Università di Trento
Intorno al metodo dialettico
della scuola serviana: cenni in materia di conflitto logico tra ‘quaestio’ e
‘responsum’ nei ‘digesta’ di Alfeno Varo
Relazione
presentata nel III Convegno internazionale «Diritto
romano privato e pubblico: l’esperienza plurisecolare dello sviluppo del
diritto europeo» (Jaroslavl e Mosca, 25-30 giugno 2003).
1. – Questa breve relazione – predisposta per
il Convegno – rappresenta parte di un più ampio lavoro in corso di
pubblicazione sulla ‘Rivista di Diritto Romano’, in cui intendo presentare una
interessante caratteristica di tipo ‘stilistico’ interna ai digesta di Alfeno Varo.
E mi spiego subito.
1.1. In una pagina particolarmente articolata, quanto
descrittivamente efficace, del Brutus
(40.150-42.156), Cicerone dà testimonianza del fatto che il giurista ‑ e
amico ‑ Servio Sulpicio Rufo si fosse perfezionato, in gioventù,
nell’arte dialettica presso la celebre scuola di Rodi, arte che, trasferita sul
piano dell’interpretazione giuridica, risultava consistere in una composita
serie di operazioni logiche così schematizzate:
Cic., Brut.
41.152: […] rem universam tribuere in partis, latentem explicare definiendo,
obscuram explanare interpretando, ambigua primum videre, deinde distinguere,
postremo habere regulam qua vera et falsa iudicarentur et quae quibus
propositis essent quaeque non essent consequentia.
Le attività specifiche della ‘dialettica’ si svolgono, dunque, su
due livelli. Un primo livello, immediato, impone all’interprete di operare la ‘partitio’ e, quindi, la suddivisione
per categorie, dell’intera materia esaminata (‘rem universam tribuere in partis’); di procedere, poi, alla ‘definitio’ (non soltanto volta a ‘fissare
i confini’ della questione, ma anche a portare ad emersione ciò che sottostà,
letteralmente, ‘tra le pieghe’ del discorso [etimol. ‘ex–plicare’], all’oggetto analizzato: ‘latentem explicare definiendo’); di approdare, infine, alla ‘interpretatio’ (tesa a rendere
logicamente ‘percorribile’ ‑ appianare ‑ tutto quanto costituisca res obscura: ‘obscuram explanare interpretando’).
Un secondo versante si rivolge, invece, alle res che appaiono essere
ambiguae: si tratta di quegli oggetti d’analisi che, a differenza delle
precedenti res (quelle del ‘primo
livello’) non sono semplicemente ‘nascoste’ o ‘lontane dalla luce’ ma, allo
stesso tempo, di meccanica individuabilità. Per gli ambigua pare debba compiersi un’opera ermeneutica più complessa,
poiché possiedono ‑ letteralmente ‑ un significato plurimo (almeno
‘doppio’: amb–iguus), come, infatti,
sottolinea ancora
Cic., de inv. 2.40.116: Ex ambiguo autem
nascitur controversia, cum, quid senserit scriptor, obscurum est, quod scriptum
duas pluresve res significat…, et rell.
Per queste ragioni, l’opera dell’interprete non si esaurisce in
un unico atto ‑ per quanto, in sé considerato, anche complesso ‑ ma
richiede una serie di operazioni ‘necessariamente’ consecutive (‘… primum… deinde… postremo…’)
rappresentate dal ‘videre’, dal ‘distinguere’, finalizzate al ‘habere regulam’, ossia dalla analisi
attenta della quaestio (se è
‘amb–igua ’ va osservata in ogni sua angolatura); dalla identificazione di ogni
parte (‘di–stinguo’ significa,
infatti, ‘punteggiare’ cioè ‘marchiare’); dalla individuazione, finalmente,
della ‘regula’, ossia del ‘metro di
valutazione’ attraverso cui stabilire ‑ degli ambigua ‑ cosa sia vero e cosa sia falso (‘ambigua primum videre, deinde distinguere,
postremo habere regulam qua vera et falsa iudicarentur…’) e quali
conseguenze possano derivare ‑ o vadano, per contro, escluse ‑
poste determinate premesse (‘… et quae
quibus propositis essent quaeque non essent consequentia’).
Cicerone, tuttavia, non si contenta di procedere a questa (pur preziosa)
descrizione ma proclama che lo scopo per cui Servio si dedicò ‑ tanto
assiduamente e fin dalla prima giovinezza ‑ allo studio della dialettica
e delle arti liberali non fu dovuto al semplice desiderio di gratificare un
interesse meramente ‘accademico’, ma fu mirato ad utilizzare e sfruttare al
meglio le potenzialità di tali conoscenze e metodologie ‘ut ius civile facile posset tueri’.
Servio ‑ in altre parole ‑ avrebbe preferito
primeggiare nella scienza giuridica piuttosto che appartenere alle seconde fila
della nutrita schiera dei retori e, in questo, avrebbe superato anche il
giurista Quinto Mucio Scevola (cosicché il primo avrebbe esercitato una vera ‘ars’ a differenza del secondo
qualificato un ‘ottimo pratico’ del diritto). E l’Arpinate esprime questa
motivazione con felice costruzione a chiasmo (che pare riecheggiare quelli che
saranno gli arditi giochi linguistici agostiniani): ‘videtur mihi in secunda arte [= ius civile] primis esse maluisse quam in prima [= eloquentia] secundus’.
Per quanto entusiastica ‑ come consuetudine dell’Autore
verso i propri amici ‑ essa sta a fondamento della opinione corrente in
dottrina secondo cui uno degli elementi di maggiore interesse ‑ oltre che
apporto particolarmente fecondo ‑ relativo alla riflessione della scuola
giuridica serviana sia rappresentato proprio dal consistente impiego del metodo
dialettico nella analisi dei casi controversi. Sebbene un poco limitante nella
sintesi, appare esatta la lettura dello Schulz che descrive tale
interpretazione come caratterizzata dall’impiego di distinzioni o differentiae (la dia…resij della
dialektik») e di conseguenti operazioni di ‘sintesi’ (la sÚntesij della
sunagwg»).
In particolare, è attraverso i digesta di Publio Alfeno Varo ‑ ‘iureconsultus, Servii Sulpicii discipulus’ ‑ i quali
racchiudono la porzione più consistente tratta dall’esperienza e
dall’insegnamento dello scolarca, che è possibile ripercorrere lo stile della
scuola serviana. Al di là, infatti, della sussistenza di seri problemi di
riconduzione del materiale alla elaborazione di Alfeno ‑ stanti, come è
noto, le due epitomi, anonima e paolina, che ce ne hanno conservato la
produzione scientifica ‑ circa metà dei settantaquattro frammenti che le
compongono avrebbero mantenuto ugualmente, secondo l’autorevole giudizio del
Ferrini, «lo spirito originale dell’opera [...]: l’amabile semplicità del
dettato, la straordinaria e quasi ciceroniana purità del sermone, il carattere
arcaico dello stile, la minuta esposizione del caso pratico che dà origine al
responso ‑ tutto, insomma, ci farebbe credere di aver davanti un giurista
degli ultimi tempi della repubblica» (così il Ferrini).
Forse meno noto ‑ o, comunque, meno indagato ‑ è, al
contrario, un fenomeno interno ad alcuni frammenti alfeniani, in cui si assiste
al tentativo, di certa scaltrezza, di colui che si rivolge al giurista in
funzione respondente, di condurre quest’ultimo verso una determinata soluzione.
Ovviamente favorevole a colui che sta ponendo la quaestio.
Ad un simile artificio si oppone lo sforzo interpretativo del
giurista che, come vedremo, a partire dai termini stessi espressi dal
richiedente ‑ ovvero sfruttando la struttura logico-sintattica della quaestio ‑ rovescia le premesse ed
approda alla soluzione opposta rispetto a quella cui sarebbe giunto se avesse
ceduto alla ‘tentazione’ di addentrarsi nella via tracciata dalla parte.
I frammenti alfeniani che si prestano a questa indagine (invero,
in numero abbastanza contenuto) presentano, poi, al loro interno una variegata
formalizzazione di tale metodologia. Essi, infatti, vanno ‑ e minore ad maiorem ‑ dalla (più o
meno) semplice opera di ‘scardinamento’ della posizione del richiedente, fino
alla necessità di recuperare l’ulteriore mossa dialettica della controreplica
di quest’ultimo, passando attraverso l’abbattimento del tentativo ‑
questa volta implicito ‑ della parte di evitare alcune conseguenze
sfavorevoli derivanti dal responso del giurista.
In questo ordine di idee si inserisce, ad esempio, un
interessante frammento, in materia di interpretazione dei negozi mortis causa. Si tratta di
Alf. V dig.
ab anon. epit, D. 35.1.27 [= Pal. 21]: In testamento quidam scripserat, ut
sibi monumentum ad exemplum eius, quod in via Salaria esset Publii Septimii
Demetrii, fieret: nisi factum esset, heredes magna pecunia multare et cum id
monumentum Publii Septimii Demetrii nullum repperiebatur, sed Publii Septimii
Damae erat, ad quod exemplum suspicabatur eum qui testamentum fecerat
monumentum sibi fieri voluisse, quaerebant heredes, cuiusmodi monumentum se
facere oporteret et, si ob eam rem nullum monumentum fecissent, quia non
repperirent, ad quod exemplum facerent, num poena tenerentur. Respondit, si
intellegeretur, quod monumentum demonstrare voluisset, is qui testamentum
fecisset, tametsi in scriptura mendum esset, tamen ad id, quod ille se
demonstrare animo sensisset, fieri debere: sin autem voluntas eius ignoraretur,
poenam quidem nullam vim habere, quoniam ad quod exemplum fieri iussisset, id
nusquam extaret, monumentum tamen omnimodo secundum substantiam et dignitatem
defuncti extruere debere.
Il caso, originato da una fattispecie particolarmente gradevole
alla stessa lettura, offre il ricordo di una clausola testamentaria in cui il de cuius impose agli heredes ‑ sotto pena di pagamento
di una poena, consistente in una
considerevole somma di denaro (‘magna
pecunia’) ‑ l’edificazione di un monumento alla propria memoria sul
modello di quello che contestualmente indicava esservi, lungo la via Salaria,
ad un tale Publio Settimio Demetrio (‘ad
exemplum eius, quod in via Salaria esset Publii Septimii Demetrii’).
Gli eredi, intuitivamente sospinti dalla (sgradita) prospettiva
di vedere abbondantemente decurtato l’asse ereditario in applicazione della multa prevista dal testatore, vanno alla
ricerca dell’exemplum descritto e
scoprono che, mentre il monumentum in
questione ‘nullum repperiebatur’,
esiste per contro un’erma ad un tale Publius
Septimius Dama.
Il profilo logico insito nella descrizione della fattispecie
poggia, dunque, su una alternativa: il giurista osserva come l’identità del praenomen e del nomen gentilicium, nonché la stessa posizione urbanistica del monumentum (lungo la via Salaria), rendano congetturabile
l’ipotesi che il de cuius avesse voluto
riferirsi al monumento rinvenuto, ma abbia scritto l’uno per l’altro ‘per sinallagen’: si tratta, forse, più
di un ragionevole dubbio ‑ che insorge nell’uomo comune, di media
perspicacia ‑ che di una vera e propria ipotesi (‘ad quod exemplum suspicabatur eum qui testamentum fecerat monumentum
sibi fieri voluisse’). Per contro, il giurista non può escludere l’elemento
di differenziazione (il cogomen Dama al
posto di Demetrius) che potrebbe
portare a concludere che non sia identificabile quanto il testatore ‘sibi fieri voluisse[t]’.
Del resto la discussione prende avvio dalla regula ‑ che il Lenel ha, a mio parere, opportunamente posto
in apertura del medesimo frammento palingenetico ‑ derivata dalla
riflessione di Quinto Mucio (D. 50.17.73.3) e riportata in
Alf. V dig.
ab anon. epit., D. 34.8.2 [= Pal. 21]: Quae in testamento scripta essent
neque intellegerentur quid significarent, ea perinde sunt ac si scripta non
essent: reliqua autem per se ipsa valent.
Tutto questo viene implicitamente affermato nella quaestio ‑ i cui autori sono
espressamente indicati nelle persone dei successori a titolo universale (‘quaerebant heredes’) ‑ ma il
primo dato che emerge da una lettura attenta della domanda posta al giurista è
che gli eredi scelgono ‑ tra le due possibili soluzioni individuate da
Alfeno (o da Servio) ‑ quella a loro più vantaggiosa.
Vediamo, infatti, la quaestio
per intero: ‘quaerebant heredes,
cuiusmodi monumentum se facere oporteret et, si ob eam rem nullum monumentum
fecissent, quia non repperirent, ad quod exemplum facerent, num poena
tenerentur’.
La richiesta è formalizzata, infatti, attraverso due domande. La
prima racchiude una sorta di captatio
benevolentiae ‑ una dichiarazione di buone intenzioni ‑ e,
cioè, quale tipologia di erma sia necessario costruire (‘quaerebant heredes, cuiusmodi monumentum facere oporteret’).
Tale premessa pare, tuttavia, finalizzata ad introdurre le
seconda domanda (‘et, si – num poena
tenerentur?’), a cui gli heredes paiono
mirare effettivamente ‑ e cioè se debbano pagare la poena ‑ dal momento che fanno precedere questa richiesta da
una ratio che è, in pari tempo, una infirmatio rationis. In altri termini,
gli heredes si trincerano dietro
l’alibi di ‘nullum monumentum facere,
quia non repperirent, ad quod exemplum facerent’.
Che si tratti di una astuzia lo rende palese, a mio avviso, il
contrasto espressivo tra la descrizione del fatto (‘cum id monumentum Publii Septimii Demetrii nullum repperiebatur, sed
Publii Septimii Damae erat, ad quod exemplum suspicabatur…’, et rell.) e
quanto affermato dagli eredi. I secondi assolutizzano il ‘non repperire monumentum’, mentre nella descrizione dei fatti tale
verbo ‑ alla forma negativa ‑ si rivolgeva soltanto al mancato
rinvenimento del modello come descritto dal testatore, ciò che lasciava aperti,
però, l’‘esse monumentum’ (scl.: Publio Septimio Damae) e la conseguente suspicio che quello fosse il modello, l’exemplum individuato ‑ nella
sostanza (mens testatoris) ‑
dal de cuius.
Alfeno è, dunque, interpellato strettamente ad una risposta e le
modalità con cui costruisce il responsum
paiono manifestare la sua consapevolezza di muoversi in terreno infido, tanto
che un qualsiasi cedimento alla struttura della quaestio può condurlo a dare una soluzione non equa.
L’armamentario logico sfoderato e messo in campo dal giurista è ‑
a mio giudizio ‑ un autentico capolavoro di tecnica giuridica
risolutoria.
Egli, infatti, si richiama alla regola alla quale va ricondotto
il caso ‑ e cioè a quanto contenuto in D. 34.8.2 (‘quae in testamento scripta… neque intellegerentur…’) ‑
aprendo con lo stesso verbo: ‘respondit,
si intellegeretur…’.
Mentre la regula d’apertura
del frammento indicava uno sbocco semplificato (se non è possibile in alcun
modo interpretare la volontà espressa in forma scritta dal testatore, la
relativa clausola si ha come non apposta), la ripresa che ne fa il giurista
viene modellata intorno ad uno svolgimento dei fatti più ‘variegato’,
attraverso l’analisi di tre eventualità.
In primo luogo si analizza l’ipotesi che il testatore ‘monumentum demonstrare voluisset’ ma ‑
e questo è l’elemento di assoluta novità, con effetto dirompente sulla logica
imposta dalla quaestio degli heredes ‑ ‘tametsi in scriptura mendum esset’, allora ci si deve riferire ‘ad id, quod ille se demonstrare animo
sensisset’ (e così ‘fieri debere’).
In secondo luogo, se al contrario (‘sin autem’) ‘voluntas eius
ignoraretur’ ‑ in altri termini non sia possibile in alcun modo
determinare a quale modello si riferisse il testatore ‑ ‘poenam quidem nullam vim habere’. Anche
in questa seconda ipotesi, la logica di Alfeno non rifugge da una minuziosa
attenzione al contesto ‘regula-casus-responsum’:
il giurista, infatti, non afferma che non si deve costruire il monumento ‑
ciò cui miravano, in effetti, gli eredi ‑ ma che non si è tenuti al
pagamento della multa ‘quoniam ad quod
exemplum fieri iussisset, id nusquam extaret’.
A questo punto, il giurista porta, per così dire, la stoccata
finale in questo avvincente duello logico. Se gli heredes potevano ‑ ipoteticamente ‑ iniziare a
ritenersi al sicuro, grazie al tenore dispositivo del secondo corno della
soluzione (in cui si presupponeva che ‘voluntas
eius [scl.: testatoris] ignoraretur’), Alfeno recupera il
principio generale in tema di interpretazione dei negotia mortis causa, ossia che vada individuato e fatto salvo,
comunque, il nucleo volitivo del testatore. In ragione di ciò, se (anche) nella
confusione degli exempla richiamati
divenisse impossibile individuare il modello cui riferirsi, un dato si mantiene
fermo: il de cuius voleva fosse
costruito un monumentum alla propria
memoria ad opera degli eredi. E così, correttamente, il giurista: ‘monumentum tamen omnimodo [!] secundum substantiam et dignitatem defuncti
extrure debere’.
Ancora una sottolineatura. Il binomio impiegato da Alfeno ‘substantia e dignitas’ (‘secundum substantiam et dignitatem
defuncti’) potrebbe apparire innocuo. In realtà non è così, poiché nella
concisione (e precisione) del giurista romano esso individua i due confini estremi
entro cui è consentito muoversi agli heredes
‑ anche a tutela degli stessi.
Da un lato, infatti, si dovrà impiegare per l’edificazione del
monumento una somma proporzionata al patrimonio del defunto: se l’asse
ereditario risulterà composto da un complesso modesto di beni, non si potrà
pretendere che gli eredi sostengano una spesa eccessiva. Per contro, anche dove
il patrimonio ereditato sia particolarmente consistente, non si dovrà erigere
qualcosa che possa suonare come una ingiuria alla memoria del defunto ‑
specialmente ove la sua dignitas sia
stata modesta: erigere un monumento equestre, ad esempio in veste censoria, a
qualcuno che, in vita, si sia arricchito con attività commerciali, per quanto
oneste, provocherebbe l’ilarità, se non addirittura il biasimo, dei passanti,
così come un monumento in foggia da atleta a colui che fosse stato fisicamente
poco prestante (o deforme) non potrebbe che indurre al riso denigratorio. Allo
stesso modo, gli eredi, in presenza della memoria di un testatore facoltoso ed
onorato in vita non potrebbero limitarsi ad una piccola stele commemorativa o
ad un erma dimesso e di ridotte dimensioni (che vìolerebbe, in tal caso, sia la
substantia ricevuta mortis causa sia la dignitas dell’ereditando). Come è stato scritto a questo proposito,
il monumento «deve perpetuare la memoria del ruolo politico-sociale che il
defunto occupava durante la vita».
Se, dunque, quanto esposto può essere segno di una possibile
lettura del brano nella sua interezza (e coerenza), cade di conseguenza quanto
espresso, con una certa tendenza alla schematizzazione, dall’Albertario.
Secondo questi, infatti, «si può anche comprendere come un banale lapsus scripturae, quale sarebbe Publii Septimii Damae invece di Publii Septimii Demetrii, non giunga a tanto
da esonerare gli eredi dall’adempiere l’onere imposto dal testatore, quando
appunto le circostanze di fatto rendono evidente il lapsus scripturae; ma non si comprende affatto come vi possa essere
l’obbligo da parte degli eredi, quando il suo contenuto non è stato in alcun
modo determinato o sia per lo meno incerto. In questo caso il giurista
immancabilmente doveva con logica coerenza decidere: poenam nullam vim habere» ‑ e fin qui non si può che essere
d’accordo. Quanto, invece, lascia profondamente perplessi è la continuazione
del ragionamento (neppure del tutto aderente alla ratio del passo): «i Giustinianei non cancellano questa decisione
classica; ma, con sorprendente aggiustamento del testo, affermano che l’obbligo
degli eredi esiste» per cui «in mancanza di una precisa manifestazione della
volontà del defunto [sic], in
mancanza di una precisa determinazione del contenuto dell’onere da parte sua,
possono interpretare quella volontà e determinare questo contenuto, tenendo
presenti la sua substantia e la sua dignitas».
Al contrario, come ha osservato il Biondi, non possono essere
considerati «elementi estranei alla disposizione», dal momento che, se un dato
è assolutamente certo (ossia è chiaramente deducibile dall’interprete), è che
«il disponente ha voluto la costruzione del monumento».
Si noti, in conclusione, la simmetria offerta dal giurista nella
illustrazione della domanda e della risposta. Si è in presenza di una sorta di
chiasmo, le cui parti estreme sono costituite da quella parte che ho definito
come (speciosa) manifestazione di buona volontà da parte degli heredes (‘quaerebent heredes, cuiusmodi monumentum se facere oporteret’) e
da quella corrispondente all’affondo alfeniano (‘monumentum tamen omnimodo [!] secundum
substantiam et degnitatem defuncti extruere debere’); le parti interne,
invece, risiedono, rispettivamente, nella continuazione della quaestio (‘et, si ob eam rem nullum monumentum fecissent, quia non repperirent,
ad quod exemplum facerent, num poena tenerentur’) e nel consequenziale
primo corno ‑ costituito, dialetticamente, da due ipotesi ‑ della
risposta (‘Respondit, si intellegeretur,
quod monumentum demonstrare voluisset, is qui testamentum fecisset, tametsi in
scriptura mendum esset, tamen ad id, quod ille se demonstrare animo sensisset,
fieri debere: | sin autem voluntas
eius ignoraretur, poenam quidem nullam vim habere, quoniam ad quod exemplum
fieri iussisset, id nusquam extaret’).
2. Al momento di giungere alle conclusioni, penso sia opportuno
soffermarsi ‑ seppure brevemente ‑ intorno ad un altro frammento
che solo apparentemente può essere ricompreso all’interno della tipologia
specificata, ma che, per le ragioni che verranno chiarite, vanno comunque
esclusi.
Mi riferisco ad
Alf. III dig.
ab anon. epit., D. 9.2.52.1 [= Pal. 7]: Tabernarius in semita noctu supra
lapidem lucernam posuerat: quidam praetereins eam sustulerat: tabernarius eum
consecutus lucernam reposcebat et fugientem retinebat: ille flagello, quod in
manu habebat, <in quo dolor inerat,> [itpl. ?] verberare tabernarium
coeperat, ut se mitteret: ex eo maiore rixa facta tabernarius ei, qui lucernam
sustulerat, oculum effoderat: consulebat, num damnum iniuria non videtur
dedisse, quoniam prior flagello percussus esset. Respondi, nisi data opera
effodisset oculum, non videri damnum iniuria fecisse, culpa enim penes eum, qui
prior flagello percussit, residere: sed si ab eo non prior vapulasset, sed cum
ei lucernam eripere vellet, rixatus esset, tabernarii culpa factum videri.
Al di là del dato di critica testuale ‑ legato all’inciso ‘in quo dolor inerat’ ‑ la quaestio presenta, in effetti, un
qualche interesse, poiché vi si protesta la non-iniuria del comportamento (‘quoniam
prior flagello percussus est’).
A mio avviso, però, la presunta causa giustificativa ‑ che,
se provata, farebbe del damnum un damnum iure datum ‑ appare
lontana dal voler trarre in inganno il giurista. Si tratta, in altre parole,
dell’istintiva protesta di innocenza da parte dell’oste ‑ non negata, in linea
di principio della descrizione della fattispecie ‑ che conferma la…
grazia (anche intellettuale) di quest’ultimo, pari almeno a quella esplicata
nel cavare l’occhio al povero quidam
praeteriens (assai probabilmente uno schiavo altrui, sia per la posizione
del brano nel Digesto sia, soprattutto, per l’uso dell’espressione tecnica ‘damnum iniuria… dedisse’, quindi ‘damnum iniuria datum’).
Tutto ciò pare comprovato dal tenore del responsum, che non cassa tale eventualità, ma completa ‑ in
ordine ai fatti ‑ l’altra per cui, al contrario, la responsabilità possa
ricadere sul tabernarius. Diverso
parere, invece, esprime il Negri, il quale parla di «doppia negativa della
domanda, che prospetta tendenziosamente i fatti, mentre il caso è stato
descritto in modo neutrale, evitando qualificazioni giuridiche, evitando, ad
es., ogni allusione al linguaggio dei furti notturni flagranti a mano armata».
In conclusione, credo si possa attingere ancora ad una pagina del
lavoro di Negri (Per una stilistica dei
Digesti di Alfeno, in «Per la storia del pensiero giuridico romano dall’età
dei pontefici alla scuola di Servio», Torino, 1996): «Come accade nei disegni
enigmistici, ove congiungendo dei punti si ottiene un’immagine, è possibile
rintracciare in un microcontesto, assunto quale ipotesi di lavoro, un
reticolato di corrispondenze stilistiche (non soltanto lessicali o
grammaticali) che, pur tenendo conto del genere letterario e degli standars del
linguaggio tecnico, è difficile sottrarre alla presenza unitaria di un autore.
Questo reticolato non potrà mai rivelare un’immagine compiuta, ma almeno la
struttura del contesto alfeniano direi di sì».