N. 3 – Maggio 2004 – Tradizione Romana
Università di Sassari
Uso dell'acqua e diritto nel
Mediterraneo.
Uno schema di interpretazione
storico–sistematica e de iure condendo[1]
Sommario: Premessa. La
carenza dell’acqua “diritto umano fondamentale”. – 1. Caratteristiche,
inadeguatezza e crisi della concezione e del regime giuridici dell'acqua negli
ordinamenti odierni positivi; a.
Negli ordinamenti
nazionali (ad es., l'ordinamento italiano): la cosa–acqua come bene economico
passibile di proprietà: delle persone–privati o della persona–Stato.
b. Nell’ordinamento
inter–nazionale: acque interne e acque inter–nazionali. c. Elementi negativi, di inadeguatezza sostanziale e
processuale dell'ordine giuridico odierno nazionale e inter–nazionale:
economicistico–privatistico e statualistico–positivo. d. Segni di crisi di tale ordine e orientamenti positivi di
innovazione: la ricomparsa del diritto romano. 2. La soluzione mediterranea:
il diritto romano e l’acqua. a.
Dalla cultura
gius–positiva ‘anglosassone – del nord’ alla cultura gius–naturale ‘romana –
mediterranea’. b. Il diritto ‘primo’ è il
“diritto naturale”. c. Operatività del ius naturale nei confronti delle
persone: “l’eguaglianza degli uomini”. d. Operatività
del ius naturale nei confronti delle
cose: l’acqua corrente e il mare res
communes omnium. e. L’azione popolare: lo
strumento per la tutela da parte di tutti dell'acqua bene comune di tutti.
Comincia a mancare l'acqua. Chiamata “oro
blu” o “petrolio bianco”, essa appare destinata a diventare uno dei ‘beni’ più
contesi del nuovo millennio.
La situazione
odierna vede circa un quinto della popolazione umana priva di accesso all'acqua
e 300 milioni di uomini che vi
accedono soltanto attraverso reti private.
Secondo stime dell'ONU, nel giro di
vent’anni, nel 2025, circa due terzi della popolazione mondiale avranno
problemi gravi di disponibilità di acqua.
La dichiarazione
conclusiva del “P7 2000”, il vertice dei sette Paesi più poveri della Terra
(Senegal, Madagascar, Etiopia, Burkina Faso, Nicaragua, Vietnam e Palestina)
tenuto a Bruxelles, nella sede dell'Europarlamento, sottolineando la importanza
primaria di garantire a tutti gli abitanti del pianeta l'accesso a questa
risorsa irrinunciabile, ha proclamato l'acqua “diritto umano fondamentale”.
I problemi
principali sono stati individuati nella privatizzazione e nell’inquinamento.
1.
Caratteristiche,
inadeguatezza e crisi
della
concezione e del regime giuridici dell’acqua
negli
ordinamenti odierni positivi
Per intendere quali sono, a fronte di questa situazione e dei
problemi connessi, la concezione ed il regime dell’acqua negli ordinamenti
giuridici odierni, nazionali e inter–nazionale, dobbiamo avviare il
ragionamento da alcuni concetti di base, semplici ma –proprio per ciò– sovente
dimenticati.
Negli ordinamenti giuridici odierni, almeno in quelli di
tradizione o di più recente ispirazione europea, la realtà giuridicamente
rilevante viene ‘divisa’[3]
in due categorie di entità: i “soggetti di diritto”, ovverosia le “persone”, e
gli “oggetti di diritto”, ovverosia le “cose”. L’acqua o, meglio, le acque
ricadono in questa seconda categoria.
Le ‘cose’ sono considerate apprezzabili dall’ordinamento
giuridico (cioè dalla organizzazione e dall’insieme di norme che costituiscono
il “diritto oggettivo”) in quanto su di esse si eserciti o si possa esercitare
uno o più ‘poteri’ (cioè “diritti soggettivi”) da parte di una o più persone;
le cose divengono, allora, “beni” anzi, più precisamente, “beni economici”. Per
il Diritto italiano (che assumo ad esempio di ‘ordinamento giuridico
nazionale’) la nozione di “beni” si trova all’art. 810 c.c., vale a dire:
l’articolo primo del Titolo I “I beni” del Libro terzo “La proprietà” del
Codice civile. Per chiarire –se necessario– il modo di intendere le “cose/beni
giuridici” da parte dell’ordinamento giuridico –anche– italiano, cito due
definizioni correnti nella manualistica nazionale. Secondo un dizionario
giuridico diffuso, «sono beni tutto ciò che è capace di arrecare utilità agli
uomini ed è suscettibile di
appropriazione»[4].
Secondo un manuale di diritto privato in uso presso la mia Facoltà, «Il
legislatore italiano parlando dei beni all'inizio del titolo III della
proprietà, mostra di considerare come bene, in un significato certamente
ristretto, soltanto le cose che hanno valore economico; vale a dire quelle
entità materiali o immateriali che appariscono limitate e valutabili in danaro»[5]. Le
cose che non sono beni economici appropriabili, in quanto la loro natura (ad
es. gli astri del cielo) o la loro quantità [apparentemente] infinita (l'aria,
il mare) ne rende impossibile o inutile l’appropriazione, sfuggono dunque –in
linea di principio– all’interesse e, quindi, alla disciplina del diritto.
Le ‘persone’ si dividono in fisiche e giuridiche, private e
pubbliche. L’incrocio tra queste due divisiones
delle persone è, però, tutt’altro che simmetrico. Il dato decisivo è che le
persone fisiche sono esclusivamente private. In altri termini, gli uomini sono
soltanto privati. Le persone pubbliche, invece, sono esclusivamente giuridiche,
ovverosia sono entità fittizie/artificiali. Le persone pubbliche sono lo
‘Stato’ e gli Enti di cui o in cui esso si compone.
Anche le cose “beni economici appropriabili”, si dividono,
dunque, tra cose in proprietà privata e cose in proprietà pubblica, seguendo la
claudicante simmetria delle divisioni tra le persone. L’art. 42 della
Costituzione italiana recita: «La proprietà è pubblica o privata. I beni
economici appartengono allo Stato, ad
enti o a privati».
I beni dello Stato si distinguono, da una parte, in “beni
patrimoniali disponibili” e, dall’altra parte, in “beni demaniali” (art. 822
c.c.) e “beni patrimoniali indisponibili” (art. 826 c.c.). I beni patrimoniali
disponibili sono gli stessi che fanno normalmente oggetto della proprietà
privata e sono sottoposti allo stesso regime della proprietà privata. I beni
demaniali e patrimoniali indisponibili sono quelli che, per la loro natura,
sono sottratti alla proprietà privata e appartengono, quindi, necessariamente
allo Stato[6].
Tra i beni demaniali e i beni patrimoniali indisponibili le acque hanno un
posto di rilievo. Nell’ambito del demanio, infatti, si individua, innanzi
tutto, α) il demanio marittimo (il quale è costituito: dalle
porzioni di suolo in riva al mare,
lidi e spiagge, porti e rade, i canali utilizzabili per uso pubblico marittimo,
nonché dalle loro pertinenze) e, quindi,
β) il demanio idrico (il
quale è costituito dai fiumi, dai torrenti, dai laghi e da tutte le acque
sorgenti piovane, in quanto abbiano o acquistino attitudine ad usi di pubblico
interesse [art. 1. R.D. 1775/33] nonché dai ghiacciai)[7]. Al
novero dei beni patrimoniali indisponibili appartengono le acque minerali e
termali[8].
Le restanti acque “interne” (v. il prgf. s.) sono private.
Nell’ordinamento inter–nazionale, esiste –in principio– un solo
tipo di persona, la persona giuridica pubblica ‘Stato’. In questo contesto, la
distinzione di fondo è tra acque interne (agli Stati) e acque inter–nazionali.
Le ‘acque interne’ (art. 8 Convenzione di Montego Bay, delle
Nazioni Unite, sul diritto del mare, 10/12/82) sono tutte le acque comprese nel
territorio di uno Stato (come le acque del ‘demanio idrico’) nonché tutti gli
spazi marini situati al di qua della linea costiera [cd. “linea di base”]
(porti, rade e baie). Esse integrano il territorio dello Stato.
Tra le acque interne e le acque inter–nazionali vi è una fascia
di rispetto e di transizione che si distingue ulteriormente tra le “acque
territoriali” e la “zona economica esclusiva”. Le acque territoriali sono
costituite dalla fascia di mare lungo le coste, sulla quale lo Stato esercita
la propria sovranità. Tale fascia si estendeva un tempo sino alla gittata
massima dei cannoni; è stata quindi fissata, nella prassi inter–nazionale e poi
nella convenzione di Montego Bay, in 12 miglia marine [m. 1852x12]. Oltre le
acque territoriali, sino a 200 miglia da essa, si estende la “zona economica
esclusiva" (artt. 57/74 Conv. di Montego Bay) su cui lo Stato costiero ha
diritti particolari di sfruttamento economico, i quali possono superare il
confine delle 200 miglia se lo stesso confine è superato dalla propria
“piattaforma continentale” (artt. 76/85 Conv. di Montego Bay).
Le acque inter–nazionali sono sempre acque marine, per cui si
parla direttamente di mare internazionale (o alto mare, mare aperto, mare
libero) [artt. 86/120 Conv. di Montego Bay]. Il mare inter–nazionale si estende
oltre il mare territoriale e non è compreso né nella zona economica esclusiva
né nelle acque arcipelagiche di uno Stato arcipelago [art. 86 Conv. di Montego
Bay]. Vi trova applicazione il “principio della libertà dei mari”, il quale
comporta il riconoscimento a ciascuno Stato di un diritto uguale ad esercitare
tutte le attività di utilizzazione del mare inter–nazionalmente lecite, quali
la navigazione, il sorvolo, la pesca, la posa dei cavi, la costruzione di isole
artificiali e la ricerca scientifica. L'esercizio di questa libertà è limitato
dalla condizione del rispetto degli interessi e della libertà degli altri
Stati.
Sulla scorta dei criteri di diritto (interno e inter–nazionale),
così schematicamente rammentati, non tutte le acque sono ‘beni’ dal punto di
vista giuridico.
Tali sono soltanto le “acque interne”; non lo sono le “acque
inter–nazionali”, cosiddette “libere”, né lo sono propriamente le “acque territoriali”. Per la classificazione di
queste ultime, infatti, la interpretazione giurisprudenziale, sin dal 1944[9],
ha ‘innestato’ nell’ordinamento giuridico italiano (riconoscendone così,
implicitamente, la insufficienza) una categoria di cose–beni non prevista dal
legislatore ma ripresa dal Diritto romano: le res communes omnium. Questa categoria di cose/beni incrina, però,
la logica dell’ordinamento; nella quale essa mal si colloca: α) sia perché essa evoca la
titolarità delle cose comuni da parte di tutti gli uomini[10] e
non –soltanto– da parte di tutti i cittadini
(come si deve intendere nel lessico della Cassazione), β) sia perché essa evoca la titolarità delle cose comuni direttamente da parte delle persone
uomini/cittadini e non da parte della persona ‘Stato’ (come, invece, vuole
l’ordinamento italiano: art. 42 della Costituzione, sopra citato).
L’innesto problematico, nel diritto odierno, della categoria
romanistica res communes omnium è una
prima ‘spia’ della inadeguatezza di questo
diritto. Quell’innesto, inoltre, a fronte degli elementi negativi, di
inadeguatezza, annuncia già gli orientamenti positivi, di innovazione;
annuncia, cioè, una crisi e i termini della crisi.
Gli elementi negativi, di inadeguatezza, dell’ordine giuridico
odierno sono di diritto sostanziale e di diritto processuale.
Dal punto di vista del diritto sostanziale, è assai difficile se
non proprio impossibile collocarvi la nozione dell’acqua come “diritto umano”.
Il diritto odierno positivo dell’acqua, più in generale: il diritto odierno
positivo delle ‘cose’ (e, ancora più in generale: il diritto odierno positivo)
è, infatti, caratterizzato, come abbiamo visto, dalla concezione economicistica
della realtà, della quale concezione il diritto stesso si pone al servizio, con
una combinazione di strumenti –soltanto apparentemente contraddittoria–
privatistici e statualistici. Il meccanismo logico è ferreo: poiché le uniche
persone ‘vere’, non “fittizie/artificiali”, cioè gli uomini, sono
esclusivamente persone private[11], la
cui ragione unica è la utilità individuale propria a ciascuno di essi (la utilitas singulorum) e il cui fine unico
è il perseguimento di quella utilità, corrispondentemente, le persone pubbliche
devono, invece, essere esclusivamente persone giuridiche, cioè lo Stato nonché
gli altri Enti pubblici costituiti dagli Stati come loro di–partimenti o come
loro unioni, la cui ragione unica è la forza ed il cui fine unico è la
regolamentazione del bellum omnium erga
omnes, postulato come originario e insopprimibile tra quegli
uomini–privati, interamente tesi alla- e assorbiti dalla soddisfazione di
quella loro utilitas. Si tratta di
una costruzione medievale[12],
perfezionata in epoca moderna[13] e
cui –in epoca contemporanea– si è cercato, invano, di affidare compiti
‘sociali’[14].
Dal punto di vista del diritto processuale, nell’ordinamento
italiano, la attribuzione della ‘proprietà’ dei cose–beni demaniali (tra cui
l’acqua) alla persona–Stato comporta la conseguenza necessaria della
attribuzione esclusiva del potere–dovere della loro tutela alla autorità
amministrativa (artt. 822 s. e 824 ss. c.c.) ed è quasi un luogo comune la
osservazione (per altro assolutamente esatta) che il regime di tutela
dell’acqua ‘pubblica – dello Stato’ è inadeguato, all’interno dello Stato, per
la circoscrizione di quella tutela alla “cronica e incessabilmente inadeguata
sorveglianza dello Stato” stesso[15].
Occorre però integrare questa prima osservazione con la osservazione che tale
sorveglianza è “cronica e incessabilmente inadeguata” non (o, quanto meno, non
soltanto né principalmente) per l’altro luogo comune costituito dalla
affermazione (invece empirica e volgare) della inefficienza/inefficacia
connaturata agli apparati pubblici ma –come abbiamo appena rammentato– per la
impossibilità ontologica del soggetto Stato (persona ficta e/o artificialis)
di individuare una utilitas propria
(‘publica’) e, quindi, per la
evanescenza intrinseca, nel contesto degli ordinamenti statuali, della stessa
costruzione teorica della utilità pubblica, che quegli apparati dovrebbero
perseguire e tutelare.
Per la stessa e a maggior ragione, il regime di tutela dell’acqua
è inadeguato anche all’esterno dello Stato, per la debolezza ontologica e la
evanescenza intrinseca del diritto internazionale: diritto di sole
persone–Stati e circoscritto a –poche– consuetudini e agli accordi fra Stati (pacta), senza la possibilità di invocare
criteri giuridici superiori (sopra–nazionali)[16] non
soltanto per la integrazione delle consueudini e dei pacta ma persino per le loro valutazione e interpretazione
sistematiche.
Alla inadeguatezza sostanziale e processuale degli ordinamenti
giuridici nazionali e inter–nazionale, corrispondono tentativi di correzione, i
quali hanno la caratteristica comune di consistere in ‘innesti’ –dentro quegli
ordinamenti– di categorie giuridiche ad essi sostanzialmente estranee e che
evocano –invece– un diritto altro: il
sistema giuridico romano, come già abbiamo visto con la sentenza della Corte
costituzionale italiana del ’44, la quale ha inserito nell’ordinamento italiano
la categoria di “res communes omnium”.
Sul piano del diritto sostanziale, la dottrina, la giurisprudenza
(CdS 253/1973) e, infine, la legge
(2421 del 1990)[17]
hanno introdotto nell’ordinamento nazionale italiano la categoria dei “beni
ambientali”, la cui titolarità è, però incerta, oscillando tra la categoria di
‘beni pubblici’ (cioè, dello Stato)
e una categoria nuova di “beni non necessariamente economici” e “senza
titolare”, in quanto oggetto di diritti cd. “diffusi” o “adespoti”.
Per quanto concerne il diritto inter–nazionale, una dichiarazione
di principio della Assemblea Generale dell’ONU ha definito (di fatto, sia riprendendo
sia correggendo la linea della Corte di Cassazione italiana di ripristino di
categorie giuridiche romane)[18] le
risorse del suolo e del sottosuolo del mare inter–nazionale come “patrimonio
comune dell'umanità” non suscettibile di appropriazione da parte di alcuno
Stato. La utilizzazione di questa ‘zona’ deve essere a fini esclusivamente
pacifici e la sua esplorazione ed il suo sfruttamento sono sottoposti ad un
regime inter–nazionale coordinato dalla Autorità
Internazionale dei Fondi Marini [artt. 156 ss. Conv. Montego Bay]. Tale regime vuole tutelare gli Stati più poveri e si fonda sul
concetto di sfruttamento parallelo, per il quale lo sfruttamento avviene al 50% da parte dello Stato operante ed al 50% da parte dell'Autorità mediante un suo
organo operativo (la “Impresa”: art. 158 Conv.
Montego Bay).
Sul piano del
diritto processuale, è da segnalare la introduzione nell’ordinamento giuridico
italiano (ma non soltanto in esso) di un altro istituto proprio del Diritto
romano: la azione popolare, la actio
popularis, cioè la azione che può essere promossa da chiunque (quivis de populo), indipendentemente da
un rapporto di credito o reale nei confronti della persona o della cosa contro
o per cui si agisce.
La nozione di “beni ambientali” e la nozione di “patrimonio
dell’umanità” entrano in conflitto con entrambe le caratteristiche–limite degli
ordinamenti giuridici odierni: α)
la concezione delle cose/beni, che li riduce ai beni economici, e β) la concezione del sistema delle
persone, che riduce gli uomini a privati e il pubblico a Stato. Viene, infatti,
forzata la nozione delle cose oggetti di diritto, verso la estensione a cose
non di natura economico/patrimoniale né passibili di diritti soggettivi di
proprietà. Viene, inoltre, forzato il sistema delle persone soggetti di
diritto, aprendo la strada sia ad una nozione non esclusivamente privata degli
uomini e non statuale della personalità pubblica sia alla comprensione di un
‘soggetto di diritto’ collettivo, la “umanità”, nuovo, diverso, esterno e
superiore rispetto allo ‘Stato’.
La azione popolare
non è stata introdotta nell’ordinamento italiano per la tutela dei beni
ambientali in generale o dell’acqua in particolare ma è stata inserita nell’“Ordinamento
delle autonomie locali” come istituzione municipale (legge n. 142 del 1990,
riformata con le leggi 120 e 265 del 1999) per consentire a ciascun elettore di
fare valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al comune[19].
Anzi, la specifica legislazione ambientale ha ribadito che «L'azione di
risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, è
promossa dallo Stato, nonchè dagli enti territoriali sui quali incidano i beni
oggetto del fatto lesivo», circoscrivendo l’intervento dei cittadini alla
possibilità di «denunciare i fatti
lesivi di beni ambientali dei quali siano a conoscenza» e/o «intervenire nei giudizi per danno
ambientale e ricorrere in sede di
giurisdizione amministrativa per l'annullamento
di atti illegittimi»[20].
Tuttavia, la azione popolare è stata individuata e ‘salutata’ come lo strumento
per la tutela efficiente–efficace dell’ambiente e, in questa prospettiva, ad
essa si è connesso addirittura il ripensamento della natura stessa dello Stato.
La tensione attuale alla (re)introduzione della “azione popolare”[21]
postula, infatti, niente di meno che la sostituzione della equazione hobbesiana
“popolo = Stato”[22]
con la equazione giustinianea “Popolo = tutti i cittadini”[23].
Siamo, dunque, dinnanzi alla crisi,
cioè a fenomeni di incrinatura della
logica privatistico/economicista e statualistica/positiva sia negli ordinamenti
nazionali, con la comparsa di un diritto pubblico degli uomini accanto al
diritto pubblico dello Stato, sia nell’ordinamento inter–nazionale, con la
comparsa di un diritto sopra–nazionale,
il quale pure ‘vede’ gli uomini e non –soltanto– gli Stati, e con la
individuazione di strumenti corrispondenti di tutela processuale.
Si tratta, però, di ‘innesti’ episodici, frammentari e
contraddittori, non promossi né guidati da una interpretazione scientifica
generale (storico–sistematica) e, quindi, soltanto parzialmente efficaci nonché
a rischio grave di non ‘attecchimento’. Ciò si spiega –a mio avviso– proprio
con il fatto che tali ‘innesti’ sono manifestazioni di ri–comparsa di un sistema giuridico, quello romano, programmaticamente “dimenticato”[24]
con il sorgere dell’era contemporanea (dopo esserne stato la forza maieutica
principale) precisamente per la sua irriducibilità all’ordine
economicistico/privatistico e statualistico/positivo, che si afferma nell’800.
2.
La soluzione mediterranea: il diritto
romano e l’acqua
L'ordine giuridico odierno, di cui abbiamo evidenziato le
caratteristiche e constatato la inadeguatezza e la crisi, è l’esito di un
complesso di fenomeni tra loro connessi (propri della epoca contemporanea e del
continente europeo): α) il
prevalere, alla fine del 700, del costituzionalismo statual/rappresentativo
(già teorizzato da Hobbes)[25]; β) la sostituzione, nel ruolo di
scienza guida, della scienza giuridica con la nuova scienza economica del
“mercato” (teorizzata dai cosiddetti “illuministi scozzesi”)[26];
γ) la riduzione del Diritto al diritto privato, circoscritto al
diritto di proprietà e al diritto delle obbligazioni (teorizzata da Savigny)[27]; δ) la ri–costruzione del ‘Diritto
pubblico’ come “Diritto dello Stato” al servizio del mercato, secondo criteri
della scienza economica, e a partire dall'unica scienza giuridica rimasta,
quella –appunto– privatistico/patrimoniale (teorizzata da Mommsen e da Kelsen).
Questo complesso di fenomeni è il prevalere nella epoca
contemporanea di un modello giuridico anglosassone, di matrice feudale,
sviluppatosi tra il secolo XIII e il secolo XVIII nel- e intorno al parlamento
inglese e auto–definentesi “moderno” e “del nord” (François Hotman –
Montesquieu)[28]
su e contro il modello giuridico romano, quale si esprime compiutamente nella
opera dell'Imperatore Giustiniano, il Corpus
Juris Civilis (528–534 d.C.) sintesi
della cultura mediterranea antica[29] e,
quindi, convissuto, in Africa e in oriente, con la esperienza islamica e, in
Europa e in occidente –appunto– con la esperienza feudale.
Giustamente e senza enfasi, è stato denunziato come “tragico errore” il pensare, purtroppo
oggi ancora diffuso, che «solo la dislocazione planetaria delle coordinate
nord-atlantiche della cultura possa giovare allo sviluppo dei popoli» perché,
invece, «non deve darsi assolutamente per scontato che la cultura mediterranea
sia meno adatta di altre nel propiziare nuovi scenari evolutivi e nuove vie di
comunicazione tra i popoli del nostro mare, e tra questi ultimi e tutte le
altre genti»[30].
Realmente (come osserviamo esaminando la materia della disciplina
giuridica delle acque) appare, anzi, necessario sostituire la prospettiva
anglosassone nordica con la prospettiva giusromanistica mediterranea
(salvo il dialogo da aprire con il sistema islamico) per una ragione
particolare e per una ragione generale.
La ragione particolare è la attenzione, rivolta sino dai tempi
più risalenti, da parte del Diritto romano (ma anche del ‘diritto’ greco, cioè
della ‘cultura mediterranea’) rispetto ai diritti dei popoli del Nord, alla
specificità della cosa ‘acqua’ rispetto alla specificità della cosa ‘terra’.
Nel Diritto romano, tali distinzione ed attenzione passano attraverso gli
strumenti concettuali e gli istituti del ius
augurale. La importanza dei ‘Wassergrenzen’ presso i
Greci e i Romani, dai quali si trasmette «in den romanischen Volksistinkt und
die französische Völkerrechtsauffassung» è stata spiegata, presso la dottrina
giuridica tedesca, con la scarsità d’acqua dei paesi del Mediterraneo (“Die
ganze mediterrane Grenzausbildung ist die eines zunehmend austrocknenden
Landes”) e vi si contrappone la concezione germanica: «Dem Germanen, wie
überhaupt dem Menschen aus niederschlagsreichen Gebieten, widerstrebt die
Teilung des Fluβ- oder Stromgebietes; der Fluβ, der Strom, sein Einzugsland ist ihm ein
Ganzes»[31].
La ragione generale è che agli elementi negativi ‘di crisi’ dell'ordinamento giuridico odierno corrispondono
o essi portano in sé, altrettanti orientamenti positivi, i quali consistono precisamente nella ri–comparsa del
Diritto romano ‘di Giustiniano’. Questo, infatti, è caratterizzato: α) dalla concezione delle personae (gli ‘attori’ del diritto) esclusivamente
come uomini[32]
(con esclusione, cioè, delle cosiddette ‘persone giuridiche’, entità
fittizie/artificiali ed astratte quale è, per antonomasia e in maniera
paradigmatica, lo Stato/persona) e sempre organizzati come comunità/società (in
un sistema concentrico, che va dalla famiglia al popolo della respublica municipalis, al popolo della respublica imperii, alla umanità) anche
quando operano uti singuli, ciò che
comporta la distinzione ma non la separazione tra diritto privato e diritto
pubblico, tra persone private e persone pubbliche; β) da una concezione non riduttivamente
privatistico/economica ma decisamente più ampia e articolata delle ‘cose’ (le res, la cui classificazione è
particolarmente complessa[33]), e γ)
dalla concezione dei loro rapporti (sia di diritto sostanziale sia di diritto
processuale) intanto ancora in chiave di distinzione anziché di separazione[34]
e, quindi, non come insieme di norme (im)poste dallo ‘Stato’ in quanto il più
forte ma come ‘sistema di regole di natura’, da definirsi –prima di tutto–
attraverso una attività scientifica ricognitiva/creativa: come ius che è semper bonum et aequum in quanto naturale e/o che è naturale
in quanto semper bonum et aequum.
Proprio questo terzo fattore, di caratterizzazione del sistema
giuridico romano a fronte degli ordinamenti giuridici odierni (cioè la
concezione sistematica gius–naturale anziché ordinamentale gius–positiva)[35],
può costituire punto di partenza di un ragionamento organico de iure condendo per la costruzione di
un diritto sostanziale dei “beni ambientali” e, in particolare, dell’acqua come
“patrimonio comune della umanità” e della loro tutela processuale contro i
rischi della privatizzazione e dell’inquinamento.
In luogo della logica di un diritto, che è e che vuole essere un
ordinamento statuale/giuspositivo (cioè pre–potente) e
privatistico/patrimoniale (cioè economicista) ma che si scopre inadeguato ed
entra, pertanto, in crisi, il Diritto romano offre la possibilità di un
approccio al mondo (delle “persone” e delle “cose” e delle loro relazioni[37])
che –quanto meno– vuole essere un
sistema pubblico/giusnaturale e che –quanto meno– tenta di essere “buono ed equo”.
Il Corpus Juris Civilis
dell’Imperatore Giustiniano letteralmente inizia dal- e si fonda sul
postulato della esistenza eterna ed immutabile di un “diritto naturale” semper bonum et aequum e fa della
scienza del diritto la ricerca di- e la approssimazione continue a tali bonum et aequum:
Paul. D. 1.1.11 Ius pluribus modis dicitur.
Uno modo, quum id, quod sempre aequum ac bonum est, ius dicitur, ut est ius
naturale;
Ulp. D. I. 1. 1 pr. [...] ut
eleganter Celsus definit, ius est ars boni et aequi; 1. Cuius merito quis nos sacerdotes appellet; iustitiam nacque colimus,
et boni et aequi notitiam profitemur.
Nella concezione giuridica romana, espressa nel Corpus Juris Civilis, il diritto si articola in tre grandi sfere
concentriche, la più ampia e risalente delle quali è il ius naturale, che omnia animalia docuit[38],
cui fanno séguito il ius gentium, che
è commune omnium hominum e del quale omnes gentes utuntur, ed il ius civile che è proprium ipsius civitatis e che quisque
populus ipse sibi constituit.
Il Corpus Juris Civilis
presume una fase ‘storica’ di impero esclusivo del ius naturale; essa
coincide con una età originaria, una età dell'oro (di cui –appunto– si presume
l'esistenza storica) caratterizzata dalla appartenenza e dal senso della
appartenenza degli uomini (e degli altri
esseri animati) ad una medesima natura
(durante il regno dell'aureus Saturnus non
esisteva la impia gens che per prima, nell'età del bronzo, banchettò con gli animali uccisi:
Virgilio G. 2.537)[39],
dalla assenza di guerre, dalla assenza di schiavitù e dalla assenza di proprietà
privata, introdotte successivamente dagli uomini. Lo schema argomentativo della
teoria del ius naturale che riconduce
tale ius a un inizio felice della
storia degli uomini, anteriore cioè alle lotte e divisioni prodotte dalla
‘società’, si trova ripetutamente nelle Institutiones
di Giustiniano (1.2)[40], nei
Digesta (1.1.4 e 5[41];
40.11.2) e anche nelle costituzioni (cfr. p. es. Nov. 74; 78; 89).
Il ius naturale, considerato di origine divina e immutabile,
Inst. 1.2.11 Sed naturalia quidam
iura, quae apud omnes gentes peraeque servantur, divina quidam providentia
constituta semper firma atque immutabilia permanent (cf. Marcian.
D. 1.3.2)
non costituisce –soltanto– uno sfondo ideale o idealizzato del ius Romanum,
ma, proprio per la natura di ‘sistema’ di questo, ne è parte integrante, fonte
di ispirazione, criterio di interpretazione, elemento originario e –al
contempo– elemento teleologico. La tensione teleologica del Diritto romano al ius naturale è stata individuata nel fenomeno dell’“universalismo” di questo
diritto (civitas augescens, estensione
della cittadinanza romana a tutto l'impero [constitutio
Antoniniana del 212 d.C.] sino
alla scomparsa della nozione di peregrinus/straniero),
fenomeno che è precisamente l'opposto
del fenomeno odierno cd. della ‘globalizzazione’.
Possiamo, quindi, parlare di “operatività” del ius naturale ed essa è stata osservata soprattutto a proposito
del diritto delle personae.
«La concezione giustinianea e, in parte, già quella cd. classica
del diritto romano presuppongono un’età originaria in cui era sconosciuta la servitus (D. 1. 1.4). Singole norme e istituti sottolineano l’eguaglianza
degli uomini, basti pensare alle materie delle obbligazioni naturali (p. es.
Tryphon. D. 12.6.64, circa il debito
del padrone nei confronti del servo; Iavol. D. 35.1.40.3; Ulp. D. 44.7.14 [...] ), del matrimonio (p. es., circa la
difesa dei nuclei familiari servili, Ulp. D.
21.1.35 [...]), delle manomissioni (ove sempre più si afferma il principio
del favor libertatis). Anche per
questo aspetto dell'operatività dello ius
naturale attraverso lo ius Romanum, un approfondimento teorico è raggiunto nei Digesta di Giustiniano grazie a un frammento di Marciano: il
carattere storicamente non originario della schiavitù spiega la possibilità
della natalium restitutio, da cui consegue l'equiparazione
dei liberti con gli ingenui (Marcian. D. 40.11.2 ... )»; «Marciano è il primo giurista presso cui troviamo una classificazione delle fonti
della schiavitù; e tale classificazione sottolinea che l'istituto, proprio
dello ius gentium, è contrario al ius naturale (il giurista romano si oppone così radicalmente alla dottrina
aristotelica secondo cui i barbari erano ‘per natura’,
φύσει, destinati ad essere schiavi ...)»[42].
Precisamente sulla scorta del ius
naturale, Giustiniano (I. 2.1 pr.)[43]
individua la categoria delle res communes
omnium, la quale è certamente
‘distinta’ dalla categoria delle res
publicae[44]
ma nel senso che va ‘oltre’ questa categoria, come è evidenziato dall’elemento
caratterizzante –proprio a entrambe le categorie– di essere communes.
La esistenza di cose che, per diritto naturale, sono ‘comuni’ oltre la comunità pubblica, dà forza a
questa comunità ed essa, il “coetus
multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus” (Cic. rep. 1.25.39), dà consistenza alla
postulata originaria e –perciò– sempre erigenda “societas hominum” (Cic. off.
1.17.53 s.).
Proprio la dottrina (ancora marcianea: D. 1.8.2 pr.; cf. 1.8.4 e 6)[45]
delle res communes omnium precisa e consolida la sfera del ius naturale,
riguardo al quale tutti gli uomini sono eguali, come si afferma ancora in D. 50.17.32, con un frammento di
Ulpiano: quod ad ius naturale attinet,
omnes homines aequales sunt.
Ora, è notevole che le
cose indicate, per diritto naturale e –quindi– per Diritto romano, “comuni a tutti”
e delle quali, quindi, nessuno può impossessarsi e impadronirsi (da non
confondere assolutamente con il loro opposto: le res nullius[46], le
cose di nessuno e delle quali, quindi, chiunque può impossessarsi ed
impadronirsi[47])
sono precisamente l'aria e l'acqua: l'aqua
profluens[48] ed
il mare con i suoi litora[49].
Ed ancora più notevole (almeno rispetto all'ordine giuridico odierno ed
alla cultura che lo contiene) è che
la prima ‘acqua’ ad essere menzionata come res
communis omnium non è –come si sarebbe potuto pensare– l'acqua del mare ma
l'acqua che fluisce, l’aqua profluens, l'acqua dei fiumi, l’acqua che
(con il suo moto circolare dalla terra al mare e dal mare alla terra,
attraverso l'aqua pluvia) assicura la continuità della vita. E’
importante la differenza giuridica (di natura e di regime) tra l'alveo e le
rive del fiume, che sono, rispettivamente, res
publica e res privatae soggette
ad uso pubblico, e l'acqua del fiume,
che è communis omnium[50].
In effetti, è stato osservato che, nel Diritto romano, la nozione
di ‘natura’ riferita a cose inanimate si trova “anzitutto” in “una serie di
testi relativi al regime delle acque” cosicché «Di natura e naturaliter è pieno tutto il titolo delle Pandette “de aqua et aquae pluviae arcendae” »[51].
In questo contesto, si può intendere anche l'espressione
–altrimenti enigmatica– dell'imperatore Antonino Pio (II secolo d.C.),
riportata dal giurista Volusio Meciano (ex
lege Rhodia) e conservata in D. 14.2.9:
έγω
μέν του xόσμου
xύριος, ό δε
νόμος της
θαλάσσης[52] (Io
sono il signore del cosmo ma il diritto è [signore] del mare).
Se l’aqua profluens ed
il mare con i suoi litora sono “comuni a tutti gli uomini”,
tutti gli uomini hanno il diritto sostanziale ad usarne, secondo le
caratteristiche proprie di questo genere di cose, cioè –in quanto comuni– senza appropriarsene, e tutti
gli uomini hanno il diritto processuale alla tutela del diritto sostanziale,
sempre secondo le caratteristiche proprie di questo genere di cose, cioè
indipendentemente da un rapporto di credito o reale di tipo privato nei
confronti della persona o della cosa contro o per cui si agisce. Tale tutela è
garantita attraverso la combinazione di due istituti caratteristici del Diritto
romano, le actiones populares e gli interdicta popularia.
Nella origine, che si fa risalire alla epoca del processo per legis
actiones, e ancora nel contesto del processo per formulas, la tutela perseguita mediante la richiesta di
interdetto appare distinta dalla tutela perseguita mediante azione,
appartenendo questa seconda alla sfera della tutela giudiziaria e mirando alla
determinazione di una lite; appartenendo, invece, la prima alla tutela (che noi
chiamiamo) amministrativa e mirando alla tutela di uno stato di fatto.
Possiamo, pertanto, definire separatamente la azione popolare e
l’interdetto popolare.
«Accanto alle azioni private, che mirano alla tutela di interessi
privati, il diritto romano conobbe una particolare categoria di azioni dette
popolari, le quali erano date al cittadino per la tutela dell’interesse
pubblico. Paolo dà la seguente definizione: “Eam popularem actionem dicimus, qua suum ius populi tuetur” (Dig. 47.23.1)»[53].
«L’interdetto è un ordine di fare o non fare qualcosa rivolto dal
magistrato ad un privato su domanda di un altro privato» per tutelare i «Rechte
und Errichtungen, die dem öffentlichen Wohl dienen» e die «öffentliche Ordnung
zu schutten»; quando l’oggetto della tutela interdittale è direttamente
pubblico, l’interdetto è ‘popolare’, come la azione omonima[54].
Tuttavia, nella terza fase storica del processo romano –la fase,
cioè, della cognitio extra ordinem–
si produce una “sostanziale commistione tra interdetti e azioni”[55]
in conseguenza anche del ruolo paradigmatico dello schema della tutela
interdittale nella genesi stessa del processo extra ordinem[56]. Con
riferimento allo stato del diritto del CJC,
possiamo parlare, pertanto, della azione popolare come cumulativa dei due mezzi
di tutela, le actiones populares e
gli interdicta popularia, i quali
hanno in comune la pubblicità del bene tutelato e la iniziativa da parte del quivis de populo[57].
E’ evidente che è precisamente la combinazione di questi due
elementi, la quale consente di sottrarsi all’‘impasse’ del diritto odierno,
caratterizzato dalla circoscrizione della tutela delle acque pubbliche (come di
ogni cosa pubblica) alla “cronica e incessabilmente inadeguata sorveglianza
dello Stato”[58].
Ciò spiega i tentativi ripetuti, dal secolo XIX ai giorni nostri[59],
di inserimento della azione popolare negli ordinamenti giuridici nazionali, tra
i quali quello italiano. Si tratta, però, di un inserimento non semplice, in
quanto la azione popolare (con i suoi due elementi caratteristici della
iniziativa privata e della pubblicità del bene tutelato) è espressione di un
sistema giuridico il quale è alla base dagli ordinamenti giuridici odierni e,
al contempo, ne è profondamente diverso proprio perché, in esso, la titolarità
e l’esercizio di diritti e potestà private e di diritti e poteri pubblici coincidono nelle persone degli uomini: i
cittadini[60]
ma con aperture importanti verso i peregrini. I tentativi di conciliare la
azione popolare con le caratteristiche degli ordinamenti giuridici odierni
economicisti–privatisti e statualisti–positivi attraverso teorie quali quelle
della “azione procuratoria”, della “sostituzione processuale” e della
“legittimazione per categoria” sono troppo spesso condizionati da una
incomprensione di fondo del sistema giuridico romano, la cui diversità dagli
ordinamenti giuridici odierni è interpretata –in maniera veramente miope– come
«imperfetto sviluppo della personalità giuridica dello Stato romano»[61].
Va, peraltro, riconosciuto che la responsabilità maggiore di tale
incomprensione è da ascriversi (con onorevolissime eccezioni) agli stessi
romanisti. E’ manifestazione macroscopica di tale responsabilità il fatto che è
pressoché impossibile trovare riferimenti alla azione popolare nei manuali di Diritto
romano[62],
anche nelle loro ultime versioni, così che gli studenti e i laureati in
Giurisprudenza, normalmente, ne ignorano la esistenza. La stessa azione
popolare romana attende uno studio aggiornato che ne chiarisca –ad esempio– la
estensione della legittimazione attiva tra cives
e peregrini.
Tuttavia e fortunatamente –proprio in riferimento alla
ri–proposizione odierna della azione popolare per la tutela dei beni
ambientali– si possono registrare tra i giuristi positivi orientamenti recenti,
volti al recupero cosciente e, quindi, corretto di istituti appartenenti al
sistema giuridico romano, non avulsi dalla logica di quel sistema, la quale
logica anzi si cerca di comprendere e di sostituire alla logica degli
ordinamenti giuridici odierni[63].
Per ottenere risultati consistenti, è, ora, necessario, da parte
di giuristi positivi e di romanisti, il lavoro interdisciplinare di
interpretazione storica e dogmatica, al fine di individuare e costruire
istituti di diritto sostanziale e processuale, i quali saranno strumenti
efficienti ed efficaci nei risultati soltanto se inseriti in- ed espressione di
un sistema giuridico organicamente e
complessivamente adeguato.
[1] Questo scritto riproduce, con qualche integrazione, il testo di una
mia comunicazione, rivolta ad un pubblico di non soli giuristi, nel Convegno
internazionale “Religioni e civiltà del Mediterraneo. Cultura e sistemi
economici e territoriali", tenutosi a Roma, dal 5 al 9 settembre 2000.
Anche per ragioni di tempo, gli ho lasciato la impostazione schematica e il
ridotto apparato di fonti e di dottrina. In materia di diritto romano e
ambiente, non posso però esimermi dal ricordare la monografia fondamentale di
A. Di Porto, La tutela della salubritas
fra editto e giurisprudenza I Il
ruolo di Labeone, Milano 1990 e quella recentissima di G. Sanna, Tutela giuridica dell’ambiente. Normativa e dottrina, Sassari 2004.
[2] Vedi Simona Bertoglio,
La sete mondiale,
Milano 6 dic. 1999 e L'acqua: un
‘diritto umano fondamentale' in Ed. Ambiente Srl Milano © 1997 – 2000 ( http://reteambiente.it/news/SB
).
[3] Marco con virgolette l’aggettivo ‘divisa’ perché non si tratta
soltanto di una distinzione ma di una
vera e propria separazione tra le due
entità. E’, anche questa, una caratteristica degli ordinamenti odierni, la
rilevanza della quale si intende nel prosieguo della esposizione.
[6] E/o agli altri Enti pubblici, che sono –comunque– parti/creature
dello Stato (orientamenti riformatori a parte: si pensi alle riforme e ai
progetti di riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione italiana).
[11] Ciò, in qualche modo, dà ragione anche della implosione degli
ordinamenti socialisti, oramai defunti, nei quali il diritto soggettivo di
proprietà era –tendenzialmente–
soltanto dello Stato.
[12] Come osserva G. Astuti,
Acque. Introduzione storica generale, in Enciclopedia del Diritto. I, Milano 1958, 348 «concezioni privatistico–patrimoniali
tipiche degli ordinamenti feudali».
[13] Sul ruolo fondamentale del contributo hobbesiano alla
costruzione prima moderna e quindi contemporanea dello Stato, fino alle teorie
di Kelsen e oltre, v. G. Lobrano,
Res publica res populi. La legge e la
limitazione del potere, Torino 1996, 245 ss.
[14] Il ‘Welfare State’, iniziato con le prime assicurazioni sociali,
volute da Bismark nel 1880 (P. Flora
e J. Alber, Sviluppo del
Welfare State e processi di modernizzazione nell’Europa occidentale, in P. Flora e A.J. Heidenheirmer [a cura di], Lo sviluppo del Welfare State in Europa e in America, Bologna 1983,
12), peraltro interpretato anche come forma di controllo di quelle parti della
popolazione che il progresso capitalistico mette da parte come inutile,
incapace o inadatta (Y. Meny e
J.C. Thoenig, Le politiche pubbliche, Bologna 1991, 25 ss.) è entrato in crisi
appena cento anni dopo, con la svolta secca della amministrazione statounitense
del presidente Reagan (G. Amato, Democrazia e redistribuzione, Bologna
1983, 95 ss.), che traduce in atti di governo la critica alle teorie keynesiane
da parte degli economisti della cosiddetta ‘scuola di Chicago’: Milton
Friedman, padre del ‘monetarismo’, George Stigler, teorico della
‘deregolamentazione’, e Ronald Coase studioso dei costi di transazione e dei
diritti di proprietà, i quali riprendono la linea degli illuministi scozzesi
(v., infra, nt. 26). A questa stessa linea può ricondursi il filosofo italiano
del diritto, Bruno Leoni, il quale, in un saggio scritto in inglese nel 1961 (La libertà e la legge, tradotto in
italiano soltanto nel 1994) propugna il ricorso alla ‘common law’, in quanto
più consona ai diritti individuali e alle esigenze del mercato.
[16] Sulla differenza tra inter-nazionale e sopra-nazionale v. P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965.
[17] Branca–Alpa, op. cit.
17; v., ora, il D.Lgs. 29 ottobre 1999 n. 490 “Testo unico delle disposizioni
legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1
della L. 8 ottobre 1997, n. 352”, in part. il Tit. II “Beni paesaggistici e
ambientali”.
[19] Art. 7 «Azione popolare, diritti d’accesso e di informazione ai
cittadini. § 1. Ciascun elettore può far valere in giudizio le azioni e i
ricorsi che spettano al comune».
[20] Art. 18 della legge n. 349 del 1986, istitutiva del Ministero
dell'ambiente, quindi riformata con le leggi 265 del 1999, 388 del 2000 e 93
del 2001.
[21] E’ assolutamente notevole che l’art. 7 (introduzione della
azione popolare nell’ordinamento comunale)
è inserito nel Capo II della legge, rubricato “Partecipazione popolare” e
costituito di tre articoli, 6, 7 e 8, di cui il primo disciplina la
“Partecipazione popolare” e il terzo il “Difensore civico”: la riproposizione
di elementi strutturali importanti del sistema giuridico repubblicano romano è
tanto più straordinario in quanto –apparentemente– non programmato e –forse–
neppure avvertito dal legislatore.
[23] Sulla nozione di popolo come insieme di cives, v. P. Catalano,
Populus Romanus Quirites, Torino 1974.
[24] Di “concetto dimenticato”, nel corso dell’evo contemporaneo,
scrive, a proposito di una istituzione fondamentale del diritto pubblico
romano, riproposta nel 700, P. Catalano,
Un concetto dimenticato – potere negativo, in Aggiornamenti sociali, 9–10, 1994.
[26] E’ la c.d. “scuola illuministica scozzese” a produrre la nuova
scienza della economia, caratterizzata dalla fondazione su “leggi del mercato”,
di cui i ‘costituzionalisti’ si fanno, ancillarmente, carico. Ai filosofi scozzesi
David Hume (1711–1776), Adam Ferguson (1724–1816) e Adam Smith (1723–1790), la
dottrina connette, sotto il comune denominatore dell’‘individualismo liberale’,
i precedenti John Locke (1632–1704) e Bernard de Mandeville (1670–1733), i
contemporanei Josiah Tucker (1712–1799), Edmund Burke (1729–1797) e William
Paley (1743–1805), i quali attingono alla tradizione della common law, i francesi Montesquieu e Alexis de Tocqueville
(1805–1859). Semplificando, possiamo dire, che dopo la parentesi keynesiana,
questa scienza è nuovamente imperante. Ad onta, infatti, della eco suscitata
dal saggio “The Tragedy of Commons”, pubblicato nel 1968 sulla rivista Science,
il cui autore Garret Hardin rilevava gli effetti disastrosi della razionalità
di tipo privato per i beni comuni via via più scarsi e più richiesti, si veda,
ad esempio, il saggio recente di Michel Rosenfeld, uno dei giuristi più noti
negli Stati Uniti, ‘Professor of Law’ della Benjamin Cardozo School of Law di
New York, sul fondamento economico dell’etica, del diritto e della politica.
Rosenfeld, richiamandosi alle teorie di Adam Smith e citando A.R. Posner, Economic Analysis of Law2,
Boston–Toronto 1977; Id., The
Economics of Justice, Cambridge [Mass.] 1981 (secondo il quale le regole e
i principi giuridici devono interpretarsi in modo da promuovere la
“massimizzazione della ricchezza”) afferma che i soggetti i quali partecipano
al mercato hanno l’obbligo morale di perseguire in maniera egoista il proprio
interesse (M. Rosenfeld, Interpretazioni.
Il diritto fra etica e politica, tr. it., Bologna 2000, in part. 38 e 78
ss.; v. V. di Cagno, Derecho
romano y Common Law. Comparación entre algunos valores de la civilización
humana, comunicazione al Seminario Caribeño de Derecho romano, La Habana,
febbraio 2004; cfr., supra, nt. 14).
[27] Heutiges römisches Recht, 1840-49. In proposito, v. G. Lobrano, Del Defensor del pueblo al Tribuno de la plebe:
regreso al futuro, in UGMA Jurídica –
Revista de la Facultad de Derecho – Universidad Gran Mariscal de Ayacucho (Barcelona–Estado
Anzoátegui–Venezuela) Año 2/ n. 2/ 2003, 9-36 e in Roma e America. Diritto romano comune. Rivista di Diritto dell’integrazione e
unificazione del diritto in Europa e in America Latina, Università di Roma Tor Vergata 2003.
[29] Sulla specificità della compilazione giustinianea rispetto al
diritto romano precedente e sul nesso tra tale specificità e la influenza del
pensiero cristiano si è sviluppata una abbondante dottrina. E’, peraltro, ovvio
che anche il pensiero cristiano è influenzato dalla scienza giuridica romana.
Si vedano A. Barzanò, Il cristianesimo nelle leggi di Roma
imperiale, Milano 1996; G. Baviera,
Concetto e limiti dell’influenza del
ciristianesimo sul diritto romano, Paris 1912; Id., La codificazione giustinianea e il cristianesimo,
Pavia 1935, estr. da Atti Congr. Int.
Dir. Rom. (Roma 1933) II; B. Biondi,
Il diritto romano cristiano, 3 voll.,
Milano 1952-54; C. Gray, Il diritto nel Vangelo e l’influenza del
cristianesimo sul diritto romano, Roma 1922; L. Orabona, Cristianesimo
e proprietà: saggio sulle fonti antiche, Roma 1964; J.M. Palacio, Concetto cristiano della proprietà, tr. it. di A. Fanfani, Milano
1937; S. Riccobono, L’influenza
del cristianesimo nella codificazione di Giustiniano, in Scientia vol. V, anno III, Bologna 1909;
A.N. Shervin-White, Roman Society and Roman Law in the New Testament, Oxford 1963; P.E.
Taviani, La proprietà privata nel pensiero cristiano, Milano 1937; R.T. Troplong, De l’influence du christianisme sur le droit civil des Romains,
Paris 1844.
[30] S. Berlingò, Dal
mare nostrum al
mare aperto. Contributo per un’ermeneutica ‘mediterranea’ dei sistemi giuridici,
in F. Sini e P.P. Onida (a cura di), Poteri religiosi e istituzioni. Il culto di San Costantino imperatore
tra oriente e occidente, Torino 2003.
[31] K. Haushofer,
Grenzen in ihrer geographischen und
politischen Bedeutung, Berlin 1927, 74 s.; 162 ss. (citato da P. Catalano,
Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano, in W. Haase [hrsg.], ANRW II Principat 16. 1, Berlin–New York 1978, 512 nt.302). Si noti, inoltre, che, secondo C. Gray,
Il diritto nel Vangelo e l’influenza del
Cristianesimo sul diritto romano, 1922, riedizione anastatica Roma 1972,
77, il massimo delle limitazioni al diritto di proprietà, nel diritto
giustinianeo, lo si raggiunge precisamente nel regime delle acque. Giustiniano
avrebbe, infatti, regolato il diritto dell’acqua, bene di tutti e di nessuno,
secondo il principio della “carità giuridica”.
[32] In proposito, v. P. Catalano,
Diritto e persone: studi su origine e
attualità del sistema romano, Torino 1990.
[33] Fermandomi alle categorie principali, ricordo che le fonti
giuridiche romane distinguono le cose: α)
secondo il carattere della corporeità, fra res
corporales e res incorporales, β) secondo la loro condizione
giuridica, fra res mancipi e res nec mancipi, res in patrimonio e res extra
patrimonium, res in commercio e res extra commercium, res divini iuris (res sacrae, res religiosae
e res sanctae) e res humani iuris (res
privatae, res publicae, res universitatis e res communes omnium), γ)
secondo altre caratteristiche, fra res
soli e le altre res (mobili), res quae usu consumuntur e le altre res (inconsumabili), res quae sine interitu dividi non possunt
e le altre res (divisibili), corpora quae ex uno spiritu continentur
(cose semplici) corpora ex coharentibus
(cose composte) e corpora ex distantibus
(cose complesse) e, ancora, δ) individuano
le partes o portiones (parti di cose), gli instrumenta
e ornamenta (cose accessorie) e i fructus (frutti naturali e civili delle
cose). Cfr. (ad es.) A. Burdese, Manuale di Diritto privato romano4,
Torino 1993, 166 ss.
[34] Gli uomini sono concepiti e indicati dai giuristi romani sia
come res sia come personae a seconda del ruolo giuridico
da essi svolto e lo stesso uomo può transitare, con –relativa– facilità, dal
ruolo di persona al ruolo di res e viceversa. Cfr. inoltre, infra, nt. 37.
[35] Sul nesso tra la concezione del diritto come sistema (anziché come ordinamento) e sulla capacità
–conseguente– di concepire la operatività (v. infra) del diritto naturale, resta fondamentale la riflessione di
Catalano, per la quale rinvio alla ricostruzione effettuatane recentemente in
P.P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano, Torino 2002, 128 ss.
[36] La questione del ius
naturale e, in particolare, della sua applicazione in materia di acque è
–ovviamente–complessa, anche perché si tratta di una elaborazione che (pure
affondando le proprie radici in un passato arcaico) raggiunge la maturità
soltanto in epoca relativamente avanzata, cioè nel secolo III dopo Cristo. Per
questo argomento, mi sono avvalso della sintesi fattane da P. Catalano nella voce “Giustiniano” della Enciclopedia Virgiliana,
Roma 1985, s.v., sintesi che
spero di non tradire.
[37] Ai giuristi romani non fa specie pensare i diritti reali come relazioni
tra persone e cose (distinguendoli, così, dai diritti di obbligazione, pensati
come relazioni tra persone), mentre i romanisti ‘germanici’ contemporanei
sentono il bisogno di concepire sia i diritti reali sia i diritti di
obbligazione soltanto come relazioni tra persone: assoluti i primi, relativi i
secondi. Ph. Didier, Les
diverses conceptions du droit naturel à l'oeuvre dans la jurisprudence romaine
des IIe et IIIe siècle, in SDHI 47
1981, 195 ss. pensa ad un «panthéisme diffus qui est la marque de la pensée
antique» e lo pone in relazione con il formarsi della idea romana del ius naturale.
[38] Ivi compresi gli animali non umani; v. ancora P.P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano, cit., passim.
[39] «Quei tempi vengono descritti, per spiegare –da un punto di
vista giuridico‑religioso– i Saturnalia e con riferimento alla poesia di
Virgilio, da Macrobio (Sat. 1.7.18 ss. [...] 23 s. [...] 26 ... G.[eorgiche di
Virgilio] 1.126 s. [...] Macr. Sat. 1.8.3)»; «l’età dell'oro è caratterizzata,
anche secondo V.[irgilio], dalla mancanza della proprietà privata [...] e della
schiavitù. Il quadro della mancanza di proprietà privata e di schiavitù non è
diverso da quello implicito nei passi [...] di Marciano, Ulpiano, Ermogeniano,
Giustiniano» (Catalano, Giustiniano,
cit., 763).
[40] Inst. 1.2 pr. Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit, nam ius istud non
umani generi proprium est, sed omnium animalium, quae in caelo, quae in terra,
quae in mari nascuntur. Hinc descendit maris atque feminae coniugatio, quam nos
matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio et educatio: videmus etenim
cetera quoque animalia istius iuris peritia censeri (cf. Ulp. D. 1.1.1.3); Inst. 1.2.2 ... Ius autem gentium
omni humano generi commune est. Nam usu exigente et humanis necessitatibus
gentes humanae quaedam sibi constituerunt: bella etenim orta sunt et
captivitates secutae et servitutes, quae sunt iuri naturali contrariae. Iure
etenim naturali ab initio omnes homines liberi nascebantur. Ex hoc iure gentium et omnes paene contractus introducti sunt, ut emptio
venditio, locatio conductio, societas, depositum, mutuum et alii innumerabiles.
[41] Ulp. D.
1.1.4 Manumissiones quoque iuris gentium
sunt. Est autem manumissio de manu missio, id est datio libertatis; ... quum
iure naturali omnes liberi nascerentur, nec esse nota manumissio, quum servitus
esset incognita ...; Hermog. D.
1.1.5 Ex hoc iure gentium introduca bella
discretae gentes, regna condita, domina distinta, agris termini positi,
aedificia collocata, commercium, emptiones, venditiones, locationes,
conductiones, obligationes institutae, exceptis quibusdam, quae a iure civili
introductae sunt.
[43] ... [res] vel in nostro patrimonio vel extra nostrum patrimonium
habentur. Quaedam enim naturali iure communis sunt omnium, quaedam publica,
quaedam universitatis, quaedam nullius, pleraque singulorum ... Et quidam naturali iure communia sunt omnium
haec: aer et aqua profluens et mare et per hoc litora maris. Nemo igitur ad
litus maris accedere prohibetur, dum tamen villis et monumentis et aedificiis
abstineat, quia non sunt iuris gentium, sicut et mare.
[46] Come può accadere nel contesto degli ordinamenti positivi
odierni, per la mancanza del titolare delle res
communes. Sostiene, ad es. G. Astuti,
Acque. Introduzione storica generale, cit., 356, che «Dopo la fine del III
secolo, quando non si ravvisò più nel popolo romano il soggetto titolare delle res publicae e questa espressione
significò solo più cose destinate all’uso pubblico, i publica flumina si vennero a trovare, al par delle pubbliche vie,
in condizione giuridica che per un verso è quelle delle res communes omnium, e per l’altro delle res nullius, capaci di appropriazione».
[48] Vedi L. Capogrossi
Colognesi, Ricerche sulla
struttura delle servitù d'acqua in Diritto romano, Milano 1966, in
part. 52 ss. § II 6 “Il regime giuridico dell’aqua profluens”, con una posizione conclusiva che non condivido ma
con una valida messa a punto della stato delle fonti e della dottrina.
[49] Vedi, oltre M. Fiorentini,
Fiumi e mari nell’esperienza giuridica
romana. Profili di tutela processuale e di inquadramento sistematico,
Milano 2003; N. Charbonnel et M. Morabito, Les rivages de la mer:
droit romain et glossateurs, in RHDFE
4e série 65 1987, 23 ss.; J. Plescia,
The Development of the Exercise of the Ownership Right in Roman Law, in BIDR 3a serie 27 1985, 181 ss.; Id., The Roman Law of Waters, in Index 21, 1993, 433 ss.; G. Sanna, Il mare patrimonio
dell’umanità: l’esperienza giuridica romana, estr. da Aa.Vv., VI Settimana della cultura scientifica – 22-31 marzo 1996, Sassari
1996, 1 ss. Cfr. A. Malissard, Les Romains et l’eau,
Paris 1994; V. Mannino, Struttura
della proprietà fondiaria e regolamentazione delle acque per decorso del tempo nella
riflessione della giurisprudenza di età imperiale, in Aa.Vv., Uomo acqua e paesaggio. Atti dell’Incontro di studio sul tema
Irreggimentazione delle acque e trasformazione del paesaggio antico – 22-23
novembre 1996 [= Atlante tematico di topografia antica. II supplemento – 1997], 21 ss.
[51] C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e
degli istituti giuridici romani, Milano 1937, 25 ss.
[54] Da L. Capogrossi Colognesi,
Interdetti, in Enciclopedia del
Diritto XXI 1971, s.v. Le
citazioni in lingua tedesca rinviano a Berger,
Interdictum, in P.W. R. Enz.
IX pt. II, 1916, 1610 e s. Capogrossi interpreta così la formula di Paolo in D. 47.10.14 (ad privatas … causas accomodata interdicta sunt, non ad publicas):
«Nell’affermare questo principio il giurista romano doveva probabilmente
considerare il fatto che, presupposto per l’applicazione di qualsiasi
interdetto, anche di quelli relativi alla tutela dei beni pubblici, era
l’intervento di un interesse privat. Senza la richiesta di un privato cittadino
a ciò interessato infatti il magistrato non poteva emanare alcun interdetto».
[57] Nel libro 43 del Digesto
di Giustiniano, dedicato alla tutela interdettale, troviamo la tutela
dell'uso comune dell'aqua fluens (v.,
in part., D. 43. 13 “Ne quid in flumine publico fiat, quod aliter aqua fluat, atque uti priore
aestate fluxit”) e del mare (D. 43.12.1.17 Ulp. 68 ad ed. Si in mari aliquid fiat, Labeo competere tale interdictum: “ne quid in mari
inve litore” “quo portus, statio iterve navigio deterius fiat”).
[60] M. Fiorentini, Fiumi e mari nell’esperienza giuridica
romana, cit., 160 nt. 4
«Una felice panoramica della “fortuna” e del rapido oblio che toccò in sorte
all’azione popolare è tracciata da Di Porto,
Interdetti popolari, cit., 490 ss., con convincenti
osservazioni sulle motivazioni, tutte politiche, che portarono allo scorcio del
secolo XIX ad accantonare ogni ipotesi di riforma finalizzata ad introdurla nel
sistema processuale italiano. Già F. Casavola,
Studi sulle azioni popolari. Le ‘actiones
populares’, Napoli 1957, 1 ss., a ragione aveva riportato l’acceso
dibattito sulla natura delle azioni popolari al più generale problema della
posizione del cittadino nell’ambito dello stato liberale di tardo sec. XIX
(secondo la formazione di studiosi come Codacci-Pisanelli o Mommsen), nel quale
l’interesse dello stato era generalmente ravvisato come sovraordinato a quello
del cittadino; su questa base era difficile ipotizzare un personale interesse
dell’attore che agisse a tutela di un interesse pubblico. Ciò spiega per un
verso le resistenze sorte sul piano teorico contro l’idea dell’a. popolare come
prodotto di un interesse dell’attore, da cui scaturì l’interpretazione di tali
azioni in chiave meramente procuratoria, di cui si fece portatore in
particolare Mommsen; e per un altro, in punto di politica legislativa de iure
condendo, l’intransigente opposizione alle voci di Fadda e Scialoja favorevoli
alla sua introduzione nel sistema processuale italiano». La citazione completa
dello scritto di Di Porto è Interdetti popolari e tutela delle res in usu publico: linee di una indagine,
in Diritto e processo nella esperienza
romana, Atti del Seminario torinese (4 – 5 dicembre 1991) in memoria di
Giuseppe Provera, Napoli 1994, 481-520.
[61] Così A. Lugo, Azione
popolare, cit., 866.
Neppure posso condividere la variante secondo la quale il diritto romano
giustinianeo costituirebbe una sorta di ponte tra la concezione ‘concreta’ del populus dei cives della prima epoca repubblicana e la concezione ‘astratta’
dello Stato–persona moderno. Ritengo, invece, che la sistemazione giustinianea
sviluppa e consolida la concezione più risalente, come dimostra –esemplarmente–
proprio la dottrina del ius naturale.
[62] Già osservato da F.P. Casavola,
Fadda e la dottrina delle azioni popolari, in Labeo 1, 1955, 131 ss.
[63] Per quanto riguarda la situazione italiana, è degno di nota
l’importante orientamento giurisprudenziale della Corte dei Conti, sostenuto in
particolare dal già Procuratore della Corte dei Conti della Regione Lazio ed
ora Giudice costituzionale, Paolo Maddalena. Se ne veda il discorso di apertura
dell’anno giudiziario 2000 della Corte dei Conti della Regione Lazio. Cfr. la
‘vecchia’ sentenza della stessa ‘Corte dei Conti’ (15 maggio 1973) in Foro amministrativo 1973 e P. Maddalena, Danno pubblico ambientale, Rimini 1990; Id., Il diritto dell’uomo alla conservazione e gestione
del mare: azione e giurisdizione, in CERP – Centre
d’Etudes, de Recherches et de Publications, Les zones protegées en Méditerranée: Espaces, espéces et instruments
d’application des conventions et protocolles de la Méditerranée [= Actes du
Colloque de Tunis – Novembre 1993], Tunis 1995; Id.,
L’evoluzione della tutela ambientale e l’azione popolare prevista dall’art.
4 della legge 3 agosto 1999, n. 265, in Rivista
Amministrativa, 1999 (cfr., G. Lobrano,
Dalla rete di città dell’‘Impero municipale romano’ l’alternativa al pensiero
unico statualista anche per la ‘Costituzione’ europea, in Aa.Vv., Roma la convenzione e il futuro dell’Europa, Milano 2003, 47 ss.).