N. 3 – Maggio 2004 – Tradizione Romana
Università di Siena
Sommario. Introduzione: 1. Brevi cenni di storia della retorica. – 2. Oggetto del
nostro studio. – 3. Testi di riferimento. – 4. Parti dell’orazione ed elementi
della peristasis. – 5. Concetto di status e controversie senza status
(asustata). – GLI STATUS RAZIONALI: 6. Considerazioni
introduttive. – 7. Coniectura.- 8. Definitio. –
9. Qualitas.
– 10. Translatio.
– GLI STATUS LEGALI: 11. Considerazioni preliminari. – 12. Verba-voluntas.
– 13. Leges contrariae.
– 14. Ratiocinatio.
– 15. Ambiguitas.
– 16 Suggerimenti
espositivi. – UNA SINTESI D’AUTORE. – Appendice SULLA ESCUSSIONE DEI TESTIMONI.
Quando si parla di retorica, al giorno d’oggi, fuori dalla cerchia degli specialisti, ciò avviene per lo più in tono critico per non dire spregiativo. C’è la convinzione infatti che il discorso retorico sia un discorso inutilmente ampolloso, vacuo, ricco di espressioni e frasi altisonanti, molto curato sotto l’aspetto formale, ma vuoto e superficiale riguardo ai contenuti. Ciò non è del tutto infondato poiché uno degli insegnamenti tipici della retorica fin dai tempi di Aristotele era quello di ampliare (auxesis, ampliatio) le argomentazioni favorevoli e ovviamente di sminuire e demolire quelle contrarie.
Ma c’è anche una
ragione storica ed è che la retorica, che S. Agostino aveva cercato di
coniugare con l’interpretazione delle Sacre Scritture, ma che nel Medio Evo era
stata messa in subordine rispetto alla logica e alla teologia dagli allievi di
Alberto Magno, Tomaso d’Aquino e Pietro Ispano, subì, verso la metà del 1500,
una decisiva modifica, che, portando a termine un già iniziato frazionamento
all’interno della sua teoria, la limitò, fino a quando rimase in vita e cioè
fino all’inizio del 1800 – allorché, al tempo di Napoleone, ne fu formalmente
abolito l’insegnamento nelle università – esclusivamente allo studio del
discorso e delle forme espressive e, in particolare delle c.d. ‘figure’, come,
per fare solo qualche esempio, la metafora, la sineddoche, l’allegoria, etc.
Era successo infatti
che, ad opera del filosofo francese Pietro Ramo (Petrus Ramus) delle cinque
parti di cui constava la retorica antica e cioè: inventio, dispositio,
elocutio, memoria, pronutiatio; ad essa venissero riservate
solo le ultime tre e soprattutto, fra di esse, la elocutio, relativa
appunto alle forme espressive, abbandonando ad una disciplina filosofica, ossia
alla dialettica le prime due e in particolare la inventio[1].
E non va trascurato
che proprio la inventio, corrispondente al titolo di una operetta
giovanile di Cicerone (il de inventione appunto), era relativa al modo
di come trovare gli argomenti con cui persuadere l’ascoltatore, e innanzitutto
ai vari tipi di questioni ai quali applicare quegli argomenti.
Almeno da cinquant’anni
a questa parte, siamo tuttavia in presenza di un ritorno alla retorica. Da un
lato i filologi come il Lausberg, dall’altro i filosofi, fra cui occupa un
posto di rilievo il belga Perelman, per non parlare dei cultori di quella nuova
disciplina che va sotto il nome di scienza delle comunicazioni hanno dato vita
addirittura a delle vere e proprie «nuove retoriche»[2].
In tutto questo
rifiorire di studi[3],
tuttavia, mi pare che ci si sia interessati finora poco o nulla dei c.d. status
causae[4].
Il che vale anche per studiosi di formazione giuridica come il Viehweg e il
Giuliani, il primo dei quali si era occupato negli anni cinquanta del metodo
argomentativo “topico”, che aveva messo a raffronto con quello della
giurisprudenza[5],
mentre il secondo, negli stessi anni, si era dedicato a più riprese al problema
della prova con ampio riferimento alle fonti retoriche[6].
In
questi ultimi tempi invece l’argomento si trova quanto meno messo a fuoco di passaggio
in due ricerche significative dal mio punto di vista, quella di una giovane
studiosa palermitana, Maria Miceli, volta ad una rivalutazione della c.d.
“prova retorica” nei confronti della prova del processo moderno, dopo la
riforma del codice di procedura penale che ha introdotto anche da noi il
sistema accusatorio[7]
e quella di un altro giovane romanista, Gian Luca Sposìto che, sia pure non con
gli stessi intenti comparatistici, si è dedicato nel 2001 ad una indagine
diretta ad approfondire la topica di Aristotele, come ripresa da Cicerone, e
altresì in un secondo tempo da Quintiliano, nella sua applicazione alla
retorica giudiziale, restando però sempre nell’ambito del mondo romano[8].
Orbene, anch’io
vorrei provare a ritornare un po’ più distesamente sul tema tentando un
esperimento didattico[9].
Tenuto conto che già
a partire da Aristotele si distinguevano esplicitamente nel mondo antico tre
generi in seno alla retorica, quello “deliberativo”, quello “epidittico” (o
laudativo) e quello “giudiziario”, vorrei far vedere, se mi riesce, come sempre
nel mondo antico s’insegnasse a coloro che avrebbero dovuto intervenire nelle
cause specie penali, in difesa dei loro clienti, ad argomentare in relazione ai
diversi tipi di controversie che si potevano configurare per quanto riguarda il
genere giudiziario.
Già da quanto detto
dovrebbe apparire che io in questa sede non intendo indagare la dottrina degli status
sul piano storico, mettendo in luce la diversa configurazione e articolazione
di tali status a seconda dei vari autori greci e latini, a cominciare da
Ermagora di Temno (II sec. a.C.), ritenuto da molti l’inventore di tale
dottrina per finire col già ricordato Ermogene (II. sec. d.C.). A questo fine,
del resto, basta e avanza l’opera di una filologa cui non mancheremo di far
riferimento, quella di Lucia Calboli Montefusco[10]
(dove questa evoluzione è felicemente evidenziata nel capitoletto finale, il
VII, Sviluppo della dottrina degli status).
Io vorrei vedere
piuttosto di illuminare quanto più è possibile la struttura tipica di ciascuno status,
almeno in linea generale, nonché gli argomenti di cui si prevedeva
l’utilizzazione per il medesimo, poiché credo che tutto questo potrebbe avere
un certo interesse, per non dire un’utilità pratica, per i futuri giudici e
soprattutto i futuri avvocati.
Non sarà male mettere
in luce al riguardo che quando, al giorno d’oggi, un processo si avvia a
concludersi con una sentenza che assolve perché “il fatto non sussiste” o
“l’imputato non lo ha commesso” o “il fatto non costituisce reato”, oppure “si
tratta di persona non imputabile o non punibile” che continuano ad essere le
tipiche formule assolutorie del codice di procedura penale anche dopo la
recente riforma, la quale in materia ha portato solo alla cancellazione della
assoluzione “per insufficienza di prove”[11], si
potrebbe dire che i nostri avvocati e i nostri giudici si muovano talora,
magari inconsapevolmente, su percorsi argomentativi analoghi a quelli degli
oratori del mondo antico, i quali però, diversamente da loro, si potevano
avvalere in materia di precisi insegnamenti da parte, appunto, dei maestri di
retorica.
Il che credo di poter
dire anche se non mancano al giorno d’oggi convegni e seminari sulle tecniche
argomentative forensi con contributi nei quali si parla anche di retorica, ma
in cui non viene mai in considerazione, se ho ben visto, la dottrina degli status
e la retorica è per lo più quella di tipo nuovo alla Perelman, o alla
maniera di altri teorici moderni come gli olandesi van Eemeren e Grootendorst[12].
Anche se con la
dovuta prudenza, si potrebbe inoltre arrivare perfino a credere o quanto meno
ad auspicare che una migliore conoscenza degli status retorici che ci
apprestiamo a studiare, potrebbe, chissà, contribuire a superare le difficoltà
ad accordarsi sulla portata di ciascuna di quelle formule assolutorie appena
ricordate.
Sebbene nessuno
scriva più, come Vincenzo Manzini agli inizi del novecento[13],
che circa le c.d. formule di proscioglimento «si fa una grande confusione,
accresciuta anche da una circolare ministeriale 22 dic. 1909 .... (e) il codice
attuale si contraddice continuamente», non mancano infatti anche oggi, sia in
dottrina che in giurisprudenza, i dubbi e le discussioni circa l’applicazione
dell’una o dell’altra formula alle varie fattispecie. In proposito basterebbe
considerare l’esistenza di diversi orientamenti circa il modo di applicare
anche la formula più semplice, quella per cui “il fatto non sussiste”, a
seconda del diverso modo, restrittivo o estensivo d’intendere il concetto
stesso di “fatto”[14], per
non parlare delle difficoltà a distinguere il diverso campo di applicazione
delle due formule “l’imputato non ha commesso il fatto” e “il fatto non
costituisce reato”[15].
Qui andrà comunque sottolineato
che, nonostante alcune diversità nella prospettazione delle conseguenze sul
piano processuale (assoluzione o non luogo a procedere) la distinzione fra le
tre formule di proscioglimento più importanti (il fatto non sussiste, il fatto
non è stato commesso, il fatto non costituisce reato) era già chiaramente
individuabile in precedenti Codici, anche se non in tutti[16].
Quello che almeno io non so è se all’origine di questa distinzione vi siano
stati o meno dei collegamenti con la dottrina degli status. A
prima vista sembrerebbe di doverlo escludere, tanto più che, come si è visto,
già dal 1500 la retorica non avrebbe riguardato più la inventio e la
dottrina degli status, anche se uno come Gian Battista Vico, nel suo
insegnamento napoletano alla Facoltà di Giurisprudenza nella prima metà del
‘700 – pur criticando il modo, ampio e pesante, in cui la materia sarebbe stata
esposta nel de inventione di Cicerone, nella Rhetorica ad Herennium,
oltrechè nella Istituzione oratoria di Quintiliano (e ciò, com’egli
scrive «in un lunghissimo capitolo di un libro opprimente») e perfino in un
«intero libro» di Ermogene – non solo aveva fatto un accenno alla dottrina
degli status, ma alla stessa aveva poi dedicato una esposizione
abbastanza dettagliata, per quanto sintetica con riferimento specifico ai vari
generi dell’oratoria[17].
Quello che non è
facile, in relazione ai nostri intenti, è scegliere un’opera da prendere come
principale punto di riferimento per illustrare la dottrina degli status
nel momento più importante del suo sviluppo nel mondo antico. Tale dottrina,
infatti, si trova esposta in varie opere che sono poi quelle stesse cui faceva
riferimento il Vico, ossia anzitutto il de inventione di Cicerone,
un’operetta giovanile più o meno identica e più o meno contemporanea (90-80
a.C.) a quella un tempo attribuita al medesimo Cicerone, che va sotto il titolo
di Rhetorica ad Herennium di cui nonostante le lunghe discussioni,
rimane ancora incerto chi sia stato l’autore.
Poi c’è, più di un
secolo dopo, l’opera fondamentale di Quintiliano (I sec. d.C.), il maestro di
retorica pagato per la prima volta dallo stato romano, di cui ci è pervenuta
una Institutio oratoria in ben XII libri, dove pure si tratta a
più riprese degli status (perlomeno nel libro III e poi nel VII). Ma
anch’essa presenta degli inconvenienti per la sua stessa vastità e il modo un
po’ dispersivo della esposizione, in cui ci sono talora delle contraddizioni o
comunque dei discorsi abbastanza ardui (tanto da mettere in seria difficoltà i
filologi non giuristi che ne hanno fatto la traduzione per la già citata
edizione della Einaudi). Quanto all’opera di Ermogene avremo modo di accennarvi
più avanti.
Dopo varie
incertezze, almeno per quanto riguarda le parti principali, io mi sarei risolto
a ripiegare sulla Rhet. ad Herennium.
Essa prima di tutto
rappresenta, al pari del de inventione di Cicerone la recezione della
dottrina greca degli status da parte della retorica latina, ma è
preferibile rispetto all’operetta giovanile di Cicerone, in quanto meno
prolissa, più schematica ed organica, per non dire che è stata fatta oggetto
per la Mondadori di una accurata edizione critica con ampia introduzione e note
di commento da parte di un valente romanista, Filippo Cancelli[18].
Non si potranno
tuttavia omettere riferimenti al de inventione e soprattutto alla già
ricordata Institutio oratoria di Quintiliano, la quale ultima
costituisce non solo il più ampio, maturo trattato della retorica latina, ma
anche il punto di incontro e di raccordo fra la tecnica retorica che si
professava in particolare nelle scuole e il mondo della pratica forense, mentre
i retori successivi saranno esclusivamente scolastici.
Per quanto infatti in
un caso Quintiliano affermi incidentalmente che «la prassi scolastica può
nuocere a chi praticherà il foro» (VII.2.54), egli non manca nemmeno di
sottolineare come vi siano per lo più delle corrispondenze perfette fra le
situazioni ipotizzate nelle scuole e quelle «trattate nei processi reali»
(VII.4.11).
Sotto questo profilo
si presta semmai fin d’ora ad un discorso particolare il problema dei mezzi di
prova. Dopo aver tracciato sulla scia di Aristotele (V.1.1) una famosa
distinzione fra prove tecniche o artificiales in quanto frutto della
tecnica retorica e prove atecniche, quali documenti, testi, etc., egli afferma
che anche queste ultime avrebbero dovuto, a suo avviso, essere «sostenute e
confutate con tutti i mezzi a disposizione dell’oratore», riprovando
decisamente l’atteggiamento di coloro (ed erano chiaramente i retori
scolastici) che «hanno eliminato dalla precettistica oratoria tutti questi tipi
di prove», mentre più avanti (V.8.1) si esaltano poi i meriti delle prove
tecniche, rappresentate dai c.d. argomenti logici, propri dell’arte retorica, che,
a loro volta, verrebbero a torto evitati da alcuni, come ardui e difficili.
Di tali argomenti
logici egli anticipa già un’ampia trattazione di carattere generale nel cap. 10
del libro V, che si conclude al § 94 con un discorso che li elenca tutti a mo’
di indice: «Dunque per riassumere brevemente, gli argomenti si ricavano dalle
persone, dalle cause, dai luoghi, dal tempo, ... dai mezzi (fra cui abbiamo
compreso lo strumento materiale), dal modo», cui segue un’elencazione
chiaramente ripresa dai Topica di Cicerone: «... dalla definizione, dal
genere, dalla specie, dalle differenze, dalle proprietà, etc. etc. ...»[19].
E ciò mentre per
quanto riguarda le c.d. prove atecniche egli ne aveva fatto una interessante
trattazione nel cap. 7 del medesimo libro V, insegnando addirittura come
comportarsi nell’interrogatorio dei testimoni, sul che torneremo a soffermarci
alla fine del nostro discorso sugli status.
Sempre in via
introduttiva vorrei accennare a due aspetti preliminari. Il primo riguarda
l’insegnamento retorico circa le varie parti in cui avrebbe dovuto articolarsi
ogni discorso specie quello giudiziario.
Esse sono exordium,
narratio, probatio, confutatio, peroratio; ossia esordio
o parte introduttiva volta a catturare l’attenzione degli ascoltatori;
narrazione dei fatti; dimostrazione probatoria degli stessi; confutazione delle
prove prodotte e che si suppone potrebbero essere prodotte dall’avversario;
perorazione o mozione finale volta questa a procacciarsi la simpatia e la
benevolenza dei giudici.
Per quanto riguarda
almeno la narratio, si potrebbe aggiungere come, nella Rhet. ad
Herenn. 1.14 siano esposti, in dichiarata conformità ad «altri scrittori»,
una serie di minuti suggerimenti affinché la stessa risulti breve, chiara e
verosimile, la quale ultima cosa viene in speciale rilievo quando, come non
si esita a dichiarare, si dovesse trattare di «cose inventate», pur insistendo
sulla necessità di «inventare con cautela su di quei fatti sui quali sembrerà
che siano intervenuti documenti o la testimonianza indiscussa di qualcuno».
Di tutti quei
suggerimenti varrà la pena di ricordare circa il requisito della brevità
quelli, molto opportuni ed efficaci, di esporre «gli esiti di avvenimenti in
modo che possano intendersi anche quelli svoltisi precedentemente, benché noi
li abbiamo taciuti», e di «guardarsi dal ripetere una o più volte la stessa
cosa», mentre poi per la chiarezza è interessante il suggerimento di «serbare
l’ordine dei fatti e dei tempi» esponendo le cose «come si saranno svolte o
sembrerà che si siano potute svolgere».
Come seconda cosa
vorrei segnalare un insegnamento che faceva parte già delle esercitazioni
preliminari allo studio della retorica[20], le
cui basi risalgono comunque ad Aristotele, e compare da ultimo in particolare
evidenza anche in un trattatello sulla retorica attribuito ad Agostino, prima
che si convertisse (Principia rhetorices 4).
Esso è molto
significativo perché riguarda gli elementi o parti della circostanza chiamata
da Ermagora perìstasis, «dalla combinazione dei quali nascono le
questioni, così come dalla combinazione delle lettere vediamo formarsi le
parole» per dirla con Agostino. Questi elementi, da tenere ben presenti per
poter trattare in maniera esauriente ogni argomento, sono: il soggetto,
l’oggetto, il dove, il perché, il quando, ma anche il modo, e gli eventuali
aiuti ricevuti. In Quintiliano essi affiorano anche nel passo già richiamato di
V.10.94 concernente gli argomenti logici.
Al tempo di Agostino
lo si diceva ovviamente in latino con espressioni che qualcuno si è anche
preoccupato di raggruppare in un esametro mnemonico che suona:
quis, quid, ubi, quibus/, auxiliis, cur, quomodo, quando.
Ma il bello è che
questo insegnamento è noto anche al giorno d’oggi solo che se ne parla come di
un precetto tipico del giornalismo inglese (o, secondo altri, americano),
facendosi riferimento ad esso, come quello dei “cinque W”, che sarebbero
appunto:
who, what, where, why, when,
di cui non manca tuttavia la versione più
completa nella quale, pur rompendosi la sequenza dei W, si aggiunge un
indispensabile how.
A questo punto possiamo
passare a definire meglio il concetto di status causae, da intendersi,
nonostante qualche discrepanza negli autori, come il nocciolo della
controversia, l’aspetto saliente intorno a cui ruota tutta la questione e che
nasce da una contrapposizione di affermazioni[21]. Di
solito si esemplifica facendo riferimento allo stato della coniectura
nascente appunto dalle contrapposte affermazioni dell’accusatore «Hai fatto» e
dell’accusato «Non ho fatto», donde la questione «se abbia fatto».
Bisognerà aggiungere
che nonostante qualche recente presa di posizione in senso contrario la
dottrina comune ritiene – come si è già accennato – che l’inventore della
teoria degli status sia da individuare in un retore
greco, Ermagora di Temno, della metà del II sec. a.C.[22]
al cui insegnamento sarebbero ispirate le prime opere retoriche romane già
ricordate (Rhet. ad Herenn. e de inventione di Cicerone).
Purtroppo di Ermagora
sono giunti a noi solo dei frammenti, che tuttavia sono bastati a ricostruirne
in vari punti il pensiero.
Quanto alla retorica
greca essa è comunque ampiamente documentata da opere più tarde e in
particolare da un’operetta intitolata proprio agli status (perì
stasèon) della metà del II sec. d.C., pervenutaci, questa, quasi integralmente
e dovuta a quell’Ermogene, autore anche di altri trattatelli, cui ci è già
capitato di accennare.
Una cosa singolare e su cui vale la pena di
soffermarsi sempre in via preliminare è che, stando proprio ad una dottrina
ermagorea di cui non è traccia nelle opere latine classiche ma che ritorna
quasi integra in Agostino oltre che in retori e commentatori greci tardi, ci
sarebbero state anche delle controversie nelle quali non si sarebbe potuto
individuare uno status e per questo chiamate con termine greco asùstata.
Ciò si sarebbe
verificato almeno in quattro casi non tutti facilmente individuabili, per
quanto Agostino stesso ce ne offra la denominazione e tenti di darcene una
esemplificazione, avanzando però lui stesso per primo dei dubbi a proposito di
qualcuno di essi.
Qui ci limiteremo a
dire che il primo, francamente poco chiaro, si sarebbe avuto quando mancasse
qualcuno degli elementi della circostanza (o peristasis) che abbiamo
visti poco sopra, oppure secondo una dottrina, contestabile[23],
ma suggestiva, l’accusatore non potesse individuare un “movente”; il secondo
avrebbe avuto a che fare con una parità fra le parti data la loro reciproca
posizione come accusatore e al tempo stesso difensore di un analogo reato (si
fa l’esempio di due soggetti che, avendo due belle mogli, avessero ciascuno
commesso simultaneamente adulterio con la moglie dell’altro); il terzo, più
importante, anche se di nuovo poco chiaro, avrebbe riguardato il caso in cui
mancasse, nel senso che fosse impossibile la difesa, come – sembrerebbe dirsi –
nel caso in cui fosse stato confessato il movente; il quarto ed ultimo, caliginosissimus,
ma, diciamo così, più divertente almeno per gli esempi che si rinvengono nei
commentatori greci[24],
avrebbe avuto a che fare con una sorta di ragionamento o sillogismo perplesso
noto anche alla speculazione filosofica per il quale i greci parlavano di àporon.
Quanto all’esempio che Agostino cerca di fornire con lodevole riferimento
ad una controversia giuridica, purtroppo non si riesce a comprenderlo bene. Si
tratterebbe di un caso in cui il giudice non avrebbe avuto modo di decidere
poiché le parti in certo senso si sarebbero scambiati i ruoli. A proposito,
infatti, di una somma di denaro che era stata data da uno ad un altro, in un
primo tempo le parti avrebbero sostenuto, in contrasto fra loro, l’attore di
averla data a mutuo ed il convenuto di averla ricevuta in deposito, mentre, in
seguito ad un mutamento legislativo al quale si accenna in maniera veramente
sibillina (dicendosi soltanto che era cambiata la legge sulle “novae tabulae”
ossia i registri dei debiti), si sarebbero invertiti i ruoli e l’attore avrebbe
sostenuto di averla data in deposito e il convenuto di averla ricevuta a mutuo.
Più significativo, ancorché poco giuridico, è l’esempio classico, che ricorre
in alcuni autori greci[25],
dell’indovino al quale i pirati avevano preso il figlio giurando che glielo
avrebbero restituito se egli avesse indovinato il loro comportamento e che
avendo appunto predetto che essi non glielo avrebbero restituito aveva dato
luogo ad una situazione irrisolvibile. Infatti se i pirati non glielo avessero
restituito avrebbero violato il giuramento di restituirglielo se egli avesse
indovinato il loro comportamento, ma, al tempo stesso, restituendolo avrebbero
ugualmente non tenuto fede al patto facendo quello che lui non aveva indovinato
essi avrebbero fatto. Non sarà male aggiungere che in un esempio simile si
parlava di una donna egizia che era andata sul Nilo e cui un coccodrillo aveva
preso il figlio proponendo un patto analogo a quello dei pirati, sicché
l’esempio veniva tramandato come quello “del coccodrillo”.
Lasciando da parte le
varie opinioni degli stessi retori antichi sul diverso numero degli status
di cui c’informa dettagliatamente Quintiliano in quella che è la sua prima
esposizione della materia (III.6.22 ss.) e prescindendo altresì dagli schemi
prospettici che si sogliono raffigurare dai moderni a proposito dei vari
raggruppamenti, delle varie divisioni e suddivisioni di status,
attribuibili ai diversi retori a cominciare ancora una volta e ovviamente da
Ermagora[26],
a noi qui basterà prendere le mosse da quella che è la ripartizione canonica
seguita dallo stesso Quintiliano fra quattro stati razionali e quattro legali,
i secondi, che esamineremo in seguito, chiamati così perché relativi a
questioni giuridiche scaturenti per lo più da un testo di legge (ma non
necessariamente), e i primi, che ci interessano ora, chiamati così potremmo
dire in contrapposizione appunto ai legali e comprendenti la: coniectura,
la definitio, la qualitas, nonché, in
appendice, la translatio.
In questa sequenza va
rilevato come, in perfetta adesione a quello che appare l’insegnamento più
diffuso nelle varie opere retoriche antiche sia greche che latine, lo stato
incentrato sulla definizione (definitio) sia appunto collocato fra gli
stati razionali, diversamente da quanto capita di vedere nella Rhet. ad
Herenn. che pure è il nostro principale testo di riferimento, dove lo
schema prospettico dei vari status è tutto particolare, essendo ispirato
forse ai seguaci del retore latino Antonio (come parrebbe emergere da un
passaggio di Quintiliano, III.6.45)[27] e la
definitio figura appunto fra gli stati legali (mentre nel de
inventione compare in entrambe le categorie di status).
Andrà anche notato
come, sempre in questa sequenza figuri altresì quello status che sarebbe
stato impiegato per la prima volta da Ermagora, basato fra l’altro sul trasferimento
della causa ad altro giudice (translatio), e ciò mentre nella Rhet.
ad Herenn. il medesimo si trova invece inserito, al pari della definitio,
fra gli stati legali (presentati tutti, per essere esatti, come species
di un unico status per il quale si parla di constitutio legalis,
accanto a quello coniecturalis e a quello iuridicialis, sicché in
definitiva in quest’opera tutti gli status si ridurrebbero a tre!).
Non sarà male
avvicinarci subito ai principali stati razionali utilizzando il modo suggestivo
in cui Quintiliano presentava tre differenti maniere di impostare la difesa
della causa, in sottesa relazione ai medesimi (III.6.83):
1° si quod obicitur negari potest,
riguardante evidentemente il caso in cui si potesse negare il fatto che veniva
contestato;
2° si non id quod obicitur factum esse
dicitur, formulazione che, per quanto in apparenza simile alla precedente,
riguardava il caso, in cui non si potesse identificare come si pretendeva il
fatto contestato;
3° quando recte factum defenditur,
ossia quando si affermava che il fatto era retto, ossia conforme al diritto.
Dopodiché Quintiliano
proseguiva invero accennando anche al quarto status col dire: «Se queste
difese mancano, resta un’ultima oramai unica salvezza, di sfuggire con qualche
espediente legale ad un’accusa che non può essere negata né confutata, in modo
che il processo appaia intentato illegalmente».
Ma qui rileva
soprattutto il discorso svolto in ordine ai primi tre stati, che rappresenta un
modo di prospettare sul piano processuale quella che sempre Quintiliano, con
riferimento a Cicerone e agli autori da lui seguiti, aveva ribadito poco prima
come fondamentale distinzione in ordine a qualsiasi questione sia teorica e
generale (thesis), che concreta e particolare (hupothesis), scrivendo
(III.6.80): «Bisogna dunque credere a coloro dei quali Cicerone ha seguito
l’autorità, che in ogni controversia tre sono gli oggetti dell’indagine: se il
fatto sussista, che cosa sia, di che qualità sia; quesiti che la natura stessa
prescrive: infatti in primo luogo deve esserci qualcosa di cui si discute,
perché certamente non può valutarsi che cosa sia e quale sia se prima non sia
risultato che esiste; perciò quella è la prima questione. Ma non immediatamente
appare anche che cosa sia ciò che manifestamente esiste. Stabilito anche
questo, resta per ultima la qualità, e dopo aver indagato questi aspetti non
c’è più altro. In queste categorie sono contenute le questioni indefinite e
quelle finite ... e ..nessuna discussione di diritto può essere sviluppata se
non mediante la definizione, la qualità e la congettura».
Questa affermazione
veniva, del resto, a sua volta, alla fine di un lungo excursus iniziato
nel medesimo capitolo, al § 44, quando sempre Quintiliano aveva scritto:
«Moltissimi autori hanno stabilito tre stati generali; anche Cicerone se ne
serve nell’Orator e reputa che essi contengano tutti gli argomenti che
ricadono in una controversia o in un contenzioso: se (il fatto) sussiste, che
cosa sia, di che qualità sia ...».
Cominciando dalla coniectura,
con cui si rispondeva al quesito “an sit”, bisognerà rifarsi a
Quintiliano il quale (VII.2.7 ss.) poneva, anche se in maniera non del tutto
perspicua, alcune distinzioni che non c’erano nella Rhet. ad Herenn.,
individuando varie ipotesi fra cui emergono quella in cui si discutesse
dell’esistenza del fatto in sé e per sé (o del fatto insieme all’autore) e
quella, soprattutto, relativa solo all’autore essendo il fatto certo e che era
poi la più frequente e di cui si occupa più distesamente.
Per quanto riguarda
l’accertamento del fatto in sé e per sé, che poteva configurare una questione
semplice («E’ morto un uomo?») o duplice («E’ morto per ingestione di veleno o
per indigestione?») Quintiliano mette in luce come nella discussione si
tentasse anche in questo caso di ricercare la verità attraverso dei
ragionamenti (non esistevano, infatti, i mezzi scientifici di accertamento che
ci sono oggi), per cui si guardava alle circostanze oggettive della vicenda, ma
anche all’età della vittima, all’esistenza di malattie etc. Egli fa anche
intendere come la prova dell’esistenza del crimine spettasse soprattutto
all’accusatore (cfr. § 12: «Quando diciamo: ‘apporta prove che l’uomo è stato
ucciso’ il compito è soltanto dell’accusatore»).
Nella realtà però era
difficile che si discutesse solo dell’esistenza di un crimine di cui, se
provato, era certo l’autore, al quale riguardo esisteva un esempio di scuola
del figlio che avendo studiato medicina aveva dato al padre ammalato una
pozione preparata da lui stesso, che tuttavia ne aveva anche bevuta una parte,
quando il padre, prima di morire, aveva detto di essere stato avvelenato (§
17). Per lo più si discuteva dell’esistenza di un crimine e del suo autore, ma,
come aggiunge Quintiliano (§ 15 s.), anche in questo caso, l’accusatore, pur
essendo richiesto in teoria di dimostrare come prima cosa che il fatto era
stato commesso e poi che lo era stato da parte dell’accusato, in pratica
capovolgeva quest’ordine se aveva molte prove da portare sulla persona, mentre
per conto suo il difensore avrebbe ‘affermato’ in prima istanza che il crimine
non era stato commesso, ma appunto “affermato”, perché la prova non spettava a
lui, sicché si direbbe che, in definitiva, più spesso non si discutesse della
questione del fatto in sé e per sé ma subito su chi ne fosse stato
responsabile.
Come si è già notato
del resto e sottolinea Quintiliano (§ 18) nella maggior parte dei casi il
crimine era sicuro e si discuteva solo del suo autore, questione alla quale si
dedica esclusivamente la Rhet. ad Herenn.
Prima di andare
avanti dovremo piuttosto affrontare un problema che viene spontaneo porsi
leggendo le nostre fonti. Noi penseremmo infatti che il quesito sulla
‘colpevolezza’ o meno dell’imputato avrebbe potuto essere affrontato
utilizzando anzitutto le prove c.d. atecniche come in particolare la
testimonianza, ma dobbiamo constatare che di ciò non si trova mai detto niente
in maniera sufficientemente chiara, fino a che non si arriva ad Ermogene, il
quale quasi all’inizio della sua trattazione di questo status ipotizza
la presenza o meno di testimoni (45.-46.3). Costui peraltro si limita a
soggiungere che i medesimi avrebbero dovuto essere attaccati con argomenti
standard, ossia luoghi comuni come quelli cui, come vedremo, si accenna invero
anche nell’auctor ad Herenn. 2.8 in questo caso però
(quasi di sfuggita) alla conclusione di tutto il discorso sulla coniectura.
Tutto ciò si potrebbe
spiegare, almeno in parte, alla luce dell’atteggiamento di alcuni retori
contrari ad occuparsi delle prove tecniche, come abbiamo visto aveva ricordato
Quintiliano. Anche il comportamento di quest’ultimo, comunque, per conto suo,
appare un po’ singolare. Mentre infatti nel libro V parrebbe trattare
espressamente, come si è già visto, di tutti i tipi di prova già illustrati da
Aristotele, sottolineando in via generale l’importanza delle prove atecniche e
insegnando addirittura come comportarsi nell’interrogatorio, incrociato, dei
testi (V.7), sul che ritorneremo più da vicino in appendice al nostro discorso
sugli status, quando anch’egli nel libro VII viene a parlare
espressamente della coniectura, non fa il minimo accenno esplicito alle
testimonianze o altre prove atecniche (VII.2).
Si potrebbe però
anche aggiungere, sempre a questo proposito, che, come denota il termine latino
coniectura, equivalente al greco stocasmòs, quello di cui si
parla era un tipico caso di processo indiziario per il quale dovevano
per lo più mancare prove oggettive, donde la necessità di impostare e risolvere
la questione sulla base soprattutto di argomentazioni logiche, fornite appunto
dall’insegnamento dei retori.
Lo provano del resto
a sufficienza gli esempi concreti che si incontrano nelle fonti di cui
(tralasciando quello della Rhet. ad Herenn. I.18, relativo a un
evento mitico come Ulisse sospettato di aver ucciso Aiace, che invece si era
suicidato) mi piace qui ricordare quello che si trova ad un certo punto nel de
inventione di Cicerone (II.14), relativo a due persone incontratesi
sulla strada per andare al mercato, che si erano fermate a cenare e a dormire
insieme in un’osteria. Di notte, infatti, l’oste uccide, per derubarlo, uno dei
due con la spada dell’altro, il quale, al mattino molto presto, parte da solo,
ritenendo che l’amico dorma della grossa, non avendo risposto ai suoi ripetuti
richiami, ma viene più tardi inseguito, catturato e, a causa della sua spada
insanguinata, condotto in città e accusato di omicidio.
Orbene per passare in
rassegna le argomentazioni relative a questo status, ossia la “topica” circa
il medesimo come si esprime la Calboli Montefusco[28],
ci rifaremo invece fondamentalmente alla Rhet. ad Herenn., dove esse
sono svolte in maniera distesa e con un certo rigore, mentre appaiono molto
meno bene esposte e sviluppate nello stesso de inventione di Cicerone,
dove si parla solo di tre loci: ex persona ex causa, ex
facto ipso[29] e
parimenti in Quintiliano, chiaramente ispirato, ma fino ad un certo punto,
all’operetta ciceroniana (parlandosi di personae, causae,
consilia: cfr. VII.2.27 ss.).
Con un sistema
espositivo che potrebbe in certo senso avvicinarsi a quello che si troverà in
Ermogene, dove si elencano ben dieci capi (kefàlaia), anche se fra le
due opere ci sono al riguardo scarsissime coincidenze, nella Rhet. ad
Herenn. II.3, si comincia a trattare della coniectura, elencando le
sei partes che ne costituirebbero il “fondamento” – come traduce qui ratio
il Cancelli – e cioè, sempre tenendo conto della traduzione di questo studioso:
probabile, “probabilità”;
conlatio, “riscontro”;
signum, “indizio”;
argumentum, “deduzione”;
consecutio, “conseguenza”;
adprobatio, “avvaloramento”.
La “probabilità” che
si suddivide in movente (causa) e vita (vita) – corrispondendo
grosso modo a due dei tre fondamentali loci argomentativi del de
inventione e di Quintiliano – prevede che si prospetti anzitutto, appunto,
un movente del reato:
- per speranza di
vantaggi, come «onore denaro, preminenza (dominatio)», ovvero
- per soddisfare
qualche «passione d’amore o di consimile brama»,
oppure
- per evitare qualche
danno come «inimicizie, disonore, dolore pena».
Di seguito a questa
elencazione, che si presenta in ogni caso più articolata di quella di
Quintiliano[30]
che, a proposito della causa, parla genericamente di «ira, odio, timore,
cupidigia, speranza» (VII.2.35), si afferma poi che per quanto riguarda la
speranza di vantaggi, l’accusatore mostrerà la bramosia dell’avversario, mentre
«esagererà» la paura del medesimo «riguardo all’evitare il danno».
E ciò, mentre dal canto
suo il difensore «se potrà, negherà che vi era il movente, o lo sminuirà
fortemente; poi dirà che è iniquo che tutti quelli ai quali da qualche fatto
pervenne qualche giovamento, siano fatti venire in sospetto di reato».
Circa
la vita ossia, come si dice espressamente «i precedenti» dell’accusato, il
discorso si articola sulla necessità di ricercare come prima cosa: «se talvolta
fece qualcosa di simile ... o se sia venuto in un simile sospetto», cercando di
dimostrare come «la vita del soggetto possa essere congruente con quel movente
del reato» esposto in precedenza. Seguono specifici suggerimenti
esemplificativi, i quali si concludono con l’insegnamento di come comportarsi
qualora il reo sia risultato in precedenza un soggetto «puro ed integro» e cioè
quello di dire «che bisogna guardare ai fatti, non alla fama; che quello in
precedenza aveva occultato le sue infamie; che egli farà chiaro che il delitto
non gli è estraneo».
Insegnamenti consimili
vengono però dati anche al difensore al quale viene suggerito:
- se possibile di
dimostrare la vita “integra” dell’accusato;
- altrimenti di
invocare delle scusanti quali «imprudenza, ingenuità, giovinezza, costrizione,
suggestione».
Se
però si troverà in presenza di «disonestà e infamia del soggetto», sempre il
difensore «si adopererà di sostenere che delle false voci sono state diffuse su
di un innocente, e impiegherà il luogo comune che alle dicerie non bisogna
credere», mentre, non potendo fare neppure questo, ricorrerà alla «difesa
estrema» di dire che «lui non sta trattando dei costumi di quello davanti ai
censori, ma delle accuse degli avversari davanti ai giudici».
Segue la collatio
che come abbiamo già visto il Cancelli traduce con “riscontro” e che si avrebbe
quando «l’accusatore dimostra che quello di cui l’avversario è accusato di aver
commesso non fu utile ad altri ... o che nessun altro poteva commetterlo ...»,
mentre, viceversa, il difensore cercherà di mostrare «che anche ad altri fu di
utilità o che anche altri avrebbero potuto commetterlo».
Il signum o
indizio riguarda le circostanze in cui si è verificato il fatto, favorevoli o
contrarie alla realizzazione del medesimo, da giocare evidentemente in maniera
diversa a seconda del punto di vista accusatorio o difensivo, mettendo in luce
cioè:
- se il luogo fosse «frequentato o solitario, sempre solitario o quando … si commise il fatto», se «sacro o profano, se pubblico o privato», se tale che la «vittima possa essere stata riconosciuta, chiaramente intesa» (luogo);
- in quale periodo dell’anno, se di giorno o
di notte, in che ora sia stato commesso il fatto e perché in tale momento
(tempo);
- se ci sia stato agio di commettere il fatto
e soprattutto se l’imputato abbia saputo o potuto sapere ciò o «ragionevolmente
prevederlo» (durata);
- se l’occasione sia stata «opportuna o se
altra ve n’era migliore che fu trascurata o non aspettata» (occasione);
- se vi sia stata speranza di compiere il
fatto in presenza di indizi come quelli già detti ed inoltre guardando da una
parte e dall’altra alla presenza di condizioni favorevoli («forze, denaro,
disegno, conoscenza, preparativi») o sfavorevoli («fiacchezza, mancanza di
mezzi, ingenuità, imprevidenza, impreparazione», ed inoltre a come si sarebbe
potuto «sapere se era da disperare o da confidare (nella riuscita)»; nonché,
infine,
- se vi fosse speranza di occultare il fatto
in considerazione della presenza di «complici, testimoni, fautori, liberi o
schiavi o gli uni e gli altri».
E’ la volta dell’argumentum
o “deduzione” per cui il fatto si potrebbe «arguire con argomenti più manifesti
e con più fondato sospetto», riguardando esso molte circostanze e fra l’altro
il comportamento dell’imputato in tutti e tre i momenti, precedente, simultaneo
e successivo al fatto.
In effetti è qui che,
come vedremo, vengono in speciale considerazione quegli elementi probatori
tipici anche oggi del processo indiziario, come arma usata, tracce di sangue
sui vestiti etc.
La nostra fonte è
comunque più diffusa e si presta ad essere letta integralmente:
«Per il tempo
precedente bisogna considerare dov’era l’imputato, dove fu visto, con chi fu
visto, se fece qualche preparativo, se s’incontrò con qualcuno, se disse
qualcosa, se qualcosa ricevé dai complici, dai fautori, dagli appoggi; se era
in qualche luogo fuor d’abitudine o in tempo insolito.
Per il tempo
simultaneo si chiederà se fu visto mentre agiva[31], se
si udì bene qualche fracasso, grido, scricchiolio, o, infine, se qualcosa fu
percepito da qualche senso: vista, udito, tatto, odorato, gusto: ché qualunque
di questi sensi può suscitare il sospetto.
Per il tempo successivo
si esaminerà se, dopo commesso il fatto, è stato lasciato qualcosa che indichi
che è stato commesso il reato o da chi è stato commesso.
Che sia stato
commesso (si indagherà) in questo modo:
se il corpo del morto
è deturpato da gonfiore o lividura significa che quello è stato ucciso dal
veleno.
Da chi sia stato
commesso a questo modo:
se un’arma, se un
abito, se qualcosa di simile è stato lasciato, o se è stata scoperta qualche
traccia del fatto; se sangue nei vestiti; se (il soggetto) è stato sorpreso o
visto dopo compiuto il fatto in quel luogo dove si afferma essere avvenuto».
Viene invece
presentato singolarmente come argomento a sé quello successivo della c.d. consecutio
o “conseguenza” avente a che fare con i «segni della colpevolezza o dell’innocenza
che sogliono seguire», come sarebbe «se quando si andò da lui» l’imputato
«arrossì, impallidì, balbettò, si contraddisse, svenne, promise qualcosa»,
tutti segni che l’accusatore cercherà di valorizzare, senza preoccuparsi
tuttavia se non ve ne siano, pronto a sostenere che il reo «fino a tal punto si
preparò a ciò che gli sarebbe accaduto che sfacciatissimamente seppe
controllarsi e rispose», sintomi questi non già di innocenza ma al contrario di
audacia (la qual cosa appare molto più elegantemente detta in latino signa
confidentiae, non innocentiae). E ciò mentre dal canto suo
il difensore sarà pronto a far leva sull’assenza di quei segni, ma anche a far
passare eventuali segni di spavento come turbamento «per la gravità del
pericolo non per coscienza rea».
Come si vede, più che
considerare in sé e per sé questi atteggiamenti del colpevole successivi al
fatto si insegna più che altro a valorizzarli, il che apre bene il discorso
all’ultima parte della coniectura, rappresentata dalla adprobatio
o “avvaloramento” che in effetti riguarda soprattutto una serie di
tipici ‘luoghi comuni’ o affermazioni standard che si potrebbero usare in un
senso e nell’altro a rafforzare o sminuire quelle che sono vere e proprie prove
atecniche, come testimoni, deposizioni sotto tortura (oggi potremmo riferirle
alla c.d. macchina della verità), «deduzioni, indizi e altri elementi di
sospetto», voci e dicerie. Qui potrà essere sufficiente leggere l’insegnamento
a proposito dei testimoni anche perché si conclude con un interessante accenno
all’interrogatorio dei medesimi, sul che ci ripromettiamo di ritornare più
avanti, utilizzando come fonte l’Institutio di Quintiliano.
«In favore dei
testimoni diremo nel senso della autorevolezza e della vita dei testimoni e
della coerenza delle testimonianze; contro i testimoni: l’indegnità della vita,
la incoerenza delle testimonianze; se diremo o che non sarebbe potuto avvenire
o che non avvenne quello che depongono, o che essi non avrebbero potuto saperlo
o che riferiscono con partigianeria e congetturano. Questo atterrà tanto allo
screditamento, quanto all’interrogatorio dei testimoni».
Guardando indietro,
in ricapitolazione mentale, al complesso delle argomentazioni illustrate
sembrerebbe lecito riportarle tutte in vario modo a tre categorie, che
potrebbero soddisfare l’impostazione introdotta ad un certo punto e sviluppata
nel discorso un po’ ondivago di Quintiliano in tema di coniectura, ossia
quella concernente la necessità di dimostrare che l’imputato [1] «ha avuto
l’intenzione ... [2] ha avuto la possibilità», [3] ha effettivamente «compiuto
il crimine» (si vedano VII.2.45-46, nonché in maniera riassuntiva § 56), anche
se concretamente non sarebbe facile articolare la riduzione delle varie
argomentazioni svolte a proposito delle sei parti della Erenniana alle
tre della impostazione di Quintiliano.
La quale ultima
impostazione, ma io vorrei credere anche buona parte dei suggerimenti e delle
argomentazioni che abbiamo passato in rassegna alla luce della Rhet. ad Herenn.,
potrebbero giovare, se tenuti presenti, anche agli avvocati di oggi quando si
tratta di stabilire se “il fatto sussiste” e, soprattutto, se l’imputato “ha
commesso il fatto”, che sono due modi diversi di rapportarsi al reato nella
moderna dottrina processuale penale, ma che, come emerge da quanto abbiamo
avuto modo di esporre specie con riferimento a Quintiliano, sarebbero stati per
i retori antichi da ricondurre tutti e due al medesimo status della coniectura.
Sul che potrebbero
anche riflettere gli autori moderni, portati a fare un uso ampio e improprio
della dichiarazione sul fatto che “sussiste” o meno, specie tenendo conto fra
l’altro di una circostanza importante su cui mi piace richiamare l’attenzione,
ossia che, sia pure a proposito della sentenza di proscioglimento in
istruttoria, nel Trattato del Manzini[32],
parlando sotto la lettera a) della Insussistenza del fatto, venivano
prospettate come sottospecie di tale motivazione entrambe le “indicazioni”: aa)
“perché il fatto non sussiste” e bb) “perché l’imputato non ha commesso
il fatto”.
Vorrei in ogni caso
ancora una volta sottolineare, per concludere, l’importanza delle
argomentazioni retoriche su cui ci siamo soffermati per l’ipotesi in cui ci si
trovi di fronte a casi di processi meramente “indiziari”, in mancanza cioè di
prove decisive, che sono più frequenti di quanto si possa credere a prima
vista, argomentazioni che, prescindendo dai ‘luoghi comuni’ finali, si
potrebbero riassumere e schematizzare come:
1. movente;
2. precedenti;
3. confronto (fra l’imputato e altri soggetti
che avrebbero o meno avuto lo stesso interesse a compiere il delitto);
4. circostanze indiziarie di fatto;
5. comportamenti dell’imputato, prima, durante e
dopo il fatto.
Il tutto con
l’avvertenza di riportare al n. 4 quelle tracce collocate nella Rhet. ad
Herenn. sotto l’argumentum per il tempo successivo, e di mettere al
posto di queste gli atteggiamenti dell’imputato considerati separatamente,
sempre nella Rhet. ad Herenn., sotto la consecutio.
Se la coniectura risponde
al quesito an sit, a quello concernente il quid sit provvede lo status
finitivus o della definitio che, di solito, nelle trattazioni
retoriche antiche, era considerato anch’esso uno stato razionale, mentre in
qualche caso si trova preso in considerazione fra gli stati legali, come capita
– e lo si è già visto – proprio nella Rhet. ad Herenn.,
oppure contemporaneamente sia fra gli uni che fra gli altri, come nel de inventione.
In effetti anche
nella Rhet. ad Herenn. (dove il discorso iniziato in I.21 continua in
II.17) non si tratta, almeno in termini espliciti, di interpretare una parola
posta in un testo di legge – com’è in Quintiliano (VII.3.7), dove si esamina il
caso in cui «la controversia riguardi il termine dipendente da una legge
scritta ...» – ma di ‘precisare brevemente il significato di un vocabolo’, come
maiestas, per poter giudicare un certo comportamento[33].
Si fa infatti
l’esempio di uno, il quale, per opporsi alla votazione di una legge che avrebbe
causato un danno all’erario sia ricorso a vie di fatto, interrompendo e
rendendo impossibile la votazione stessa. Essendo costui accusato di maiestas,
si pone il problema di stabilire cosa significhi violare la maiestas
dello stato romano, e mentre da parte dell’accusatore si afferma che «menoma la
maestà dello Stato colui che sopprime quegli elementi di cui consta la
grandezza della comunità», invece da parte dell’accusato si sostiene che
«menoma la maestà dello Stato colui che cagiona danno alla grandezza della
comunità», nel primo caso per far rientrare il fatto nella breve definizione
data e nel secondo per escludere che il fatto vi rientri.
Il che qui andrà
preso come esempio di un metodo, senza preoccuparsi di comprendere in che senso
la differenza fra le due definizioni potesse consentire o impedire la
ricomprensione del comportamento esemplificato nel reato in discorso.
Quelli che contano
sono, infatti, i suggerimenti dati ad entrambe le parti, ossia di:
- (a) fornire
ciascuna una propria descrizione del termine da definire, breve e adatta al caso
in discussione (ad causam accommodata);
- (b) rapportare il
proprio caso a quella descrizione;
- (c) confutare
infine «la consistenza della definizione avversaria, se sarà o ingannevole, o
inapplicabile, o vituperevole o ingiusta» (e ciò in conformità alle varie parti
del diritto che si vedranno a proposito dello status qualitatis).
Ma ancora una volta
sarà opportuno tenere presente altresì il discorso di Quintiliano, sebbene non
tutto perspicuo e purtroppo viziato in qualche punto da alcuni errori o lacune.
Egli infatti comincia (VII.3.1) col contrapporre agli esempi di coniectura:
«Non ho commesso il furto»; «Non ho ricevuto il deposito»; «Non ho commesso
adulterio» quelli tipici della definitio: «Questo non è furto»; «Questo
non è <deposito>»; «Questo non è adulterio». Poi chiarisce che la
definizione è «una spiegazione del tema proposto, pertinente, chiara ed esposta
con concisione» (VII.3.2), e più avanti, dopo alcune considerazioni che non
sono tutte comprensibilissime ma nemmeno importanti ai nostri fini, e dopo aver
ipotizzato delle definizioni teoriche (che si debba definire che cosa è Dio,
che cos’è la retorica), prosegue in questo modo: «E questo genere di questioni
è molto frequente nei processi. Così infatti si indaga se è adultero un uomo che
sia stato sorpreso in un postribolo con la moglie di un altro, poiché si
discute non sulla denominazione del fatto, ma sul fatto stesso, cioè se
comunque l’accusato ha commesso un crimine; infatti se lo ha commesso non può
essere altro che un adultero».
Purtroppo anche
questo discorso nella parte finale non brilla per chiarezza poiché sembrerebbe
più consono alla coniectura che alla definitio. Ma forse
l’autore intendeva soprattutto contrapporre il caso a quello che segue
immediatamente della controversia che consistit nomine, quando si
tratta di interpretare un termine di legge, per sottolineare appunto che nel
primo caso non si trattava di interpretare un nome, ma un comportamento[34].
Poco più avanti del resto, sempre Quintiliano, nel teorizzare – opponendosi con
riluttanza a Cicerone – tre possibili modi di configurare il problema della
definizione, o come dice lui (VII.3.8) «tre specie di definizione», viene a
configurare espressamente il caso in cui si esamina se un certo termine si
adatta ad un certo fatto, come nell’esempio del postribolo per il quale si
discute se «si tratti di adulterio» (gli altri due casi essendo quello in cui
si esamina se si tratti di uno o di un altro reato, furto o sacrilegio, e
quello in cui si indaga «riguardo a cose diverse per specie, se due reati
debbano essere definiti allo stesso modo»).
Quanto agli
insegnamenti per le parti naturalmente anche in Quintiliano si trova ribadita
la necessità (“duplice”) di «confermare la nostra definizione e distruggere
quella della parte avversa» (VII.3.19), al qual fine si sottolinea (ibid.
23) come «La definizione è confutata i due casi, se è falsa o se è incompleta».
Orbene, se guardiamo
allo status di cui ci siamo appena occupati dal punto di vista di un
avvocato moderno, pur non essendo facilmente configurabile per quest’ultimo la
possibilità di elaborare una propria definizione di un reato, come di un
qualsiasi istituto giuridico ad causam accommodata, dopo
che da centinaia di anni i codici stessi ne forniscono quasi sempre la ‘nozione’,
ripresa oltretutto e ridiscussa spesso dalla dottrina e dalla giurisprudenza,
non parrebbe neppure da escludere che a livelli più o meno marginali, restino
anche a lui degli spazi per delle importanti puntualizzazioni di carattere
definitorio.
Il che potrebbe
soprattutto verificarsi, quando si tratti di accertare se “il fatto costituisce
reato”. Non è d’altronde chi non veda come potrebbe apparire calzante per
rapportare lo status della definitio alla formula assolutoria secondo
cui “il fatto non costituisce reato”, l’esempio significativo che abbiamo visto
circa l’ipotesi di una unione con la moglie altrui in un lupanare, a proposito
della quale si discuteva appunto se potesse qualificarsi come adulterio.
La quale correlazione,
se condivisibile, di uno status a sé come la definitio con la
formula “il fatto non costituisce reato”, dovrebbe servire ad escludere, senza
bisogno di tante disquisizioni dogmatiche, la possibilità di confondere la
formula in questione con quella “l’imputato non ha commesso il fatto”[35],
essendo appunto quest’ultima da riportare, come si è visto in precedenza, allo status
della coniectura[36].
Più complesso è il
discorso riguardante lo status di cui ci accingiamo a trattare, ossia
quello della qualitas che si aveva quando come nella definitio,
si ammetteva il fatto contestato ma si discuteva intorno alla sua legittimità o
quanto meno alla sua giustificabilità (qualis sit). Si tratta di uno status
che si articolava in varie divisioni e suddivisioni, le quali tuttavia sono
pressoché le stesse nelle varie fonti retoriche sia greche che latine, come
emerge dagli schemi prospettati nella Introduzione di F. Cancelli alla Rhet.
ad Herenn. (XLIII s.), ai quali si potrebbero aggiungere quelli ricavabili
da Quintiliano e altresì da Ermogene. Anche per questi motivi noi ci riferiremo
come si è fatto per la coniectura direttamente alla Erenniana,
data la sua maggiore schematicità e precisione, salvo a ricordare altresì le
espressioni greche che lo stesso Quintiliano richiama puntualmente e che
corrispondono ai termini latini anche se non da un punto di vista lessicale,
nel senso che i termini latini non appaiono come una traduzione di quelli
greci.
Ordunque, già nel
libro I della Rhet. ad Herenn. dove tuttavia con reminiscenze ermagoree,
si parlava, come si è già visto, della qualitas come status
iuridicialis, un tale status o constitutio era presentato
(I.24) come suddiviso in due partes una absoluta ed una adsumptiva,
due qualificazioni che appaiono usate, pur non essendone una traduzione
letterale (come nota per conto suo espressamente Quintiliano, VII.4.4 e 7), al
posto delle espressioni greche con cui si indicavano queste due parti, ossia,
rispettivamente, antilepsis (che si potrebbe rendere con ‘confutazione’
nel senso di ‘giustificazione’) e antithesis (che si potrebbe rendere
con un ancor più generico ‘opposizione’).
Quanto alla qualitas
absoluta, come si torna a ribadire nel libro II della Rhet. ad
Herenn. dove (II.19) se ne parla come «stato assoluto di giuridicità»,
essa riguarda l’ipotesi in cui si voglia dimostrare che il fatto che
confessiamo di aver commesso «è stato compiuto secondo il diritto», senza
ricorso ad alcuna difesa estranea. Ma non si forniscono esempi. Trattandosi di
ritrovare in qualche norma giuridica la giustificazione di quello che abbiamo
fatto, si fornisce semmai un catalogo delle varie parti del diritto,
ridistinguendosi fra «natura, legge, consuetudine, giudicato, equo e onesto,
patto», di ciascuno dei quali si dà il concetto con qualche esempio. Di tutto
questo, peraltro, che sarebbe interessante in uno studio storiografico intorno
appunto alle varie parti del diritto in confronto con le fonti giuridiche in
argomento, noi non dobbiamo occuparci in questa sede, dove ci basta mettere in
luce i modi di argomentazione retorica sulle varie cause[37].
Il discorso al
riguardo di Quintiliano (VII.4.4) sebbene più sintetico parrebbe più eloquente
facendosi l’esempio di un’azione “rimproverata”, di cui si sostiene che è
“onesta” («Un figlio è diseredato perché contro il volere paterno ha prestato
servizio militare, ha ambito alla magistratura, si è sposato: difendiamo ciò
che abbiamo fatto»).
Più significativo
comunque, sempre per quanto riguarda lo status della qualitas,
si configura l’insegnamento circa la qualitas adsumptiva, che si ha
quando (Rhet. ad Herenn. I.24) «la difesa sarebbe in sé debole» e la «si
avvalora col ricorso ad elementi estranei», al che si procede variamente a
seconda di ognuna delle quattro ipotesi in cui la “parte assuntiva” si
suddivide e che, essendo enunciate in un ordine che cambia nei prospetti dei
vari autori e perfino fra il I e il II libro della Rhet. ad Herenn., noi
presenteremo a modo nostro.
Tali quattro ipotesi,
le quali si individuano con dei nomi latini che sarebbe opportuno mantenere,
anche se qui li faremo seguire dai termini corrispondenti italiani ripresi
dalla traduzione di Filippo Cancelli (senza trascurare le originali
denominazioni greche, alle quali in questo caso i medesimi nomi latini sono
oltretutto equivalenti), sono dunque le seguenti:
- comparatio, “comparazione” (in greco
antìstasis);
- translatio criminis, “riversamento
della colpa” (meglio identificata dal termine antènklema);
- remotio criminis, “esclusione
della responsabilità” (in greco metàstasis);
- concessio, “ammissione” (in greco sungnòme).
Quanto alla comparatio,
nella Rhet. ad Herenn. II.21 si parla, in maniera
piuttosto sibillina, di un confronto fra «quello che l’imputato dice d’aver
fatto» e «quello che l’accusatore sostiene che si sarebbe dovuto fare ...»,
mentre qualcosa di più mi parrebbe che si ricavi da Quintiliano (VII.4.9),
secondo cui l’azione potrebbe essere difesa in quanto compiuta «per un
vantaggio o dello Stato o di molti uomini o anche dello stesso avversario», più
raramente ma specie nei processi privati anche per un vantaggio dello stesso
convenuto, soprattutto qualora si sia agito più che altro per evitare degli incommoda.
Fra gli esempi di quest’ultimo caso – che è piuttosto singolare – c’è quello
del figlio che si difende nei confronti del padre, il quale lo vorrebbe abdicare,
ossia espellere dalla famiglia, sostenendo di aver tenuto il
comportamento che gli viene rimproverato (ma che non viene chiarito) nel
proprio interesse[38]. Più
avanti comunque (al § 12), si accenna anche ad una «difesa che si fonda sul
principio di sostenere un’azione (compiuta) per evitarne una peggiore, poiché
nel confronto dei mali il più insignificante occupa il posto del bene»
(principio del “male minore”).
La translatio
criminis, indicata nel de inventione come relatio criminis
(e che meglio si identificherebbe con una contraccusa pensando al temine greco antènklema),
si aveva quando «dall’imputato si riporta la cagione del fatto al delitto di
altri», come si legge nella Rhet. ad Herenn. (II.22), dove tuttavia,
ancora una volta, non si fanno esempi, mentre in Quintiliano, per quanto il
discorso al riguardo sia molto sintetico (VII.4.8) si fa un esempio
apparentemente chiaro di questo tipo di difesa che consisterebbe nel dire «E’
stato ucciso, ma era un ladro», oppure «E’ stato accecato, ma era un
rapinatore». Il che sembrerebbe poter alludere ad un caso di legittima difesa.
A questo riguardo
potrebbe essere interessante anticipare qui una citazione da Vico[39]:
che, parlando della qualitas in generale, scriveva (22.47) «L’autore
afferma: ‘Hai ucciso’. Il convenuto obietta: ‘Ho ucciso, ma legittimamente’. Da
questa affermazione e negazione nasce lo stato della qualità: ‘Se abbia ucciso
legittimamente’. L’accusato presenta la ragione della obiezione: ‘Infatti ho
ucciso per difendermi’ (“nam mei defendendi causa interfeci”)»[40].
Se peraltro leggiamo
tutta la illustrazione, compresi i loci argomentativi, della Rhet. ad
Herenn. (II.22), potrebbe venir fatto di credere che in questa
‘contraccusa’[41]
rientrasse soprattutto il richiamo a delitti analoghi commessi da altri, i
quali non erano stati processati e che l’imputato avrebbe in qualche modo
inteso punire .
Da non confondere con
questa translatio o relatio è, comunque, la remotio criminis corrispondente
alla metàstasis dei Greci, per la quale è caratteristico lo scaricarsi
della responsabilità riportando la causa del proprio comportamento ad altri –
ma anche, ciò che è meno chiaro, ad una cosa – dove per altri sarebbe da intendere
chi ci abbia indotto a fare o meglio ancora ci abbia ordinato di fare, sempre
che si dimostri che costui ne aveva il potere e che non ci si sarebbe potuti
sottrarre senza grave rischio (come sottolinea Cancelli alla nt. 54 di p. 355).
Quanto alla cosa a cui si potrebbe addossare la causa del nostro gesto, in
Quintiliano (VII.13-14), dove per la persona si fa l’esempio significativo di
chi avrebbe potuto giustificare il suo comportamento con un ordine del proprio
“comandante”, si allude al precetto di una legge (che avrebbe impedito di
eseguire le disposizioni di un testamento), il che però male si distingue da
un’altra giustificazione di cui stiamo per dire quella della necessitas,
come del resto parrebbe emergere anche dalla Erenniana in cui (II.26) si
richiamano espressamente le considerazioni svolte per la “necessità”.
La quale ‘necessità’
è una delle scusanti invocabili nell’ambito dell’ultima ipotesi di qualitas
absumptiva, che si chiama, come si è già visto, concessio. Questa infatti
si divide in due modi, la purgatio (o “giustificazione” secondo
Cancelli) e la deprecatio (o “deprecazione”), avendosi a che fare con la
purgatio quando si ammette sì di aver compiuto la cosa (concessio!),
ma non intenzionalmente e si invocano appunto come scusanti o la necessitas o
la fortuna (nel senso di “caso”) o la imprudentia.
Quanto alla necessitas
sono interessanti gli accertamenti che si suggeriscono sempre nella Rhet. ad
Herenn., II.23-24, volti appunto a stabilire: «se per propria colpa si sia
giunti alla necessità [se la colpa abbia cagionato la necessità]; ... in qual
modo quella forza (maggiore) poteva evitarsi o alleviarsi»; poi se l’imputato
«fece tentativi per quel che si potesse fare o escogitare a riparo»; quindi «se
possano desumersi alcuni elementi di sospetto, secondo lo stato congetturale,
che indichino che il fatto che si afferma accaduto per necessità, sia
stato commesso intenzionalmente»; nonché, da ultimo, se, pur riconoscendosi
l’esistenza di una necessitas, questa sia da ritenere una «causa
sufficientemente adeguata». In Quintiliano (VII.4.14) si faceva al riguardo
anche l’esempio di un soldato che dicesse di non essere potuto rientrare perché
impedito «da un fiume in piena o dalla salute».
Mentre circa il
“caso” (fortuna) si fa semplicemente rinvio a «tutte quelle
considerazioni che sono state prescritte sulla necessità», si fanno alcune
affermazioni a proposito della imprudentia che varrà la pena di
riportare integralmente (sebbene nell’italiano talvolta un po’ aulico del
Cancelli): «Se invece l’imputato affermerà di aver fallato per imprudenza, si
chiederà prima, se poteva o non poteva sapere; poi se ci si adoperò per sapere
o no; poi se ignorò per caso o per colpa. Chi dirà infatti che per il vino o
per una passione amorosa o per l’ira smarrì la ragione, sembrerà di aver
ignorato per un vizio dell’animo, non per imprevidenza; pertanto non si
scolperà per imprevidenza, ma si macchierà per colpa. Poi si chiederà mercé lo
stato congetturale se sapeva o ignorava; e si considererà se debba essere
schermo sufficiente l’imprevidenza, quando sia manifesto che il fatto è stato
commesso». Per comprendere meglio l’imprudenza di cui – come si sarà notato –
si parla sotto qualche aspetto come una sorta d’ignoranza[42],
non sarà male ricordare l’esempio fatto in proposito al § 24 del libro I, di un
tale che aveva punito con la morte uno schiavo del proprio fratello, ucciso
dallo schiavo stesso, prima di aprire il testamento in cui lo schiavo risultava
manomesso.
Quanto invece alla deprecatio
consistente in una vera e propria richiesta di perdono in considerazione di
meriti precedenti dell’imputato e di altre circostanze tutto meno che
giuridiche, opportunamente nel nostro manuale si era già avvertito nel libro I
(§ 24) e si ripete nel II (§ 25) che essa non poteva trovare luogo in un
processo e che era stata ricordata solo in quanto invocabile in senato o nel
consiglio davanti ad un magistrato[43].
Orbene, anche
riguardo alla qualitas sembrerebbe lecito ricercare possibili
corrispondenze con la sistematica moderna. A proposito infatti di svariate
fattispecie considerate trattando di questo status non è difficile il
collegamento con l’altra formula codicistica di non punibilità dell’imputato,
oltre a quella del “fatto che non costituisce reato”, indicata parlando
genericamente di “altra ragione”, dove[44] tale
riferimento ad un’“altra ragione” coprirebbe «le ipotesi più diverse da quelle
che attengono a cause personali[45] a
quelle che concernono motivi generali e obiettivi», come quando viene «presa in
considerazione una situazione di fatto prevista come giustificabile o scusabile
dalla legge» e si fanno fra gli altri gli esempi, molto significativi per noi,
degli artt. 45 (Caso fortuito o forza maggiore), 51 (Esercizio di un diritto o
adempimento di un dovere), 52 (Legittima difesa), 54 (Stato di necessità) etc.[46].
Dopo la coniectura,
la definitio, la qualitas che sono quantomeno i tre stati
principali, resta da dire qualcosa di quel discusso quarto status rationalis,
rappresentato dalla translatio, per il quale invero non mancano diverse
perplessità.
Come prima cosa andrà
notato che qui non si tratta della translatio criminus o antenklema su
cui abbiamo avuto già modo di soffermarci parlando della qualitas adsumptiva,
ma di una translatio o, secondo Quintiliano, tralatio, che si
diceva in greco metalepsis[47].
C’è da dire poi dello
strano comportamento di Quintiliano che dapprima c’informa (III.6.66-80) di
come egli si fosse reso conto di dover escludere questo status sia da quelli
razionali che da quelli legali, soffermandosi ad illustrare anche come, a
rigore, non si potesse neppure parlare di status, e poi (al § 83), con
la giustificazione di dover insegnare ai principianti (nonostante i ripetuti
richiami a Cicerone che aveva finito col riconoscere solo tre stati),
reintroduce tranquillamente la tralatio come quarto status (di
cui tornerà a parlare, ancorché in maniera che lascia di nuovo molto perplessi
nel libro VII.5.1-6).
Lasciando comunque da
parte ogni altra questione al riguardo[48], qui
varrà la pena di riportare testualmente (avvalendosi ancora della traduzione –
talvolta purtroppo errata – dell’edizione Einaudi 2001) il discorso dello
stesso Quintiliano quando, al richiamato § 83, torna a parlare della tralatio
come quarto status, il che è fatto in maniera molto suggestiva dopo
un discorso che si era già avuto occasione di richiamare nella Introduzione
a proposito dei tre modi principali di difesa: «Ma a chi istruisce gli
inesperti non riuscirà inutile un metodo dapprima più largo e un percorso ...
più facile e più accessibile. Prima di tutto dunque apprendano che per tutte le
cause vi è un sistema quadripartito, che va considerato per primo da chi si
accinge ad andare in processo. Infatti, per cominciare specificamente dal
difensore, di gran lunga il più forte sistema di difesa consiste nel poter
negare l’accusa: subito dopo se si sostiene che non è ciò che viene addebitato
il fatto che è stato commesso; il terzo, il più onorevole con il quale si
sostiene che il fatto è stato compiuto a buon diritto. Se queste difese
mancano, resta un’ultima ormai unica salvezza, di sfuggire con qualche
espediente legale ad una accusa che non può essere negata né confutata, in modo
che il processo appaia intentato illegalmente ...».
Al che potremmo
collegare non già quella che dovrebbe essere l’illustrazione di questo status
nel libro VII (dove il discorso, come si è già segnalato, lascia molto
perplessi ed ha dato luogo a diversi equivoci del traduttore), ma il sintetico
insegnamento metodologico della Rhet. ad Herenn. in I.22 (essendo
parimenti sintetico, ma meno felice quello di II.18), dove, pur
parlandone fra gli stati legali, si dice che dalla translatio – qui
intesa dal Cancelli come «eccezione declinatoria» – la controversia nasce «quando
l’imputato (o il convenuto) sostiene o che deve differirsi il termine, o deve
sostituirsi l’accusatore o devono cambiarsi i giudici» (la quale ultima
notazione rischia di apparire singolarmente attuale, pensando alle polemiche
sulla richiesta di remissione per legittimo sospetto, che è stata reintrodotta
per legge!).
Sarà da aggiungere
come la nostra fonte si preoccupi di segnalare comunque la rarità di questo status
nel processo romano sia civile (dove sarebbe sostituito dalle exceptiones
pretorie), sia penale (pubblico) per il quale le leggi prevedono la possibilità
di un giudizio preliminare sul fatto se a un certo accusatore sia «lecito di
accusare o no» (la c.d. divinatio ricordata da Cancelli alla nt. 45 di
334). L’unico esempio concreto fatto al riguardo sempre nel libro I della Rhet.
ad Herenn. sfrutta tuttavia quello classico utilizzato in altre fonti
trattando della definitio, di colui cioè che sostenesse di dover essere
processato non per peculato, ma per furto, avendo appunto fatto «ricorso alla
definizione di cosa sia il furto e cosa sia il peculato» (il che rivela la
possibilità di un certo incrocio fra i due stati).
La dottrina
tradizionale rappresentata da Quintiliano e che si ritrova anche nei manuali
moderni, come si è visto per gli stati razionali, considera che fossero quattro
gli stati legali, che in termini latini possono individuarsi come:
- verba-voluntas: conflitto fra
scritto e intenzione di un testo;
- leges contrariae: contrasto
fra leggi;
- ratiocinatio: analogia;
- ambiguitas: ambiguità.
A questo riguardo
andrà subito ribadito che parlando di stati legali, come emerge dalle nostre
fonti, non si intendeva riferirsi solo ai testi di legge ma anche a scritture
private come in particolare testamenti.
Poi andrà detto che
mentre la dottrina degli status razionali sembrerebbe quantomeno
suscettibile, come si è visto nelle pagine che precedono, di essere messa in
rapporto con le “formule assolutorie” del moderno processo penale, tanto che
perfino un filologo, come il curatore della Institutio oratoria per
Einaudi ha avuto modo di adoperare in proposito, ad un certo punto del suo
apparato[49]
espressioni tipiche del linguaggio forense come “il fatto non costituisce
reato” o “imputazione derubricata”, il discorso si presenta molto diverso per i
c.d. status legali, per i quali, come apprendiamo da Quintiliano
(III.6.88-89), ma emerge già implicitamente dalla Rhet. ad Herenn., non
sarebbe nemmeno facile parlare di veri e propri status a sé stanti.
Come vedremo,
comunque, anche la dottrina retorica relativa a tali status (o quaestiones),
potrebbe quantomeno essere presa in esame a proposito di note problematiche
interpretative attuali.
Cominciando come è
logico dal primo degli status legali, non sarà male osservare subito
come lo stesso Quintiliano, iniziando la trattazione degli status in
parola (VII.6.1), avvertisse, con l’occhio ai suoi tempi, che «la discussione
sul testo scritto e sullo spirito della legge è molto frequente fra i
giureconsulti e una gran parte delle controversie giuridiche dipende da
questa».
Sempre a questo
riguardo del resto c’è stata addirittura un’animata ed approfondita discussione
fra i romanisti, come è noto e ricorda anche la Calboli Montefusco (op. cit.,
157 ss.), circa una possibile influenza sul pensiero dei giuristi romani delle
dottrine retoriche a proposito appunto dello status verba-voluntas.
Qui comunque ci
limiteremo a considerare le fonti retoriche, in sé e per sé, con l’occhio
semmai a possibili collegamenti col mondo moderno.
Orbene, circa lo status
che nasceva a seconda che si facesse leva sulla volontà o sullo scritto, era
divenuta celebre nel mondo romano una controversia citata ripetutamente da
Cicerone, la c.d. “causa Curiana” in tema di sostituzione pupillare. Di essa si
parla per la prima volta nel de inv. (2.122), in relazione al
caso concreto di un padre di famiglia senza figli che aveva provveduto a
nominare nel proprio testamento il figlio di cui prevedeva la nascita dopo la
sua morte (postumo), disponendo altresì la sostituzione di un erede estraneo
per il caso che il medesimo figlio fosse morto prima di poter far testamento.
Poiché il figlio non era nato, sorse contesa fra l’erede sostituto e gli eredi
legittimi del defunto, i quali ultimi rivendicavano l’eredità basandosi sulla
lettera del testamento che prevedeva che il figlio prima nascesse e poi
morisse, dopo essere stato erede, mentre il sostituto faceva leva, dal canto
suo, sulla volontà presunta del testatore di volerlo erede in ogni caso, sia
che gli fosse nato e morto il figlio, sia che questi non fosse nemmeno nato.
Mentre sappiamo da Cicerone che in questo processo si scontrarono un celebre
giurista Q. Mucio Scevola, che difendeva l’interpretazione letterale e il
retore L. Licinio Crasso il quale si appoggiava alla supposta voluntas
del testatore e che quest’ultimo era riuscito vincitore, in Quintiliano si
parla di questa celebre causa dando ormai quasi per scontato il prevalere della
tesi della volontà (VII.6.10): «Chi avrebbe potuto dubitare che la volontà del
testatore, non essendo nato il figlio postumo, fosse di dichiarare erede lo
stesso che avrebbe indicato nel caso in cui il figlio postumo fosse morto?».
Il che Quintiliano fa
nell’ambito di una costruzione tutta particolare, in cui si diffonde su vari
casi nei quali si potrebbe difendere sempre la voluntas, distinguendo
oltretutto fra diritto manifesto e diritto oscuro (ma non ambiguo!),
costruzione tuttavia che noi lasceremo da parte, ricordando invece l’esempio di
conflitto verba-voluntas fatto già nel I libro della Rhet. ad Herenn.(I.19)
e che nel de inv. era invece sfruttato, ma secondo me meno bene,
a proposito dello status definitivus[50].
Si tratta di una
ipotetica legge marittima la quale avrebbe previsto che «quelli i quali abbiano
a causa della burrasca abbandonato la nave perdano tutto; che nave e carico, se
la nave si sia salvata sia di quelli che vi rimasero a bordo». In maniera molto
stringata il testo continua: «Atterriti dall’impeto della burrasca tutti
abbandonarono la nave - trasbordarono sullo schifo [una scialuppa legata a
poppa] – tranne uno, malato: questi per la malattia non poté uscire e
fuggire. Per un fortunato caso la nave fu spinta incolume al porto; la possiede
il malato; rivendica la nave quegli del quale era stata».
Quanto agli argomenti
relativi a questo status essi sono esposti nel II libro della Rhet.
ad Herenn. – con una sintesi di quanto si legge nel de inventione –
attraverso uno dei più complessi elenchi di loci, in cui sia dato
imbattersi e che varrà la pena di riferire integralmente nella traduzione di
Cancelli (§ 13 ss.).
«Quando l’intento
dell’autore sembrerà che si discosti dal testo, se parleremo in favore del
testo, useremo questi procedimenti [his locis utemur]: dopo la
narrazione, prima un elogio dello scrivente; poi la lettura dello scritto;
quindi la domanda, se gli avversari sapevano sufficientemente che ciò era stato
scritto nella legge o nel testamento o nella stipulazione o in qualunque
scrittura che riguarderà quel caso; poi il confronto: che cosa si è scritto,
che cosa gli avversari dicono di aver fatto, a che cosa conviene che il giudice
si attenga: se a quel che è stato scritto pienamente con cura, o a quel che
ingegnosamente è stato fantasticato; poi si svilirà e invaliderà quel
significato che è stato immaginato dagli avversari e attribuito allo scritto.
Poi si chiederà quale sarebbe stato l’ostacolo, se (l’autore) avesse inteso
aggiungere anche questo; o se non poteva forse scriversi compiutamente. Poi si
troverà da noi il significato e se ne mostrerà la ragione, per cui lo scrivente
pensava quello che scrisse; e si dimostrerà che ciò è stato redatto
chiaramente, brevemente, appropriatamente, compiutamente, con un preciso
intento. Poi si citeranno esempi (di casi), i quali, mentre dagli avversari se
ne adducevano il significato e l’intento, furono piuttosto giudicati in base al
testo. Poi si mostrerà quanto sia pericoloso allontanarsi dal testo».
Anche lasciando da
parte un finale “luogo comune” contro chi confessa di aver fatto quanto non
previsto espressamente e tuttavia vuole giustificarsi, si tratta come si vede
di almeno 10 argomenti o loci che valeva la pena di leggere per intero,
come ormai si potrà fare anche per quelli, altrettanto numerosi, a disposizione
della controparte.
«In favore del
significato diremo così: loderemo prima la proprietà e la concisione
dell’autore, perché scrisse soltanto quello che era necessario, [mentre] quello
che poteva comprendersi senza scrittura, credette di non doverlo scrivere. Poi
diremo che è il mestiere del calunniatore appigliarsi alle parole e alle
lettere trascurando l’intento. Poi che quello che è stato scritto o non si può
eseguire, o non potrebbe eseguirsi né per legge, né per costume, né per natura,
né per l’equo e l’onesto; nessuno dirà che l’autore non abbia voluto che tutto
si facesse nel modo più esatto possibile: ma quel che da noi è stato fatto, è
stato fatto con rigorosa giustizia. Poi che il significato contrario o non c’è
o è balordo o ingiusto o che non può eseguirsi, o che non è in consonanza con i
significati precedenti e susseguenti; o che non si concilia col diritto
generale o con le altre leggi generali o con giudicati. Poi ricorreremo
all’elencazione di esempi (di casi) giudicati secondo l’intento e contro la
lettera, poi alla spiegazione di leggi o di stipulazioni concisamente redatte,
nelle quali si capisca l’intento degli scriventi». A tutto ciò segue anche qui
un “luogo comune” contro «quegli che reciti il testo e non capisca l’intento
dell’autore».
Abbiamo riprodotto
questa duplice serie di argomentazioni perché a me parrebbe plausibile
ipotizzare che esse potrebbero essere riportate alla posizione di chi difenda
quella che oggi si chiama interpretazione letterale della legge (scriptum)
e, rispettivamente, di chi difenda la c.d. interpretazione logica (voluntas),
restrittiva o estensiva che possa essere e ciò sebbene stando alla Calboli
Montefusco[51],
nella Rhet. ad Herenn. sarebbe presente solo un’interpretazione
“restrittiva” della legge.
Non sfugge del resto
che sempre in termini moderni si potrebbe parlare di interpretazione analogica
a proposito di uno status che vedremo fra poco. Prima però dobbiamo
occuparci del secondo degli stati legali.
A proposito del
conflitto fra leggi, il discorso dovrà essere molto prudente. In linea teorica,
infatti, come affermava già Quintiliano (VII.7.2), sembrerebbe pacifico che «su
un piano giuridico non esiste legge contraria ad un’altra legge, poiché se vi
fossero due principi diversi uno sarebbe abrogato dall’altro».
Ma in pratica le cose
sono diverse anche se gli esempi fornitici dalle nostre fonti sono in effetti
quantomeno stravaganti, come emerge dal seguente esempio di un retore tardo,
Fortunanziano[52].
Si suppongono due leggi una secondo la quale il figlio che non porta soccorso
ai genitori deve essere ucciso e un’altra secondo la quale un maschio che entra
nel tempio di Cerere deve essere ucciso. Nel caso di specie un maschio entra
nel tempio di Cerere per portare soccorso alla madre ed ecco che le due leggi
entrerebbero in conflitto.
Si potrebbe forse
prendere più in considerazione il caso di un conflitto all’interno di una
stessa legge, caso abbastanza frequente anche al giorno d’oggi, al quale nelle
nostre fonti ci si riferiva parlando di antinomia, a parte anche in
questo caso l’esempio, piuttosto singolare[53], di
uno che, in presenza di una legge la quale consentiva ad una ragazza violentata
o di sposare o di far morire il suo violentatore, si trovasse ad aver
violentato due ragazze, ciascuna delle quali avrebbe fatto una delle due scelte
alternative previste dalla legge.
Parrebbe in ogni caso
difficile che si potessero usare, oggi come oggi, la maggior parte dei numerosi
loci argomentativi a proposito delle leges contrariae, esposti in
maniera più ampia e distesa nel de inventione, del tenore dei quali
basterà a rendersi conto la lettura dei primi quattro: «1) quale legge sia
rivolta a cose più importanti, più oneste, più necessarie; 2) quale legge sia
più recente; 3) quale legge ordini qualche cosa e quale invece permetta; 4) in
quale legge, se violata, è prevista una pena o in quale una pena maggiore»[54],
e ciò anche senza considerare i dubbi teorici sulla stessa «esistenza di una
categoria autonoma di norme permissive»[55]. Per
non dire del precetto, anch’esso abbastanza singolare, della Rhet. ad
Herenn. II.15, a ‘piegare’ la legge contraria «a vantaggio della causa
nostra», il che oltretutto non si dice come si sarebbe potuto realizzare.
Anche se qualche
volta è preso in esame per ultimo, ci occuperemo a questo punto di un altro status
legale per il quale si parla in latino di ratiocinatio, in greco di sullogismòs,
e dove si potrebbe vedere, come si è già capito dagli accenni fatti in
precedenza, un caso di interpretazione analogica. Ciò vale almeno in
riferimento a quanto si legge nel de inventione e nella Rhet. ad
Herenn., dove questo status è impostato sostanzialmente sulla
ricerca, per un caso non previsto dalla legge, di una legge che regoli un caso
simile ed è appunto sulla categoria della ‘similitudine’ che si fa leva anche
negli insegnamenti retorici al riguardo. Diverso sarebbe il discorso da fare
con riferimento a Quintiliano VII.8.3 e 7, dove sembrerebbe parlarsi di analogia
non solo quando manca una legge ma anche quando una legge esiste pur «solo
parzialmente pertinente», come scrive la Calboli Montefusco, alla quale
tuttavia ci limiteremo qui a far rinvio[56].
Quanto alla Rhet.
ad Herenn., già nel libro I (§ 23), quando si introduce per la
prima volta questo status si fa un discorso più lungo di quando ci si
ritorna nel II (§ 18 in fine). Dopo una vera e propria definizione che ha
consentito al traduttore di parlare espressamente di “analogia”, si fa
riferimento ad un caso che era veramente successo e che era stato preso a
modello nelle scuole (come ricorda Cancelli a 335 nt. 50), quello di un tale Malleolus,
il quale aveva ucciso la madre e aveva fatto testamento prima di essere messo a
morte (non si capisce con quale sistema, accennandosi solo ad un sacco di pelle
di lupo che gli sarebbe stato messo sulla testa prima di condurlo in carcere).
Sarebbe nata una controversia in cui l’eredità veniva rivendicata ab
intestato dal fratello minore, tentando di far passare per nullo il
testamento, anche se non si capisce in base a che. Dal momento che fra le varie
leggi alle quali si allude e che sarebbero state citate alla ricerca di una
possibile applicazione analogica, l’unica pertinente parrebbe quella secondo
cui i pazzi non potevano far testamento, al Cancelli è sembrato che, con una
forzatura giuridica sulla quale, invero, egli non manca di richiamare
l’attenzione (335, nt. 49), si sarebbe tentato di equiparare il matricida al furiosus.
Piace sottolineare
l’esempio di natura civilistica fatto in quest’operetta retorica, in
considerazione soprattutto del fatto che, al giorno d’oggi, com’è noto, non si
potrebbe parlare di analogia in campo penale, come sembrerebbe invece non
avesse difficoltà a fare Quintiliano il quale, in un’ipotesi in cui non ci
sarebbe stata alcuna legge alla quale far richiamo, si sarebbe posto il
problema se un matricida potesse essere equiparato al parricida.
Quanto alle
argomentazioni suggerite alle parti vorrei qui sottolineare come, ancora una
volta, rispetto alle molteplici indicazioni, ridistinte fra accusatore e
accusato, del de inventione, chiaramente più fedele alla fonte greca (il
che mi parrebbe confermato dal ritrovare più tardi a questo proposito ben
dodici loci o “capi” in Ermogene), sia molto più sintetico ed efficace
l’insegnamento della Rhet. ad Herenn. dove nel già citato paragrafo 18
del libro II si legge che in questo status prima si cercherà se qualcosa
«in cose maggiori o minori o simili sia stato analogamente scritto o giudicato;
poi se il caso è simile o dissimile da quello di cui si tratta; poi se di
proposito non si sia scritto di quel caso perché (il redigente) non voleva
prevederlo, o perché riteneva che fosse sufficientemente previsto per analogia
con gli altri casi espressi».
Lo status che
ci accingiamo a trattare per ultimo, quello dell’ambiguitas è
presentato, rispetto agli altri, in maniera ancora più diversa nella Rhet.
ad Herenn. e in Quintiliano, in ragione di un fatto particolare.
Nel trattatello repubblicano infatti l’autore ha modo di segnalare (II.16) come
sul tema ci fosse il rischio di dare spazio alle elucubrazioni filosofiche dei
dialettici in tema di anphibolia, cosa invece di cui non sembrerebbe
preoccuparsi Quintiliano, il quale per conto suo presenta tutta una gamma di
varie species di ambiguitas, cominciando a parlare espressamente
di amphibolia.
E così, mentre nella Rhet.
ad Herenn. I.20, si era già descritto il fenomeno in maniera molto
sintetica come quello che si verifica quando dalla scritto possono emergere due
o più significati, facendosi l’esempio classico del legato di vasi d’argento,
la scelta dei quali non si capisce, per come è enunciata, se spetti all’erede o
al legatario («Il mio erede darà a mia moglie trenta libbre di vasi d’argento
quali vorrà»), in Quintiliano[57] si
hanno almeno sette species di ambiguitas, di cui tre da riportare
al genere (di ambiguitas) nascente da parole singole e quattro a quello
che si origina da parole congiunte (di “sintagma” si parla nella traduzione
Einaudi), e l’esempio già visto del legato di vasi d’argento è presentato solo
come penultima species delle seconde quattro. Ma, a parte, forse,
l’esempio immediatamente precedente, non molto diverso e derivante «dalla
collocazione delle parole» («Un tale comandò per testamento che fosse innalzata
statuam auream hastam tenentem», donde il dilemma se dovesse essere
d’oro la statua o l’asta retta da questa), non è difficile accorgersi che si
tratta di esempi anche divertenti , ma che possono aver a che fare con la
grammatica o con la dialettica, non certo con problemi processuali[58].
Quanto alla
precettistica, di cui Quintiliano praticamente non si occupa, nella Rhet.
ad Herenn. II.16 s’insegna senza distinguere fra l’una e l’altra
parte che, di fronte ad un testo ambiguo, «per prima cosa bisogna chiedersi se
sia ambiguo; poi bisogna mostrare come si sarebbe scritto se quel che gli
avversari interpretano l’autore avesse voluto che si facesse; poi che quel che
noi intendiamo e può eseguirsi e può eseguirsi onorevolmente, rettamente, per
legge, costume, natura, l’equo e l’onesto; al contrario quello che gli
avversari intendono; e che non è stato redatto ambiguamente, quando si
comprenda quale sia dei due il vero significato».
Mi parrebbe tuttavia
utile ricordare anche qualche precetto che si trova in più nel de inventione,
come quello, per dirla con la Calboli Montefusco[59], di
«mostrare che ciò che preso singolarmente sarebbe ambiguo, nel contesto non lo è»
ed altresì quello immediatamente successivo – anche se potrebbe sembrare più
adatto per lo status verba-voluntas): «mostrare che la vera
intenzione di chi ha redatto lo scritto si ricava anche dagli altri suoi
scritti, dalle sue azioni, dalle sue parole, dalla sua vita».
Non sarà inutile
segnalare come, terminata la esposizione di tutti gli argomenti da usare nei
vari status, si trovino illustrate nella Rhet. ad Herenn.
II.27-50, anche le modalità a cui attenersi nella esposizione di ciascun
argomento, nell’ambito della probatio e della confutatio.
Vengono infatti
enunciate le varie parti di ciascuna argomentazione ancorché non sempre tutte
necessarie che sono: «proposizione, motivazione, conferma della motivazione,
ornamento e riepilogo», fornendone altresì un esempio piuttosto ampio, con
riferimento al supposto “movente” nell’omicidio di Aiace di cui si era
immaginato che venisse accusato Ulisse a proposito della coniectura[60].
Dopo di che si
sciorina una lunga serie di proposizioni “difettose”, da evitare, a proposito
delle varie parti dell’argomentazione, che tuttavia qui non è nemmeno il caso
di prendere in esame, essendo oltretutto ispirate in gran parte a problematiche
non giuridiche[61].
Si forniscono infine
alcuni precetti circa la conclusione o epilogo riguardanti: a) una
ricapitolazione generale di tutto il discorso; b) un diffuso espediente
retorico (già ricordato fin dall’inizio) quello della amplificatio, per
la quale si illustrano ben dieci loci[62] e c)
un altro tipico espediente retorico, quello volto a suscitare la ‘commozione’
degli ascoltatori e in particolare dei giudici.
Si tratta di un
discorso molto lungo che va fino alla conclusione del II libro e che in effetti
mette in luce quelli che potevano essere gli aspetti più caduchi della retorica
e che hanno contribuito alla sua pessima fama.
Qui noi potremmo
limitarci a segnalare un insegnamento preliminare, valido per ogni epoca e per
ogni circostanza.
Appena iniziato il
discorso, prima ancora di passare alle già ricordate parti dell’argomentazione
(II.27), si raccomanda infatti, al fine di poter esprimere speditamente quanto
si è trovato, che: «né più a lungo di quanto sia bastevole ci tratteniamo sugli
stessi argomenti, né che ci rigiriamo di continuo sullo stesso punto, né che
lasciamo a mezzo un’argomentazione, né che inopportunamente passiamo
bruscamente ad un’altra (argomentazione)».
Noi avevamo messo in
luce fin dal principio come dopo la divisione della retorica in due parti
operata nel ‘500 e fino alla sua abolizione come insegnamento universitario ai
primi del 1800, i maestri di retorica si fossero dedicati esclusivamente alla elocutio
e come anche dopo il ritorno alla retorica stessa che si è avuto a partire
dalla metà del secolo scorso non si sia quasi mai prestata attenzione alla
dottrina (ermagorea) degli status.
E ciò anche se non si
è mancato di elaborare nuove tecniche argomentative sulla scia degli
insegnamenti degli antichi relativi alla topica e ai vari cataloghi di “loci”.
Orbene bisogna
aggiungere che un’interessante e singolare eccezione si trova in un’opera del
settecento, cui ci è già capitato di richiamarci, le Institutiones
oratoriae di G.B. Vico, dove lo studioso napoletano, insegnando
retorica «ai giovani che cominciavano a studiare giurisprudenza»[63],
faceva una mirabile e inaspettata sintesi di tutta la dottrina degli status
che siamo venuti esponendo sin qui.
Questa esposizione
molto puntuale, che come vedremo contiene anche degli apporti personali è in
effetti portata avanti, talora, in tono critico. Già dall’inizio[64]
sembrerebbe infatti farsi addirittura dell’ironia su l’insegnamento dei “luoghi
retorici” contenuto – come non si manca di precisare – nel de inventione,
nella Rhetorica ad Herennium e in Quintiliano, «come se si
trattasse di addestrare un qualche fabbro e non un oratore». Costoro, infatti,
avrebbero enumerato «per ogni questione una precisa serie di proposizioni (che
è quel che Antonio, come dice Cicerone nei libri Dell’oratore chiama la
stagnante e rinserrata acqua dell’invenzione), affinché sulla loro scorta
l’oratore renda credibile qualsiasi causa» e questo quando «per procedere in
modo più sicuro» in un «capitolo lunghissimo» di un «libro opprimente» di
Quintiliano, e perfino in un «intero libro» di Ermogene si sarebbe sviluppata
la «spinosissima materia della posizione delle questioni» (de statibus
causarum)[65].
Con tutto questo non
andrà trascurato che, poco più avanti, si viene a parlare di precetti che «sono
veramente una logica», la quale «insegna che una cosa è chiaramente nota solo a
colui che rispetto a quel che si ricerca, abbia esaminato questi tre aspetti:
anzitutto se esista, in secondo luogo che cosa sia, infine quale ne siano le
proprietà»[66],
ancorché si tratti di uno strumentario che l’oratore come si lascia intendere
avrebbe applicato non al vero ma «al verosimile»[67]. E
non c’è dubbio che qui si ha a che fare con i tre status della coniectura,
della definitio e della qualitas dei quali Vico stesso[68]
viene a farci una vera e propria trattazione più avanti, in pagine alle quali
si potrebbe rinviare, come esempio di una brillante sintesi riassuntiva di gran
parte del discorso da noi svolto fin qui.
Dopo aver illustrato
con degli esempi la natura di ciascuno dei principali stati razionali «della
congettura, della definizione, della qualità» (22.20)[69],
vengono infatti ricordati in maniera rapidissima i vari luoghi argomentativi
(22.58 ss.) con una esposizione in cui non è difficile riconoscere diversi
insegnamenti tratti dalla Rhet. ad Herenn., dal de inventione, da
Quintiliano, e perfino da Ermogene (com’è per la qualitas), ma anche
reimpostati secondo schemi a volte veramente originali.
Noi ne riproporremo qui
di seguito alcuni passaggi, sfruttando la traduzione di Giuliano Crifò, con
qualche accorgimento grafico per meglio evidenziare i singoli punti.
«Nello stato
congetturale l’accusatore trae i suoi argomenti principalmente dalle cause,
dalle possibilità, dai segni (o prove di fatto).
La causa è duplice: impulsiva e
raziocinante. La causa impulsiva nasce dall’impeto, per es. dall’ira,
dall’odio. La causa raziocinante è deliberata, come nel caso di chi con il
delitto pensa di procurarsi beni, per esempio onori, ricchezze, potenza, o di
evitare mali, per es. povertà, morte, infamia.
Nella discussione di entrambe queste cause
vanno diligentemente esaminate le circostanze e le qualità delle persone,
giacché è facile che un violento uccida, che un avaro rubi o inganni.
La possibilità è riposta nelle
occasioni, nella speranza di raggiungere lo scopo, di nascondersi, di restare
impunito e nelle circostanze [della cosa] <di fatto>, vale a dire nel
luogo, nel tempo e simili, nonché nelle circostanze personali.
Quanto ai segni, essi sono i detti e i
fatti antecedenti, contemporanei, conseguenti, per es. le minacce, i piani, gli
apparecchiamenti, gli inganni, i disordini, le grida, la fuga, le vesti o le
armi insanguinate, gli indizi di un animo conscio del malfatto, come il
tremare, il titubare, il volto abbattuto».
Seguono gli
insegnamenti per il difensore, che tuttavia qui non riprodurremo, bastando dire
che lo si esorta a negare o quanto meno a sminuire con vari espedienti le
argomentazioni e gli elementi su cui si fonda l’accusa.
E’ la volta della
definizione per la quale si legge (22.90 ss.):
«Nello stato della definizione i
luoghi sono comuni a entrambe le parti: accusatore e difensore definiscano
quanto più è possibile secondo il senso comune e il significato delle parole.
Dopo di che, addotti esempi simili anche di altri che si sono espressi nello
stesso modo, ciascuno rafforzi la propria definizione e contesti quella
dell’avversario».
Al che segue un
esempio che varrà la pena di leggere dato il suo carattere strettamente
giuridico:
«Ad es. l’accusatore dica che il furto è
l’interversione del possesso della cosa altrui [interversionem alienae
possessionis], che usare la cosa è un certo qual possederla e che in
caso di cosa comodata il diritto di usarla è nostro per un determinato tempo e
che tale è l’opinione dei giuristi. L’accusato dica che il furto è la
sottrazione materiale della cosa altrui; che solo le cose corporali possono
essere materialmente sottratte, che l’uso non è una realtà corporale; e che
così normalmente tutti parlano e tutti comunemente intendono».
Si passa quindi alla qualitas
con una illustrazione abbastanza sviluppata, ma al tempo stesso stringatissima
sui singoli punti, che si possono intendere solo in quanto se ne sia già fatta
conoscenza, com’è il nostro caso.
Essa inizia con una
distinzione(22.101 ss.), che, come si è avuto modo di avvertire in precedenza,
sembrerebbe ispirata ad Ermogene[70]:
«Quanto allo stato della qualità esso
è duplice: razionale o legale. Quello razionale si presenta nella questione se
si sia commesso legittimamente il fatto - del che si è dato sopra l’esempio di
chi abbia ucciso un uomo per difendersi: dove con il riferimento alla
legittimità intendo la ragione, che è legge del genere umano».
Dopodiché si ritorna agli
schemi noti con la distinzione fra qualitas absoluta e absumptiva
che qui viene presentata come suddivisione della stessa “qualità razionale” pur
continuandosi a parlare di legittimità, il che apparentemente può creare
confusione:
«La legittimità di un fatto può essere
sostenuta in due modi: in via assoluta e in via di assunzione.
In via assoluta, quando affermiamo
semplicemente che quel che si è fatto lo si è fatto a buon diritto, richiamando
l’istinto naturale, il consenso universale, il giudizio degli esperti, le leggi
del nostro stato, gli usi, gli istituti, i patti, i precedenti, le sentenza
passate in giudicato[71].
In via di assunzione quando contestiamo che
il fatto non è in sé giusto, ma lo è per una qualche ragione estrinseca[72],
il che si fa in quattro diverse maniere: appunto attraverso il confronto, la
correlazione, la rimozione, la concessione.
Con il confronto quando tra due mali
che dovevano necessariamente accadere se ne è scelto il minore: per es. “tra
l’annientamento completo dell’esercito e l’accettazione di turpi condizioni di
pace, ho preferito concludere una pace turpe”.
Con la correlazione, quando rigettiamo
la colpa sulla stessa persona che ha subito il male o il danno.
Con la rimozione, quando la colpa
viene attribuita ad un’altra causa o un’altra persona, per es. all’ordine di
una autorità o alla corsa sfrenata di un cavallo.
Con la concessione, quando ammettiamo
di aver recato offesa ed espiamo il fatto o invochiamo la non irrogazione della
pena. Espiamo il fatto, facendo valere come scusante la non intenzionalità del
fatto dovuto ad imprudenza, a necessità, al caso[73].
Supplichiamo invece facendo valere i meriti nostri o dei nostri verso lo Stato
o assicurando che in futuro saremo utili allo Stato».
A questo punto, in
riferimento al secondo corno della distinzione iniziale (di matrice
ermogeniana), quello della ‘qualità legale’, si vengono a trattare, come
s’intende, quelli che di solito si chiamano gli stati legali con un discorso
che prosegue in questi termini:
«Lo stato di qualità legale si presenta nella
questione del significato della legge. Esso si suddivide in cinque parti, cioè
l’antinomia, la lettera e spirito, il sillogismo, l’ambiguità, il rinvio[74].
Lo stato dell’antinomia si ha quando una
legge si contraddice o due leggi sono in contraddizione fra loro: ad es. una
norma ordina che chi rivela l’esistenza di una congiura ottenga il premio
richiesto, qualunque esso sia; ed un’altra norma sancisce che chi cospira
contro lo Stato deve essere ucciso. Il delatore chiede in premio che sia fatta
salva la vita per il figlio partecipe della congiura. In questo luogo prevale
il principio che deve vincere la norma maggiormente utile per lo Stato.
Lo stato della lettera e dello spirito
si ha quando risulta una discrepanza fra la volontà di chi ha scritto e quel
che risulta dalla lettera.
Per esempio è stabilito che chi ascende le
mura della città commette un delitto capitale. Taluno ascende le mura della
città assediata per annunciare ai concittadini che i soccorsi stanno per
giungere, sicché non si arrendano spinti dalla difficile situazione. A questa
notizia i cittadini resistono per qualche altro giorno all’assedio; nel
frattempo giungono gli aiuti e la città è liberata.
La lettera della legge prescrive che chi ha
scavalcato le mura deve essere condannato a morte, la volontà del legislatore è
che la città sia sicura e che la cittadinanza sia salva, un risultato che non
si sarebbe potuto avere se qualcuno non avesse asceso le mura».
Segue a questo punto,
sempre a proposito di questo status, che d’altronde abbiamo già avuto
modo di vedere come fosse molto importante anche per i giuristi, un “esempio”
piuttosto lungo di argomentazione oratoria da entrambe le parti, che viene
tuttavia criticata, almeno apparentemente, in maniera piuttosto drastica,
bollandola fin dall’inizio come «vana, vuota, e talvolta anche puerile e
ridicola» (22.160) e ribadendosi alla fine come si tratterebbe di un «puerile
... metodo d’invenzione» (22.232). E questo perché avremmo a che fare con una
lunga serie di luoghi “comuni” che i retori adopererebbero in tutte le cause di
questo tipo, quando «il vero elogio del discorso vien posto da Cicerone nel
fatto che esso resti aderente ai luoghi propri». Ma a parte che questa
spiegazione è tutt’altro che chiara, ancor più strano è che molti passaggi
contenuti in questo esempio non sembrerebbero ripresi né dal de inventione,
né dalle altre opere che erano state menzionate all’inizio dal Vico stesso.
A leggere questa
esposizione, in confronto a quelle contenute in tali opere, si direbbe
oltretutto che qui il discorso si presenti più rigoroso e meglio costruito, non
senza spunti di originalità, sicché la critica appare veramente
incomprensibile.
Noi comunque andremo
avanti con gli altri stati[75].
«Lo stato legale del sillogismo si ha
quando, in mancanza di una specifica statuizione legislativa, si argomenta da
altre norme: ciò che nel linguaggio dei giuristi si esprime dicendo
‘trarre le leggi a conseguenza’ [leges producere in
consequentias]. A questo stato fanno riferimento per lo più tutte le controversie
giuridiche.
In esso i luoghi principali sono i luoghi
topici ‘dal simile’, ‘dal dissimile’, ‘dal contraddittorio’, dal congruente’,
‘dal contrario’, ‘dallo scopo’, e ‘dai comparati’, ‘dal maggiore’, ‘dal
minore’, ‘dal pari’.
Si ha l’ambiguità quando lo scritto è
suscettibile di più significati: per es. che oggetto di un legato in favore di
Tizio sia una statua aurea con la lancia. Sorge il dubbio se debba essere data
la statua aurea o la lancia aurea. Questo luogo dipende in tutto dalle
circostanze di cose e di persone».
Giunti a questo punto
si trova un accenno a quello stato della translatio solitamente
inserito fra gli stati razionali, ma collocato fra i legali nella Rhet. ad
Herenn. di cui, nella traduzione di Crifò, si parla come “rinvio”.
«Il rinvio si ha
quando debba esser cambiato l’accusatore o il giudice o l’azione o il tempo o
il luogo. L’accusatore, perché, essendo infame, per es., è privo di
legittimazione processuale. Il giudice, perché non ha conoscenza [meglio
competenza: notio] del processo in questione. L’azione, perché quella da
proporre, per es., non è un’azione contrattuale bensì un’azione da delitto o
perché l’attore deve far valere il suo diritto non con questa formula di azione
ma con una diversa. Il tempo perché non è ancora scaduto il termine entro il
quale deve essere effettuato l’adempimento. Il luogo, perché, per es., il reo
deve essere citato non a Napoli, ma a Capua».
Il discorso del Vico
che nel periodo appena letto sembrava ripreso in parte da quello di Gaio sulla
‘pluris petitio’, si conclude con un insegnamento decisamente nuovo e
personale, quello secondo cui:
«In questo genere di causae [translatio]
non c’è uno stato proprio e diverso da quelli legali che si sono indicati in
precedenza. Infatti la causa la regoleranno l’antinomia, o la lettera e spirito
o il sillogismo o infine l’ambiguità. Quindi si ricerchi in quanto si è già
detto quale sia lo stato relativo a tali questioni e quali siano i luoghi
attinenti a tale stato».
Si è visto fin dalle
prime pagine di questo discorso che gli argomenti retorici costituivano le così
dette prove tecniche, tipiche delle scuole, mentre in contrapposto ad esse c’erano
appunto le prove atecniche, in quanto non bisognevoli di espedienti retorici
per essere fatte valere.
In realtà anche a
proposito di queste già Aristotele (nella Retorica) si era soffermato ad
insegnare tutta una serie di accorgimenti per valorizzare o per sminuire, a
seconda dei casi, questi strumenti probatori, rappresentati fra l’altro e
fondamentalmente dai documenti e dalle testimonianze.
Orbene noi vorremmo
chiudere (almeno per il momento) il nostro excursus circa gli
insegnamenti che ancor oggi potremmo trarre dalla retorica antica,
soffermandoci sui singolarissimi e interessanti suggerimenti su cui si diffonde
Quintiliano in tema di testimoni e più in particolare sul loro interrogatorio,
che si praticava al suo tempo con quella escussione diretta da parte degli
avvocati alla quale siamo tornati anche noi, dopo la riforma del codice di
procedura penale e l’introduzione, riprendendola dal sistema di common law,
di quella tipica cross examination che conoscevamo solo dai film di
Perry Mason.
Il discorso di
Quintiliano è svolto nel capitolo 7 del libro V e occupa 37 paragrafi, che
mieterebbero di essere letti e meditati direttamente tutti. Noi ne faremo
peraltro solo una sintesi che evidenzi al tempo stesso le varie suddivisioni
interne.
Dopo alcune
considerazioni introduttive sulle difficoltà della prova testimoniale, per la
quale si arriva a parlare di “battaglia dura” che si combatte pro e contro di
loro quando i testimoni sono presenti (e non si tratta cioè di testimonianze
scritte), vengono differenziati due tipi di testimoni, quelli “volontari” che
possono essere prodotti dall’una e dall’altra parte e quelli “citati”
dall’accusatore, dicendosi di voler distinguere al tempo stesso fra chi produce
i testimoni e chi invece deve confutarli (§ 9).
Per quanto riguarda i
testi volontari si comincia col dire che chi produce un teste è di norma in
grado di sapere quello che dirà e dovrebbe essere più facile per lui
interrogarlo. Potrebbe però trattarsi di un soggetto timoroso, incoerente, che
rischia di confondersi e di cadere «nei lacci tesi dalla parte avversa», donde
il suggerimento di sperimentarne le capacità sottoponendolo a casa, prima
dell’udienza, ad un lungo e minuzioso interrogatorio «con domande di vario
genere, quali potrebbero essere quelle poste dall’avversario». In tal modo si
verificherà se i testimoni restano coerenti, o se rischiano di vacillare un
po’, nel qual caso ci si preparerà a soccorrerli con un opportuno
interrogatorio. Ma non basta, perché anche con i testimoni capaci di restare
coerenti, bisognerà stare attenti che non vengano corrotti dalla controparte,
indagando in pari tempo perché (essendosi presentati spontaneamente) vogliono
«nuocere all’avversario» e, se per caso, pur essendo stati suoi nemici
personali, abbiano l’intenzione di riconciliarsi con lui attraverso questa
deposizione o se si siano comunque pentiti, tutte precauzioni – soggiunge
Quintiliano – che se utili con i testi che «sanno che è vero quel che stanno
per dire», sono ancor più necessarie con quelli «che promettono di dire il
falso», i quali sono per vari aspetti più pericolosi.
Si passa quindi a
trattare dei testi citati i quali sarebbero di due tipi (V.7.15) quelli che
hanno e quelli che non hanno intenzione di recar danno all’imputato cosa che,
dal canto suo, l’accusatore che solo ha il potere di citarli a volte sa e a
volte ignora.
Quando l’accusatore
sa che il teste vuol nuocere, egli che dovrà essere in ogni caso abilissimo,
eviterà di far apparire questa intenzione. Non dovrà perciò «interrogarlo
subito sull’argomento in giudizio, ma ... giungervi prendendolo alla larga in
modo che sembri avere estorto a stento al testimone quello che egli voleva dire
più di ogni altra cosa e non deve insistere troppo ... per evitare che il teste
rispondendo a tutto non perda in credibilità ...».
Quando invece sa che
il teste non vuol nuocere e cioè, come dice Quintiliano, «si appresta a dire la
verità controvoglia», il principale successo di chi lo interroga sarà «nel
fargli dire quanto non avrebbe voluto dire» al che si potrà arrivare prendendo
anche in questo caso «l’interrogatorio piuttosto alla larga». Il teste infatti
risponderà «dicendo cose che secondo lui non possono nuocere alla sua causa e
poi dalle molte ammissioni che avrà fatto sarà portato ad un punto in cui diverrà
impossibile negare quello che pure non vuole dire». Se poi, prosegue
Quintiliano, questo non dovesse riuscire, «bisognerà rendere evidente che non
vuol parlare»; lo si trascinerà per coglierlo in fallo anche su punti estranei
alla causa e lo si terrà sulla corda anche più a lungo sicché «dicendo tutto e
più di quanto la causa richieda a favore dell’avversario, diventi per il
giudice un teste sospetto», col che «arrecherà danno all’imputato non meno che
se contro di lui avesse detto la verità».
Quando, infine,
sempre l’accusatore non sa qual’è l’intenzione del teste (§ 21),
«interrogandolo a poco a poco, e come si suol dire passo dopo passo, egli
saggerà il suo animo e gradualmente lo condurrà a dare quella risposta che
bisognerà strappargli». Con l’avvertenza tuttavia che, essendovi testimoni i
quali cominciano coll’assecondare chi li interroga «per fare in modo che siano
più credibili successive risposte di tono contrario», sarà necessario
“congedare” testi sospetti di tal fatta, anche se avrebbero potuto essere
ancora utili.
Si passa a questo
punto all’interrogatorio degli stessi testi citati dall’accusa (almeno così par
di capire) da parte dei difensori, dei quali ultimi si dice subito che se per
un verso sono svantaggiati non conoscendo prima del processo l’atteggiamento
dei testi, per un altro sono favoriti perché quando controinterrogano sanno già
che cosa il teste ha detto.
Andrà accennato qui
al fatto che il sistema processuale al quale si riferisce Quintiliano, come
appare da svariati accenni nel corso del capitolo in esame, sembrerebbe aver
previsto - diversamente da quanto avveniva prima[76] –
una escussione dei testi successiva agli interventi oratori delle parti, le
quali oltre che parlare in generale pro o contro il valore delle testimonianze potevano
anche predisporre in vario modo l’animo dei giudici all’ascolto delle stesse,
donde l’importanza di una “accorta indagine” sui motivi di una eventuale
ostilità dei testi contro l’imputato, motivi da esporre «prima nel discorso di
difesa» assieme ai luoghi comuni per attaccare i testi (a seconda che siano
pochi o molti, di umili origini o di classe elevata).
Quanto
all’interrogatorio vero e proprio si dice dell’importanza di «conoscere il
testimone», poiché «se è timido, può essere intimorito, se sciocco, può essere
tratto in inganno, se irascibile può essere provocato, se ambizioso può essere
gonfiato nel suo orgoglio, se è prolisso lo si può far parlare a lungo». Quello
che più colpisce è però il precetto per un teste che appaia invece «circospetto
e coerente», del quale si dice che «deve essere subito congedato come ostile e
cocciuto o confutato non con un interrogatorio, ma con una breve interruzione
del difensore oppure all’occasione ... raggelato da una battuta di spirito»,
mentre «se c’è qualcosa da ridire sul suo modo di vivere lo si può demolire con
accuse infamanti», stando comunque attenti ad non attaccare con asprezza i
testimoni «onesti e riservati», che, al contrario, devono essere
«tranquillizzati con toni moderati».
Viene fatta a questo
punto, sempre ponendosi dal punto di vista del difensore, un’ulteriore
distinzione fra interrogatori che si svolgono nell’ambito della causa o su
circostanze ad essa estranee. E per il primo caso si consiglia, come già agli
accusatori, di partire con le domande «un po’ da lontano e da un punto in cui
non c’è niente di sospetto», poiché è «collegando le risposte precedenti a
quelle successive» che l’avvocato riesce spesso «a estorcere ai testimoni
contro la loro volontà ammissioni che gli sono favorevoli», anche se sul come
condurre l’interrogatorio in concreto non si possono dare precetti più precisi
né teorici né pratici, trattandosi di capacità che deriva «da naturale
scaltrezza», o che si può acquisire «coll’esperienza». Quanto invece agli
interrogatori su circostanze estranee alla causa, si tratta di domande che
possono risultare utili «sulla vita degli altri testimoni o su quella di
ciascuno di loro, per scoprire se c’è qualcosa di turpe o degradante o dei
legami di amicizia con chi sporge l’accusa o motivi di inimicizia nei confronti
dell’imputato», rispondendo alle quali domande i testi «o dicono qualcosa che
può risultare utile alla difesa o si scopre che mentono e che vogliono nuocere
all’avversario».
Un avvertimento
generale per i difensori che noi possiamo considerare qui, ai nostri fini, come
conclusivo (e siamo al § 31) è in ogni caso quello di condurre l’interrogatorio
«con circospezione, dato che spesso i testimoni replicano con argute battute di
spirito», il che «incontra in modo particolare il favore del pubblico» e poi
usando parole prese dal linguaggio comune «affinché chi è interrogato (che non
è per lo più un uomo colto) comprenda o non possa dire di non comprendere, la
qual cosa raffredda non poco chi interroga»[77].
[1] Si veda in proposito
il pregevole testo di Bice Mortara Garavelli,
Manuale di retorica7, Milano 2003 (Ia ediz. 1987), 46 ss., ma anche la
voce Rhetoric della Encyclopaedia Britannica15, 26, 1989,
803 ss. Di ciò si fa cenno anche nelle pagine premesse dal curatore, Adriano
Pennacini, all’edizione tradotta e annotata dell’importante opera di
Quintiliano in XII libri, Institutio oratoria, per la casa editrice
Einaudi (Torino 2001), dove tuttavia non si allude al Ramo (su cui Walter J. Ong, S.J., Ramus. Method and the of Dialogue. From the art of
discourse to the art of Reason, Cambridge Massachussets 1958, 270 ss.) e
dove si riporta il cambiamento di cui si è parlato al XVII secolo (XV). A
prescindere dalla cause contingenti di questo cambiamento, non è comunque da
escludere che già nell’ambito del mondo antico si fosse allentato il ricorso
alla inventio a causa, verosimilmente, delle eccessive distinzioni e
sottodistinzioni della retorica scolastica, quali traspaiono dalle opere dei
retori più tardi e in particolare da Ermogene (II sec. d.C.). Non andrà
trascurato che nello stesso ambito scolastico, alla fine del III inizi del IV
sec. d.C. c’era stato qualcuno, come il sofista, Frinico, il quale avrebbe
insegnato ai suoi allievi a parlare mediante improvvisazioni non strutturate,
anche se il caso veniva ricordato come una ‘ridicola curiosità’: cfr. Malcom Heath, Hermogenes. On issues, Oxford 1995, 23 e nt. 7.
[2] Come mette in luce B. Mortara Garavelli nella terza parte del suo Manuale, cit., 287 ss. (ma già 49 ss. sulla “nouvelle rethorique” di Perelman e Olbrechs-Tyteca).
[3] Rispetto ai quali vale la pena di ricordare l’esortazione contenuta nella già richiamata premessa di A. Pennacini alla Institutio di Quintiliano (supra nt. 1): «Credo che queste considerazioni e questi esempi di argomentazioni ... ci sollecitino a riprendere in mano la retorica antica, a rileggerla, reinterpretarla e riorganizzarla in forme, strutture e strumenti idonei a promuoverne una significativa e proficua ricollocazione nella società contemporanea. Naturalmente la ‘retorica rediviva’ e la comunicazione persuasiva del nostro tempo comportano alcune differenze rispetto alla teoria e soprattutto alla pratica del passato ...».
[4] Ai quali si dedicano solo alcuni cenni nei manuali di retorica a cominciare da quello già ricordato della Mortara Garavelli, op. cit., 30 e 31, dove si trattano invece ampiamente i ‘tropi’, come metafora, metonimia, sineddoche etc. (di cui allo schema a 146) nonché le numerose ‘figure di parola’, come elissi, asindoto, anastrofe etc. (schema a 186) e ‘di pensiero’ come antitesi, ossimoro, sentenza etc. (237), perfettamente in linea sul punto con quello classico del Lausberg, nella trad. it. Elementi di retorica, Bologna 1969, 24 ss., dove sulle più di duecento pagine dedicate alla elocutio (e quindi ai ‘tropi’ e alle ‘figure’) se ne dedicavano quattro a menzionare i nomi e le caratteristiche degli status delle controversie, per non dire di certe trattazioni come quella di Olivier Reboul, Introduzione alla retorica, Bologna 1996, (1a ediz. 1991 e 2a corretta 1994), dove pur accennandosi ad un profilo storico della retorica da Aristotele ai giorni nostri e dedicando una qualche attenzione anche alla «argomentazione giudiziaria» (122), non si rinviene, se ho ben visto, il minimo accenno agli status, il che può ripetersi per un'altra opera dal titolo promettente, Storia della retorica, Bologna 1994 (ediz. originale Oxford 1989), dovuta oltretutto a Brian Vickers, fondatore delle Society for the History of Rhetoric.
[5] Contrapponendolo al tempo stesso al metodo assiomatico o deduttivo, cosa circa la quale si possono però vedere ora le critiche mosse al Viehweg (come al Perelman), sulla scia del suo maestro Gaetano Carcaterra, da Simona C. Sagnotti nella Introduzione ad una raccolta antologica di testi, Retorica e Logica, Aristotele, Cicerone, Quintiliano, Vico, Torino 1999, 18 s., dove si accenna anche agli stati come quelli ai quali possono applicarsi i luoghi elaborati dalla topica («intesa come arte o scienza del trovare e articolare gli argomenti necessari e, insieme, repertorio di schemi o esempi di argomenti utilizzabili nelle diverse occasioni»). Fra i testi riprodotti se ne possono del resto leggere anche alcuni di Cicerone relativi appunto ai vari status causae in generale (com’è per i due riferimenti sintetici di de orat. 24-26 e de inventione I.8.10-11 riprodotti alle 50-53), e soprattutto a quelli legali (per i quali, presentati come “quasi status” si riproducono diversi passaggi del de inventione alle 125-141).
[6] Per la nota opera di Franz Viehweg, come per quelle molteplici di Alessandro Giuliani si rinvia alla Bibliografia di G.L. Sposìto, cit. infra nt. 8. Accanto a Giuliani, lo Sposìto cita anche la ricerca, L’inchiesta e la prova, di Butti de Lima, Torino 1996, relativa tuttavia alla storiografia antica e ai suoi rapporti con l’indagine processuale del giudice.
[7] Cfr. M. Miceli, La prova retorica fra esperienza romanistica e moderno processo penale, in Index 26, 1998, 257 ss. dove si accenna agli status facendo soprattutto riferimento a passaggi della Rhet. ad Herennium, dei quali si dice che «nella loro formulazione presentano caratteri di maggiore semplicità ed evidenza».
[8] Cfr. G.L. Sposìto, Il luogo dell’oratore. Argomentazione topica e retorica forense in Cicerone, Pubblic. Fac. Giur. e Sc. Pol. Urbino 17, Napoli 2001, 37-53, il quale oltretutto allude anche alla necessità di occuparsi di più del mestiere dell’avvocato a Roma, presentando la registrazione di una esercitazione processuale nella Rivista di diritto romano on line, 2003. Quanto ai Topica ciceroniani si potrà ricordare che ad essi aveva fatto anche un utile commento Severino Boezio (480-524), commento che «ebbe una straordinaria diffusione in tutto il medioevo», come ricorda Mortara Garavelli, op. cit., 43 (dove si dice anche che «la trattazione boeziana dell’ars rhetorica comprende principalmente la dottrina degli status causae» del che tuttavia io non ho trovato riscontro).
[9] Le pagine che seguono sono infatti state predisposte per un seminario sul tema agli studenti della Facoltà di Giurisprudenza. Sarà d’altronde appena il caso di avvertire che, oggi come oggi, siamo talmente lontani dalla ‘dottrina degli status’ in senso retorico, che l’espressione in parola viene tranquillamente utilizzata, come noto, in riferimento alle condizioni della persona (solo come un esempio preso a caso si veda la intitolazione «la dottrina degli status e la condizione dello ius personarum» di un recentissimo libro della Balestri Fumagalli, Rosmini e il diritto romano, Milano 2003, 27).
[10] Cfr. La dottrina
degli “status” nella retorica greca e romana, Hildesheim 1986. In proposito Braet, in Philosophy
and Rethotic 20, 1987, 97 ss.
[11] Della qual cosa unicamente
si parla, da parte di E. Marzaduri,
nel recente Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato
da M. Chiavario, V, Torino 1991,
512, con riferimento all’art. 530, ampiamente corrispondente all’art. 479 del
Codice Rocco del 1930, dove in materia c’erano anche l’art. 152 relativo al
proscioglimento in istruttoria e l’art 62 delle norme di attuazione circa le
corrispondenze fra le nuove formule di proscioglimento e quelle del codice
abrogato del 1889.
[12] Il che dico pensando al Seminario dell’ott.-dic. 2000, su La strategia della difesa. Argomentazione, comunicazione, tecniche processuali, ediz. “Il Sole 24 ore”, a cura di A. Mariani Marini, promosso dal ‘Centro per la formazione e l’aggiornamento professionale degli avvocati’, in cui figura un saggio di B. Mortara Garavelli su Logos e pathos nell’oratoria forense (ricavato, come avverte l’a., dalla sua opera più ampia in materia, La parola e la giustizia. Divagazioni grammaticali e retoriche su testi giuridici italiani, Torino 2001), e dove a 27 ss., si accenna anche alla c.d. “pragmadialettica” e alle regole argomentative degli studiosi olandesi ricordati nel testo. Sempre la Mortara Garavelli, autrice del già citato Manuale di retorica, aveva del resto dimostrato il suo interesse per le argomentazioni giuridiche con precedenti partecipazioni a dei convegni, come quello dei Lincei sul Tecnicismo del linguaggio giuridico del 1997 (ma pubblicato sotto il n. 149 nel 1999), dove compare appunto (a 155 ss.) un suo studio dal titolo L’italiano giuridico. Strutture sintattiche e retoriche in testi giuridici, o quello su Arte della persuasione e processo, organizzato dalla Associazione giovani avvocati di Firenze (28-29 nov. 1997) e curato da Alessandro Traversi, Milano 1998, dove figura una sua relazione (13 ss.) intitolata Nuovi orizzonti della retorica. Non sarà male segnalare come riferimenti alle tipiche argomentazioni retoriche per le quali si fa richiamo al trattato di Perelman-Tyteca si ritrovino anche in Saitta, Logica e retorica nella motivazione delle decisioni della Corte Costituzionale, Milano 1996, 160 ss.
[14] Come mette in luce D. Siracusano, s.v. Assoluzione (dir. proc. penale), in Encicl. del dir., III, 1958, 929, cui si richiama S. Marotta, s.v. Sentenza penale, in Digesto IV, Sezione penalistica, XIII, 1992, 193 nt. 153.
[15] Su cui oltre alla già citata voce di Siracusano (op. cit., 930) si potrebbero leggere, fra l’altro, i rilievi critici di Pietro Mirto, a detta del quale «bene spesso ... si usa la formula ‘l’imputato non ha commesso il fatto’ per indicare che l’imputato non ha commesso il fatto perché questo non costituisce reato»: cfr. Le formule processuali negative dell’azione penale in rapporto alla dottrina degli elementi del reato, Milano 1959, 72, in conformità a E. Dosi, La sentenza penale di proscioglimento, Milano 1955, 165 ss., ma anche le considerazioni di Stanislao Vitta, Presidente di sezione della Cassazione, Arch. Penale, 1957, I, 267-269, oltre che, da ultimo, le impegnate, ma tutt’altro che facili argomentazioni teoriche di Franco Cordero, Procedura penale6, 958 ss. Per alcune importanti sentenze in cui si dettano principi in materia si potrebbe inoltre vedere i richiami nel IV volume del Trattato di diritto processuale penale6 di V. Manzini, aggiornato a cura di G. Conso, 247 nt. 9, nonché 558 ntt. 52, 53, 54 e 55.
[16] Così, appunto, nel Codice per il Regno Sardo del 1847 (art. 437) ed altresì in quello del Regno d’Italia del 1865 (art. 393), come nel successivo, già ricordato, del 1889, mentre non parrebbe potersi dire lo stesso per il Codice degli Stati Estensi del 1856 (artt. 73 e 336 §1) e per il c.d. Codice di Finocchiaro Aprile (si veda art. 461 del progetto del 1905), come del resto già per il Code d’instruction criminelle del 1808, dove, se ho ben visto, s’incontrano solo le formulazioni secondo cui «le fait n’est pas constant ou ... l’accusé n’est pas convaincu» (art. 345 n° 1) accanto ad ipotesi di prove insufficienti su alcune o su tutte «les circonstances» (rispett. n° 3 e n° 4).
[17] E che, per quanto riguarda il “genere giudiziale” si distende per diverse pagine nella traduzione con testo a fronte delle sue Institutiones oratoriae, curata da Giuliano Crifò (Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa 1989, rist. 1995): si veda a 97 ss. (nell’ambito del § 19) per il primo accenno e rispettivamente alle 113-133 (relative al § 22) per l’esposizione dei vari status, alla quale ultima non mancheremo di fare più ampi richiami nella parte finale del nostro discorso. Andrà semmai notato qui che per conto suo il Crifò, non per niente divulgatore del Viehweg, si è piuttosto soffermato, nella sua lunga Introduzione, sui problemi che nascono «nell’ambito delle discussioni sulla topica» (LVIII ss.), con solo accenni più o meno incidentali alla dottrina degli status, essenzialmente in alcune pagine del suo Commento al § 19 (462-465) e al § 22 (466), oltre che nella nt. 162 di LXIII sempre dell’Introduzione. Quanto poi ai problemi di datazione dell’opera retorica di Vico, di cui una prima parte sarebbe da riportare al 1711, si veda ancora la Introduzione di Crifò, LXXI ss.
[18] Cicerone. La Retorica a Gaio Erennio, Milano, ‘Oscar Mondadori’, 1992 [d’ora in poi citato come Cancelli, Ermog. mentre ci capiterà di citare la stessa Reth. ad Herenn., sulle orme del Cancelli, come Ermogeniana].
[21] Il che latinamente dicevasi iudicatio, corrispondente al greco krinomenon come si legge in Rhet. ad Herenn. I,26 (ma il punto era controverso fra i retori: cfr. in proposito Calboli Montefusco, op. cit., 3 ss.
[29] Ai quali si rifà per conto suo lo Sposìto, op. cit., 39, che appunto utilizza quasi esclusivamente il de inventione nella sua sintetica esposizione degli status causae razionali (dal momento che egli non si occupa degli status legali).
[30] Ma al tempo stesso meno complessa di quella del de inventione, dove «il locus ex causa si divideva in impulsio e ratiocinatio» (come mette in luce Sposìto, op. cit., 39 s. con richiamo a de inv. II.5.7), facendosi rientrare nella prima «il comportamento di chi compì un’azione spinto dalla passione dell’animo ...» e nella seconda il compimento di una cosa «per avere o aumentare un vantaggio, oppure per respingere o diminuire uno svantaggio».
[31] Il che però è chiaramente da considerare come oggetto di una ‘domanda retorica’ perché se ci fossero stati testimoni che avevano visto avvenire il fatto non saremmo in presenza di un processo indiziario e non si spiegherebbe il seguito del discorso.
[33] Ciò che diciamo a prescindere qui da quella inevitabile ambiguità, presente anche nelle nostre fonti, per cui si usa parlare di ‘definizione’ sia quando si tratta di definire un nome, vocabulum, sia quando si tratta di stabilire «con quale nome si designi un certo fatto», per dirla con il de invent. 1.11, e meglio ancora col de orat. 1.42.189, dove si allude alle «caratteristiche delle cose che vogliamo definire».
[34] A parte che la traduzione italiana della edizione Einaudi («poiché si discute non sulla denominazione del fatto ma sul fatto stesso») potrebbe tradire un po’ l’originale, dove si legge «non de appellatione sed de vi facti eius ambigitur», cui corrisponde meglio quella inglese della Loeb «Here there is no doubt about the name, it is the significance of the act wich is in doubt».
[35] Confusione che invece è sempre possibile come avevamo avuto modo di accennare con diversi rinvii bibliografici al § 2 della Introduzione, nt. 15.
[36] E ciò sebbene anche
nel mondo antico gli ‘stati’ potessero talora affiancarsi, del che tuttavia non
abbiamo potuto occuparci in questa sede (si veda al riguardo Calboli Montefusco,
op. cit., 51 ss., dove si dedica un apposito capitolo, il IV, al Rapporto
fra più status all’interno di una medesima causa).
[37] L’unico punto sul
quale ci si diffonde un po’ di più e che anche per noi potrebbe apparire più
interessante, poiché non siamo soliti guardare a questo aspetto quando si
studiano le fonti giuridiche romane, concerne il “giudicato”, ossia il
‘precedente giudiziario’, che, se pur non vincolante come «fonte di diritto,
poteva esserle assimilato» (cfr. Cancelli
nelle note a p. 352, nt. 34). Il nostro manuale di retorica mette in luce
saggiamente come «i giudicati sono spesso difformi, nel senso che in un modo
decise un giudice, o un pretore, o un tribuno della plebe, in un altro un
altro», sottolineando come ciò potesse avvenire anche in merito ad «uno stesso
caso», sicché, per l’ipotesi in cui vengano prodotti «giudicati diversamente
pronunciati in causa analoga», si prescrive di confrontare attentamente
«giudice con giudice, circostanza con circostanza, il numero con il numero dei
giudizi» (un discorso questo interessante anche se, maggiormente appropriato,
come s’intende, per i sistemi di common law).
[38] Che era, come avverte Quintiliano, un tipico esempio di scuola, cui avrebbe potuto corrispondere nella vita reale una causa davanti ai centumviri per testamentum inofficiosum.
[39] Su cui avremo modo si soffermarci più avanti utilizzando la già citata edizione Crifò, dove il riferimento che si fa ora è alla 115.
[40] Sul che Vico tornava più avanti, ricordando di aver «dato sopra l’esempio di chi abbia ucciso un uomo per difendersi» (22, 101 ss.), anche se non indicava in quale sottospecie di qualitas rationalis (presentata da lui in contrapposizione a quella legalis, a cui venivano riportati gli status legales, secondo una concezione che è, per esempio, tipica di Ermogene) rientrasse appunto tale esempio. Dal modo in cui vengono descritte le quattro tipologie, individuate come «il confronto, la correlazione, la rimozione, la concessione», sembrerebbe ricavarsi tuttavia che si trattasse proprio di quella corrispondente alla nostra translatio criminis ossia della ‘correlazione’ («quando rigettiamo la colpa sulla stessa persona che ha subito il male o il danno»).
[41] Da non confondere comunque con la antikathegoria, di cui Quintiliano, VII.2.18 aveva parlato a proposito della coniectura e che si aveva quando qualcuno accusasse altri dello stesso fatto.
[42] Come del resto faceva espressamente Quintiliano nella sua breve trattazione di questo punto (VII.4.14).
[43] Mentre Quintiliano sembrerebbe averla considerata possibile in certi processi familiari: cfr. VII.4.31.
[46] Ci si potrebbe anche chiedere se nell’accenno incontrato poco sopra ad un «vizio dell’animo» di chi «smarrì la ragione» non si potesse trovare un qualche spunto per un collegamento con l’unica formula per la quale non ci è sembrato di ritrovare corrispondenze nelle fonti retoriche, quella di proscioglimento perché il soggetto “non è imputabile”.
[47] E che presenta innegabili punti di contatto con uno strumento tipico del processo greco come la paragraphè resa in latino con praescriptio (si veda in proposito l’accenno di Quintiliano III.6.72: An non praescriptiones ... in quibus maxime videtur manifesta tralatio), la quale paragraphè era da sollevarsi in via preliminare, nella fase precedente il vero e proprio dibattimento ossia la anakrisis. Si potrebbe anche considerare che nello schema espositivo di Ermogene fra le varie parti della coniectura compaiono al primo posto proprio le questioni proponibili con la paragraphè (cosa a cui il traduttore-commentatore inglese Malcom Heath, Hermogenes, cit., 81, si riferisce parlando di «exception»), senza tuttavia sottacere che in verità anche Ermogene elencava quattro stati razionali con al quarto posto proprio la metalepsis (che lo stesso commentatore inglese rende con «objection»: op. cit., 71).
[48] Fra cui il fatto che il Lausberg, op. loc. cit. (supra nt. 4), nella sua breve enunciazione degli stati, collocava inspiegabilmente la translatio al primo posto fra gli stati razionali.
[50] Il che comunque non autorizza a ritenere che, come scrive Cancelli, Ermog., cit., 329 nt. 29, «non era facile tenere distinte le varie ipotesi e gli stati, specie nella pratica».
[56] Cfr. op. cit., 190 s. dove si distinguono cinque specie: «... se ciò che vale una volta deve valere sempre ... se ciò che vale per una cosa vale anche per più cose ... se ciò che vale prima vale anche dopo ... se ciò che vale per il tutto vale anche per una parte ... se ciò che vale per una parte vale per il tutto ...».
[58] Così dicasi per fare qualche esempio per l’ambiguità nascente da parole suscettibili di essere divise in altre aventi ciascuna un proprio significato, come arma-mentum, Cor-vinum, oppure da parole composte, come capita con la frase latina in culto loco che potrebbe significare in un luogo coltivato o all’opposto in un luogo non coltivato (inculto), ovvero per l’ambiguità derivante da numerosi sintagmi, dove compaiono sempre parole latine aventi funzione grammaticale diversa (soggetto e oggetto) espresse nello stesso caso, come: Lacheten audivi percussisse Demeam, dove non si capisce chi è stato a percuotere l’altro.
[60] Come si leggeva in Rhet. ad Herenn. I.18, al posto del quale esempio per parte nostra si è preferito ricordare quello dei due mercanti che vanno a dormire nella stessa osteria e che si legge nel de inventione.
[61] Della qual cosa ci si può fare un’idea considerando quanto si legge all’inizio del § 33: «Parimenti è difettosa la proposizione quando ciò che avviene raramente, si afferma che non avviene assolutamente, a questo modo: Nessuno potrebbe ad uno sguardo né di sfuggita innamorarsi», o quella del successivo § 39: «Parimenti è difettoso che, quel che dice contro l’avversario, possa confarsi o ad altri o anche al parlante stesso, a questo modo: Sono infelici quelli che prendono mogli. / Ma tu ne prendesti una seconda».
[62] Dai quali (II.47 ss.) appare come il discorso dell’oratore rischiasse facilmente di diventare roboante e fastidioso, come bastano a comprendere pochi squarci dal primo locus, quello ex auctoritate, «quando ricordiamo di qual grande cura sia stata quella cosa agli dei immortali, o ai nostri antenati, ai re, agli Stati, alle genti, agli uomini più saggi, al senato ...» e da alcuni degli ultimi, tutti relativi al fatto, come il settimo, «quello con cui mostriamo che il fatto è orrendo, crudele, scellerato, tracotante, del genere quale la violenza alle donne ...»; l’ottavo «col quale mostriamo che non è reato comune, ma straordinario, abietto, esecrando, senza precedenti ...» o il decimo «per il quale tutti gli atti che si sono svolti nel compimento del fatto, e gli effetti che sogliono seguire al fatto, esaminiamo vivamente e accusatoriamente e icasticamente ...».
[65] Per non parlare della pur diversa critica rivolta poco prima ai meri elenchi di loci argomentativi, come quelli fatti in quantità così «elevata» da Aristotele, talché «mancherebbe chiaramente di senso comune chi dovesse farseli insegnare».
[66] Cfr. sul punto anche Crifò, op. cit., 463, che parla della «“esigenza costante di concretezza” che avrebbe mosso Vico alla sua critica contro gli “eccessi”».
[68] Avendo dichiarato di volersi occupare dei «tre i generi di cause» perché i suoi lettori non fossero «del tutto privi del modo in cui i retori insegnano a trovare argomenti in qualunque tipo di questione».
[69] Non senza un accenno
anche al controverso problema della iudicatio, di cui si dice che «nasce
dalla ragione della negazione opposta dall’accusato e dal fondamento
dell’accusa stabilito dall’accusatore» (22.28 ss.).
[70] Cfr. lo schema
elaborato da Heath, op. cit., 71 dove la quality viene appunto
presentata come divisa in logical e legal.
[71] Anche se il richiamo
all’istinto naturale parrebbe una discutibile innovazione vichiana, così come è
d’altro canto una innovazione del Crifò quella che riguarda la res iudicata
resa parlando di “sentenza passata in giudicato”.
[72] Traduzione peraltro questa di un testo («cum factum non ex sese iustum propugnamus, sed aliqua ratione foris assumpta iustum esse contendimus») che sarebbe meglio rendere in maniera oltretutto più fedele così: «quando non difendiamo il fatto come giusto in sé, ma con qualche giustificazione tratta da fuori sosteniamo che è giusto».
[73] Dove a me parrebbe inadeguata la traduzione di “purgamus” con “espiamo”, anziché ad es. con “giustifichiamo il fatto”.
[75] Non senza aver riportato
almeno in nota qualche passaggio di quell’esempio (22.168 ss.) che non
sembrerebbe desunto dall’opera di un qualsiasi retore antico, ma frutto di un
pensatore moderno, buon conoscitore della cultura classica, filosofica,
retorica e giuridica: «Chi difende la legge cominci col dire, per rendersi bene
accetto, che egli difende non un cittadino arrogante, bensì il legislatore e
non è spinto all’accusa per favore, per odio, per ambizione, ma per proteggere
la santità delle leggi ... Insegni quindi ... che se esistevano fatti che
meritassero pubblicamente di essere esclusi dalla previsione legislativa, la
giurisprudenza degli antichi [“antiquam iurisprudentiam”] vi
aveva provveduto con finzioni giuridiche che consideravano come inesistenti
quei fatti ...; che la discrezione dei giudici [“iudicantium arbitrium”]
deve essere limitata e che si spalancherebbero le porte all’arbitrio se fosse
lecito aggiungere eccezioni alle leggi .... Raccoglierà inoltre una quantità di
decisioni prese a stretto diritto, tra le quali soprattutto l’esempio del
figlio di Manlio Torquato, il quale pur avendo, disobbedendo al comando
paterno, sconfitto i nemici, tuttavia, giudicato e condannato dal padre, subì
la pena per aver rifiutato di obbedire ...».
Con riferimento a chi parla «in favore della volontà ... contro la lettera della legge» si trova invece affermato: «Chi in questo caso sostiene l’equità, per accattivarsi gli animi dirà fin dall’inizio che egli si è deciso a difendere un accusato, che si è reso colpevole nei confronti della legge, per obbedire al legislatore; e che veramente difende il legislatore chi parla in favore di colui che ha obbedito alla volontà del legislatore; insegni poi che l’equità è moderatrice dello stretto diritto; che è questo che la giurisprudenza [“iurisprudentia”] garantisce, di essere cioè arte dell’equo e del buono ...». E dopo una frase come questa in cui non potrà non sorprendere l’eco della famosa definizione di Celso del diritto come ars boni et aequi, non meno sorprendente appare la frase successiva dove si fa esplicito riferimento a ciò che è proprio di un giurista (iurisprudentis): «Che è proprio di scrivani stare attaccati alla lettera delle leggi, è proprio del giurista, invece, coglierne il significato profondo». Ma il discorso prosegue con richiamo anche ad un detto celebre: «Che queste severe interpretazioni del diritto hanno spesso indotto gli uomini in errore e che è diventato proverbiale il detto ‘summum ius summa iniuria’ …; che i legislatori invero statuiscono nelle loro leggi intorno a ciò che normalmente accade, affidano invece il resto alla discrezionalità dei giudici, né è mai esistito alcuno così sapiente da saper prevedere tutto ...; che è preferibile che le leggi si adattino e che di esse ci si serva come del regolo lesbio che si conforma alle cose e non adatta a sé le cose. Che nelle cause va rispettato l’interesse pubblico ...» (dove il richiamo al ‘regolo lesbio’ sembrerebbe riecheggiare Aristotele, Eth. Nic. 5.10.6-7: cfr. Martini, Aequitas nell’editto del pretore, in Utrumque ius 11, 1999, 246).
[76] Come vien detto esplicitamente al § 25 dove si parla di tempi passati, «in cui il teste veniva interrogato prima e non dopo che erano finite le arringhe», tempi che non sapremmo tuttavia precisare meglio data la scarsità di testimonianze in proposito, come si legge nel vol. II, 1039 s. nt. 1 dell’edizione Einaudi da cui stiamo citando.
[77] Prendendo spunto da
tutti questi avvertimenti in tema di testimoni non sarà male accennare qui
anche ad alcune interessanti raccomandazioni che s’incontrano quasi alla fine
dell’opera di Quintiliano (XII.8), quando si viene a parlare dei criteri che
l’oratore deve seguire nell’esercizio della sua attività e si comincia con le
avvertenze da osservare nell’assumere la difesa delle cause.
Nel che viene fatta
rientrare anzitutto una buona conoscenza preventiva di tutti gli aspetti della
causa stessa, biasimando il comportamento di certi avvocati che si vantano di
riuscire a tanto grazie a pochi spunti colti direttamente in udienza e poi
(come si dice dipingendo un gustoso quadretto realistico) «dopo aver a lungo e
con eleganza – tra uno schiamazzo e l’altro del pubblico – declamato cose che
non hanno nulla a che vedere né col giudice né col cliente, si fanno
accompagnare in processione attraverso tutto il foro, ben sudati e seguiti da
un codazzo di ammiratori»).
Viene parimenti
criticato il comportamento di quelli che fanno interrogare i clienti da degli
amici che poi riferiscono loro le cose, spesso nemmeno mettendole per scritto e
così «finiscono per apprendere direttamente dai loro avversari i termini della
causa che non hanno voluto sentire dai loro clienti».
Per ben conoscere la causa è infatti essenziale un colloquio lungo e approfondito col cliente esortandolo «ad esporre tutto quello che concerne la causa anche con molti particolari e risalendo ... ai moventi lontani». Accadrà fra l’altro così che l’oratore trovi «sia il lato debole che il rimedio opportuno in quei punti che al cliente sembravano di nessuna importanza». Dopo aver esortato a non fidarsi della propria memoria e a prendere appunti, Quintiliano aggiunge una cosa molto istruttiva per l’avvocato: «Non si contenti mai di aver udito una sola volta: il cliente deve essere costretto a ripetere più e più volte le stesse cose, non solo perché è possibile che qualche dettaglio gli sia sfuggito alla prima esposizione, specialmente se si tratta, come spesso avviene, di una persona priva di esperienza, ma anche per sapere se ripete fedelmente quello che ha detto prima. Infatti moltissimi clienti mentono ...». Per «guardare più in profondità di quanto gli viene fatto vedere» l’avvocato dovrà anche «cambiar ruolo e far la parte dell’avversario e proporre tutte le obiezioni possibili e immaginabili in una discussione di quel genere». Insomma si dice concludendo: «Il cliente deve essere interrogato e incalzato nella maniera più aggressiva possibile: infatti, nel momento stesso in cui investighiamo su tutto, talvolta arriviamo – quando meno ce l’aspettiamo - alla verità».