1993. L’Unione Europea ha partecipato al monitoraggio delle
elezioni presidenziali russe del 1996 mediante l’istituzione di una unità
elettorale. Sul punto v. Comunicazione
della Commissione in materia di assistenza e monitoraggio delle elezioni da
parte dell’UE, doc. Com (2000) 191 def. dell’11 aprile 2000, 28.
[40] V. Decisione 93/604/PESC, in GUCE
L 286 del 20 novembre 1993. L’Unione Europea ha partecipato anche al
monitoraggio delle elezioni presidenziali russe del 1996 mediante l’istituzione
di una unità elettorale. Sul punto v. Comunicazione
della Commissione in materia di assistenza e monitoraggio delle elezioni da
parte dell’UE, doc. Com (2000) 191 def. dell’11 aprile 2000, 28.
[41] V. Decisione 93/678/PESC, in GUCE
L 316 del 17 dicembre 1993. Nella decisione si legge che gli osservatori
operano nel quadro di uno sforzo internazionale coordinato dalle Nazioni Unite.
[42] V. Comunicazione della
Commissione, cit., 28
[43] V.
[44] V. le decisioni 96/406 PESC (in GUCE L 168 del 6 luglio 1996), 97/1533/PESC (in GUCE L 63 del 4 marzo 1997, 97/224/PESC
(in GUCE L 90 del 4 aprile 1997),
97/689/PESC (in GUCE L 293 del 27
ottobre 1997).
[45] Per un panorama più dettagliato v. Comunicazione della Commissione, cit., 32 ss. Si noti
che non tutte le missioni di monitoraggio e assistenza elettorale hanno trovato
la loro base giuridica in una decisione PESC. In alcuni casi la partecipazione
alle attività di assistenza elettorale si fondava sugli atti adottati sulla
base di disposizioni del Trattato CE che disciplinavano le relazioni con i
Paesi in cui avevano luogo le elezioni (ad esempio il regolamento TACIS o
[46] V. la decisione 1999/729/PESC concernente l’attuazione della
posizione comune 1999/728/PESC relativa al sostegno dell’Unione Europea
all’attuazione dell’accordo per il cessate il fuoco di Lusaka e al processo di
pace nella Repubblica democratica del Congo, in GUCE L 294 del 16 novembre 1999. Sul punto v. anche
[47] V. l’azione comune 95/545/PESC (in GUCE L 309 del 21 dicembre 1995) sulla partecipazione dell’Unione
Europea alle strutture di attuazione dell’accordo di pace per
[48] V. Pagani,
L’administration de Mostar par l’Union
Européenne, in Annuaire français de
droit international, 1996, 234 ss. Sul tema v. anche Domestici-Met,
[49] V. Martinez, L’Unione europea e il mantenimento della
pace, in Lattanzi (cura di),
Le organizzazioni regionali e il
mantenimento della pace, Napoli, 2004, 12.
[50] V. Decisione 94/308/PESC, in GUCE
L 134 del 30 maggio 1994; v. anche le decisioni 94/158/PESC, in GUCE L 70 del 12 marzo 1994; 94/790/PESC,
in GUCE L 326 del 17 dicembre 1994.
Su Mostar v. la relazione della Corte dei Conti della CE, pubblicata in GUCE C 287 del 30 settembre 1996.
[51] La nomina dell’Amministratore da parte del Consiglio dell’Unione
era prevista. dal Memorandum d’intesa. (Decisione 94/776/CE, in GUCE L 31 del 6 dicembre 1994).
L’istituzione dell’Ombudsman non si collega alla gestione dei rapporti tra le
parti al conflitto che in via indiretta, essendo finalizzata ad un controllo
della buona amministrazione da parte dell’AMUE.
[52] Sul punto si veda in particolare Pagani,
L’administration de Mostar par l’Union
Européenne, cit., 246.
[53] V.
[54] Tale Trattato stabilisce che essa si avvalga dell’UEO per
«elaborare ed attuare decisioni ed azioni dell’Unione che hanno implicazioni
nel settore della difesa» (art. 17, par. 3). La collaborazione al riguardo tra
le due organizzazioni segue modalità su cui ci soffermeremo nel capitolo
successivo.
[55] Vedi per tutti Grassi,
op. cit., 301.
[56] Si tratta di aspetti apparentemente poco importanti, ma che hanno un
non trascurabile impatto in termini di efficacia dell’azione dell’Unione e
della sua presenza sulla scena internazionale, come indica la vicenda della
nascita della Amministrazione Europea della Città di Mostar. Poiché da un lato
vi era la preoccupazione di evitare che l’Unione concludesse direttamente
l’accordo e dall’altro sussisteva la volontà di sottolinearne l’impegno nella
soluzione della crisi iugoslava, si è ricorsi ad una formula irritale, per cui
il Memorandum di Intesa istitutivo di tale Amministrazione, siglato a Ginevra
il 5 luglio 1993, aveva come parti, dal lato dell’Unione Europea, gli Stati
membri dell’Unione Europea e dell’UEO. L’atto, peraltro, è stato materialmente
firmato dai tre Stati componenti
[57] 1) In riferimento agli accordi con Stati «territoriali» v. Accordo
tra l’Unione europea e
2) Tra gli accordi
stipulati dall’Unione europea con Stati partecipanti alle operazioni di pace si
vedano: Accordo tra l’Unione europea e
[58] In tal caso gli altri Stati potranno convenire di ricorrere alla
provvisoria applicazione.
[59] Per il testo v. Nascimbene,
Comunità e Unione europea. Codice delle istituzioni, Torino, 2003, 310.
[60] V. Decisione 98/628/PESC del Consiglio del 9 novembre 1998
adottata sulla base dell’art. J.4.2.
[61] V. Decisione 98/646/PESC del Consiglio del 13 novembre
[62] V. Regolamento 1257/96 del 20 giugno 1996 concernente l’aiuto
umanitario, in GUCE L 163 del 2
luglio 1996, 1 ss.
[63] Sottolinea la tendenza degli Stati e delle Nazioni Unite ad
utilizzare forze militari per finalità di «pura» assistenza umanitaria v. Lattanzi, Assistenza umanitaria ed intervento di umanità,
Torino, 1997, 9 ss.
[64] Si veda in tal senso
Non sarebbe ammesso
l’intervento nemmeno in situazioni di totale anarchia all’interno di uno Stato.
Per una critica alla teoria dell’intervento di umanità v. per tutti Ronzitti, Uso della forza e intervento
di umanità, relazione presentata al convegno «NATO,
Conflitto in Kossovo e Costituzione italiana», dattiloscritto non pubblicato.
[65] La situazione di emergenza umanitaria nel Kurdistan iracheno era
stata qualificata nella risoluzione 688 (1991) del Consiglio di Sicurezza come
«minaccia alla pace». La risoluzione tuttavia non autorizzava gli Stati a
ricorrere all’uso della forza per assicurare l’aiuto umanitario alle
popolazioni Kurde. Nel senso che il richiamo alla minaccia alla pace «ha avuto
la funzione di rendere meno evidente l’ampliamento da parte del Consiglio della
propria competenza», considerata la manifesta preoccupazione del Consiglio di
assicurare la protezione dei diritti fondamentali. Si veda Gaja, Genocidio
dei curdi e dominio riservato, in Rivista
di diritto internazionale, 1991, 95.
[66] L’autorizzazione era stata data agli Stati con le risoluzioni 770
(1992) (Iugoslavia), 794 (1992) (Somalia) e 929 (1994) (Ruanda). Per un esame
di questa prassi v. Lattanzi, op. ult. cit. Sulla necessità di
un’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza per il ricorso alla forza da parte
degli Stati in caso di mancato consenso dello Stato territoriale e per alcune
riflessioni circa la validità degli esistenti meccanismi giuridici per
assicurare l’inoltro di aiuti umanitari, v. Corten,
Klein, L’autorisation de recourir à la force à des fins humanitaires: droit
d’ingérence ou retour aux sources?, in European
Journal of International Law, 1993,
506 ss.
[67] Lattanzi, op. ult.
cit., 100, ritiene che l’autorizzazione debba essere vista come
«accertamento preventivo della liceità già a norma della Carta di un
comportamento futuro ed eventuale degli Stati». A nostro giudizio, l’eventuale
autorizzazione deve evitare ogni ambiguità in merito alle finalità, limitate
appunto agli scopi umanitari, per cui il ricorso alla forza è appunto
autorizzato. Non si deve, in altri termini, dare agli Stati o alle
organizzazioni regionali «carta bianca».
[68] V. supra, nota sul Kossovo n. 46.
[69] Per i riferimenti dottrinali e per una analisi delle varie teorie
v. Zappalà, Nuovi sviluppi in tema di uso della forza armata in relazione alle
vicende del Kossovo, in Rivista di
diritto internazionale, 1999, 975 ss.
[70] Si rinvia in tema a Ronzitti, Rescuing Nationals Abroad through Military Coercion and Intervention on
Grounds of Humanity, Dordrecht, 1985.
[71] Il testo della decisione si può leggere in Tizzano, Codice,
cit., 445 s. La decisione parla, senza ulteriori specificazioni, di
cittadini di Stati membri. Ci sarebbe da chiedersi se sia necessario che la
crisi coinvolga cittadini di tutti gli Stati o comunque di un numero rilevante
di essi, oppure se la solidarietà degli Stati sia tale da far convergere il
consenso attorno ad una missione di soccorso riguardante anche cittadini di uno
o pochi Stati membri. In un allegato vengono specificate le modalità pratiche
di queste operazioni.
[72] V. Bowett,
The Use of Force for the Protection of
Nationals Abroad, in Cassese
(a cura di), Current Legal
Regulation of the Use of Force, Dordrecht, 39 ss.; Ronzitti, Rescuing, cit., 110
[73] In tal senso v. Brownlie,
International Law and the Use of Force by
States, Oxford, 1964, 123; Lamberti
Zanardi, La legittima difesa nel
diritto internazionale, Milano, 1972, 72 ss.; Conforti, Diritto internazionale, cit., 182 e 356.
[74] V. Martinez, op. cit., 29.
[75] V. supra, 28.
[76] V. l’Agenda per la pace ed
il Supplemento all’Agenda per la pace, cit., rispettivamente par. 20 ss.
Per le classificazioni operate dalla dottrina, v. Picone, Il peace-keeping
nel mondo attuale: tra militarizzazione e
amministrazione fiduciaria, in Rivista
di diritto internazionale, 1996, 289 ss.
[77] V. Pagani, A New Gear, cit., 235.
[78] Si noti inoltre che in una pubblicazione informativa dell’UEO si
afferma che l’espressione peace-making utilizzata
nella Dichiarazione di Petersberg deve essere interpretata come riferentesi al
concetto di peace-enforcement (The UEO
Today, Paris, 1998, 12). Questo non significa naturalmente che la stessa
interpretazione debba essere data automaticamente alla nozione accolta nel
Trattato di Amsterdam. L’affermazione comunque non può che confermare
l’ambiguità contenuta in queste espressioni.
[79] Si è correttamente notato che «Article 17
missions can easily escalate to local armed conflict, thus requiring
substantial political solidarity and adequate capabilities (intelligence,
strategy lift, command and control)» (Missiroli,
European Security and Defence: the Case
for Setting Convergence Criteria, in European
Foreign Affairs Review, 1999, 485 ss., spec. 495.
[80] In questo senso anche Grassi,
op. cit., 295.
[81] S/RES/1396 (2002).
[82] V. GUCE L 070 del 13
marzo 2002.
[83] V. GUCE L 335 del 12
dicembre 2002.
[84] V. supra, nota n. 59.
[85] V. GUCE L 034 dell’11
febbraio 2003.
[86] V. S/RES/1371 (2001).
[87] V. GUCE L 147 del 14
giugno 2003.
[88] V. S/RES/1484 (2003).
[89] V. per tutti Grassi, op. cit., 306 ss.
[90] Per quanto riguarda le decisioni del Consiglio di Sicurezza
seguite da un provvedimento comunitario converrà citare quelle relative alla crisi del Golfo: ris. 661 (990) del 6
agosto
Relativamente alla Libia questa
è stata oggetto della ris. 748 (1992) del 31 marzo
Riguardo ad Haiti il Consiglio di Sicurezza ha
disposto misure contro quest’ultima nei seguenti provvedimenti: ris. 841 (993)
del 16 giugno
[91] Limitandoci agli avvenimenti successivi all’entrata in vigore del
Trattato di Maastricht, si vedano a titolo esemplificativo la decisione
94/366/PESC relativa al par. 9 della risoluzione 787 (1992) del Consiglio di
Sicurezza e il regolamento di esecuzione 1733/94. Il testo della decisione PESC
è pubblicato in GUCE L 165 del 10 luglio
1994 e quello del regolamento 1733/94 in GUCE
L 182 del 16 luglio 1994. V. le risoluzioni 942 (1994) e 943 (1994) del
Consiglio di Sicurezza a cui verrà data esecuzione con la decisione 94/672/PESC
e con il regolamento 2471/94 nonché la risoluzione 943 (1994) del Consiglio di
Sicurezza attuata con la decisione 94/673/PESC e il regolamento 2472/94. I
testi dei due regolamenti comunitari si trovano in GUCE L 266 del 10 ottobre 1994. Anche nel caso di sospensione delle
sanzioni, decretata con risoluzione del Consiglio di Sicurezza, si segue lo
stesso procedimento.
[92] Non è quindi possibile che misure sanzionatorie siano adottate
senza previa delibera PESC. V. Lang,
Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza,
obblighi comunitari e politica estera dell’Unione Europea,
in Comunicazioni e studi,
vol. 21, Milano, 1997, 543 ss., e Gaja,
Introduzione al diritto comunitario,
Bari, 1999, 73, che considera le delibere PESC, anche se estranee al
diritto comunitario, presupposti indispensabili per l’adozione da parte del Consiglio
di misure sanzionatorie.
[93] Nel caso che si tratti di misure che rientrano nel settore dei
capitali e dei pagamenti, l’art. 60 par. 2 legittima il ricorso a misure
nazionali «per gravi ragioni politiche e per motivi d’urgenza» che tuttavia
sono soggette al controllo delle istituzioni comunitarie sulla base del
medesimo articolo.
[94] V. Davì, Comunità Europee e sanzioni economiche internazionali, Napoli, 1993, 98; Lang, op.
cit., 586; Lo Savio, Sulla competenza comunitaria ad adottare
«sanzioni» economiche internazionali, in Rivista
italiana di diritto pubblico comunitario, 1993, 441 ss. È
assai problematica l’esistenza di una responsabilità degli Stati per inattività
dell’Organizzazione nel caso in cui essi le abbiano trasferito completo delle competenze.
[95] È ciò che è avvenuto ad esempio nel caso delle Falkland/Malvinas.
Analoga procedura venne seguita nel caso delle sanzioni contro il Sudafrica per
la sua politica di apartheid. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza 418
(1977) aveva decretato l’embargo sull’invio di armi. Le misure decise nel 1985
dagli Stati membri in ambito di CPE comprendevano anche misure riguardanti il
commercio di armi: esse vennero in seguito adottate con provvedimenti
nazionali.
[96] Come sembrerebbe confermare la sentenza della Corte di Giustizia
comunitaria del 14 gennaio 1997 nel caso The
Queen ex parte Bank of England CentroCom/HM Treasury, causa 124/95, in Raccolta, cit., 1997, I, 81.
[97] V. Odoni, Il
controllo del rispetto delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite, Sassari, 2002 (edizione provvisoria). Lo svolgimento dei
lavori all’interno dei Comitati è regolato da guidelines che essi stessi
adottano e di frequente emendano, via via che si presentano nuove esigenze da
soddisfare delle loro attività. Ciascun Comitato ha a disposizione un proprio
Segretariato. Quella che costituisce la principale attività di ogni Comitato è
l’accertamento di presunte pregresse violazioni di misure disposte dal
Consiglio di Sicurezza. Di fatto si risolve nella valutazione di dati e
testimonianze che però l’organo di controllo non è in grado di acquisire
direttamente, rivelando un’incapacità sia materiale che giuridica.
[98] Ricorda come
[99] A seguito dell’invasione delle isole Falkland/Malvinas da parte
dell’Argentina nel 1981
[100] V. Boll. CE 11-1991.
[101] V. Regolamenti 3300/91, 3301/91 e 3302/91, in GUCE L 315 del 15 novembre 1991.
[102] V. GUCE L 315 del 15 novembre 1991.
[103] V. Boll. CEE 10 e 11 del 1991.
[104] Rispettivamente in Boll. CEE
10 e 11 1991. Regolamento 3567/91, in GUCE L 342 del 12 dicembre 1991.
Si vedano anche le motivazioni addotte nel regolamento e in particolare il
riferimento al contributo offerto da questi Stati al processo di pace.
[105] Per il richiamo alla clausola rebus
sic stantibus da parte comunitaria, v. il commento di Mastroianni, La rilevanza delle norme consuetudinarie sulla sospensione dei trattati
nell’ordinamento comunitario: la sentenza Racke, in Rivista di diritto internazionale, 1999, 6 ss.
[106] V. Martinez, op. cit., 23.
[107] V. Boll. CEE 10-
[108] In tal senso v. anche Chinkin,
Sanctions by the EC,
in Evans, Aspects of Statehood and Institutionalism in Contemporary Europe,
Aldershot, 1993, 198.
[109] Per una sintetica esposizione delle modalità di finanziamento
della PESC stabilite dal Trattato di Maastricht v. Fink Hoijer, The
Common Foreign and Security Policy of the European Union,
in European Journal of International
Law, n. 5, 1994, 173 ss.
[110] È evidente l’analogia con quanto accade nel sistema delle Nazioni
Unite per quanto riguarda la legittimità degli atti. Secondo Conforti (Le Nazioni Unite, cit.,
292 ss), solo il principio dell’accordo ed i suoi corollari, sono in grado di
assicurare l’incontestabilità e la definitività degli atti delle Nazioni Unite.
«La legittimità di un atto non è denunciabile dal singolo Stato membro allorché
questo gli abbia prestato la propria acquiescenza, lo abbia cioè in modo
esplicito oppure implicito accettato».
[111] V. Grassi, op. cit., 318 ss.
[112] L’azione comune per il supporto al trasporto di aiuti umanitari
alla Bosnia Erzegovina decisa dal Consiglio 1’8 novembre 1997 è paradigmatica
della farraginosità del ricorso al bilancio degli Stati Membri. Si veda in proposito la sintesi contenuta
in Monar, The Financial Dimension of the CFSP, in Holland, The Common Foreign and Security Policy, London, 1997, 3451.
[113] Come dimostra la vicenda del finanziamento dell’Amministrazione Europea
della città di Mostar dove l’apertura di un vero e proprio braccio di ferro tra
Consiglio e Parlamento Europeo ha messo a repentaglio la stessa prosecuzione
della Amministrazione e minato severamente la credibilità dell’Unione. V. Pagani,
L’administration de Monstar par l’Union
Européenne, cit.,
234 e ss.
[114] V. Grassi, op. cit., 319.
[115] Occorre precisare che né il Trattato di Bruxelles né
[116] V. supra, 85.
[117] L’Unione ha, in virtù del suindicato regolamento, partecipato
all’avviamento della ricostruzione politica, economica e sociale
dell’Afghanistan.