N. 3 – Maggio 2004 – strumenti – Note & Rassegne

 

 

Alcuni appunti sul Dizionario storico sardo di F.C. Casula*

 

 

Raimondo Turtas

Università di Sassari

 

[Questo scritto è stato già pubblicato in Rivista di storia della chiesa in Italia n. 2, 2002, 493-502.]

 

Anzitutto alcuni dati sulle dimensioni fisiche di quest’opera che sembra fatta apposta, anche col bel colore granata della sua rilegatura, per richiamare l’attenzione: 294mm.X224 (quindi, un formato in 4°), 3,914 kg., XIV+1925 pagine su due colonne, ciascuna di queste contenente in media oltre 3000 battute, ciò che porterebbe l’opera a circa 4000 pagine se essa fosse stampata in 8°. Destinata – secondo tutte le apparenze – ad essere uno strumento di lavoro, viene quasi voglia di suggerire ai bibliotecari di tenerla sempre aperta in un luogo ben preciso, quasi “dedicato”, della sala di lettura, in modo da impedirne una troppo rapida usura alla quale andrebbe sicuramente incontro se, per ogni singola consultazione, essa venisse presa dallo scaffale e poi rimessa al suo posto.

È un’impresa quasi impossibile dare conto dei circa 13.000 lemmi (a meno che non mi sia sfuggito, questo dato non l’ho tratto dal Dizionario – che d’ora in avanti chiameremo anche DISTOSA -, ma è emerso durante la presentazione dell’opera nel Palazzo della Provincia di Sassari il 25 ottobre 2002, presente anche l’Autore). Vi trovano posto persone e cose legate alla storia della Sardegna, quindi non solo i suoi “uomini illustri”, come aveva già scritto Pasquale Tola, ma anche moltissimi altri, meno noti, senza parlare di concetti, situazioni, fenomeni, che più d’un lettore avrebbe pensato che neanche esistessero (così, tanto per fare un esempio, a p. 985, si potranno leggere notizie assai utili sul «monopsonio» praticato ad Oristano, nel settembre 1353, da Mariano IV, giudice d’Arborea).

Più in dettaglio e in forza della «dottrina della Statualità», con la quale è stata innervata tutta l’opera fin nelle fibre più intime, hanno il loro bravo lemma tutte le cose valutate – beninteso a giudizio insindacabile dell’A. - come «istituzionalmente» sarde e tutti i sardi, anche se di origine non sarda, purché rientrino tra coloro «che hanno vissuto o vivono la realtà dell’isola» (p. VI). Per capire meglio questi concetti “istituzionali”, è necessario ricorrere al lemma specifico, p. 588, secondo cui a questa dottrina «interessa lo Stato o, meglio, la Statualità in quanto idea filosofica», per cui «il territorio e il popolo», uniti giuridicamente per formare uno Stato, «non sono il terreno, ovverossia il fisico e la popolazione di uno Stato, ma il filosofema di essi; e stanno gli uni agli altri come la cavallinità sta al cavallo»: sarà magari difficile da capire, ma più chiaro di così…

Ecco perché nel Dizionario trovano posto, ad esempio, Mario Floris (nella sua qualità «istituzionale» di presidente della Giunta e del Consiglio della Regione autonoma della Sardegna: pp. 621-622; non si capisce invece perché vi manchi Mauro Pili, anch’egli presidente della Giunta anche se per soli due mesi nell’agosto-ottobre 1999, p. 1282), ma anche Enrico De Nicola (p. 509: «ventottesimo capo dello Stato all’inizio chiamato “Regno di Sardegna e Corsica”, poi “Regno di Sardegna”, poi “Regno d’Italia”, oggi Repubblica italiana», una filastrocca – questa riguardante De Nicola – ripetuta senza perdere un colpo anche per tutti coloro che hanno rivestito uno qualsiasi di questi titoli, fino a Carlo Azeglio Ciampi, p. 416: «trentaseiesimo capo dello Stato… »); il primo della lista è, ovviamente, Giacomo I di Sardegna (ma solo per il DISTOSA, perché tutto il resto del mondo si ostina a chiamarlo Giacomo II d’Aragona), p. 691.

Non è tutto: anche i vescovi vi godono di un trattamento di favore, da Quintasio di Cagliari, p. 1269, «primo vescovo noto della Archidiocesi oggi chiamata di Cagliari, (anticamente Càralis, Càlari, Càllari)» - una tiritera alla quale non sfugge, al pari di una novantina di suoi predecessori, neanche l’attuale titolare Pietro Ottorino Alberti, p. 27; la stessa cosa vale per tutti i vescovi, compresi quelli delle diocesi medievali scomparse tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento e, ovviamente, anche quelli viventi, non è detto se perché «istituzionalmente sardi» o perché «vivono la realtà dell’isola», p. VI.

Meno fortunati, invece, gli storici: solo i defunti – l’ultimo è Giancarlo Sorgia (p. 1712) – hanno avuto l’onore di un lemma; peccato che non venga ricordato Procopio di Cesarea al quale dobbiamo quasi tutto ciò che conosciamo sulla Sardegna vandalica e altobizantina. Si dirà che egli non è «istituzionalmente sardo»? Vero, e la stessa cosa vale anche Tito Livio che pure ha tanto scritto sulla Sardegna durante la seconda guerra punica: ma lo sono forse di più «Clemente Lupi», quasi una colonna a p. 871, o lo «Schedario Lupi», oltre una colonna alle pp. 1627-1628? Non è l’unico caso che conferma il sospetto di un certo favoritismo accordato dall’autore ad alcuni e rifiutato ad altri; proprio come dice del resto anche una vecchia canzone: Vengo anch’io? No, tu no!

Se la cavano piuttosto male alcuni personaggi che avrebbero invece tutte le carte in regola per assicurarsi un buon posto nel DISTOSA, anche secondo l’applicazione più rigorosa della «dottrina della Statualità»: così l’imperatore Giustiniano, che si deve contentare di sole 2 righe e ½ (p. 712; un trattamento ben diverso, invece, viene riservato a Goda – un liberto di Gelimero re dei Vandali - al quale ne vengono date 22, più altre 23, rispettivamente alle pp. 715 e 1593: ma qui c’è di mezzo il fatto che, a motivo della sua autoproclamazione a re nella primavera del 533, «nell’isola si formò, per la prima volta nella storia, una statualità», anche se solo per qualche mese: tanto basta per fare fremere d’intima commozione F. C. Casula), altrettante ne ha l’imperatore Maurizio, p. 947; è andata ancora peggio al grande Costantino e al suo figlio Costanzo II, che non sono stati degnati di un lemma neanche in condominio: né serve dire che basta cercarli nei lemmi «Sardegna romana» o «Sardegna bizantina»: se ciò fosse vero, perché non si è fatta la stessa cosa per i vescovi, il cui nome viene riportato non solo per semplice elencazione alla voce delle rispettive diocesi, ma poi anche in seguito, attribuendo a ciascuno di essi un proprio e talvolta corposo lemma? Una sorta di damnatio memoriae, infine, sembra avere colpito l’imperatore Costantino VII Porfirogenito: né sulla sua persona né sulle importanti notizie sulla Sardegna contenute nei suoi scritti (il testo dell’euphemía cantata dai soldati sardi appartenenti alla guardia imperiale e le formalità che la stessa cancelleria imperiale doveva seguire nell’emanazione delle crisobulle indirizzate all’árchon Sardanías) vi è traccia alcuna nel Dizionario, che invece non omette di segnalare i primi 7 «concili ecumenici» a p. 448, «la corsiva inglese» a p. 477, il «cuoco comune» a p. 499, la «plica» a p. 1217, la «renovatio imperii Romani» a p. 1286, lo «sciopero» a p. 1629, l’«inchiostro» a p. 769, la «tanistry» a p. 1753, e  decine di altri lemmi apparentemente inutili; ma c’è da scommettere che, se sono stati riportati nel Dizionario, non saranno mancate all’A.  buone e convincenti ragioni per dimostrare che essi sono «istituzionalmente» legati alla storia della Sardegna.

Sono stati ugualmente sfrattati dal DISTOSA alcuni papi, che un qualche ruolo sulla storia dell’isola l’hanno pure avuto; basti pensare a Gregorio Magno, Alessandro II, Gregorio VII, Gregorio IX, Innocenzo III, Bonifacio VIII e fermiamoci qui: di quest’ultimo, però, non è stata segnalata neppure la consumata abilità per essere riuscito a convincere Giacomo II d’Aragona che, fin dal 1295, «in cambio dei suoi diritti sul regno di Sicilia, accettò […] la titolarità di un ipotetico Regno di “Sardegna e Corsica”», p. 691: in questo modo, Francesco Cesare Casula è riuscito a fare di questo grande sovrano un autentico imbecille che, in cambio del fumo della Sardegna, si è lasciato abbindolare e a rinunziare all’arrosto della Sicilia; invece che soprannominarlo il Giusto, avrebbero dovuto chiamarlo il Semplice, nel senso di sempliciotto.

Con questo non si vuole contestare all’A. il diritto di accordare, insindacabilmente, il permesso di entrata nel suo libro ad alcuni o di rifiutarlo ad altri: ma, in questo caso - e questo è il caso -, valeva la pena di intitolarlo Dizionario storico sardo? Siccome però il danno è stato ormai fatto, non resta che esaminare le informazioni che egli ha ritenuto di proporre per vedere se, almeno queste, comunque scelte, sono affidabili. Sarà questo l’unico criterio che verrà seguito di qui in avanti. Devo però aggiungere che, non essendo in grado di pronunciarmi su tutti gli argomenti trattati nel DISTOSA, questa affidabilità verrà ricercata prevalentemente nei lemmi che riguardano la storia della Chiesa in Sardegna. Si procederà pertanto esaminando in progressione i lemmi che verrebbero consultati da un immaginario lettore che volesse ricostruire lo sviluppo e le problematiche più importanti di questa stessa storia.

 

È noto che essa incomincia da quando si hanno attestazioni di presenze cristiane nell’isola, le prime risalenti alla fine del II secolo. Secondo me, sarebbe stato opportuno premettervi una serie di brevi informazioni sulle precedenti religioni e credenze, almeno a partire del primo millennio a. C.: ciò poteva essere fatto o nei paragrafi relativi alla Sardegna preistorica, fenicia, punica, romana o prevedendo particolari lemmi come, ad esempio: «culti e religioni precristiane», «divinità», «religioni primitive», «riso sardonico», ecc.; per quanto mi consta, uno dei pochissimi lemmi di questo genere – non mi è riuscito di trovarne altri - è «tophet», p. 1783: un po’ poco e per di più detto in forma piuttosto maldestra, come quando  si parla delle «urne cinerarie» contenenti i resti delle piccole vittime, «oggi non più visibili oppure imitate in loco come esempio per i turisti»: bisogna almeno ammettere che quell’«oppure - per non parlare di quel «come esempio» - non sembrano di grande aiuto per il lettore.

La prima attestazione cristiana è legata alle vicende dello schiavo cristiano e futuro papa Callisto, incaricato dal suo padrone di «amministrare una banca cristiana» (p. 280), ma poi fallito; Casula non si meraviglierà se al lettore verrà da pensare all’esistenza di una rete di banche cristiane, una sorta di Banco Ambrosiano ante litteram con tanti sportelli aperti in varie parti dell’impero e con Callisto nei panni di Roberto Calvi; stesso linguaggio approssimativo quando si parla della sua condanna alle miniere sarde attorno al 190 d. C. e della lettera liberatoria per i cristiani che vi lavoravano, ottenuta dalla concubina di Commodo, la «conversa Marcia» (p. 489): si tratta di un aggettivo – questo di «conversa» - che di sicuro non fa pensare ad una eventuale e probabile conversione al Cristianesimo o ad una sua simpatia verso di esso da parte di Marcia, come probabilmente Casula intendeva suggerire, ma ad una monaca non “corista” (non in grado cioè, perché illetterata, di partecipare attivamente all’ufficio del coro) e perciò incaricata dei lavori manuali del monastero, una “conversa”, appunto; anche in seguito ci si imbatte in altri esempi che confermano l’impressione di avere a che fare con un linguaggio poco controllato, impreciso e facilone, che non di rado arriva all’anacronismo, come quando  si parla dell’arcivescovo Costantino di Torres, che sarebbe stato inviato nell’isola da Gregorio VII nel 1074 (la lettera di Gregorio, però, è del 14 ottobre 1073) come «rappresentante del Vaticano presso gli Stati giudicali», p. 380. Di certo Casula non ignora che non si può parlare del Vaticano come centro del potere della Chiesa cattolica se non dopo il 1870; prima di allora non sarebbe scorretto parlare persino del … Quirinale, almeno durante certi periodi.

Quanto poi a papa Ponziano relegato in Sardegna nel 235 (non si capisce perché il DISTOSA parli ripetutamente del 238), il lemma esordisce correttamente citando la notizia tratta dal Liber Pontificalis, ma poi prosegue dicendo che egli morì «forse nelle miniere dell’Argentiera del Sigerro» (p. 1225); a che pro riportare una notizia, per di più in modo così preciso, anche se mitigata da un «forse», ma che non ha alcun riscontro nella documentazione - neppure in quella leggendaria -, non solo per quanto riguarda la località ma neanche per ciò che concerne la condanna ai lavori nelle miniere? Altrettanto si dica per i vescovi presenti al concilio di Arles, convocato nel 314 da Costantino per trovare una soluzione alla questione donatista, e fra i quali vi era anche Quintasio di Cagliari, il primo vescovo sardo di cui si conosca il nome: solo che essi non erano «un centinaio» (p. 1269) ma raggiungevano a malapena la metà.

Anche il lemma dedicato a Lucifero, il vescovo di Cagliari che difese incondizionatamente l’ortodossia nicena e per questo venne mandato in esilio dall’imperatore Costanzo II e vi restò dal 355 al 361 (p. 864), contiene affermazioni avventate (come quella che egli era «sicuramente sardo, forse nato a Càralis») o errate (che egli accoglieva «tutti gli scismatici pentiti», mentre invece era noto per la sua irriducibile intransigenza), affermazioni che in parte si ritrovano anche nel lemma «Arianesimo», p. 99, dove Lucifero viene collocato «tra i personaggi che tentarono una riconciliazione religiosa»; più fastidioso, nello stesso lemma, il linguaggio disattento sull’Arianesimo che riuscì a «conquista[re] gran parte dell’episcopato d’Oriente. Anche molti vescovi dell’Occidente sostennero l’ortodossia …»: che significa quell’«Anche»? Si voleva suggerire  un’equivalenza tra Arianesimo e ortodossia? Non penso che l’A. volesse dire questo; sarebbe stato preferibile usare l’avverbio “invece”; se, al contrario, si voleva sottintendere  che buona parte dei vescovi della pars Occidentis aveva aderito  all’Arianesimo, egli doveva calibrare meglio la frase. Sempre a proposito dell’Arianesimo, Casula afferma che i Vandali «tentarono più volte di introdurlo nell’isola da essi controllata; ma inutilmente»: l’unico tentativo sicuramente documentato che essi fecero fu quello di fare intervenire anche i vescovi sardi al dibattito teologico di Cartagine del 484; nessun altro loro tentativo di proselitismo in Sardegna trova riscontro nella documentazione, persino i vescovi africani da loro esiliati nell’isola poterono lavorare in pace per la difesa dell’ortodossia nicena, quindi in aperta polemica contro l’Arianesimo, senza che i Vandali muovessero un dito.

Lasciano poi stupefatti le notizie sul monachesimo (p. 489), introdotto nell’isola - secondo Casula - fin dal IV secolo dai «romiti Nicolò e Trano in Gallura, seguiti nel 417 dai monaci e delle monache egiziane di San Michele di Plaiano e di San Bonifacio nella pertica di Turris Libisonis», affermazioni maldestramente mutuate da Camillo Bellieni (La Sardegna e i sardi nella civiltà dell’alto Medioevo, I, Cagliari 1973, pp. 130-131), lui stesso dipendente (ibidem) da quel grande falsificatore di notizie storiche, quasi sempre a favore di Sassari contro Cagliari, che fu Francisco Angel de Vico nella sua Historia general de la isla y reyno de Sardeña, Barcelona 1639.

Le prime notizie sicure sul monachesimo in Sardegna risalgono, invece, solo al VI secolo, nei primi decenni con Fulgenzio di Ruspe e con Gregorio Magno, negli ultimi. Va detto però che, a suo modo, il DISTOSA corregge il tiro nel lemma «monachesimo in Sardegna a carattere generale», pp. 997-978, che però non tiene conto di quanto già detto a p. 489, e viceversa, e ripete ancora cose appena scritte a pp. 976-977, nel fantasioso lemma sul «monachesimo di San Basilio di Cesarea»: i monaci basiliani vi sono presentati come «riuniti in monistenes e cumbessias» [… così si chiamano ancora oggi le minuscole abitazioni costruite attorno alle chiese campestri per ospitare i pellegrini accorsi per la festa o per seguire la novena in onore del santo a cui la chiesa è dedicata], diventati poi novenari»: è scritto proprio così, solo che l’A. non si preoccupa di spiegare se a diventare “novenari” furono i monaci, i monistènes  o le cumbessías.

Ancora più preoccupante è un altro elemento che viene introdotto nell’organizzazione ecclesiastica sarda a partire da un secondo Lucifero, quello che governò la chiesa di Cagliari attorno al 484: «metropolita della Chiesa sarda autocéfala, (arci)vescovo» (p. 864). Tanto per cominciare, cosa ci stanno a fare le parentesi appioppate a quell’(arci)vescovo? Questo perché, a p. 234, nel lemma di «Brumasio», le parentesi sono invece disposte diversamente: arci(vescovo); si tratta di un banale refuso? Ciò che invece non è accettabile è il termine «autocéfala», che da questo momento si attacca come una zecca a tutti i lemmi degli arcivescovi di Cagliari fino ad Alfredo, «forse l’ultimo Metropolitano della Chiesa sarda autocéfala» (p. 34): per Casula, si tratta sicuramente di qualcosa di importante e che vale la pena di esaminare: per 6 secoli, infatti  - dal 484 al 1070-1080 –, la Chiesa sarda sarebbe stata “autocefala”.

Fortunatamente, il DISTOSA ci offre due lemmi («autocefalìa» e «primate») che ci illuminano su questo problema. Incominciamo con «autocefalìa» (p. 127), che viene definita come «autonomia religiosa tipica delle Chiese ortodosse nazionali, ognuna retta da un proprio sinodo»: se si prescinde da quella poco felice espressione di «autonomia religiosa», che sembra configurare un’autonomia anche nel credo religioso, mentre sarebbe stato più esatto parlare di autonomia “ecclesiastica”, limitata cioè all’organizzazione della Chiesa, la definizione di per sé non è sbagliata; solo che essa, applicata ai secoli appena accennati, è del tutto anacronistica (così come lo è parlare del Vaticano come centro del potere della Chiesa cattolica al periodo di Gregorio VII): essa infatti si riferisce alla situazione che si venne a creare in varie regioni dell’Europa orientale, fino ad allora ecclesiasticamente dipendenti dal patriarcato di Costantinopoli, dopo che questa città cadde in mano ai Turchi (1453); la prima a tirarne le conseguenze era stata la Chiesa russa, che si dichiarò ecclesiasticamente indipendente da Costantinopoli, seguita poi, durante tutto il secolo XIX, dalle Chiese ortodosse degli stati resisi indipendenti dall’Impero ottomano, a incominciare dalla Grecia: la conquista dell’indipendenza politica innescò anche la nascita delle Chiese nazionali che non riconoscevano più, negli stessi termini, la precedente dipendenza dal patriarca di Costantinopoli e, in tal modo, diventarono “autocefale”.

Quanto appena detto, sarebbe sufficiente a chiudere il discorso sull’autocefalia; solo che il DISTOSA tenta di applicarla a suo modo anche alla Sardegna (p. 127). Ecco come: «la Chiesa sarda iniziale (VI secolo) [è un peccato che Casula non spieghi il senso di quell’“iniziale”, visto che, secondo lui, l’autocefalia esisteva già dal V secolo: vedi p. 864], pur essendo di culto greco era autocéfala perché il primate – cioè l’arcivescovo metropolita di Càralis – era nominato da un concilio di vescovi locali a loro volta nominati dallo stesso primate invece che dal patriarca di Costantinopoli oppure dal papa di Roma (Giovanni V, nel 685, riprovò questa “consuetudine” ma poi dovette accettarla)». In questa lunga proposizione e nelle sue varie subordinate non c’è niente – dico niente – di vero, dando a questo termine il senso di storicamente documentato: non ci sono prove che il culto in lingua greca abbia eliminato quello in lingua latina. Anche nel caso che ciò si sia potuto verificare in qualche sede, come ad esempio a Cagliari, questo non avvenne di sicuro nel VI secolo: niente di simile emerge dal ricco epistolario di Gregorio Magno o da qualsiasi altro documento. Quanto ai secoli VII e VIII, nonostante alcune importanti presenze greche, quelle latine sono vigorosamente rappresentate dall’arcivescovo cagliaritano Diodato che parla in latino durante il sinodo lateranense del 649, e da  un «Flavius Sergius bicidominus sancte Ecclesie Caralitane», che nei primi decenni dell’VIII secolo ci ha lasciato una testimonianza autografa della sua presenza, con una scrittura che ce lo mostra perfettamente a suo agio nel servirsi della corsiva nuova usata allora nell’Italia longobarda (Ettore Cau); né penso che Casula voglia parlare del IX secolo quando è documentata una fitta ripresa dei contatti con Roma mentre manca qualsiasi appiglio per affermare, come fa il DISTOSA, che «la Chiesa sarda era di culto greco», un’espressione oltre tutto imprecisa e che non si sa che cosa voglia significare per davvero. È il caso di aggiungere, tanto per fare qualche esempio, che non è esistito in questi secoli un «primate di Sardegna»? Che l’A. del DISTOSA sembra ignorare la differenza che c’è tra “elezione” e “nomina”? Che il provvedimento di Giovanni V nel 685 non ha nulla a che vedere con quanto sembra affermare il lemma appena citato?

Il lemma «primate», p. 1246, aggiunge altre precisazioni altrettanto inattendibili, come quella che il titolo di primate - «fin dagli inizi lo ebbe l’arcivescovo di Càlari» [così] -, fu tolto a questo presule  «da Urbano II con la bolla del 21 aprile 1092»; è possibile che l’A. del DISTOSA alluda a qualche altra bolla che lui solo conosce: sarebbe bene che la tiri fuori. Non si capisce infatti come quella appena citata, che elevava al grado di metropoli la sede vescovile di Pisa ma non faceva alcun cenno alla Sardegna e ancora meno a Cagliari e al suo arcivescovo, potesse abolire l’inesistente titolo di primate di quest’ultimo. Non è la prima volta che Casula fa fede ad uno scrittore inaffidabile come Felice Cherchi Paba, al quale si deve l’“iperbizantinismo” che imperversa ancora tra molti “storici” sardi, nonostante che fin dal 1964 Agostino Pertusi (Bisanzio e l’irradiazione della sua civiltà in Occidente nell’Alto Medioevo, in Settimane di studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, IX, Spoleto 1964, p. 110, n. 6) avesse additato il suo libro La Chiesa greca in Sardegna, uscito l’anno precedente, come «assolutamente inadeguato e pieno di errori». Vale la pena di aggiungere - giusto per evidenziare un’altra perla del DISTOSA - che, in questo lavoro di omologazione della Chiesa sarda a quella di Roma, Urbano II sarebbe stato preceduto da Gregorio VII «con il dictatus papae del 1075», (p. 127)? Ce n’è a sufficienza per chiedersi se Casula abbia mai letto questo documento, fondamentale per la storia della lotta per le investiture e non solo per questo. A questo punto possiamo mettere la parola fine anche alla controversia sul primato durante il periodo spagnolo ricordando che i due arcivescovi di Cagliari e di Sassari non si disputarono il titolo di «primate di Sardegna», com’è detto a p. 1246, bensì quello di «primate di Sardegna e Corsica»: attento com’è alle titolature, strettamente legate alla sua «dottrina della Statualità», non si capisce proprio come questo particolare sia sfuggito al nostro A.

Appartengono al periodo bizantino tre altri lemmi («monofisismo», «monotelismo» e «iconoclastia» ), per la cui stesura l’A. o uno dei suoi collaboratori – ma è impossibile individuarlo nella lista che ne viene data a p. XI, dove non compare nessun esperto di teologia e di questioni … bizantine – si sono serviti, talvolta alla lettera, di passaggi del mio libro Storia della Chiesa in Sardegna dalle origini al Duemila: non sempre a proposito, purtroppo. Qualche esempio? Parlando del monofisimo si afferma, ad esempio, che «ebbe proseliti anche in Sardegna», un’affermazione analoga  che ricorre anche nel lemma «monofisiti»: nessuna delle due affermazioni (rispettivamente alle pp. 984, 985) ha alcun supporto documentale, forse si intendeva parlare del monotelismo. Ancora più compromessa è l’affidabilità del lemma «monotelismo» (p. 985): dopo avere dato una definizione esatta di questa dottrina diffusa durante i decenni centrali del VII secolo, il DISTOSA prosegue senza soluzione di continuità: «Per gli ortodossi il principale esponente che sosteneva questa dottrina [quindi del Monotelismo] era Massimo in Confessore»: esattamente il contrario, perché Massimo ne fu l’oppositore più deciso. Tralasciando poi altre imprecisioni e refusi, va segnalato un analogo grossolano errore su Eutalio vescovo di Sulci che, «assunse una posizione antimonotelita e condannò Massimo il Confessore»: come poteva Eutalio fare entrambe le cose allo stesso tempo, se proprio Massimo era il campione degli antimonoteliti? Ma era destino che i guai per il povero Eutalio non finissero qui: il lemma (p. 587) che Casula gli voleva dedicare parla invece di un altro Eutalio, attivo tra la fine del V e gli inizi del VI secolo, almeno un secolo e mezzo prima del nostro.

Sul lemma «iconoclastìa», infine, mi limito a segnalare due esempi della straordinaria disattenzione che caratterizza questo, come pure molti altri lemmi: il primo si riferisce alle reazioni suscitate da questa dottrina nella Chiesa d’Occidente, «dove cresceva irrefrenabile l’insofferenza verso il cesaropapismo degli imperatori contrapposto alla semplicità dei territori limitrofi ebraici e mussulmani»: che vuol dire? Si ha proprio l’impressione che, magari in fase di correzione delle bozze, qualche parte del testo sia andata perduta. Il secondo è relativo alla reazione da parte degli imperatori iconoclasti che avrebbero sequestrato i beni che la Chiesa romana possedeva nell’isola; il mio commento, in Storia della Chiesa in Sardegna, pp. 159-160, osservava: «Quanto ad un eventuale sequestro dei beni della Chiesa romana in Sardegna, si è già detto che di questi beni non si ha notizia neanche sotto Gregorio Magno»; ecco invece come questo stesso testo viene riproposto nel DISTOSA: «Per quel che concerne il sequestro dei beni della Chiesa romana nell’isola, non si ha notizia neanche sotto Gregorio Magno» (p. 755), una frase assolutamente senza senso come la precedente: anche per copiare si richiede un minimo di attenzione.

 

Se dal periodo bizantino si passa a quello medievale, non si può - almeno in un primo momento - non rimpiangere l’assenza di lemmi corposi su alcuni papi, dei quali si sono già fatti i nomi e che, solo per non essere stati valutati da Casula come «istituzionalmente sardi», si sono visti chiudere in faccia la porta del DISTOSA: essi si possono comunque consolare perché una simile sorte è toccata anche agli imperatori loro antagonisti: Enrico IV – quello di Canossa -, Federico Barbarossa - quello che conferì il titolo, ma solo «nominale» osserva Casula, di rex Sardinie a Barisone d’Arborea - e Federico II di Svevia che insignì con lo stesso titolo, altrettanto «nominale», il figlio Enzo.

Tutto sommato, però, penso che tanto quei papi che quegli imperatori ci abbiano guadagnato a non essere “lemmati” dal DISTOSA; per convincersene, basta prendere qualche lemma in cui si parla di loro. Cominciamo da «barbirasim» (così invece di barbirasium?), p. 155 - un termine non riportato nel Registrum delle lettere di Gregorio VII -, e che Casula così definisce: «rasatura della barba ordinata nel 1075 dal papa Gregorio VII al clero sardo di culto greco, al momento dell’abbandono dell’autocefalìa e della sottomissione alla Chiesa di Roma»; siccome si è già parlato del cattivo uso che il DISTOSA fa di termini come «culto greco» e «autocefalìa», mi limito ad osservare che le lettera di Gregorio che parla del taglio della barba non è del 1075 ma del 5 ottobre 1080.

Molto giudiziosamente, a proposito dell’affermazione corrente che Costantino di Castra, arcivescovo di Torres (p. 380) fosse nato a «Thatari (l’attuale Sassari)», il nostro A. osserva che «non sappiamo su quali basi» essa si fondi; perché allora, subito dopo, egli dice che Costantino «fu parroco di Bosa vetus»? O che «fu eletto da Gregorio VII nel 1073»? O che «nel 1074 fu nominato legato apostolico per tutta l’isola (cioè rappresentante del Vaticano presso gli Stati giudicali)»? O che già da allora «incombeva la minaccia di una licentia invadendi papale»? O che «costruì nella vecchia Bosa la cattedrale di San Pietro»? In tutto o in parte, tutte queste affermazioni mancano di un’affidabile copertura documentale.

Bisogna aggiungere infine che, forse nel desiderio di rendere più comprensibile il senso di alcuni testi antichi, Casula ne offre talvolta una parafrasi che fa desiderare il nudo testo originale per quanto arcaico, come quando la minaccia della maledizione dei 12 apostoli contro i violatori di un contratto (…apant anazema de XII apostolos…) viene resa come la «minaccia di morte divina» o quando, parlando dello stesso documento (si tratta della più antica carta arborense risalente al 1102), egli scrive che «la maledizione dell’anatema era assunta anche dallo Stato nei confronti dei trasgressori degli atti sovrani» (p. 51), un’affermazione della quale si può almeno dire che non pecca per eccessiva chiarezza.

 

Anche per il periodo moderno ho dovuto a malincuore constatare l’assenza di alcuni lemmi, pure molto importanti come: «benefici ecclesiastici» e «riserva papale» sugli stessi benefici soprattutto a partire dal periodo del papato avignonese; «cura animarum» che – almeno teoricamente – è l’incombenza primaria dell’attività della Chiesa e del personale ecclesiastico (essa comprende soprattutto la predicazione del Vangelo e l’amministrazione dei sacramenti); «riserva dei benefici ai sardi naturals» e conseguente esclusione dagli stessi dei naturalizzati per decreto regio e «patronato regio», il privilegio goduto dai sovrani spagnoli (e poi anche da quelli sabaudi finché durò l’ancien régime) in forza del quale, mediante la presentazione al papa dei nuovi titolari alle diocesi vacanti, essi potevano controllare la Chiesa sarda e fare notevoli prelievi sulle sue finanze sotto forma di appannaggi (pensiones) a favore dei pensionistas: sia le une che gli altri mancano di un lemma specifico, come pure ne sono privi i «vicarii ad nutum», una categoria di ecclesiastici caratterizzati da una formazione culturale molto affrettata e da una non sempre specchiata esemplarità di vita, alla cui gestione era tuttavia affidata la cura animarum, i «vicarii perpetui» voluti dal concilio di Trento, ma che neanche l’energico Pio V era riuscito a fare adottare nelle diocesi della Sardegna meridionale; ci riuscì invece Gianbattista Lorenzo Bogino, il cui lemma (pp. 200-201) non dice una parola sull’importanza della sua azione nella riforma della Chiesa sarda e sul ruolo che egli attribuiva a questa nel suo piano di rigenerazione dell’intero regno.

Queste lacune non vengono peraltro compensate dall’affidabilità delle informazioni offerte dai lemmi presenti nel DISTOSA e relativi al periodo. Qualche esempio? È vero che il giovane Sigismondo Arquer (pp. 106-107), passando per la  Svizzera e diretto in Germania per incontrare l’imperatore Carlo V, conobbe Sebastian Münster, ma non consta che questo «uomo erudito» (un frate minore molto famoso come ebraista e cosmografo) fosse già da allora conosciuto come «di fede luterana» - lo  stesso Arquer rintuzzò con successo questa accusa ricordando che quando egli pubblicò la sua Sardiniae brevis historia et descriptio (1550) nella Cosmographia universalis di Münster, quest’opera non era stata ancora condannata dell’Inquisizione spagnola che lo fece solo vari anni dopo - o che Sigismondo sia stato «ospite» presso di lui.

   A proposito poi dell’arcivescovo di Cagliari Antonio Parragues de Castillejo (p. 1172), non si può scrivere che egli iniziò il suo ministero episcopale come «vescovo di Saragozza», un ufficio che faceva del suo titolare l’autorità ecclesiastica più elevata del regno d’Aragona, che aveva una rendita di circa 50.000 ducati annui e che in quel tempo era occupata da persone imparentate con la famiglia regnante; come avrebbe potuto lasciare quella sede per accettare prima quella di vescovo di Trieste e poi quella di arcivescovo di Cagliari? Lui, Parragues, che proprio in questa sede rimpiangeva la tranquilla rendita canonicale già goduta a Tarazona. a fronte di quella… indecorosa che percepiva – insieme con innumerevoli grattacapi – come arcivescovo di Cagliari (in quel momento, essa non superava i 1500 ducati)? Sarebbe stato sufficiente un semplice riscontro sul terzo volume della Hierarchia catholica medii et recentioris Aevi di C. Eubel per evitare questo infortunio.

 Non è neanche vero che Giovanni Francesco Fara (pp. 594-595) appartenesse ad «una delle più illustri famiglie» di Sassari o che l’ufficio al quale venne nominato appena tornato a Sassari dopo avere conseguito il dottorato a Pisa fosse quello di «assistente» del tribunale arcivescovile ma di «assessore»; si omette poi di dire che «il manoscritto degli altri tre libri storici [del De rebus Sardois], insieme ai due geografici [In Sardiniae Chorographiam]», pubblicato nel 1835 da Luigi Cibrario, non era l’autografo: da come se ne parla, infatti, il lettore potrebbe concludere che quel manoscritto lo fosse; quanto rimaneva ancora della mano di Fara (circa un terzo del IV libro), segnalato fin dal 1934 da Bacchisio Raimondo Motzo, insieme con il testo degli altri libri (II e III) e dei due della Corografia, ebbe la sua prima edizione critica nel 1992 a cura di Enzo Cadoni: un’importante notizia, quest’ultima, che invece non è segnalata dal DISTOSA.

Altre numerose imprecisioni poi disturbano la lettura delle notizie biografiche su Giovanni Arca e Proto Arca (p. 86), su Girolamo Araolla (p. 76), o le informazioni sulle confraternite (455), sul culto delle reliquie (p. 1285), sulle Università (p. 1834), sui Gesuiti (p. 678), sulla «laurea in iure utroque» (p. 768). Vale la pena di fermarsi un attimo su quest’ultimo lemma che temo rifletta in modo esemplare il metodo con cui è stata condotta l’intera monumentale opera del DISTOSA: secondo l’A., con questa laurea si conseguiva la «specializzazione in entrambi i diritti, civile e penale». Ci si fosse almeno fermati qui; invece il lemma continua imperterrito ad affermare che quella laurea «era riservata ai laici e proibita ai religiosi» e che, proprio «per questo, nelle Cancellerie statali di allora, il Cancelliere (quasi sempre un prelato) era affiancato da un vicecancelliere laico, in modo da poter trattare sia questioni civili che penali». Si stenta a credere come in appena 6 righe e mezzo si sia riusciti a mettere, l’una dietro l’altra, ma non semplicemente giustaposte bensì unite in una logica perversa e buffa, tante… amenità.

Quanto detto mi sembra sufficiente per avvertire quell’immaginario lettore desideroso di avere qualche conoscenza sulla storia della Chiesa sarda di cui si è parlato all’inizio, di quante trappole lo attendono e di quanta attenzione dovrà fare per evitarle; sarà quanto meno una lettura  movimentata, una sorta di gioco dell’oca ricco di sorprese.

Si dirà che in questa recensione non vengono esaminati criticamente più una settantina di lemmi e che non si possono estendere automaticamente i risultati ottenuti agli altri 12.930 rimanenti e neanche alle altre centinaia attinenti la storia della Chiesa; di fatto, però, sono state fatte numerose incursioni anche in altri settori della storia sarda e quasi tutti i lemmi percorsi, per un aspetto o per un altro, lasciano a desiderare. Ciò che dispiace di più in quest’opera di grande mole e sicuramente di grande dispendio di energie è l’impressione di un lavoro troppo affrettato, squilibrato nell’architettura dell’insieme, delle sue varie sezioni, dei singoli lemmi e nella stessa loro scelta, con uno scarso controllo del linguaggio che cede troppo spesso alla facilità, per non dire alla faciloneria, all’imprecisione, al pressappochismo.

Per questi motivi, il DISTOSA dovrebbe essere messo nella lista dei libri da non raccomandare a coloro che desiderano disporre di un sussidio affidabile dove attingere notizie sicure sulla storia della Sardegna. Paradossalmente, tuttavia, esso non è del tutto inutile: potrebbe essere sempre additato come un buon paradigma di come non dev’essere un altro eventuale Dizionario storico sardo.

 

 

 

 

 



 

* Francesco Cesare Casula, Dizionario storico sardo, Sassari, Carlo Delfino Editore, 2001, XIV-1925 pp., in 4°.

[Questo scritto è stato già pubblicato in Rivista di storia della chiesa in Italia n. 2, 2002, 493-502.]