Università di Mosca
“M.V. Lomonosov”
La storia di Roma nella storiografia
sovietica postbellica (anni 40-80)
La II Guerra Mondiale è stata per i popoli
che facevano parte dell’Unione Sovietica la Grande Guerra Patria. Seppure
perfino negli anni dei grandi disastri e delle prove il pensiero scientifico
continuasse a pulsare, le università e i musei funzionassero, venne posto un
limite allo sviluppo della scienza. Esso ha lasciato traccia soprattutto nel
panorama scientifico. Molti studiosi di talento, soprattutto giovani, erano
deceduti al fronte; i superstiti e gli studiosi della generazione precedente
attraversavano delle smisurate difficoltà, quali fame, freddo, sfollamenti,
assenza delle cose essenziali. Mancava perfino la carta. Gli studenti
scrivevano gli appunti delle lezioni sulle strisce di carta ricavata dai
margini dei giornali. Un duro colpo è stato dato alle biblioteche: i depositi
non erano più riforniti, si era estinto l’afflusso della letteratura
scientifica straniera e, cosa più spiacevole, si erano interrotte le
pubblicazioni delle fonti.
La Vittoria nella Grande Guerra Patria
suscitò uno straordinario entusiasmo nella società. Nonostante un terribile
sfacelo, una vita di stenti e una limitazione dei contatti con i colleghi
stranieri, gli studiosi ripresero la loro attività. In primo luogo bisognava portare
a compimento gli obiettivi prebellici di pubblicare nuovi libri di studio per
l’università. In effetti nel 1947 è stato edito il manuale sulla storia di Roma
antica di N.A. Maškin, professore dell’Università Lomonosov di Mosca,
ripubblicato con aggiornamenti nel 1949, nonché il corso di lezioni del
professor S.I. Kovaljov dell’Università di Leningrado. Inoltre, hanno visto la
luce i corsi di lezioni sull’antichità. Tutta questa letteratura è stata
scritta, naturalmente, secondo le posizioni del marxismo-leninismo, con il
riconoscimento dell’esistenza a Roma della formazione schiavistica e della
lotta di classe tra schiavi e schiavisti, in quanto fondamentale forza motrice
della storia romana.
Però, questi testi di studio, soprattutto
quello di Maškin, erano colmi di copiose informazioni sui fatti, contenevano
delle notizie sul carattere e sulle trasformazioni della società romana, sulla
politica interna ed estera, sulla peculiarità della cultura materiale e
spirituale dei romani, saggi sugli uomini di Stato, capi militari, poeti e
storici. N.A. Maškin per primo ha introdotto nei manuali sovietici le rassegne
dei diversi tipi di fonti sulla storia romana, e le rassegne della storiografia
di storia romana. Inoltre lo studioso ha dedicato uno spazio a parte alla
storia del diritto romano.
L’inizio del periodo postbellico è stato
segnato dal ripristino dell’attività delle riviste scientifiche, sia di quelle
universitarie, sia di quella nazionale, il «Vestnik
drevnej istorii» dell’Accademia delle Scienze dell’Unione Sovietica, dove
la tematica romana è stata sempre presente. Ma ha avuto un’importanza
particolare la comparsa delle ricerche propriamente scientifiche di carattere
monografico. Queste, beninteso, erano il frutto di lavori preliminari confluiti
in articoli. La loro problematica era assai svariata ed ha avuto seguito nella
letteratura sovietica del periodo successivo.
Per primo appare il libro dell’accademico
R.Ju. Vipper, tornato dal suo espatrio nel 1941[1].
Nell’Unione Sovietica il cristianesimo non rientrava nella sfera della
teologia, ma era visto come un fenomeno che faceva parte della storia
culturale, ideologica e sociale dell’Impero romano. Il primo cristianesimo non
era un argomento centrale, e il fatto che noi cominciamo la nostra rassegna con
esso è dettato dalla priorità cronologica. Il libro «Roma e il primo cristianesimo» ha aperto la lista delle ricerche
sovietiche postbelliche sulla storia romana. Vipper era seguace della scuola
mitologica e si era posto il compito di esaminare le tappe della graduale
storicizzazione dell’immagine di Cristo. Nel 1954 poco prima di morire egli
pubblica un nuovo libro[2]
all’incirca sullo stesso argomento, dopo aver preso però in considerazione le
opinioni di F. Engels; perciò in esso viene prestata una maggiore attenzione
alla storia sociale, politica e ideologica del mondo greco-romano, e ai gruppi
politico-religiosi della Giudea del I sec. d.C. R.Ju. Vipper ha notato inoltre
la necessità di uno studio dell’organizzazione ecclesiastica.
Il rifiuto dell’idea dell’ispirazione divina
dei Vangeli era tipico degli studiosi sovietici di quel periodo. Le opere di
S.I. Kovaljov[3]
e Ja.A. Lencman furono scritte con uno spirito spiccatamente ateo. All’ultimo
studioso appartiene la monografia sull’origine del cristianesimo[4].
Essa è scritta dall’allievo del prof. A.B. Ranovič[5], il
quale aveva pubblicato e commentato i monumenti cristiani e aveva svolto una
attiva propaganda atea fin dai tempi prebellici. Ja.A. Lencman ha utilizzato
una vasta base di fonti degli scritti cristiani e non, compresi i documenti di
Kumran[6].
Oltre alle radici ideologiche del cristianesimo, egli era interessato a
studiare la vita delle comunità protocristiane del II-III sec., le eresie del II
sec. e le condizioni per la creazione di un’unione tra la chiesa e il potere
imperiale romano. Bisogna dire che in generale la scienza sovietica ha sempre
reagito con vivo interesse alle pubblicazioni dei nuovi dati delle fonti[7].
Si è manifestato nella scienza sovietica
anche l’interesse per le scoperte a Nag-Hammadi, un luogo remoto dell’Impero
romano. M.K. Trofimova si è rivolta al problema dello gnosticismo e ha
presentato la prima traduzione in russo dei quattro testi ritrovati nel 1945[8].
Il professore dell’Università Lomonosov di Mosca (MGU) A.Č. Kozarževskij[9]
ha svolto uno studio esegetico della letteratura paleocristiana. Egli esamina
il Nuovo Testamento in quanto fonte storica che riflette il modo di pensare e
di vivere delle comunità cristiane. Il Nuovo Testamento viene messo a confronto
con il Vecchio, con i testi di Kumran, con alcuni apocrifi, con i dati degli
autori antichi e con l’archeologia. Lo studioso bielorusso V.A. Fedosik[10],
sulla base dell’eredità epistolare di Cipriano, ha esaminato il conflitto tra
le correnti in seno alla chiesa cristiana, ed ha studiato la biografia di
Cipriano, eminente ideologo della chiesa episcopale.
Alle scritture segrete dei primi cristiani è
dedicata l’opera di I.S. Svencickaja[11]. In
essa sono esaminati: l’organizzazione delle comunità cristiane, i primi
apocrifi, le scritture di Pietro, il «Pastore» di Germa, i Vangeli di
Henoboskion. Secondo l’autrice, i principali dissensi dei cristiani
riguardavano la questione dell’immagine di Cristo, il carattere del regno di
Dio, nonché l’etica. Tracce delle varie correnti si trovano riflesse anche nel
Nuovo Testamento. Nessuna delle correnti indicate soddisfaceva i bisogni
spirituali della società. Solo la chiesa ortodossa è riuscita a sopravvivere,
grazie all’adattarsi alle realtà della vita, il che le ha assicurato, alla
fine, il sostegno dello Stato. In una serie di libri è stata prestata una
particolare attenzione all’organizzazione ecclesiastica. Così, N.I. Golubcova[12]
ha analizzato il difficile e lungo cammino della lotta tra i vari sincretismi,
ed ha dimostrato l’importanza dell’organizzazione ecclesiastica cristiana per
la vittoria del cristianesimo sia nell’Impero Romano d’Occidente, sia in quello
d’Oriente. L’autrice rileva il ruolo sociale negativo della chiesa la quale,
dopo aver ottenuto l’appoggio degli imperatori, si trasformò in un grosso
proprietario terriero che sfruttava schiavi e coloni, e reprimeva con crudeltà
spietata i dissenzienti. Nel libro di I.S. Svencickaja[13],
oltre allo studio delle condizioni sociali, politiche, culturali e religiose
dell’Impero romano, viene evidenziato lo stato della provincia di Palestina nel
I sec. a.C.–I sec. d.C., dalla propensione antiromana, in cui erano presenti le
correnti messianiche. Usando i dati di tutte le fonti a disposizione, comprese
quelle nuove[14],
I.S. Svencickaja nota che esse confermano le precedenti affermazioni degli
studiosi sovietici sulla storicità di Gesù Cristo. La graduale costituzione
dell’organizzazione ecclesiastica si presenta nel libro come un processo di
unificazione sotto l’influsso delle cause storiche delle comunità dei credenti
che portò alla creazione di un’organizzazione gerarchica. Il legame con lo
Stato garantì al cristianesimo una posizione dominante tra le altre religioni.
Ai rapporti tra la chiesa cristiana e lo
Stato romano nei secc. III-IV è dedicata la monografia di V.A. Fedosik[15].
L’autore esamina dettagliatamente le cause e le modalità delle persecuzioni del
III sec. e afferma che all’inizio del III sec. i rapporti tra la chiesa e lo
Stato erano in genere assai distesi. Per lo Stato il problema cristiano non
esisteva, mentre per i cristiani il comportamento nei confronti dello Stato era
importante, in quanto desideravano essere dei buoni sudditi dell’Impero. A
proposito dell’editto di Decio lo studioso ritiene che esso conteneva l’ordine
di placare gli Dei pagani, ma non era legato al culto dell’imperatore.
Trattando dello scisma dei cristiani, V. Fedosik nota il suo sostrato sociale e
la flessibile posizione del clero. La specificità dello sviluppo dell’Impero
romano d’Occidente ha condizionato l’elevazione del vescovado, mentre le
particolarità dell’Impero d’Oriente – lo sviluppo del cesaropapismo.
Come si vede, la tematica paleocristiana nel
periodo in esame è passata da un prevalente interesse della dottrina per le
radici socio-economiche e per lo sviluppo dell’organizzazione ecclesiastica, ad
un approfondimento dell’analisi dei bisogni ideologici e spirituali dei vari
strati della società romana. Le opere summenzionate, indipendentemente
dall’appartenenza alla scuola mitologica o storica, sono scritte su una
svariata base di fonti, e si distinguono fortemente dalla originaria propaganda
per l’ateismo.
Ma, nonostante l’esistenza di monografie e
di un gran numero di articoli, lo studio del primo cristianesimo era un settore
secondario della storiografia sovietica. Il posto centrale era occupato dal
problema della storia socio-economica della Roma schiavistica.
Una caratteristica notevole di questo
periodo è stato il coinvolgimento di tutte le fonti e della storiografia
straniera, ora più accessibile agli studiosi, per la soluzione del problema.
Una maggiore libertà ideologica e un atteggiamento riguardoso della società
verso l’attività scientifica hanno permesso di variare le tematiche degli studi
e di riservare per essi più spazio ai dibattiti. Gli storici, la cui formazione
si era svolta in tempi sovietici, si conformavano alla visione materialista
della storia e miravano a rivelare il sostrato economico dell’evoluzione
sociale. In quel periodo le opere dedicate allo sviluppo economico non sono
state numerose, ma sono di cospicuo valore. Innanzitutto menzioniamo la
monografia di M.Je. Sergejenko, allieva di M.I. Rostovtzeff, pubblicata nel
1958[16].
La studiosa, basandosi su un’analisi scrupolosa delle opere degli autori
antichi, esamina l’economia dell’azienda agraria romana: coltivazione del
campo, mietitura, trebbiatura, orticoltura, olivicoltura, allevamento degli
ovini e dei suini; l’agricoltura suburbana nell’Italia centrale, l’organizzazione
dell’economia agricola nella valle del Po nel II-I sec. a.C. e le villae rusticae nei dintorni di Pompei.
M.Je. Sergejenko giunge a conclusioni fondate e originali. La studiosa si
oppone all’interpretazione del brano del trattato agricolo di Catone (I.7)
invalsa negli studi storici da Mommsen a T. Frank, secondo cui la
cerealicoltura andava perdendo la sua importanza a partire dal II secolo a.C.
La villa catoniana, secondo l’autrice, era un’azienda agricola plurisettoriale.
L’enumerazione dei possedimenti rurali fatta da Catone nel suo famoso trattato De agri cultura non era di fatto una
graduatoria secondo la redditività, ma una descrizione di una villa concreta.
Dopo aver studiato le ville pompeiane M.Je. Sergejenko, tenendo conto dei dati
archeologici, ha apportato delle correzioni nella classificazione delle aziende
agrarie proposta un tempo dal suo maestro: ha individuato aziende più ricche e
più povere con diversi piani di dislocazione dei fabbricati. Alla autrice
appartiene la conclusione sul carattere progressivo dell’economia delle ville
schiavistiche di medie dimensioni, il cui prodotto era destinato in parte al
mercato.
Il professor V.I. Kuziščin (Università
Lomonosov di Mosca) ha dedicato un libro allo studio dell’agricoltura
dell’Italia nei secoli II a.C. – I d.C.[17]. Si
è interessato delle condizioni ambientali della penisola Appenninica e della
loro influenza sull’economia. Lo studioso si è soffermato sul suolo e
sull’agronomia romana, sulle varie colture (cereali, legumi, colture oleacee e
foraggiere), sulle questioni generali dell’evoluzione della agricoltura. Ancor
più, rispetto a M.Je. Sergejenko, egli insiste sul rapporto tra la situazione
economica e la vita sociale. Il massimo splendore dell’agricoltura italica,
quale settore principale dell’economia, viene ricollegato con lo sviluppo e la
vasta e profonda introduzione del modo schiavistico di produzione. Questo
processo, secondo l’autore, non portò all’eliminazione della piccola produzione
dei produttori liberi e semiliberi. Riconosce però, sulle orme di M.Je.
Sergejenko, l’azienda schiavistica di medie dimensioni come unità economica
fondamentale e più evoluta. Ha dimostrato come in esse veniva messo a frutto il
vantaggio della cooperazione, semplice e in parte combinata, con l’organizzazione
razionale del lavoro degli schiavi, con il perfezionamento del sistema della
coercizione extraeconomica. Lo studioso ha prestato un’attenzione particolare
alla questione della produttività del lavoro servile e dello sfruttamento degli
schiavi ed ha proposto per questi un approccio differenziato, a seconda del
tempo e luogo d’azione. Lo storico distingue due fasi nell’evoluzione dello
schiavismo: la schiavitù patriarcale, che corrisponde allo scopo della
soddisfacimento dei fabbisogni della familia
del padrone, e l’azienda schiavistica evoluta, il cui scopo era quello di
ricavare il profitto. V.I. Kuziščin ritiene che il modo schiavistico di
produzione fiorì nei secoli II a.C. – I d.C., e che questo era caratterizzato
dallo sviluppo dei rapporti monetari con la persistenza della base economica di
sussistenza.
A differenza dell’idea di crudele
oppressione della classe servile propria della scienza sovietica, V.I.
Kuziščin dimostra, sulla base concreta delle fonti storiche, in primo
luogo dei trattati di Catone, Varrone e Columella, che al progresso economico
contribuivano non solo l’intensificazione dello sfruttamento della manodopera
servile, ma anche la razionalizzazione della produzione, nonché la formazione
di un interesse per i risultati del lavoro da parte del corpo amministrativo
dell’azienda agraria, e l’attenuazione delle dure condizioni di vita degli
schiavi. L’autore ha affrontato l’importante questione della dipendenza
dell’economia schiavistica dal mercato degli schiavi. Il calo del loro afflusso
e il rincaro del loro mantenimento rendevano poco redditizio il lavoro servile.
Da qui è stata tratta la conclusione sul periodo relativamente breve
dell’esistenza delle aziende medie intensive e redditizie, sul graduale
orientamento dei proprietari di schiavi ai medi e grandi possedimenti, sempre
esistiti, con la prevalenza dell’economia naturale.
Queste tesi sono state riassunte dallo
studioso in due monografie. Nel 1973 è uscita l’opera «L’azienda agraria schiavistica romana nei secoli II–I d.C.» che
presenta uno studio approfondito della villa media ad economia intensiva, e
successivamente il libro[18]
dedicato specificamente al latifondo schiavistico nell’Italia di quell’epoca.
In quest’ultimo viene esaminato il problema della grande proprietà fondiaria, e
viene dimostrato che nell’epoca della tarda Repubblica essa presentava
l’aspetto di un insieme di tanti piccoli possedimenti sparsi per varie zone
d’Italia, concentrati nelle mani di un unico proprietario. A partire dal I
secolo d.C., però, essa assunse la forma di immense tenute. Impegnando il
materiale delle fonti storiche lo studioso ha dimostrato il carattere specifico
del latifondo dell’epoca antica. Egli ha provato che una grande azienda
schiavistica non dava la possibilità di aumentare in maniera illimitata i servi
dell’azienda, i quali mano a mano che crescevano, andavano consumando il
sovraprodotto. Da qui scaturiva la conclusione sulla trasformazione
dell’economia latifondistica a favore di un’economia decentralizzata, basata
prevalentemente sull’usufrutto delle piccole tenute da parte dei coloni.
Secondo V.I. Kuziščin, durante la crisi dello schiavismo, con il
conseguente impoverimento delle terre, il latifondo fu quella formazione
economico-sociale in cui andavano nascendo i nuovi rapporti sociali che
avrebbero trovato sviluppo nel Medioevo. A conclusione di questo tema nelle
opere di V.I. Kuziščin è presente un lavoro teorico dedicato allo
schiavismo antico quale sistema economico[19]. In
esso, si può dire, si presenta la formula conclusiva della concezione marxista
di questo fenomeno. Lo schiavismo antico viene considerato non come un fenomeno
ordinario, ma come la base del modo di produzione dominante che è l’elemento
strutturale della formazione socio-economica. Nel libro si tiene conto dei
progressi della storiografia sovietica e straniera sull’argomento, fra cui la
questione sul carattere della proprietà schiavistica. In contrasto con le
opinioni di alcuni storici sovietici V.I. Kuziščin, sulle orme di Je.M.
Štajerman, sottolineava l’importanza dello schiavismo per la maturazione della
proprietà privata in Roma antica e, seguendo K. Marx, distingueva due fasi nel processo
della formazione di questo istituto. Partendo dalla nozione di classe sociale
data da Lenin, lo studioso, aderendo alle posizioni dei colleghi, ha rilevato
l’importanza della classe dei produttori liberi nella Roma antica.
Una collana di libri pubblicati
dall’Accademia delle scienze dà prova della rilevanza degli studi sullo
schiavismo antico. La collana è strutturata cronologicamente e per argomenti.
La problematica romana vi occupa ampio spazio. Sul materiale della storia della
Roma arcaica è basato il libro di L.A. Jel’nickij «La formazione e l’evoluzione dello
schiavismo in Roma nei secoli VIII – III a.C.» (Mosca 1964). Tenendo
conto delle note critiche di Mommsen, e perfino dei pareri ipercritici di E.
Pais, nonché delle correzioni cronologiche apportate da E. Gjerstad, L.A.
Jel’nickij ritiene degne di un certo credito le datazioni tradizionali e gli
avvenimenti economico-sociali. Lo studioso intende l’indeterminatezza delle
caratteristiche della popolazione agricola come un riflesso della realtà
quotidiana, e si serve largamente del metodo dell’analogia rispetto ad altre
società. Il libro è caratterizzato dall’impiego del vasto materiale di varie
fonti e della letteratura. Per la prima volta nella scienza sovietica egli
introduce, per le ricerche delle origini dello schiavismo italico, i dati
archeologici e la loro interpretazione effettuata da P. Orsi, P. Ducati ed altri.
Nel libro è esaminata in dettaglio la terminologia latina, greca ed etrusca che
si riferisce alla condizione di dipendenza personale degli individui. L’autore
si sofferma anche sulle azioni rivoluzionarie dei mamertini a Messina e dei
campani a Regium, nonché sul rapporto
tra le classi inferiori e l’ideologia romana. Egli vede le origini della
schiavitù italica all’interno della gens
e vi fa collegare la comparsa della clientela. Lo status, la condizione reale e le proteste dei bassi strati sociali
nella Roma arcaica gli si presentano in genere, a mio avviso, in una visione
troppo poco differenziata.
Je.M. Štajerman ha contribuito moltissimo
all’elaborazione della questione dello schiavismo romano. Ha pubblicato alcune monografie
nella collana menzionata. In esse sono stati esaminati vari aspetti
dell’evoluzione dello schiavismo nei diversi periodi della storia romana. Alla
schiavitù dell’epoca repubblicana è dedicato il libro[20]
in cui sono state analizzate le questioni fondamentali dell’evoluzione del modo
schiavistico di produzione, delle quali la studiosa si è occupata nelle
monografie precedenti e si sarebbe occupata in seguito.
Je.M. Štajerman, marxista convinta, era
lungi dal sostituire una profonda comprensione per la dottrina marxista con
delle citazioni formali. Il libro ha carattere polemico. Je.M. Štajerman si
avvale del vasto materiale della letteratura sovietica e straniera e delle
fonti scritte: opere degli storici e dei giuristi antichi, trattati agricoli, commedie
di Plauto, opere poetiche, materiale epigrafico. Al centro dell’attenzione di
Je.M. Štajerman è posta l’epoca della tarda Repubblica. Essa studia le fonti
della schiavitù, esamina la schiavitù nell’agricoltura e nell’artigianato,
individua le familiae cittadine e l’intellighenzia servile, indaga sulla
condizione degli schiavi e gli atteggiamenti della società, si sofferma
specialmente sulla condizione degli schiavi e dei liberti, sull’ideologia e
sulla lotta di classe degli schiavi.
La fioritura dello schiavismo in Roma antica
era fatto ricollegare da Je.M. Štajerman, conformemente alle opinioni degli
studiosi sovietici[21], con
la crisi delle strutture della polis.
La studiosa si è opposta decisamente all’opinione espressa da M. Weber[22]
e diffusa nella letteratura (compresa quella sovietica) secondo cui lo
sfruttamento crudelissimo del personale servile e le condizioni di vita
disumane comportavano la necessità di una frequente sostituzione dei lavoratori
estenuati con nuova manodopera. Ne seguiva la conclusione sulla diretta
dipendenza dell’economia schiavistica al mercato degli schiavi, e sulla crisi
dello schiavismo allorché cessarono le guerre vittoriose di Roma. Secondo Je.M.
Štajerman, la storia dello schiavismo era legata non solo al progresso economico,
ma anche ad un insieme di processi politico-sociali, al disfacimento della polis. In tal modo l’autrice rilevava
l’importanza delle cause intrinseche del funzionamento del modo schiavistico di
produzione rispetto ai fattori esterni. Il consolidamento della formazione
economico-sociale schiavistica in Roma antica non era un fatto casuale, ma
rispondeva ad una regolarità storica.
La studiosa si opponeva in modo altrettanto
deciso alla modernizzazione della storia antica propria della storiografia
contemporanea, sorta sul piano teorico da una illegittima identificazione
dell’economia orientata al mercato con quella capitalistica, e sul piano
storico dall’identificazione degli antichi schiavi romani con quelli dell’India
Occidentale.
Va sottolineata l’attenzione di Je.M.
Štajerman all’influsso che tale fattore esercitava sull’evoluzione dello
schiavismo in Roma antica, come la proporzione tra la proprietà fondiaria
privata e quella collettiva. E ancora un aspetto da notare: la sua definizione
di classe dominante non come proprietari di schiavi, ma come proprietari di
schiavi e terre.
Una specie di proseguimento logico di questa
monografia è stato il suo libro dedicato allo schiavismo italico all’epoca del
Principato[23].
Secondo l’autrice, la crisi dello schiavismo si fa sentire ai tempi del primo
Impero romano, non prima cioè della seconda metà del II secolo. La studiosa fa
delle osservazioni importanti a proposito delle fonti della schiavitù. Gli
autori antichi ci forniscono poche informazioni. Vi si parla scarsamente
dell’asservimento dei prigionieri di guerra. Si ha l’impressione che l’afflusso
di nuovi schiavi non fosse una questione da suscitare preoccupazioni nella
società. Il novero degli schiavi veniva rifornito in grado ancora maggiore
rispetto all’età della Repubblica grazie al riconoscimento tra gli schiavi dei
vincoli di famiglia e parentela. Je.M. Štajerman ha fatto notare però che la
parola vernae significava la
condizione servile solamente nelle iscrizioni che riguardavano schiavi e
liberti imperiali. Nonostante l’emanazione della lex Iulia de cessione bonorum, l’asservimento per debiti perdurava
come una delle fonti di schiavitù. Va detto che in questa parte del lavoro
Je.M. Štajerman si serve con grande utilità del Digesto. L’autrice riporta dei
fatti importanti in favore dell’esistenza, accanto alla schiavitù, di altre
situazioni di dipendenza personale, compresi gli addicti. Insieme a ciò a partire dalla metà del II secolo le vie
illegali per l’asservimento, inclusa la vendita della propria persona, vennero
legittimate.
Utilizzando i dati delle opere degli autori
antichi (specialmente Columella e Plinio il Giovane), il vasto materiale
epigrafico e i testi giuridici, Je.M. Štajerman dimostra il ruolo
importantissimo dello specifico contrasto tra gli schiavi e i loro padroni nel
disfacimento dei rapporti schiavistici. Numerosi studiosi sovietici ed anche
stranieri rilevavano con ogni ragione la mancanza di interesse da parte degli
schiavi per i risultati del lavoro. A tale quadro la studiosa ha aggiunto un
nuovo colore. Poiché l’epoca antica era caratterizzata da un lento
perfezionamento degli strumenti di lavoro, il progresso economico era possibile
con l’ottimizzazione dell’organizzazione del lavoro, e con la specializzazione
dei produttori, il che richiedeva uno sviluppo del loro livello intellettuale.
Ma proprio questo era temuto dai padroni. Quindi i rapporti schiavistici
ponevano un limite al progresso economico, a cui si aggiungeva la crescita
delle grandi proprietà fondiarie nelle quali l’impiego dei metodi classici
schiavistici della gestione economica risultava, come è stato dimostrato in
precedenza, poco redditizio.
Nel libro si prendono in esame gli schiavi
cittadini, la loro professionalità e specializzazione nei presupposti per la
crescita dell’artigianato. Ciò dava origine all’affitto degli schiavi e
stimolava la loro liberazione, in cui si rifletteva la differenziazione
economica nella familia servile. Ci
si sofferma specialmente sull’istituto dei liberti. Dal punto di vista
giuridico questi erano divisi in liberti secondo la lex Aelia Sentia, o sulla base di altre condizioni giuridiche, e in
liberti inter amicos, i quali
diventavano rispettivamente cittadini romani o latini Iuniani. Le sorti dei liberti erano legate alla condizione dei
rapporti commerciali, al complicarsi della vita politica e culturale. Il
dilagare dell’istituto dei liberti nelle città non è legato, secondo l’autrice,
ad una crisi del modo schiavistico di produzione. Come sintomo di tale crisi si
può considerare solo la liberazione degli schiavi agricoli.
Je.M. Štajerman distingue in particolare
schiavi e liberti imperiali e urbani, per i quali era più tipico l’aggregazione
nei collegi e la partecipazione ai culti, nonché l’elevazione nell’ambito
dell’amministrazione della corte imperiale. Contrariamente alla tesi diffusa
dell’assenza della «questione servile» che risale a Ed. Meyer, Je.M. Štajerman
riporta convincenti testimonianze di uomini di stato, giuristi, filosofi e
scrittori, di Roma antica in favore del fatto che la società nei secoli I – III
non era indifferente al «tema servile». Benché fosse invalsa
la visione degli schiavi come esseri umani inferiori, nelle varie cerchie
sociali andava evolvendosi un atteggiamento differente verso i loro diversi
gruppi. La paura degli schiavisti piccoli e medi di fronte alla massa degli
schiavi generava la disapprovazione del trattamento crudele degli schiavi. I
raffinati greci provavano indignazione nel vedere dei ricchi romani circondati
da frotte dei loro schiavi. I primi cinici, secondo il racconto di Dione
Crisostomo, respingevano la schiavitù quale asservimento illecito dei
prigionieri di guerra. Seneca postula l’ubbidienza degli schiavi a condizione
della condiscendenza dei padroni verso loro. Un atteggiamento umano, «illuminato»
verso gli schiavi diventa di moda e viene diffuso, insieme alla necessità di
adottare misure energiche repressive per l’intero Impero.
Je.M. Štajerman dedica un’attenzione
particolare a questo aspetto, rilevando un notevole specifico peso dei liberti
nel campo della produzione e nelle strutture dell’amministrazione.
Interpretando in modo molto interessante le testimonianze di Dione Cassio,
Seneca, Plinio il Vecchio, Tacito, Svetonio, del Digesto e delle altre fonti,
la studiosa esamina la politica degli imperatori nei confronti degli schiavi e
dei liberti. Nella vita privata Augusto faceva a meno della crudeltà verso gli
schiavi. Ma da una parte egli consolidava il potere dei padroni sugli schiavi,
dall’altro affermava l’ingerenza dello Stato nei loro rapporti, ponendo la
volontà del governo al di sopra del potere dei padroni (SC Silanianum, lex Iulia de
vi publica e de vi privata). Un
tratto importante della politica di Augusto era il coinvolgimento degli schiavi
e dei liberti nel culto del Genio dell’imperatore e dei Lari compitali. Secondo
la studiosa, la politica di Augusto nei riguardi dei ceti non liberi veniva
svolta palesemente in favore degli interessi dei piccoli e medi proprietari,
tenendo conto degli umori della plebe cittadina.
I suoi successori continuarono in generale
la politica da lui iniziata, tentando timidamente di porre limite agli abusi
dei singoli padroni, con la persistenza della politica di disuguaglianza civile
e sociale dei liberti. Le pagine molto suggestive sono dedicate ad una certa
contraddittorietà di tale posizione del governo che risulta dall’analisi degli
atti giuridici e dei commenti dei giuristi. Essa si andava ripercuotendo sempre
di più sulla condizione degli schiavi. Je.M. Štajerman ha rilevato l’aumento
dei loro diritti sul peculio e della loro capacità legale.
Un passo in avanti nelle sue ricerche sullo
schiavismo è stata l’analisi delle crescente differenziazione della condizione
economica degli schiavi. Da qui faceva seguito una nuova e importante conclusione
sulla reale differenziazione in classi della popolazione servile.
Disancorandosi da una visione primitiva dei rapporti schiavistici, Je.M.
Štajerman ha contribuito con ciò alla comprensione dell’evoluzione della
società romana in generale. A suo avviso, fin dall’inizio dell’epoca imperiale
rispetto alla Repubblica si è delineata una svolta nella questione dei ceti
dipendenti. Da subordinati della familia
gli schiavi si trasformano in sudditi dello Stato. La legislazione imperiale
influenzava la mancanza di coincidenza tra l’appartenenza di alcuni gruppi di
schiavi alle stesse classi, o agli stessi ceti sociali. Parallelamente oltre
alla disgregazione dei ceti dipendenti procedeva anche quella dei liberi. Però,
come evidenzia la studiosa, i rapporti schiavistici non venivano meno, ma si
riproducevano, in particolare grazie alla regolarizzazione giuridica
dell’asservimento dei cittadini liberi. Je.M. Štajerman vede il risultato di
tali processi nel consolidamento dell’apparato statale e nel rafforzamento dei
grandi proprietari, i quali andavano intensificando lo sfruttamento dei coloni.
L’accrescimento del potere dei latifondisti terrieri portava a tendenze
centrifughe, all’indebolimento del potere imperiale e all’inasprimento della
lotta di classe.
Je.M. Štajerman esamina in dettaglio le
contraddizioni di classe nel periodo imperiale e arriva alla conclusione del
loro carattere specifico. Le azioni di protesta degli schiavi insieme agli
altri ceti sono rare. La loro protesta è passiva: fuga, sortilegio e ammaliamento
a detrimento del padrone. Traendo con maestria aspetti razionali dai
ragionamenti dei classici del marxismo l’autrice si serve della tesi di F.
Engels sull’importanza del fattore morale nella storia. La studiosa nota che a
partire da Cesare e Augusto, i quali avevano esordito come capi dei populares, si formò la tradizione di
dare un’importanza particolare al titolo di tribuno della plebe attribuito agli
imperatori sui quali furono trasferiti, secondo le Istituzioni di Giustiniano
(I.2.6), il potere e la potenza del popolo romano.
Nel libro di Je.M. Štajerman è stato incluso
(capitolo 9) il lavoro di M.K.Trofimova, «Il cristianesimo
e la schiavitù (sui dati della letteratura evangelica)». In questo lavoro viene
ribadito il carattere schiavistico della Roma dell’età del Principato e, in
relazione a ciò, l’autrice affronta la questione, dibattuta nella scienza,
della transizione dal mondo antico al feudalesimo. Lei aderisce alla tesi
espressa nella storiografia sovietica secondo cui questa transizione era una
rivoluzione nel corso della quale la schiavitù non fu eliminata ma perdette,
nelle nuove condizioni, il ruolo predominante. M.K.Trofimova accetta anche la
tesi di Je.M. Štajerman secondo cui, nonostante i grandi progressi culturali,
la via della società antica era un vicolo cieco della storia.
Se le monografie citate finora sono basate
sulle fonti italiche, il lavoro collettivo, pubblicato nella collana accademica
e dedicato allo schiavismo romano, è fondato sul materiale provinciale[24].
Gli autori si inquadrano nella visione del sistema schiavistico quale base
economico-sociale dell’Impero romano, un fenomeno assai complesso che possedeva
delle peculiarità regionali. Sulla base del materiale provinciale si può
avanzare la questione della combinazione degli elementi comuni in tutto
l’Impero con particolarità locali, cioè delle forme «classiche» della schiavitù
con altre forme di dipendenza. Tale combinazione, secondo il pensiero degli
autori, consiste in uno dei «segreti» della vitalità dell’Impero romano. Il
libro è strutturato non per singole province ma per grandi complessi
storico-geografici. Alcune province sono state omesse sia per mancanza di
fonti, sia perché lo schiavismo in queste province era già stato esaminato in
altre monografie: ad esempio, la Pannonia è stata oggetto di studio nel libro
di Ju.K. Kolosovskaja di cui avremo modo di parlare più avanti.
Il primo capitolo della monografia
collettiva è scritto da Je.M. Štajerman ed è dedicato alla situazione nelle
province africane. Lo studio della schiavitù viene svolto in stretto legame con
la varietà dei tipi delle aziende della regione, a loro volta legati alle forme
di proprietà terriera, il che è caratteristico del metodo di ricerca
dell’autrice. Lei vi rileva 4 tipi di proprietà terriera: 1) i territori delle
città di status romano con la
presenza di terre pubbliche urbane, e di terre private dei cittadini-coloni e
degli indigeni che hanno ottenuto la cittadinanza; 2) i saltus esonerati degli imperatori e dei proprietari privati; 3) i
territori delle tribù; 4) i piccoli possedimenti terrieri dei contadini più o
meno romanizzati, i quali vivevano nei villaggi.
La base delle fonti (le iscrizioni sparse in
modo irregolare nelle varie regioni, le opere di Apuleio, Commodiano, e gli
scarsi dati del Digesto) permettono all’autrice di esprimere delle conclusioni
in gran misura ipotetiche. Il carattere della schiavitù nell’Africa
Settentrionale era determinato da un lato dalla posizione delle province, in
quanto granaio di Roma, e dall’altro dall’economia agraria con una prevalenza
dell’economia naturale. Ciò ha condizionato un intenso sfruttamento degli
schiavi praticato con metodi antichi, tipici dell’Italia e di Roma dell’epoca
della Repubblica. Tale circostanza, secondo Je.M. Štajerman, spiega le limitate
possibilità per gli schiavi di liberarsi, e per i liberti di svolgere un ruolo
più o meno di rilievo nella vita economica e politica. Grazie allo sviluppo
della schiavitù iniziò la crescita delle città africane. Ma il loro splendore
fu breve. La ricercatrice ritiene che la causa di ciò fu la crisi della
schiavitù “classica” nel contesto di un basso livello di sviluppo dei rapporti
monetari. Nei saltus la condizione
degli schiavi era affine a quella dei coloni, i quali rappresentavano il
modello originario preromano dell’economia, e non quello comparso in seguito
all’evoluzione dei latifondi schiavistici.
Nel secondo capitolo scritto da V.M. Smirin
si tratta della schiavitù nella Spagna romana. Sia nella selezione del
materiale, sia nelle conclusioni l’autore in gran parte appoggia le tesi di M.
Mangas e di altri studiosi spagnoli, e, beninteso, le completa, soprattutto per
ciò che attiene all’epigrafia. Tipico di V.M. Smirin è un ricco uso dei dati
archeologici. Il materiale delle iscrizioni da lui citato è abbondante, vivo e
eloquente, il che permette all’autore di esprimere giudizi sulle occupazioni e
sui vari aspetti della condizione degli schiavi e dei liberti, sull’esistenza
di fatto dei vincoli familiari tra gli schiavi domestici, sull’esistenza di
schiave prostitute. V.M. Smirin si occupa dell’importanza della partecipazione
degli schiavi nella produzione – dalla villa e bottega alle miniere. Oltre agli
schiavi in proprietà privata e quelli degli imperatori, lo studioso rileva
gruppi di schiavi pubblici di varia appartenenza – quelli urbani e quelli
incerti provinciali. L’autore indica i gladiatori come gruppo a parte. Gli
interessanti dati delle iscrizioni forniscono delle prove alle convincenti
conclusioni di V.M. Smirin sull’esistenza di collegi misti composti da schiavi,
liberti e uomini nati liberi. Secondo l’autore, sul materiale spagnolo-romano
si manifestò tutto il sistema della schiavitù, abbastanza forte per affermarsi
su qualsiasi suolo, e abbastanza flessibile per risultare, senza recar danno a
se stesso, uno degli strumenti principali della romanizzazione dei territori
conquistati. V.M. Smirin ha notato l’importanza dei rapporti schiavo-padrone e
liberto-patrono che penetravano tutti gli aspetti della vita della società
romana. L’incomprensione dell’universalità di questi rapporti, secondo
l’autore, porta appunto alla sottovalutazione dell’importanza storica della
schiavitù romana nella storiografia.
Il terzo capitolo, scritto da N.N.
Belova, è dedicato alla schiavitù in Gallia. Anch’esso è costruito su dati
epigrafici con l’uso di materiali archeologici, che permettono di delineare un
quadro dell’utilizzo del lavoro degli schiavi nei vari rami dell’economia. Ciò
favorisce l’autrice ad apportare le proprie correzioni alle concezioni degli
storici francesi, i quali si attenevano su opposti punti di vista: coloro che
seguivano C. Jullian e P.M. Duval ritenevano che la schiavitù in Gallia non si
distinguesse da quella romano-italica, mentre gli altri sminuivano il suo
livello (A. Grenier, G. Dessau). Riconoscendo i meriti degli specialisti della
scuola di Besançon, i quali avevano prodotto delle opere fondamentali, N.N.
Belova non ha accettato il loro principio sul trattamento delle fonti, cioè
l’assolutizzazione degli indici quantitativi (innanzitutto ciò riguarda il
numero delle iscrizioni di varia tematica). Esaminando l’uso della manodopera
degli schiavi nell’agricoltura la studiosa ha rilevato l’utilizzo del lavoro
della popolazione dei villaggi che stava sotto la dipendenza clientelare dell’aristocrazia
locale celtica, nonché lo sviluppo dei rapporti di colonato tra villaggi e
singoli proprietari terrieri. Secondo le osservazioni della ricercatrice, le
filiali delle botteghe artigianali organizzate dagli italici esercitarono la
loro influenza sull’introduzione della forma schiavistica nello sfruttamento
delle province romane.
N.N. Belova ha mostrato una caratteristica
tipica anche per la Gallia, cioè la presenza di diverse categorie di manodopera
servile – schiavi in proprietà privata, quelli imperiali, quelli pubblici
(urbani, appartenenti a collegi e a templi). Il ricco materiale epigrafico ha
dato alla studiosa la possibilità di notare la pratica diffusa della
liberazione degli schiavi nel periodo del Principato, soprattutto nelle regioni
più romanizzate della Gallia. L’importanza della schiavitù nella società
gallica, secondo N.N. Belova, emerge anche dalla gradazione delle condizioni
degli schiavi, occupati in diverse sfere d’attività, e dalla selezione di
schiavi e liberti per esercitare funzioni privilegiate, intellettuali e
amministrative. Ma insieme ad una profonda penetrazione dei rapporti
schiavistici nella produzione e in tutte le sfere della vita della società
gallica, N.N. Belova constata la conservazione del lavoro delle persone libere.
L’autrice del IV capitolo, Ju.K.
Kolosovskaja tratta la questione della schiavitù nelle province del Danubio,
occupandosi però specificamente solo della Dalmazia, del Norico e della Dacia.
La ricercatrice constata in tutta l’area lungo il Danubio una forte
romanizzazione culturale e sociale, causata dall’influenza dell’esercito romano
sul limes, si tratta di una stretta
interazione tra istituti romani e locali in virtù di una conservazione a lungo
termine delle comunità tribali (civitates).
Un tratto caratteristico della regione fu il suo legame con il mondo barbarico
che fungeva da riserva per il completamento della popolazione degli schiavi,
nonché la dipendenza dello sviluppo della schiavitù alle peculiarità della
colonizzazione nelle singole province, e l’esistenza di legami con altre
province e con l’Italia. La specificità della Dalmazia, secondo Ju.K.
Kolosovskaja, consisteva nel suo precoce ingresso nello Stato romano (II metà
del II sec. a.C.), e la presenza di un’area marittima con città commerciali,
tutto ciò aveva causato il carattere regolare della sua colonizzazione da parte
degli italici, poveri e liberti. Dal loro novero, sulla base della
testimonianza delle iscrizioni, scaturivano molti ricchi proprietari di
schiavi, impegnati sia nella sfera dell’artigianato e del commercio, sia
nell’agricoltura. In Dalmazia vi fu anche lo sviluppo della grande proprietà
terriera dei senatori, i quali adoperavano il lavoro degli schiavi. Il
materiale epigrafico ha dato alla studiosa l’occasione per parlare del
carattere non univoco dei termini alumni e
vernae, che designavano un grado
distinto della dipendenza – da schiavo a membro minorenne della famiglia.
Per quanto riguarda il Norico, Ju.K.
Kolosovskaja, dopo aver preso in considerazione le scoperte di P. Egger,
afferma che la diffusione della schiavitù in questa provincia era accompagnata
dalla penetrazione del capitale d’usura. Con ciò, nell’attività di commercio ed
di usura furono coinvolti gli schiavi ed i liberti in qualità di rappresentanti
e fiduciari dei propri padroni. Inizialmente gli schiavi venivano usati poco
nella sfera di produzione, ma più tardi svolsero un grande ruolo
nell’artigianato, nel commercio e nell’agricoltura. In qualità di proprietari
di schiavi, secondo l’osservazione di Ju.K. Kolosovskaja, gli oriundi italici
erano presenti sia nelle città, sia nei villaggi, mentre nel territorio della
campagna, nei secc. I-II, secondo le iscrizioni, vi era anche la popolazione
locale celto-illirica romanizzata. La studiosa suppone che i loro rapporti con
i connazionali si distinguevano da quelli dei romani ed erano simili a quelli
descritti da Tacito fra i germani, e ritiene probabile, insieme alla schiavitù
dei connazionali, un’esistenza presso di loro di una dipendenza dei debitori e
dei clienti. Ju.K. Kolosovskaja ha prestato attenzione alle rare invocazioni
rivolte alle divinità locali dagli schiavi di origine locale, poste in
contrapposizione con la situazione dei liberi indigeni, ciò rende difficile la
soluzione del problema delle credenze religiose di tali schiavi.
Occupandosi della schiavitù in Dacia,
Ju.K. Kolosovskaja ha notato l’influenza nello sviluppo di questo istituto di
una particolare caratteristica della regione, consistente nell’estrema
importanza militare e strategica della provincia. L’annessione della Dacia a
Roma avvenne tardi e fu accompagnata da una massiccia riduzione in prigionia
dei daci, che condizionò una rapida romanizzazione. Confrontando i dati delle
varie fonti, la ricercatrice obietta contro la diffidenza di J. Carcopino nei
confronti delle notizie di Giovanni Lido intorno ad un elevato numero di daci
ridotti in schiavitù, bastarni ed altri, portati da Traiano a Roma. Proprio da
quel momento apparve a Roma un gran numero di liberti dai tipici nomi di derivazione
dacia, il cui lavoro veniva impiegato sia dallo Stato, sia dalle città, sia da
privati. Tutto ciò da a Ju.K. Kolosovskaja il motivo di affermare che in quel
periodo la fonte più importante del rifornimento di schiavi fu la guerra. Il
vasto materiale epigrafico testimonia l’impiego del lavoro degli schiavi e dei
liberti nei settori più importanti dell’economia, cioè nell’industria mineraria
e nel commercio. Le iscrizioni attestano una differenziazione dei beni e
perfino della condizione sociale tra schiavi e liberti, ed anche alcune
peculiarità nelle loro preferenze religiose: la loro parte privilegiata
venerava Eracle e Mithra, mentre i semplici schiavi invocavano Silvano. Ju.K.
Kolosovskaja ha notato anche la partecipazione degli schiavi nei collegi di
culto e di sepoltura, che avevano un carattere composito in senso
socio-giuridico, come in altri luoghi. La ricercatrice sfiora i problemi di
psicologia sociale degli schiavi, ma nota che, oltre all’aspirazione ad
ottenere la libertà, dalle fonti è difficile rilevare qualcosa in proposito.
Lei ritiene soltanto che la peculiarità in questo senso deve dipendere dai
tratti specifici della provincia, cioè dall’insediamento in essa delle persone
provenienti da quasi tutte le regioni dell’Impero, e dal carattere
imprenditoriale dell’economia. Seppure le fonti dicano poco sugli schiavi
impegnati nell’agricoltura e nell’artigianato, secondo Ju.K. Kolosovskaja, la
Dacia fino all’inizio del III sec. era una società schiavistica in pieno
rigoglio.
Una parte speciale del capitolo in questione
è dedicata agli schiavi e ai liberti imperiali in dette province. Questa
analisi in gran parte si basa sulle ricerche di Weaver, Boulvert, Tudor ed
altri. Però Ju.K. Kolosovskaja ha apportato, sulla base delle iscrizioni,
numerose precisazioni. La condizione privilegiata e l’effettivo potere del
personale servile imperiale, grazie alla sua partecipazione all’amministrazione
urbana e provinciale e alla gestione dei beni imperiali, hanno portato, secondo
la studiosa, alla formazione di un ceto sociale speciale, la cui condizione
giuridica e materiale è risultata del tutto differente a quella propria della
schiavitù. L’autrice giunge alla conclusione che gli schiavi e i liberti
imperiali svolgevano un grande ruolo non solo nella riorganizzazione sociale e
culturale delle province, ma anche nella diffusione del sistema stesso della
schiavitù romana.
In contemporanea con questo libro è stata
pubblicata in questa serie un’altra opera collettiva per l’analisi della
schiavitù della parte orientale dell’Impero[25]. La
scelta degli argomenti in essa contenuti è stata dettata dalla difformità
geografica della distribuzione del materiale delle fonti e dalla possibilità di
seguire le particolarità tipiche o specifiche dello sviluppo dei rapporti schiavistici
in una area determinata. Il capitolo «Schiavitù
nella provincia d’Achaia» è scritto da L.P. Marinovič, la quale,
constatando che la questione è poco studiata dalla scienza mondiale e
nazionale, esamina i pochi dati di Plutarco, Dione Crisostomo, Filostrato,
Pausanio, delle iscrizioni, manomissioni delfiche e il decreto di Adriano del
124 sulle forme di lavoro nell’olivicoltura ed altro. La ricercatrice distingue
gli schiavi barbari e quelli di origine greca. Non respinge la teoria che
afferma il miglioramento della condizione degli schiavi nel periodo imperiale,
ma aderisce alla tesi di K.K. Zel’in, A.B. Ranovič e O.V. Kudrjavcev, per
cui la politica delle evergesie era il mezzo che portava ad un’attenuazione
esterna delle contraddizioni di classe, per mezzo della corruzione delle grandi
masse. È interessante nel libro la parte riguardante le manomissioni, la
liberazione alle condizioni di paramone,
i prezzi sulla liberazione degli schiavi. L.P. Marinovič giunge alla
conclusione che all’epoca imperiale la condizione di fatto dei paramonari
rimaneva la stessa dell’epoca ellenistica, come essa è descritta da K.K.
Zel’in, per il quale gli uomini giuridicamente liberi rimanevano presso il
vecchio padrone. La liberazione degli schiavi nel periodo romano non si era
semplificata.
Je.S. Golubcova ha esaminato le forme di
schiavitù e dipendenza nell’Asia Minore, nelle città commerciali densamente
popolate, nei piccoli paesi ed anche nelle zone rurali. Sulla base di uno
studio attento dei dati epigrafici, in particolare dei termini designanti la
condizione di dipendenza personale, la studiosa è giunta alla conclusione che
la forma principale di schiavitù nelle campagne era la schiavitù domestica, che
nelle regioni centrali ed orientali aveva un maggiore carattere patriarcale
rispetto alle zone occidentali. Vi erano anche dei liberti, i quali non
diventavano mai persone dai pieni diritti, così come i loro discendenti.
Perciò, nelle zone rurali essi costituivano un particolare gruppo chiuso e non
venivano compresi tra i contadini liberi. Nei possedimenti imperiali e privati
vi era una prevalenza di schiavi propriamente detti, i doàloi. I liberti
imperiali si addentravano gradualmente nella vita delle polis greche, svolgevano un ruolo nelle comunità rurali e raggiungevano
un’alta posizione nello Stato.
Alla schiavitù in Siria e in Palestina è
dedicata lo studio di Šifman. La sua ricerca ha preso il via dal concetto
stesso di «schiavo» di K.K. Zel’in, il quale aveva evidenziato lo status giuridico, rivelando la necessità
di una precisazione del rapporto tra schiavi e mezzi di produzione. Sulla base
di documenti provenienti dalla Siria Šifman riscontra vari termini greci e
semitici che designano gli schiavi. Gli schiavi figurano come oggetto di
transazione nel documento sui dazi e le tariffe della Siria, e appaiono come
beni nei documenti di Dura Europos. Inoltre da altre fonti risulta che gli
schiavi e i liberti partecipavano nelle grandi transazioni e possedevano dei
mezzi cospicui, e quindi la loro condizione di fatto non corrispondeva a quella
giuridica. Lo studioso ne trova la spiegazione nei processi in atto nella
società siriaca, nella netta differenziazione tra uomini liberi, nello sviluppo
dell’istituto di debitori. La cancellazione delle distinzioni tra libero e schiavo,
secondo il pensiero di I.Š. Šifman, attesta una graduale estinzione dei
rapporti di schiavitù nella Siria dei secc. I-III.
Rivolgendosi allo studio della
schiavitù in Palestina, lo studioso nota che sia il diritto giudaico biblico, sia
quello postbiblico, distinguevano due categorie di schiavi, forestieri e
connazionali. Le leggi nella Palestina ellenistico-romana presentavano un
ulteriore sviluppo delle norme bibliche formatesi prima della presa babilonese.
Erano definite le distinzioni nella condizione delle due suddette categorie,
erano limitati sia il novero delle opere che si potevano far compiere ai
connazionali, sia i diritti dell’acquirente non giudeo. I materiali evangelici
attestano l’uso del lavoro degli schiavi nella sfera della produzione e dei
servizi, mentre in agricoltura i padroni lavorano insieme ai servi e cercano di
suscitare in loro l’interesse per i risultati del lavoro, fino all’assegnazione
del peculio.
I.Š. Šifman parla anche dei liberti,
esaminando la possibilità di votare gli schiavi forestieri al padrone, nonché
una disposizione biblica sulla liberazione dei connazionali al settimo anno.
Secondo lo studioso, nell’aggravata situazione sociale della Giudea durante il
periodo del dominio romano tutte le dottrine e correnti d’opposizione
proclamavano la liberazione degli schiavi. Riassumendo, lo studioso ha
affermato che non esistevano distinzioni fondamentali nella condizione degli
schiavi della società giudaica e di quella siriaca, mentre i rapporti di colonato
si sviluppavano per vie diverse: in Siria l’impoverimento dei liberi portava ad
una «schiavitù temporanea» a mo’ di colonato, mentre in Giudea gli uomini
privati delle terre divenivano mezzadri, e il colonato si sviluppava grazie a
forme d’affitto. Tutte queste distinzioni sono spiegate dallo studioso, non
senza fondamento, con le particolarità della società giudaica che si veniva
costituendo come comunità civile religiosa, che aveva il proprio centro nel
tempio di Iahvé a Gerusalemme. Ritengo comunque che le distinzioni tra la
schiavitù siriaca e quella giudaica sono state alquanto sminuite dallo studioso
e corrispondevano all’appartenenza etnica degli schiavi.
La schiavitù nell’Egitto romano è esaminata
da A.I. Pavlovskaja. Il suo saggio è espressamente polemico. Infatti, l’autrice
si è opposta alla tesi di Ed. Meyer, sostenuta da W. Westermann e dalla
studiosa marxista polacca I. Bieżuńska-Małowist, secondo cui in
Egitto la schiavitù vera e propria, come opposizione alla servitù della gleba,
non aveva mai raggiunto notevoli dimensioni. A.I. Pavlovskaja ha fatto uso di
un enorme materiale di papiri da Faium e Ossirinco (documenti ufficiali che
registrano a fini fiscali i vari strati della popolazione, documenti sulla
condizione giuridica degli schiavi, dati di diritto privato riguardanti il
diritto di proprietà sugli schiavi, il loro impiego, la loro affrancazione
etc.), ed ha dimostrato un graduale aumento della quantità dei documenti sugli
schiavi. La principale massa di schiavi era domestica, mancava quasi del tutto
l’afflusso di schiavi dall’esterno per la scarsità di conflitti armati con le
regioni limitrofe. A.I. Pavlovskaja ha dimostrato una grande espansione della
compravendita degli schiavi, dei loro prezzi che variavano a seconda del sesso
e dell’età. La ricercatrice ha valutato giustamente questo fenomeno non come
fonte di schiavitù, ma come una ridistribuzione della proprietà sugli schiavi.
Ad Ossirinco le familiae non avevano
molti schiavi, il cui numero oscillava da 2 a 7, ma solitamente la cifra era
superiore rispetto agli schiavi della familia
di Faium. Le grandi familiae di
schiavi in Egitto erano poche. Il lavoro degli schiavi era usato nelle varie
sfere di produzione, soprattutto per i lavori pesanti e per la manutenzione del
sistema di irrigazione. Nelle grosse aziende del III sec. lavoravano sia gli oiketes, sia i lavoratori liberi
permanenti, sia i lavoranti temporanei. Nelle aziende minori, come ritiene la
ricercatrice, gli schiavi venivano usati solo come forza lavoro di supporto che
andava in aiuto del padrone.
La condizione sociogiuridica degli schiavi è
stata più volte esaminata dalla letteratura scientifica, e A.I. Pavlovskaja
ritiene che gli schiavi nell’Egitto grecoromano, secondo i documenti ufficiali,
erano considerati non solo patrimonio privato dei proprietari di schiavi, ma
anche lo strato più basso della popolazione soggetto al censimento e alla
tassazione. Secondo la studiosa, le tradizioni locali si rivelavano, in modo
più netto,nel diritto di famiglia, che affondava le radici all’epoca faraonica:
il materiale dei papiri mostra le unioni tra schiavi con donne libere, i cui
figli rimanevano liberi. I matrimoni misti portavano ad una situazione per cui
i membri di una famiglia avevano un diverso
status sociale, liberi, schiavi, liberti (dall’unione del libero con una
schiava questa diventata liberta, e passava il suo status alla prole). Ma insieme allo stretto intrecciarsi della
libertà con la schiavitù, secondo l’osservazione di A.I. Pavlovskaja, nei secc.
II-III si manifestano in modo sempre più evidente i tratti caratteristici della
schiavitù greca e romana: gli schiavi sono un patrimonio che reca profitto.
Insieme a ciò, nella situazione del liberto si rivela nettamente la
differenziazione patrimoniale tra schiavi. La ricercatrice ammonisce contro
l’accentuazione sia del carattere umano, sia di quello crudele del trattamento
degli schiavi da parte dei loro padroni: la dipendenza giuridica determinava la
loro condizione nella società, la condizione economica del proprietario di schiavi
influiva sulle dimensioni della familia
di schiavi e sull’impiego del lavoro degli schiavi, mentre nelle piccole
aziende con i continui contatti del padrone con lo schiavo incidevano
prevalentemente peculiarità di carattere individuale. L’ultima affermazione di
A.I. Pavlovskaja rende il quadro dei rapporti schiavistici nell’Egitto romano
più complesso e vivo. I documenti pervenutici sulla fuga di schiavi non sono
numerosi. Ma essi attestano la protesta contro la mancanza di diritti e lo
sfruttamento. L’amministrazione dei nomoi
ricercava gli schiavi in fuga e li sottoponeva a punizione. Qui l’autrice del
saggio scorge la continuazione delle tradizioni ptolemaiche. Però, per quanto
ci sembra, il fatto che lo Stato romano prendeva in considerazione questi casi
può essere considerato come un intervento pubblico nei rapporti tra schiavi e
padroni, caratteristico dell’epoca imperiale.
A.I. Pavlovskaja si sofferma anche sulla
condizione degli schiavi liberati con il pagamento di un’indennità o dietro
testamento, in materia dimostra in particolare che coloro i quali avevano
ottenuto la libertà venivano inclusi nella sfera delle leggi romane. La
ricercatrice presta attenzione agli schiavi e ai liberti imperiali. Le fonti li
descrivono come persone assai agiate, le quali possiedono terra e denaro ed
occupano a volte delle cariche importanti nell’amministrazione economica del nomos. La studiosa afferma, sulla base
di testi epigrafici, la tendenza alla riduzione del loro ruolo sociale e
dell’attività economica nell’arco dei ss. I-III, e lo spiega con l’andamento
dello sviluppo storico: dopo l’annessione dell’Egitto a Roma la familia dei Cesari, grazie alla
particolarità di questa provincia, intesa come imperiale in senso proprio,
considerava l’Egitto come fonte di arricchimento e possibilità di promozione
nella carriera, fino al punto che si dovette porre dei limiti alla loro
attività. Ciononostante una parte degli schiavi e liberti imperiali,
insediatisi in Egitto, formando delle unioni all’interno della familia e con gli abitanti locali, aveva
costituito il nucleo della popolazione romanizzata, e aveva contribuito
all’inserimento nella vita della società egizia di norme morali, e di rapporti
di diritto privato propri dei romani. Traendo delle conclusioni, A.I. Pavlovskaja
si è soffermata sulla questione del carattere e del ruolo della schiavitù
nell’Egitto romano, e ha analizzato l’analisi statistica delle numerose
menzioni degli schiavi nei papiri, in cui fu messo a confronto il numero dei
liberi e degli schiavi di un determinato gruppo sociale nel singolo
insediamento (H. Geremek), o di un determinato tipo di documenti (M. Hombert e
C. Préaux). Dalla bassa percentuale di schiavi emersa da questi raffronti
furono tratte vaste conclusioni sul ruolo poco significativo della schiavitù in
Egitto. Tuttavia, secondo l’opinione di A.I. Pavlovskaja tale approccio si è
formato sotto l’influenza della metodologia dello studio della società
capitalistica in cui il rapporto della percentuale degli operai e di altre
categorie della popolazione può servire da indice dell’industrializzazione e
del grado di sviluppo della società. Ma in Egitto dominava la produzione di
piccole dimensioni, in cui il lavoro di tutta la famiglia era il modello della
vita socio-economica del kome. Perciò
A.I. Pavlovskaja ritiene più giusto un altro approccio, secondo cui non bisogna
chiarire il rapporto tra schiavi e liberi, nel kome o in città, ma tra aziende che adoperano il lavoro degli
schiavi ed altre aziende locali. Tale approccio per la valutazione del
materiale percentualistico è stato trasferito da A.I. Pavlovskaja a V.I. Lenin,
il quale aveva esaminato i dati statistici dei zemstvo sulla disgregazione del ceto contadino e sullo sviluppo dei
rapporti capitalistici nella campagna russa alla fine del XIX secolo. La
studiosa ha proposto quindi, per definire il ruolo economico delle aziende
schiavistiche, di chiarire la loro quota nel totale generale dei mezzi di
produzione e nella quantità generale dei prodotti, almeno all’interno del kome. In questo senso pare
indispensabile tenere in considerazione le aziende dei piccoli proprietari di
schiavi, i quali lavoravano insieme ai loro schiavi, infatti, tale lavoro
comune non è un indice dei rapporti patriarcali in quanto i rapporti monetari
erano assai sviluppati nell’Egitto dei secc. I-II. La testimonianza dei papiri,
secondo A.I. Pavlovskaja, permette di parlare di introduzione della schiavitù
nella piccola produzione, il che rappresenta una delle antiche forme di
schiavitù sviluppata.
Le opere collettive esaminate sopra
possono essere considerate significative: in esse si tiene conto delle ricerche
degli studiosi sia sovietici, sia stranieri, e, cosa importantissima, viene
usato il materiale delle fonti a disposizione in quel tempo, e sulla base di questo
si costruiscono delle conclusioni. In tal modo, tali opere si collocano ad un
livello più alto dello sviluppo scientifico di allora sia per ciò che attiene
all’uso delle fonti, sia per ciò che riguarda la loro elaborazione.
Il mondo scientifico sovietico ha
accolto le opere dedicate alla schiavitù nelle province occidentali ed
orientali come decisive. Resta da aggiungere che al centro dell’attenzione
degli autori stanno gli aspetti socio-economici della schiavitù romana. Le
questioni relative alla cultura vengono trattate in maniera minore. Ma, come
avremo modo di vedere più avanti, da ciò non deve discendere che gli aspetti
culturali siano stati trascurati. Tutta la serie di libri pubblicati
dall’Istituto di Storia Universale dell’Accademia delle Scienze ha studiato la
storia di Roma appositamente in chiave dei rapporti schiavistici.
Tra le opere monografiche specifiche
sull’argomento va menzionata ancora una, scritta da Je.M. Štajerman. In essa
vengono trattati i problemi della crisi dei rapporti schiavistici[26].
Questo libro fu pubblicato prima dei lavori già esaminati, e ne aveva aperto la
serie. Però solo in questa monografia viene dedicato uno spazio speciale agli
eventi e ai processi che si svolgevano nel periodo fino all’inizio del
dominato, sicché il libro rappresenta la continuazione cronologica dell’analisi
della schiavitù romana. Insieme a ciò esso ha gettato le basi per uno studio
successivo della stessa Štajerman. Nell’opera indicata sono studiati i
materiali che gettano la luce sulla vita delle province occidentali, e
precisamente della Gallia, Bretagna, Spagna, Africa e regione del Danubio, si
tratta cioè di una vasta area. Lo sviluppo della schiavitù è esaminato dal
punto di vista dei rapporti di produzione, dell’ideologia degli schiavi e della
loro lotta. Lo Stato romano è considerato dalla studiosa come schiavistico;
essa vede le cause della sua crisi a livello provinciale, non tanto nel
carattere dello sfruttamento dei produttori principali, gli schiavi, quanto
nella modificazione delle forme di proprietà, nella distruzione della suo
tipico modello antico, a cui è legato il funzionamento delle antiche
città-stato, dei municipi dell’impero Romano. Il potenziamento dell’economia
dei grandi possidenti con l’estensione dei grandi poderi ha generato, secondo
l’autrice, la prevalenza di altre forme di dipendenza personale, e quindi di
sfruttamento, rispetto alla schiavitù. Queste trasformazioni, secondo Je.M.
Štajerman, si facevano sentire sia nel campo politico, sia nelle correnti
ideologiche dell’Impero.
Illustrando lo studio della schiavitù romana
nella scienza sovietica bisogna tener presente che questo istituto veniva
studiato parallelamente al materiale dell’antica Grecia. Gli studiosi
acquisivano e analizzavano un enorme materiale delle fonti che riflettevano la
vita reale. All’esame scientifico sono stati sottoposti i monumenti della
cultura letteraria e il materiale che ricostruivano la concretezza storica. Lo
studio approfondito dei fatti ha portato alla conclusione che la schiavitù non
era nell’antichità l’unica forma di dipendenza personale, e che esisteva una
gamma di stati di dipendenza. Le svariate fonti richiedevano una riflessione
teorica ed una definizione dell’apparato concettuale, principalmente dei
concetti di «schiavo antico», e «schiavitù antica», che, come abbiamo visto,
erano costantemente adoperati dalla nostra letteratura scientifica. Su ciò si è
soffermato di proposito il grande studioso sovietico dell’antichità K.K. Zel’in[27],
il quale impiegava un’enorme mole di dati tratti dalla storia antica orientale,
greca e romana. Le sue conclusioni sono importanti per le caratteristiche
generali del mondo antico.
K.K. Zel’in parte dalla tesi, espressa da K.
Marx, sulla dicotomia universale: nella società capitalistica il fattore
determinante è la costrizione economica, mentre nelle società precapitalistiche
è quella extraeconomica, che si manifestava nelle varie forme di dipendenza
personale. Secondo lo studioso, la storia e la sociologia sono indietro
rispetto alle altre scienze, per esempio alla biologia, nelle ricerche
tassonomiche. Egli constata l’uso acritico delle categorie tassonomiche supreme
da parte degli studiosi sovietici, senza tener conto dei concetti più ristretti
che fanno parte di queste categorie. Così, riconoscendo l’importanza
scientifica del concetto di formazione socio-economica, K.K. Zel’in ritiene
necessario prestare l’attenzione sulla peculiarità delle forme degli elementi
che rientrano in questo concetto. A questo proposito gli interessa la
schiavitù. Egli propone di tener conto di una discussione istruttiva
nell’ambito della biologia. I rappresentanti della «nuova sistematica»
rifiutano il concetto della specie come qualcosa di immutabile ed omogeneo e
avanzano una concezione dinamica. Tale approccio, se applicato alla storia,
comporta, secondo K.K. Zel’in, la necessità di tener conto nei rapporti umani,
il che corrisponde alla specie, della variabilità e di tutta una serie di forme
transitorie; non ci si deve limitare alle caratteristiche puramente
morfologiche, ma bisogna prendere in considerazione i fattori geografici,
ecologici, genetici e così via.
Rinunciando ad una automatica assimilazione
del mondo vegetale ed animale alla società umana, sia nella forma della «teoria
organica» del XIX secolo di H. Spenser, A. Shäffle ed al., sia nella variante
di W.B. McDougall, l’antichista sovietico insiste sulla necessità di
considerare una certa affinità di questi mondi: primo, uno stretto legame dei
singoli elementi con l’insieme, e secondo, la messa in rilievo del concetto
della «dominante».
Inoltre K.K. Zel’in ritiene utile, per
chiarire i concetti «schiavo» e «schiavitù antica», utilizzare alcune tesi
della dottrina sulle classi degli oggetti (classi logiche) nella logica
matematica. Per classi logiche qui vengono intese le moltitudini. Alcune
operazioni effettuate su di esse generano le nuove classi. K.K. Zel’in tiene
presente che l’azione chiamata moltiplicazione (o incrocio) delle classi,
consiste nella formazione di una nuova classe, cioè di una moltiplicazione o risultato
degli incroci delle classi adoperate. Egli utilizza l’esempio di A. Tarskij[28],
il quale dà la raffigurazione grafica della comparsa di una nuova classe di
oggetti, attraverso delle circonferenze di diametro non definito che designano
una determinata classe, e degli angoli di grandezza non definita che designano
un’altra classe. Collocando la sommità di uno degli angoli al centro di una
delle circonferenze, egli procede alla moltiplicazione, o incrocio delle
adoperate prese degli oggetti, e con ciò ottiene il risultato di questa
moltiplicazione, cioè la comparsa di una nuova classe logica degli oggetti, che
appare come un settore all’interno della circonferenza.
K.K. Zel’in propone di compiere una simile
operazione, considerando come una classe logica gli schiavi in senso giuridico,
cioè con il significato di gruppo sociale, e per l’altra classe logica gli
schiavi intesi in senso economico, cioè privi di mezzi di produzione,
sottoposti ad un crudele sfruttamento ecc. Il settore che si forma
all’interno del circolo designa gli antichi schiavi classici.
In modo ancor più palese questa operazione
viene dimostrata da K.K. Zel’in nell’applicazione dei circoli di Euler. Il
nostro storico utilizza due circonferenze in parallelo, di cui una rappresenta
gli schiavi in senso giuridico, e l’altra quelli in senso economico.
Ravvicinando queste circonferenze ed avendo ottenuto un loro incrocio, che
corrisponde all’azione di moltiplicare, lo studioso ottiene, sotto forma di
segmento, la moltiplicazione, o una nuova classe degli oggetti. Tradotto nel
linguaggio dei concetti storici questo segmento designa una categoria speciale
di schiavi, i quali combinano le qualità di schiavi in senso sia giuridico, sia
economico. Proprio loro e solo loro, secondo K.K. Zel’in, si possono
appunto considerare degli schiavi classici, i quali rappresentano la schiavitù
antica che di solito coesisteva con altre forme di dipendenza.
Avendo definito in tal modo la schiavitù
classica, K.K. Zel’in fa delle osservazioni importanti. La presenza degli
schiavi classici non garantisce l’esistenza del modo di produzione
schiavistico. Esso si afferma solo con l’estensione del settore della schiavitù
classica che diventa una dominante nell’insieme di tutti i rapporti
socio-economici del sistema. Il fattore decisivo nel definire la società come
schiavistica, secondo lo studioso, è il ruolo degli schiavi nella produzione.
Se, a confronto con gli uomini liberi, gli schiavi svolgono un ruolo dominante,
vanno quindi riconosciuti come classe dominante, e la società va ritenuta
schiavistica.
Va detto che l’opera di K.K. Zel’in ha
mostrato il progresso nello studio dell’antichità, compresa quella romana, ed è
servita per il suo ulteriore avanzamento.
Nonostante tutta l’importanza della
schiavitù romana, lo studio della storia socio-economica di Roma non si
esaurisce con questa problematica. Ciò ha avuto riflesso non solo in numerosi
articoli ma anche in opere monografiche.
Similmente alle ricerche dedicate
appositamente alla schiavitù, gli autori non distaccano il proprio oggetto
principale di studio dall’esame di altri fenomeni sociali, così gli studiosi
che si occupano della struttura sociale di Roma non fanno a meno delle
osservazioni dei rapporti schiavistici. È esemplare in questo senso il libro di
Je.M. Štajerman, dedicato allo sviluppo economico di Roma[29].
Si tratta di una ricerca di carattere monografico in cui si trovano le
questioni poste in precedenza dall’autrice, e le principali conclusioni a cui
essa e gli altri studiosi, soprattutto quelli sovietici, sono giunti sulla base
dello studio delle fonti.
Nella premessa la ricercatrice riespone il
contributo degli studiosi stranieri per l’elaborazione della storia
socio-economica di Roma. Je.M. Štajerman nota che nella nuova letteratura si è
rinunciato alle visioni lineari e contrapposte delle scuole di Bücher e di Ed.
Meyer, con la loro valutazione sull’economia antica rispettivamente come
autarchica, o come capitalistica. L’attenzione degli studiosi si è spostata
sulle questioni dell’influsso dell’economia sulla politica estera di Roma,
sull’influsso del mercato e della concorrenza sulla produzione e sulla vita
sociale, sulle questioni intorno alla possibilità di partire dalla struttura
sociale della società capitalistica per caratterizzare quella antica, alle
cause per cui Roma non era giunta all’industria degli strumenti, in particolare
al ruolo in questo della schiavitù ecc. Posizioni opposte sulle caratteristiche
di Roma sono sostenute, secondo Štajerman, da eminenti studiosi come R.
Remondon e V. Sirago, da un lato, e A. Burford, J. Gagé e in particolare M.
Finley dall’altro, i quali hanno rivolto il loro interesse allo studio della
struttura sociale delle classi, e non della produzione nell’antichità. Gli
ultimi autori, e non solo Finley, in un certo modo, come ci sembra, manifestano
una tendenza al primitivismo teorico. Je.M. Štajerman nota l’incertezza e
l’inesattezza dei loro concetti di classi, ceti, status sociali, cioè delle categorie che utilizzano. In quanto
marxista la studiosa non basa le proprie riflessioni sulle tesi schematiche dei
numerosi sociologi sovietici, ma invece sull’approfondimento delle idee di V.I.
Lenin e K. Marx. Da ciò appare la sua aspirazione a stabilire la specificità
della società antica, le leggi di sviluppo ad essa proprie, ricordando che i
processi e i fenomeni simili all’esterno del mondo romano e di quello
capitalistico, cioè in condizioni storiche diverse, portano a risultati
diversi. In relazione a ciò K. Marx ha citato come esempio la perdita delle
terre da parte dei contadini e la formazione dei grossi latifondi e dei
capitali monetari nella Repubblica romana e agli albori del capitalismo[30].
Partendo dalla concezione che il modo di produzione rappresenta l’elemento
determinante dello sviluppo, Je.M. Štajerman ha notato che il modo di
produzione di allora veniva determinato non solo dalla presenza della
schiavitù, ma da tutto l’insieme dei rapporti di produzione, e
innanzitutto dai rapporti di proprietà e dalla sua distribuzione; il che ha
determinato le forme dominanti di sfruttamento. La studiosa distingue a Roma la
proprietà delle città, che si costituivano secondo il modello romano, e quella
della popolazione ascritta alle città, ma distinta dai cittadini, cioè della
popolazione contadina. In relazione a ciò nel libro vengono esaminati: la
comunità contadina extraurbana, la comunità cittadina urbana (proprietà
terriera romana), l’economia e la struttura sociale della società romana.
Ribadendo e precisando le tesi da lei già esposte, e i concetti particolarmente
importanti, Je.M. Štajerman affronta tali problematiche come la specificità
della proprietà privata antica, e analizza il rapporto tra la comunità dei
vicini e quella dei cittadini a Roma. Si sofferma specificamente sulla
definizione di tale struttura sociale come comunità. A suo avviso è il
collettivo dei proprietari delle terre ad autogovernarsi e a possedere de iure o de facto la proprietà suprema sul territorio da essa occupato, o ad
essa assegnato, nonché il controllo della sua disposizione. Ritengo necessario
notare che qui da parte di Je.M. Štajerman è presentato un sunto di molte
definizioni proposte in precedenza da lei stessa e da altri studiosi, il che è
servito da base per la comparsa delle nuove definizioni nella nostra
letteratura.
Je.M. Štajerman, come si può notare,
ricollega al problema della comunità, anche il problema della proprietà,
rilevando che con il crescente numero delle opere di diritto romano il suo
carattere rimane incerto. La studiosa ritiene che probabilmente in ciò ha
svolto un ruolo la recezione del diritto romano, che ha comportato che i
giuristi considerassero la proprietà romana dal punto di vista del proprio
tempo, cioè in modo moderno. La proprietà romana è stata considerata privata
incondizionatamente, come quella capitalistica. Come criterio per la sua
definizione è stata riconosciuta la libertà di alienazione.
Per la percezione della comparsa e del
carattere della proprietà romana, secondo Je.M. Štajerman, hanno parecchio
contribuito L. Capogrossi-Colognesi e G. Diosdi[31]. Ma
anche loro, analizzando dettagliatamente i termini giuridici, non tengono conto
sufficientemente dello sfondo storico e trascurano il metodo comparativo. La
ricercatrice afferma che bisogna tener presente che la formazione delle società
arcaiche delle classi possedeva ovunque delle caratteristiche comuni. Siccome
Roma andava formandosi con l’unificazione delle piccole comunità, anche questa
città possedeva le caratteristiche di una comunità. Con ciò, secondo Je.M.
Štajerman, il materiale delle fonti attesta che la comunità civile romana
esercitava, sotto varie forme, il controllo sulla disposizione dei beni dei
propri membri. Essa curava soprattutto la terra in quanto patrimonio comune,
trasferendola ad un altro cittadino, e soltanto ad un cittadino, nel caso di
mancato utilizzo o mancato reddito. Queste osservazioni hanno dato alla
ricercatrice la possibilità di trattare del carattere basato sul lavoro
della proprietà romana, particolarità che la differenziava rispetto alla
proprietà capitalistica. Si pensa che questa sia una conclusione teorica
importante. Non meno importante per la comprensione della specificità di Roma
(anzi, dell’antichità) è un’altra conclusione di Je.M. Štajerman: a differenza
dell’antico Oriente, la civitas non
era l’unione delle comunità, ma l’unione dei cittadini con uguali diritti,
legati in modo diretto allo Stato. Perciò le varie comunità territoriali, dei
vicini (villaggi, pagi) erano delle
unità di produzione, ma non strutture politiche e sociali. Sulle altre tesi di
Je.M. Štajerman dovremo soffermarci in un’altra parte del nostro articolo.
Un’altra caratteristica specifica
dell’antichità individuata da Je.M. Štajerman è la grande influenza della
politica dello Stato su tutta la vita sociale, infatti, nella comunità civile
romana perfino i proletari non stavano fuori legge, rimanevano dei membri
dell’assemblea popolare, che adottava delle misure per assicurare ai poveri
tutto il necessario. All’epoca dell’Impero l’intervento dello Stato nella sfera
economica aumentò. Sulla base della tesi marxista, secondo cui il capitalismo
sorge solo allorquando cospicue masse di persone si riversano nel mercato di
lavoro e il lavoratore viene privato delle garanzie per l’esistenza, la
studiosa ha studiato le cause per cui a Roma non era sorto il capitalismo. Ma
la struttura della comunità romana, come dimostra il materiale sui fatti, non
lo favoriva né sotto la Repubblica, né sotto l’Impero. Le osservazioni fatte da
Je.M. Štajerman sono molto precise. Però già in tale occasione esprime la tesi,
inaccettabile dal mio punto di vista, che lo Stato si sarebbe sviluppato dalla
comunità civile. Con ciò lei respinge il carattere statale della civitas, considerando questa struttura
come prestatale. Del fatto che tale punto di vista non sia stato accolto dalla
scienza sovietica parlerò più avanti, quando tratterò dell’ultima opera di
Štajerman. Qui mi permetto di limitarmi ad un’osservazione. Studiando
l’antichità, i ricercatori devono indubbiamente conoscere i termini che
adoperavano gli autori antichi. Ma se non spieghiamo i concetti che si celano
dietro essi, si viene a riesporre e non ad analizzare il passato.
Ogni scienza possiede il proprio apparato di concetti, e nella spiegazione e
nell’interpretazione dei dati delle fonti bisogna adoperare l’arsenale delle
categorie scientifiche moderne. Ciò obbliga lo storico ad un uso preciso della
terminologia. Nel nostro caso abbiamo a che fare con un nonsenso. Secondo la
definizione moderna la cittadinanza è il rapporto degli individui nei confronti
di un dato Stato. Quali cittadini possono appartenere ad una struttura
non Statale? Si può ben essere membri di qualsiasi società, ma cittadini
soltanto dello Stato. La suddetta incongruità dell’affermazione di Je.M.
Štajerman si rivela anche nel fatto che fondatamente riconosca la civitas come una variante della comunità
territoriale. Ricordo, però, che dai tempi di B.G. Niebuhr è noto che la
divisione territoriale della società è indice dell’esistenza dello Stato. In
tal modo, Je.M. Štajerman avrebbe dovuto almeno inserire delle modifiche nella
traduzione del termine civitas per
farlo corrispondere alla sua interpretazione della «comunità civile». Il citato
uso della parola è tanto più fuori luogo per la caratteristica dello status degli schiavi, per i quali la
studiosa aveva affermato una condizione di fatto, in quanto gruppo sociale,
mentre i romani non li consideravano tali. Resta ben inteso che questa
imprecisione non cancella l’importanza della monografia in questione.
Secondo Je.M. Štajerman i processi in atto
nell’economia romana determinavano la struttura sociale nei diversi periodi del
suo sviluppo. L’autrice trova a Roma fin dall’inizio un intreccio della
divisione in classi con la divisione in ceti e status sociali. Nel trattare i ceti sociali, ordines, aderisce a Cl. Nicolet, evidenziando il loro significato
funzionale che non andò perduto neppure in seguito (ad esempio l’ordo decurionum). Come modello ideale di
ceti sociali Je.M. Štajerman indica quelli feudali, intendendoli come
determinati strati muniti di un complesso di diritti ed obblighi fissati dalla
legge, o dal costume, trasmissibili per eredità. Gli strati romani più vicini a
questo modello, secondo la studiosa, sono i senatori, gli equites, più tardi i decurioni, nonché la plebe, ma non il populus, al quale appartenevano tutti i
ceti. Ma, a differenza del feudalesimo, a Roma il fattore ereditario non
esercitava un grande ruolo, i confini tra i ceti erano relativamente facili da
superare, anche nell’epoca del primo Impero. Fu nel tardo Impero che si afferma
l’ereditarietà dei ceti. Un tratto caratteristico dei ceti sociali romani
secondo Je.M. Štajerman è la mancanza di distinzioni della proprietà terriera.
La differenza tra i possedimenti dei senatori, degli equites e quelli dei plebei consisteva soltanto nelle dimensioni.
La determinazione della specificità della struttura delle classi e della lotta
di classe è una parte sostanziale dell’opera scientifica di Je.M. Štajerman.
Ritengo che la monografia esaminata, che
abbonda di impostazioni e soluzioni di importanti problemi teorici, costruita
sulla base delle varie fonti analizzate parzialmente nelle precedenti opere di
Je.M. Štajerman, rappresenta, nonostante alcuni momenti discutibili, un serio
successo della scienza sovietica.
Nel novero delle opere economico-sociali
rientrano i lavori in cui gli autori concentrano la loro attenzione, oltre agli
schiavi, sui singoli strati della società romana, con particolar interesse alla
loro vita quotidiana e ai loro costumi. Tra questi studiosi un posto particolare
occupa M.Je. Sergejenko[32],
menzionata già parecchie volte, la quale nel 1949 ha presentato un pregevole
libro su Pompei, che comprende la storia degli scavi, la pianta generale della
città, il suo rifornimento idrico, la caratteristica dell’amministrazione della
città, delle attività produttive degli abitanti, dei divertimenti, della vita
domestica e delle ville suburbane. In seguito si è rivolta allo studio della
Roma del I sec. d.C., con ampio excursus
sulla storia della città e dei suoi abitanti. Per il profondo e solido
fondamento dell’erudizione dell’autrice, nell’immaginazione del lettore Roma si
presenta come una struttura urbana[33]. Una
conoscenza impeccabile dei materiali archeologici ed epigrafici ha permesso
alla studiosa di introdurre il lettore nella Città Eterna per immaginare la sua
vita.
Una sorprendente facilità e semplicità
dell’esposizione vela il carattere rigorosamente scientifico del libro in cui
ogni affermazione si fonda sull’analisi delle fonti, comprese le riproduzioni
dei monumenti materiali. M.Je. Sergejenko ricostruisce la pianta della parte
storica dell’Urbe: vie, piazze,
parchi, Campo di Marte, fori. Si sofferma sull’urbanizzazione,
sull’amministrazione e sulla polizia, sui pretoriani e sui servizi antincendio.
M.Je. Sergejenko riproduce vari tipi di casa (domus, taberna, insula) con arredamento, i cibi e gli
abiti usati dai differenti strati della società italica, e la loro diversa
scansione del tempo della giornata. Sono presentati in maniera suggestiva gli
aspetti della vita urbana (bagni, circo, riti funebri). Si evidenziano le
singole persone, soprattutto donne e bambini, mettendo in rilievo la loro
posizione e il comportamento nella famiglia e nella società. M.Je. Sergejenko è
riuscita a creare un quadro vivo e multicolore della vita non soltanto di Roma,
ma anche dell’Italia: rapporti quotidiani tra adulti e minori, tra padroni,
schiavi e liberti, fra patroni e clienti. Nel mosaico delle faccende e dei
rapporti quotidiani si delineano le particolarità della società antica.
Nel 1964 è stato pubblicato un altro libro
di M.Je. Sergejenko, dedicato agli italici di modesta estrazione,
principalmente del I sec. d.C.[34]. In
questo libro sono esaminati il lavoro e la vita quotidiana dei produttori di
beni materiali, ma in primo luogo non degli schiavi nell’agricoltura, ma dei
cittadini liberi: panettieri, lavandai, vigili del fuoco, centurioni. La
studiosa sottolinea l’importanza del lavoro della gente semplice nel campo
delle arti predilette (mimi, acrobati, prestigiatori, cocchieri di circo,
gladiatori), e prende in considerazione il ruolo dei bassi strati
dell’intellighenzia (maestri elementari, medici). Le principali fonti di M.Je.
Sergejenko sono state le iscrizioni, gli affreschi di Pompei, i rilievi e le
sculture sepolcrali. Nella sua capacità di interpretare i monumenti della
cultura materiale si dimostra allieva di talento di M.I. Rostovtzeff.
Il 1968 è contrassegnato dalla pubblicazione
di un altro libro di M.Je. Sergejenko, dedicato allo stesso tema, quello sui
popolani romani[35].
La studiosa si pone il compito di esaminare attentamente la figura
dell’artigiano, ma non tanto dal punto di vista professionale, cioè produttivo,
quanto da quello sociale e personale. Questa opera è costruita prima di tutto
sulle fonti epigrafiche ed archeologiche, provenienti non soltanto da Roma e
Pompei, ma anche da Ostia, introdotte in seguito nell’uso scientifico.
L’importanza dell’utilizzo delle iscrizioni da parte dell’autrice emerge anche
dal supplemento speciale che contiene la traduzione in russo da lei effettuata
di più di 300 monumenti epigrafici. Queste iscrizioni sono strutturate
tematicamente (medici, orefici, ebanisti, intagliatori di osso, mugnai,
panettieri) e fornite di commenti. L’autrice entra nell’intero mondo di questi
uomini, mette in luce i loro sogni e le aspirazioni, i valori esistenziali e
spirituali, il loro livello d’istruzione, l’origine etnica dei liberti. Allo
stesso tempo le fonti mostrano gli orientamenti morali dei romani più colti
nell’epoca di Principato, i quali non provavano disprezzo per le persone di
origine servile (soprattutto per quelle intelligenti e dotate di talento).
Secondo M.Je. Sergejenko, per lo storico non basta limitarsi a fissare fatti e
fenomeni. Nel caos di molti eventi, a volte non univoci, è necessario
discernere il fenomeno certo più rilevante, che contraddistingue l’epoca. La
studiosa è del parere che nel I sec. d.C. tale fenomeno era il cambiamento
dell’atteggiamento verso gli schiavi, in cui vede l’inizio della crisi del
regime schiavistico.
Bisogna accettare l’approccio di M.Je.
Sergejenko nella valutazione dell’intreccio degli eventi storici, tuttavia, la
concretizzazione della sua tesi non è così convincente. Ci è sembrato che sia più
corretta l’affermazione (fatta, come abbiamo visto prima, da molti altri
studiosi e dalla stessa M.Je. Sergejenko in saggi e articoli), secondo cui fino
alla metà del II sec. a.C. la schiavitù vede il proprio periodo di fioritura.
In generale, però, nelle opere di M.Je. Sergejenko bisogna notare che ha
effettuato nelle specifiche monografie l’indagine della storia romana sotto
l’aspetto della vita quotidiana, cioè attraverso la vita delle persone
semplici, reali con le loro abitudini, usi, costumi, particolari tratti
psicologici e sociali.
Sotto lo stesso profilo è stato composto
anche il libro di G.S. Knabe[36]. Ma
se M.Je. Sergejenko ha risolto il problema sull’uso dei dettagli della vita
quotidiana e della loro semantica in modo pratico, per capire il quadro
complesso dello sviluppo sociale e le leggi che lo determinano, G.S. Knabe ha
trattato tale materiale storico da un punto di vista teorico, sollevando il
problema dei rapporti tra la vita quotidiana e la storia. Lo studioso nota, ai
fini di una adeguata raffigurazione della realtà storica, la necessità di
esaminare le categorie dello sviluppo sociale insieme al suo soggetto, cioè
l’uomo, tenendo conto delle condizioni della sua esistenza e del suo
comportamento, prestando attenzione ai dati della sociologia storica e della
psicologia sociale. Si può dire dunque che G.S. Knabe abbia aderito ai seguaci
dell’antropologia sociale. Lo studioso colloca la semiotica storica nello
stesso campo e presenta il compito di individuare i limiti di un uso ammissibile
dei fatti della vita quotidiana per le ricostruzioni storiche, poiché non
considera la semiotica una gnoseologia della cultura. L’essenza della sua
concezione storica sta nel riconoscimento del fatto che la base del modo di
vivere classico a Roma era la comunità civile, perciò quella viveva finché
viveva questa. La sua disgregazione, secondo il parere di G. S. Knabe, era un
fenomeno eccezionale. Mi pare che queste affermazioni si possano accettare. Il
punto di partenza però, secondo il quale la polis
è una comunità civile, va considerevolmente completato (ne parleremo
dettagliatamente più avanti). Sfortunatamente G.S. Knabe ha tralasciato i
risultati del lavoro degli storici sovietici, di cui tratteremo appositamente
in un’altra sede.
Tornando alla visione di G.S. Knabe, notiamo
la sua osservazione, giusta nella sua essenza, ma imprecisa cronologicamente:
l’ideologia della comunità civile romana è sopravvissuta alla sua rottura nel
senso economico e politico fino ai tempi dei primi Antonini, mentre nella sfera
della psicologia sociale e della vita quotidiana le forme di vita cittadina
sono risultate più resistenti e stabili. G.S. Knabe vede la soluzione del
problema della correlazione tra processo storico e vita quotidiana nello studio
degli dei nelle singole epoche storiche. Per Roma lo studioso individua le
seguenti particolarità: il complesso acqua-comunità-Dei; la semantica degli
abiti, la portantina, il pranzo, l’angustia urbana e così via. Questo aiuta
indubbiamente a rivelare e a spiegare le peculiarità del comportamento dei vari
strati sociali, e così rende più vive le nostre idee su Roma.
Tra le opere dedicate alla storia
economico-sociale di Roma bisogna menzionare un altro libro di Je.M. Štajerman[37],
che è stato pubblicato dopo la morte dell’autrice. Je.M. Štajerman concentra
l’attenzione su uno strato particolare della società, i contadini (non gli
schiavi). Il libro è composto da due parti: la prima è connessa ad alcuni
problemi dei contadini romani in epoca repubblicana; la seconda è legata agli agricoltori
sotto l’Impero. La prima parte contiene due capitoli, dove si prendono in esame
due questioni: la genesi e la fioritura del sistema contadino; la crisi della
comunità contadina. Prima di tutto Je.M. Štajerman si sofferma sui criteri per
definire i contadini come uno strato sociale determinato, e tiene conto delle
opinioni esposte nell’opera collettiva sulla storia del ceto contadino in
Europa[38].
Je.M. Štajerman ritiene che le definizioni che vi si formulano si possono
applicare ai contadini romani, considerati nelle varie tappe storiche. La
studiosa considera importante che la quota di partecipazione del piccolo
proprietario terriero nell’amministrazione e nella guerra era a volte maggiore,
a volte minore, ma il punto più importante è comprendere il livello della
divisione del lavoro nella società nell’ambito produttivo e sociale, che aveva
portato alla separazione della campagna dalla città, anche se nella forma di
divisione del territorio in urbs e chora, e della popolazione in urbani e rustici, e quindi della plebe in urbana e rustica. Secondo Je.M.
Štajerman questo fatto si manifesta almeno già tra la fine dell’epoca dei re e
l’inizio della Repubblica. Dalle sue considerazioni risulta che il problema del
sorgere della plebe e del ceto patrizio è una invenzione, infatti aderisce in
generale all’opinione di J.-Cl. Richard[39].
Questi gruppi di clienti, i quali esistevano da tempo, almeno dalla fine
dell’epoca dei re, presentavano il risultato della differenziazione
economica (similmente a come era ovunque), che delineava la nobiltà, il
popolo semplice e le persone dipendenti. Senza entrare nei particolari del
problema che sarà esaminato nelle parti successive della nostra rassegna, mi
permetto di osservare soltanto, che qui Je.M. Štajerman considera in modo
schematico la differenziazione sociale all’inizio della storia romana come un
processo esclusivamente interno, senza tener conto del fattore rappresentato
dalla violenza esterna, cioè dalla guerra, che aveva nella storia antica un
ruolo molto importante, e non soltanto a Roma ma anche a Sparta.
Dal punto di vista della studiosa, la plebe
nei primi tempi della Repubblica era un ceto e non una classe. I suoi argomenti
principali sono la differenza della condizione patrimoniale tra plebei; l’idea
che essi avrebbero avuto un pari rapporto con i patrizi rispetto all’ager publicus, nonché il fatto che in
quanto classe non erano sfruttati dai patrizi, e ciò lo ritengo impossibile
da accettare.
Allo stesso tempo bisogna menzionare
un’importante osservazione di Je.M. Štajerman: le tradizioni e gli istituti
delle comunità cittadine hanno condizionato alcuni aspetti della vita della
plebe urbana, la principale massa dei romani, che viveva con le idee
sviluppatesi nell’ambito dell’esperienza secolare dei contadini, la cui
ideologia ha determinato quella di tutti i cittadini della civitas. In altre parole, il ceto contadino costituiva la base
della civitas.
Nel libro si pone la questione sul ruolo dei
contadini nella trasformazione della comunità cittadina, che l’aveva portata
alla crisi. Sulla base dei dati degli autori antichi, sul liber coloniarum, sui trattati degli agrimensori, Je.M. Štajerman
esamina gli eventi tardorepubblicani. Seguendo il suo maestro, N.A. Maškin,
mette in rilievo il cambiamento dell’orientamento della legislazione agraria,
cioè il sorgere della lotta dei veterani per la proprietà fondiaria. La
posizione del ceto contadino in questo periodo assume un carattere
contraddittorio: da un lato i veterani sono ben spesso arruolati dalle sue
file, dall’altro soffre dei disastri causati dall’assegnazione della terra ai
veterani, fatto a cui aveva accennato il professor F.M. Nečaj di Minsk.
Tenendo conto di tutto il complesso dei fatti storici, cioè sociali, politici
ecc., Je.M. Štajerman afferma che dal tempo di Silla è cominciata la
disgregazione della civitas e la
formazione dello Stato a Roma. Va detto che questa tesi è stata oggetto di
critiche argomentate nella discussione svoltasi sulle pagine della rivista «Vestnik drevnej istorii» nel 1989 (nn. 2
e 3), in cui hanno partecipato gli storici sovietici (Kuziščin, Truchina,
Bol’šakov, Andrejev, Smyšljajev, Vigasin, Kim, Majak ed al.) e lo storico
francese Cl. Nicolet. Nessuno ha approvato la sua teoria per cui lo stato a
Roma era sorto soltanto sotto Augusto (da cui conseguiva che la civitas era una formazione non statale).
Je.M. Štajerman era partita dalla tesi marxista che lo stato sorge in
condizioni di scissione della società in due classi antagonistiche, con la
comparsa di uno speciale apparato della costrizione. I suoi oppositori hanno
segnalato 1) l’esistenza delle classi a Roma in quanto civitas; 2) la sua percezione sbagliata dello Stato soltanto come
apparato di costrizione (infatti sia Marx, sia Engels avevano rilevato la
presenza di un’importante funzione dello Stato, quella
economico-organizzativa); 3) il fatto che la studiosa aveva trascurato un
indice importante dell’esistenza dello stato, e precisamente la suddivisione
territoriale della società. Si deve notare che i critici di Je.M. Štajerman
argomentavano il loro dissenso, usando sia il suo stesso «strumento di prova», cioè le dichiarazioni
dei teorici del marxismo, sia il materiale sui fatti, attinto dalle fonti.
Nella seconda parte
della monografia le vicende dei contadini romani sono esaminate sotto l’aspetto
di lotta tra piccola e grande proprietà fondiaria nei secc. I-II d.C. Je.M.
Štajerman dimostra che nella sfera della politica agraria Cesare ed Augusto
avevano proseguito, sotto molti aspetti, la linea dei Gracchi. Accanto a pochi
latifondi esistevano e crescevano di numero, sia in campagna, sia in città, le
piccole e medie aziende che avevano bisogno non soltanto degli schiavi, ma
anche di lavoratori liberi. Il bisogno di manodopera supplementare, a suo
parere, poteva essere soddisfatto per conto dei contadini, i quali continuavano
a vivere nelle comunità rurali (villaggi, paghi, castelli). In tal modo le
iniziative agrarie dei triumviri e di Augusto hanno esercitato un’influenza
benefica sull’agricoltura italica. Je.M. Štajerman sottolinea che, a differenza
delle leges e degli interdetti dei
pretori, le leggi di Augusto de vi
publica e de vi privata sono
state considerevolmente rafforzate dall’apparato di polizia. Certamente, il ripristinato
ceto contadino si distingueva da quello dei vecchi tempi, perché era coinvolto
nei rapporti di mercato. Sotto Augusto fu ripristinato l’equilibrio tra
l’agricoltura e l’artigianato, turbato dalla crisi della comunità durante le
guerre civili. Questa circostanza stava alla base del «secolo d’oro» della
cultura romana. In relazione a ciò la ricercatrice, esaminando in chiave
critica le posizioni di V.I. Kuziščin e R. Martin, nota che in Virgilio il
concetto di beneficio del lavoro, soprattutto del lavoro agricolo, è espresso
in maniera estremamente netta, e ciò fu legato all’evoluzione della mentalità
nell’età di Augusto. I particolari di questo processo sono esaminati da
Štajerman anche nelle opere di altri poeti. La conclusione della studiosa, secondo
cui il nuovo strato di proprietari terrieri creato da Augusto era abbastanza
differenziato, ci pare di fondamentale importanza. Inoltre i contadini
risultarono legati non tanto al persistente ager
publicus populi Romani, quanto alle terre pubbliche delle comunità urbane e
non. Con la perdita del ruolo delle assemblee popolari questi avevano cessato
di partecipare agli affari dell’intero Stato, ed esercitavano un’influenza solo
nelle assemblee delle proprie comunità, urbane e rurali. In misura sempre minore,
secondo l’osservazione della studiosa, i contadini diventavano soldati
dell’esercito professionale dell’imperatore, e, di conseguenza, venivano
estromessi dalla preda militare, il che privava loro della possibilità di
rafforzare la propria azienda. Questo si ripercosse in maniera drastica già
sotto i successori di Augusto.
Interessanti pagine della monografia sono
dedicate alla riflessione sulla questione agraria nelle opere di Plinio il
Vecchio, Quintiliano, Seneca il Vecchio, i quali illustravano il conflitto tra
la grande e piccola proprietà terriera, ed esprimevano pietà nei confronti del
uomo di modeste condizioni, il contadino dedito al lavoro. Secondo Je.M.
Štajerman, la politica del governo nel I sec. si appoggiava perfino in una
certa misura sulla propaganda antilatifondista. Gli imperatori del I secolo
cercavano di favorire i piccoli proprietari che venivano asserviti per debiti,
il che è attestato dagli addicti, i
quali figurano nelle raccolte dei retori. La situazione cambiò nel II sec. d.C.
L’avvento al potere degli Antonini è
considerato da Je.M. Štajerman una vittoria del «partito del senato» sul
«partito dei piccoli e medi proprietari terrieri». Le sorti dei contadini in
quell’epoca si distinsero a seconda delle aree. L’analisi della tavola di
Veleia porta la studiosa alla constatazione dell’esistenza di varie terre
pubbliche, comprese quelle occupate dai cittadini, nonché dei possedimenti
privati, i saltus. Le notizie di
Plinio il Giovane permettono alla studiosa di parlare degli scontri tra
eminenti senatori e cittadini, provocati dall’espropriazione da parte dei primi
delle terre dei secondi. La ricercatrice esamina anche il processo della
creazione, per opera dei proprietari terrieri, di una specie di comunità
formata da liberti, e l’introduzione dell’affitto collettivo delle terre
imposto ai coloni, il che avvantaggiava i grandi latifondisti. Con l’aumento
dell’indebitamento dei contadini una parte di essi cadeva in condizione di
dipendenza dei latifondisti. Je.M. Štajerman nota che le distinzioni giuridiche
dei proprietari terrieri di fatto passavano in secondo piano davanti al loro
comune destino. Le trasformazioni sociali del II secolo portarono in tal modo
alla rottura con i principali istituti del mondo antico. Ciò si rivelò chiaramente
nella divisione della cittadinanza in honestiores
e humiliores, che pose fine alla
classica parità davanti alla legge, nella legittimazione della vendita di se
stessi, nella formazione delle terre al di fuori della giurisdizione dei
municipi. Il contadino romano cessava di essere partecipe dell’organizzazione
militare e politica.
Esaminando il destino degli incolae, Je.M. Štajerman ha notato che
dal III secolo iniziò la definizione giuridica della divisione della plebe in
rurale ed urbana, che ebbe una definitiva formulazione nel IV secolo. Tutto
ciò, secondo la studiosa, turbò l’unità della comunità civile e del suo
territorio. La proprietà terriera da quella di cittadini si trasformò in quella
dei ceti sociali. Va notato che Je.M. Štajerman vede questi processi
socio-economici riflessi anche nelle creazioni artistiche, in Giovenale e in
Dione Crisostomo. La studiosa osserva i profondi mutamenti nell’agricoltura
italica del IV secolo nel trattato di Palladio, e nota che i coloni, di
composizione mista (schiavi, liberti, precaristi, affittuari), se non ancora
giuridicamente, si fusero praticamente in una classe di contadini dipendenti
legati alla terra. Tale fu, secondo la sua visione, il percorso dello sviluppo
del ceto contadino romano.
Je.M. Štajerman
aderisce a C.W. Bowerstock, sostenendo che non vi fu una decadenza totale
nell’Impero del IV-V secc. Si ebbero però luogo le trasformazioni radicali
della struttura sociale, con una continuità esterna in alcune sfere della vita.
Fu fondamentale il fatto che la comunità civile antica cessò di essere un
elemento strutturale del sistema, il che è legato all’evoluzione del ceto
contadino. Si tratta, secondo la sua convinzione, della decadenza del modo di
vita antico, ma non di tutta la società, in quanto la sua trasformazione apriva
la via all’ulteriore sviluppo.
Va riconosciuto che Je.M. Štajerman ha
costruito un’intera concezione che spiegava in gran parte la transizione alla
società feudale, anche se su alcuni problemi importanti si possono avanzare
delle obiezioni. Così, pare che i tardi coloni fossero certamente una classe
unita, ma per lungo tempo si distinguessero tra loro per ceti sociali.
Non dobbiamo omettere il fatto che in questa
monografia Je.M. Stajerman rivolga la sua attenzione al problema della cultura
romana. Essa ritiene che al periodo del massimo splendore della civitas classica non vi fosse uno
speciale spartiacque tra cultura ed ideologia dei vari ceti della società, che
erano basate sul sistema di valori formatosi nell’ambito contadino. Il ceto
contadino, nel corso della lotta e delle vittorie dei plebei sui patrizi,
nonché durante le guerre esterne, era giunto a diventare la parte determinante
del popolo. In virtù di ciò, secondo la studiosa, era diventata dominante la
morale della familia contadina con il
suo rispetto per il pater familias,
il quale doveva amministrare la famiglia in maniera ragionevole. Da qui le
fondamentali virtù, pietas e fides, sia nei rapporti all’interno
della famiglia, sia tra questa e le divinità.
Le osservazioni della natura terrestre e del
cielo che avevano dato il contributo alla scienza romana sono, secondo la
studiosa, pure legate al ceto contadino e al lavoro agricolo. Je.M. suppone che
il culto degli astri celesti esistesse in ambito contadino indipendentemente
dalle influenze orientali che si diffusero particolarmente già all’epoca
dell’Impero.
Je.M. Štajerman ritiene che in un certo
senso anche alcune norme di diritto romano erano determinate dai capisaldi
della comunità contadina. L’interdizione dell’acqua e del fuoco rappresentava
un divieto di accesso alle cose sacre che tenevano unita la comunità dei
vicini, i quali attingevano acqua da una fonte comune.
Secondo l’opinione di Je.M. Štajerman,
l’idea della proprietà comune della terra senza appezzamenti privati non
suscitava soggezione dei contadini né sotto la Repubblica, né sotto l’Impero. A
ciò è legato il culto delle divinità protettrici della proprietà, del confine
inviolabile, della fertilità ecc. – Termine, Giove, Silvano, Priapo. Nella
diffusione di questi culti la ricercatrice non vede il conservatorismo della
religione romana, ma una determinata ideologia propria dell’epoca imperiale,
cioè quella che rifletteva in parte la protesta contro l’ideologia ufficiale a
cui era legato il culto degli imperatori. In conclusione, per Je.M. Štajerman i
concetti alla cui base stava la mentalità del ceto contadino romano,
modificandosi, scontrandosi con correnti opposte, esercitarono un’influenza su
molte teorie filosofiche, sociologiche e religiose successive, compreso il
cristianesimo.
Senza soffermarmi sui particolari che hanno
ingenerato il mio dissenso per alcune affermazioni degli autori delle opere
esaminate, mi permetterò di esprimere l’opinione che esse presentano un enorme
lavoro di studiosi onesti e qualificati. L’abbondanza dei libri dedicati alla
tematica socio-economica non è certamente casuale, ed è legata direttamente al
tempo della loro creazione. L’affermazione nell’Unione Sovietica dell’ideologia
marxista-leninista richiedeva delle elaborazioni scientifiche, in particolare
della storia romana, dal punto di vista della formazione schiavistica. Questo
compito è stato affidato alle maggiori università e agli istituti
dell’Accademia delle Scienze, i cui lavori venivano regolati, come in tutti gli
enti dello Stato, secondo i progetti che andavano rigorosamente realizzati. Da
qui segue una costante pubblicazione di libri ed articoli sulla problematica
indicata.
Però sarebbe una semplificazione spiegare
questo fatto solo con la pressione ideologica da parte dello Stato. Nell’epoca
poststalinista, soprattutto dal XX congresso del PCUS in cui era stato
condannato il culto della personalità di Stalin, insieme agli eccessi che lo
avevano accompagnato, la società ha ripreso a respirare più liberamente, il che
ha prodotto i suoi effetti anche nell’ambito della scienza. Così, dopo lo
slancio dovuto alla grande vittoria contro il nazismo, è iniziato negli anni 60
del XX secolo anche uno slancio di energia scientifica. Non bisogna pensare che
il peso notevole della problematica socio-economica dipendesse soltanto dal
carattere inerte del modo di pensare, o dalla necessità, dovuta al dovere di
osservare la disciplina di Stato, di effettuare le opere programmate in
precedenza. Lo studio dell’economia e dei processi sociali di per sé non può
essere né inutile, né sconveniente, come dimostra la pratica scientifica
mondiale. Per gli studiosi sovietici, compresi gli storici di Roma, ripeto, si
erano aperte allora delle nuove possibilità di elaborare il nuovo materiale delle
fonti, e di conoscere, grazie ad un’intensa presa di contatti, le opere dei
colleghi stranieri. E queste circostanze stimolavano molti seri studiosi, a
partire dai propri interessi scientifici, e a dedicarsi allo studio
dell’economia romana, della struttura delle classi, e della lotta all’interno
della società romana.
Però, anche se la problematica delle
ricerche dà un’idea della storiografia, la sua caratteristica non si esaurisce,
certamente, solo con questo versante di opere. Va valutato l’aspetto che
riguarda l’atteggiamento degli studiosi e l’approccio metodologico generale nei
confronti delle fonti. In relazione a ciò noterò che gli autori delle opere
esaminate si muovevano dall’analisi delle fonti, raccogliendo tutto il
materiale accumulato e ispirandosi al principio di un loro uso complessivo; in
questo senso si integravano in modo organico nel generale flusso della scienza
europea, anzi, mondiale.
Notando una profonda elaborazione delle
fonti come base dell’attività scientifica, non si può passare sotto silenzio il
fatto che ciò non era un’innovazione del periodo sovietico. Ma proprio nel
periodo postbellico, quando i nostri storici erano passati dalla creazione di
opere volte al ripensamento dei processi storici generali, compresi quelli
nell’ambito della storia romana, ed avevano affrontato uno studio serio dei
singoli problemi ed argomenti, essi si sono muniti della ricca esperienza
prerivoluzionaria. È stato importante anche il fatto che vi fosse chi la poteva
trasmettere. Nelle università e negli altri enti di studio superiore e della
ricerca scientifica si erano conservati degli specialisti della vecchia scuola
scientifica prerivoluzionaria. Questa scuola, che aveva raggiunto un livello
molto alto, si era formata sulla base delle tradizioni della scienza tedesca
d’avanguardia dei ss. XIX-inizio XX, radicate e rafforzate. In tal modo la
solidità e l’alto livello di analisi delle fonti raggiunti dagli studiosi
sovietici nel periodo in esame, non erano casuali. Le basi su cui venivano
costruite le opere da noi indicate erano state gettate dagli studiosi russi del
passato prerivoluzionario.
Per quanto riguarda le vedute
metodologiche generali, certamente, una parte degli studiosi rimaneva nelle
posizioni del positivismo, alcuni si attenevano alle teorie di M. Bloch, sotto
molti aspetti affini al marxismo, altri tendevano allo strutturalismo, ecc. Ma
loro di regola non smentivano il marxismo, limitandosi solo alle citazioni
dalle opere dei classici, e ad un velato dissenso della teoria dominante. Questo
aveva luogo, però, non solo per paura delle repressioni, la cui ondata era
ormai visibilmente diminuita. La maggior parte degli studiosi della generazione
precedente cercavano di studiare seriamente e di capire la dottrina marxista, e
rilevare le radici razionali di questa, mentre i più giovani studiavano da
costoro, e percepivano questa dottrina, senza ricusare di applicare altri
approcci teorici (per esempio, quello semiotico, prosopografico ecc.) come
metodologia della ricerca. Questa situazione si è rivelata in modo più visibile
nelle ricerche su altre tematiche della storia di Roma su cui intendo
soffermarmi in altri contributi.
Vorrei notare che i
ricercatori, i quali si attenevano al materialismo storico e riconoscevano Roma
come società schiavistica, hanno introdotto molte novità, rispetto agli anni
20-30 del XX secolo, nelle concezioni della schiavitù e, in genere, della
società romana. La sua struttura è stata ormai considerata assai complessa, con
la presenza delle classi, dei ceti e degli stati intermedi con diverse forme di
dipendenza personale. Ciò è risultato essere una concretizzazione, sulla base
dell’analisi del materiale sui fatti, delle tesi presentate da brillanti
studiosi, I.M. D’jakonov e S.L. Utčenko, nella loro relazione al XIII Congresso
di scienze storiche a Mosca nel 1970. La relazione a sua volta si basava sulle
ricerche degli anni 50-60 del secolo scorso.
Si pensa che la scienza sovietica abbia
utilizzato la teoria marxista in modo assai fruttuoso per la ricostruzione
della realtà socio-economica di Roma antica, liberandosi decisamente dal
dogmatismo primitivo proprio dell’inizio dell’epoca sovietica.
[1] R.Ju.
Vipper, Vozniknovenije
christianskoj literatury (Comparsa della letteratura cristiana),
Mosca-Leningrado 1946.
[2] R.Ju.
Vipper, Rim i ranneje
christianstvo (Roma e il primo cristianesimo), Mosca-Leningrado 1954.
[3] S.I.
Kovaljov scrisse tre libri: Proischoždenije
christianstva (Origini del cristianesimo), Leningrado 1948; Proischoždenije i klassovaja suščnost’
christianstva (Origini ed essenza classistica del cristianesimo),
Leningrado 1952; Mif ob Iisuse Christe
(Mito di Gesù Cristo), Leningrado 1954. Aderiva alle posizioni marxiste;
rivelava con l’appoggio delle fonti l’appartenenza sociale dei primi cristiani
ed evidenziava la propria preferenza alla scuola mitologica.
Lo studioso bielorusso G. M. Livšic ha scritto Očerki istoriografii Biblii i rannego
christianstva (Saggi della storiografia della Bibbia e del primo
cristianesimo), Minsk 1970.
[4] Ja.A.
Lencman, Proischoždenije
christianstva (Origini del cristianesimo), Mosca-Leningrado 1958; Id., Sravnivaja
jevangelija (Confrontando i vangeli), Mosca 1967.
[5] A.B.
Ranovič, Pervoistočniki
po istorii rannego christianstva (Le fonti primarie sulla storia del
protocristianesimo), Mosca 1933; idem, Antičnyje
kritiki christianstva (Critici antichi del cristianesimo), Mosca 1935; Id., Očerki
istorii rannechristianskoj cerkvi (Saggi di storia della chiesa
protocristiana), Mosca 1941, in cui veniva sottolineata la tesi sulla simbiosi
della chiesa cristiana con l’apparato dello Stato delle classi dominanti, e
sulla sua trasformazione in un loro baluardo. In queste opere sono stati
selezionati i frammenti delle opere degli autori antichi, delle iscrizioni e
dei papiri che caratterizzano la crisi generale dell’Impero romano, in quanto
premessa all’apparizione del cristianesimo, e il sincretismo religioso proprio
di quell’epoca. Un posto notevole nella raccolta occupano le opere
anticristiane degli autori antichi (Minuzio Felice, Celso).
[6] Così, la scoperta dei manoscritti di Kumran
ha portato all’apparizione delle seguenti pubblicazioni: I.D. Amusin,
Rukopisi Mjortvogo Morja (Manoscritti
del Mar Morto), Mosca 1961; Nachodki u
Mjortvogo Morja (Scoperte presso il Mar Morto), Mosca 1964; Kumranskaja obščina (Comunità di
Kumran), Mosca 1983, in cui l’autore nota il ruolo intermediario della dottrina
dei kumraniti tra la religione giudaica e il cristianesimo.
[7] Un’altra opera che rappresenta l’esempio
tipico di questo interesse è il libro di M.M.
Kublanov, Novyj Zavet. Poiski i
nachodki (Nuovo Testamento. Ricerche e scoperte), Mosca 1968. Del
significato dei documenti di Kumran per lo studio del cristianesimo si tratta
nella monografia di G.M. Livšic, Proischoždenije christianstva v svete
rukopisej Mjortvogo Morja (Origini del cristianesimo alla luce dei
manoscritti del Mar Morto), Mosca 1967.
[8] M.K.
Trofimova, Istoriko-filosofskije
voprosy gnosticizma (Questioni storico-filosofiche dello gnosticismo),
Mosca 1970.
[9] A.Č.
Kozarževskij, Istočnikovedčeskije
problemy rannechristianskoj literatury (Problemi dell’esegesi della
letteratura paleocristiana), Mosca 1985.
[10] V.A.
Fedosik, Kiprian i antičnoje
christianstvo (Cipriano e il cristianesimo antico), Minsk 1991. Nel libro
viene evidenziato il contributo di Cipriano nell’elaborazione di una dottrina
speciale.
[11] I.S.
Svencickaja, Tajnyje pisanija
pervych christian (Scritture segrete dei primi cristiani), Мosca
1980. Il libro è risultato essere una continuazione logica dello scritto della
stessa autrice Zapreščonnyje
jevangelija (Vangeli proibiti), Мosca 1965.
[12] N.I.
Golubcova, U istokov christianskoj
cerkvi (Alle origini della chiesa cristiana), Mosca 1967.
[14] Prima di tutto – il testo di Agapio che
risulta essere la traduzione della versione siriana della traduzione di Flavio
Giuseppe, che si distingue dalla traduzione greca.
[15] V.A.
Fedosik, Cerkov’ i gosudarstvo.
Kritika bogoslovskich koncepcij (La chiesa e lo Stato. La critica dei
concetti teologici), Minsk 1988.
[16] M.Je.
Sergejenko, Očerki po
sel’skomu chozjajstvu drevnej Italii (Saggi sull’agricoltura dell’Italia
antica), Mosca-Leningrado 1958.
[17] V.I.
Kuziščin, Očerki po
istorii zemledelija Italii II v. do n. e. – I v. n. e. (Saggi sulla storia
dell’agricoltura nell’Italia del II sec. a.C. – I sec. d.C.), Mosca 1966.
[18] V.I.
Kuziščin, Genezis
rabovladel’českich latifundij v Italii (II v. do n. e. – I v. n. e.)
(La genesi dei latifondi schiavistici in Italia [II sec. a.C. – I sec. d.C.]),
Mosca 1976.
[19] V.I.
Kuziščin, Antičnoje
klassičeskoje rabstvo kak ekonomičeskaja sistema (La schiavitù
classica romana come sistema economico), Mosca 1990.
[20] Je.M.
Štajerman, Rascvet
rabovladel’českich otnošenij v Rimskoj Respublike (La fioritura dei
rapporti schiavistici nella Repubblica romana), Mosca 1964.
[21] O.V.
Kudrjavcev, Ellinskije provincii
Balkanskogo poluostrova (Le province elleniche della penisola Balcanica),
Mosca 1954.
[23] Je.M.
Štajerman, M. K. Trofimova, Rabovladel’českije
otnošenija v Rimskoj Imperii (Italija) (Rapporti schiavistici nell’Impero
romano [Italia]), Mosca 1971.
[24] Je.M.
Štajerman-V.M. Smirin-N.N. Belova-Ju.K. Kolosovskaja, Rabstvo v zapadnych provincijach Rimskoj
Imperii v I – III vv. (La schiavitù nelle province occidentali dell’Impero
romano nei ss. I-III), Mosca 1977.
[25] L.P.
Marinovič-Je.S. Golubcova-I.Š. Šifman-A.I. Pavlovskaja, Rabstvo v vostočnych provincijach
Rimskoj imperii v I-III vv. (La schiavitù nelle province orientali
dell’Impero romano nei ss. I-III), Mosca 1977.
[26] Je.M.
Štajerman, Krizis
rabovladel’českogo stroja v zapadnych provincijach Rimskoj imperii (La
crisi del regime schiavistico nelle province occidentali dell’Impero romano),
Mosca 1957.
[27] K.K.
Zel’i-M.K. Trofimova, Formy
zavisimosti v Vostočnom Sredizemnomor’je v ellinističeskij period
(Le forme di dipendenza nel Mediterraneo orientale nel periodo ellenistico),
Mosca 1969.
[28] A.
Tarskij, Vvedenije v logiku i
metodologiju deduktivnych nauk (Introduzione alla logica e metodologia
delle scienze deduttive), Mosca 1948.
[29] Je.M.
Štajerman, Drevnij Rim. Problemy
ekonomičeskogo razvitija (Roma antica. Problemi di sviluppo
economico), Mosca 1978.
[31] L.
Capogrossi-Colognesi, La struttura
della proprietà e la formazione dei iura praediorum nell’età repubblicana,
Voll. I-II, Milano,
1969-1976; G. Diosdi, Ownership in ancient and preclassical Roman
law, Budapest 1970.
[34] Id.,
Prostyje ljudi drevnej Italii (La
gente semplice dell’Italia antica), Mosca-Leningrado 1964.
[36] G.S.
Knabe, Drevnij Rim - istorija i
povsednevnost’ (Roma antica - storia e quotidianità), Mosca 1986.
[37] Je.M.
Štajerman, Istorija krest’janstva
v drevnem Rime (La storia del ceto contadino nell’antica Roma), Mosca 1996.
[38] Istorija
krest’janstva v Jevrope: epocha feodalizma (La storia del ceto contadino in
Europa: l’epoca del feudalesimo), I, Mosca 1985.