Università di Genova
Mario Amelotti
papirologo
* Relazione presentata nel convegno «Corpus
Iuris et Instrumenta. Symposium Mario Amelotti octuagenario dicatum»,
Reggio Calabria, 8-10 dicembre 2003.
Felice è l’occasione che oggi mi viene offerta di
ripercorrere l’attività scientifica del mio maestro in uno dei sentieri che
formano, incontrandosi continuamente, il lungo e articolato percorso delle sue
ricerche: se nelle relazioni che mi seguiranno sarà presentato lo studioso
pandettista e lo storico del diritto romano, che ha indagato e continua a
indagare questi ambiti della scienza giusromanistica senza mai limitarsi alle
sole fonti autoritative e giurisprudenziali, tocca a me – e ne sento tutta la
responsabilità – tracciare il profilo di Mario Amelotti papirologo.
E’ il giurista papirologo colui che coltiva una
disciplina il cui oggetto sono quei materiali che, soprattutto quando
contengano la testimonianza scritta della vita giuridica delle antiche civiltà
attraverso i vari momenti negoziali, amministrativi, processuali o finanziari,
rappresentano uno strumento essenziale per una conoscenza del diritto che
oltrepassi l’attività normativa e dottrinale e ne sappia cogliere la concreta
applicazione nella prassi. Ma i papiri non conservano soltanto documenti e se
anche più rare non poche sono le pagine di libri giuridici restituiti da queste
fonti di cognizione, che ancora una volta è il giurista ad affrontare con gli
strumenti di ricerca più idonei.
Il compito di delineare la figura di Mario Amelotti
giurista papirologo è peraltro delicato e al tempo stesso un po’ imbarazzante
per me, perché significa parlare di colui che più di trent’anni or sono mi ha
introdotto ad una scienza, che ho cominciato allora a coltivare con entusiasmo
e passione e che mai più ho abbandonato. Era il 1966 quando da poco laureata
l’ho incontrato all’Università di Genova nell’ambiente dei filologi classici,
che continuavo allora a frequentare nelle brevi pause che una faticosa
supplenza in un ginnasio genovese mi concedeva.
Era il tempo delle grandi passioni giovanili ed una
di queste era per me la storia e la letteratura latina e greca: un professore
di diritto romano –era Mario Amelotti- da alcuni anni trasferitosi a Genova
cercava qualcuno disposto ad aiutarlo come assistente volontario alla cattedra
di Papirologia, che dopo molti decenni di silenzio era stata allora riattivata
nei programmi accademici. Bisognava avere una buona conoscenza degli hellenika grammata e soprattutto la
determinazione e la perseveranza nel misurarsi con un tipo di ricerca per me
affatto nuova, quale era la lettura dei documenti inediti della collezione
papirologica genovese, insieme con la revisione critica di quanto già era stato
isolatamente pubblicato: una ricerca che richiedeva molta pazienza e grande
ostinazione, soprattutto quando le parole scritte tanti secoli addietro su quei
foglietti conservati in modo incompleto e molto frammentario sembravano voler
rimanere segrete ed inaccessibili.
Da quel momento la mia strada e la mia carriera
scientifica non si è più discostata da quella del mio maestro: una strada da
lui intrapresa molti anni addietro, come egli stesso mi ha raccontato con
quella affabilità, naturalezza e umanità che sono doti affatto rara negli
ambienti dell’Accademia e che invece sempre ha caratterizzato il suo rapporto
con i colleghi e con gli allievi.
L’incontro con i papiri avvenne a Milano nel 1947 presso l’Università Statale, dove il
giovane romanista laureatosi a Pavia l’anno prima sotto la sapiente guida di
Gian Gualberto Archi con una tesi sulla donatio
mortis causa potè seguire il corso di Papirologia allora tenuto da Achille
Vogliano, uno dei grandi nomi di questa scienza storica dell’antichità, che si
era ormai fatta autonoma dopo troppi decenni di ancillarità.
E’ del 1948 l’edizione commentata di un papiro
inedito proveniente dal villaggio egiziano di Tebtynis e datato al 105 d.C.,
che conserva il testo di una enchoresis:
un istituto poco attestato nelle fonti, che fino ad allora era stato ignorato
dalla dottrina e che il giovane studioso affronta per la prima volta nella sua
difficoltà e complessità, cercando di inquadrarne la fattispecie negoziale. Si
tratta della cessione dietro compenso ad altra persona di una cosa da parte del
suo concessionario, che soltanto apparentemente può essere avvicinata alla ben
più nota misthosis in cui è il
proprietario a concedere in affitto a titolo oneroso un proprio bene. Nel
documento in questione l’enchoresis riguarda
alcuni lotti di terreno che una donna di nome Kollauthis aveva a sua volta
ricevuto alcuni anni prima da una certa Ammonious mediante analogo negozio così
esplicitamente denominato nel documento e che ora cede a tale Tryphon per la
durata dell’originaria concessione, ricevendo da lui la somma di 300 dracme
d’argento.
L’esperienza milanese presso la scuola del Vogliano
si arricchirà l’anno successivo con la frequenza a Roma delle lezioni di Papirologia
giuridica tenute dal grande giurista Vincenzo Arangio-Ruiz, profondo
conoscitore della storia e del diritto non soltanto di Roma ma anche del Vicino
Oriente e al contempo esperto decifratore ed interprete degli antichi
documenti.
Frutto di quel proficuo soggiorno di studi è la
pubblicazione di un testamento per aes et
libram, conservato nella prestigiosa collezione inglese degli Oxyrhynchus Papyri. Si tratta più
propriamente della copia greca di un verbale di apertura, confezionato nel 224
d.C. nella metropoli ossirinchita, accostabile per molti versi ad
altri esemplari allora già noti, ma che per alcune sue peculiarità permette al
ricercatore interessanti approfondimenti: di queste una in particolare desta
l’interesse del giovane studioso, che di fronte alla singolare presenza di una
doppia sottoscrizione del testatore, Aurelio Chairemon, riprodotta nel
protocollo di apertura, avanza l’ipotesi che la prima appartenga all’originale
latino dell’atto – il solo ad avere in quel tempo valore ufficiale –, mentre la
seconda, che in realtà è stata redatta cronologicamente per prima, attiene
invece alla redazione greca iniziale. In altre parole le ultime volontà del
nostro neocittadino ellenofono -così ricostruisce Mario Amelotti e questa sua
ricostruzione troverà successiva conferma nelle fonti della prassi- sono state
dapprima dettate in greco, cioè nella lingua a lui più familiare e quindi
sottoscritte, per essere in seguito tradotte in latino, come era richiesto per
un atto di ius civile, e infine riportate
su tabulae ed allora nuovamente
sottoscritte. Chi ha approntato il verbale, di cui è a noi conservata la
traduzione greca, destinata a chi fra eredi, legatari o altri interessati al
contenuto dell’atto, solo questa lingua conosceva – le ha peraltro inserite
tutte e due, “forse – suggerisce lo studioso- per la sua maggiore completezza e
insieme avvertire che è stata riscontrata anche la redazione più direttamente
risalente al testatore”.
Durante il soggiorno romano, attraverso il magistero
di Vincenzo Arangio-Ruiz, che aveva saputo proseguire in Italia, arricchendola
prodigiosamente, la stagione pioneristica degli studi papirologici vissuta da
insigni studiosi del diritto di Roma quali Vittorio Scialoja, Emilio Costa, Roberto de Ruggiero e poi
anche Pietro de Francisci, che nei loro saggi avevano fornito commenti,
proposte di integrazioni, nuove letture e nuove interpretazioni dei papiri
documentari e letterari via via pubblicati in numero sempre crescente, Mario
Amelotti acquisirà quella preparazione nella scienza dei papiri, che completerà
a Bruxelles alla scuola di Claire Préaux.
Nella prestigiosa sede della “Fondation
Égyptologique Reine Elisabeth”, egli incontra Jean Bingen e Marie-Thérèse
Lenger, con i quali pubblica al termine di un intenso seminario un breve ma
prezioso lavoro su uno dei paragrafi più oscuri del cosiddetto Gnomon dell’Idios Logos conservato in
una trascrizione di età antonina restituita da un papiro berlinese. Si tratta
dell’ambigua locuzione ‘Prostagmata
basileon’ menzionata nel § 37, che secondo i giovani studiosi può
plausibilmente riferirsi alle “ordonnances des rois Lagides” piuttosto che agli
“édits des empereurs romains”, come era stato a lungo sostenuto soprattutto
dagli storici del diritto romano, che avevano indagato questo testo assai
complesso: un’interpretazione qui timidamente suggerita, che troverà anni dopo
conferma nella pubblicazione di un papiro ossirinchita del I secolo d.C., che
conserva un’altra redazione dei §§ 37-41, sicuramente appartenente alla parte
più antica –probabilmente augustea- di questo regolamento fiscale, dove i prostagmata citati non possono che
riferirsi ancora ai sovrani tolemaici e non già agli imperatori di Roma,
rappresentando un caso emblematico ma non raro di recezione di un diritto locale
nell’ambito dell’ordinamento giuridico romano.
Trasferitosi a Firenze nel 1951 al seguito di Gian
Gualberto Archi, che sempre lo ha lasciato libero di seguire le proprie scelte
nell’ampio terreno del ius di Roma e
più in generale dei diritti antichi, Mario Amelotti è divenuto nel frattempo
assistente di ruolo e poi libero docente di diritto romano: sono anni assai
fecondi per le sue ricerche romanistiche e lo testimoniano le monografie
dedicate alla donatio mortis causa (1953),
alla prescrizione delle azioni (1958) e alla legislazione privatistica di
Diocleziano (1960), ma è anche il periodo in cui egli viene introdotto
nell'Istituto papirologico ‘G. Vitelli’, allora diretto dal grande latinista
Nicola Terzaghi, e in questo centro di studi assai vivace incontrerà Vittorio
Bartoletti, Eugenio Grassi e Manfredo Manfredi, con i quali stringerà rapporti
di colleganza e insieme di amicizia fraterna.
Caratterizzano gli anni fiorentini, segnati anche
dai rapporti di studio con Giorgio Pasquali, Ugo Enrico Paoli e Angelo Segré,
l’attenta e puntuale indagine sui documenti della prassi giuridica cui egli
rivolge la propria attenzione con sempre maggiore acribia e rigore di metodo:
nel volume XIII dei PSI (1953) è pubblicata una apographe di beni ereditari, indirizzata dagli eredi di Sabinia
Apollonarion alla bibliotheke enkteseon di
Herakleopolis, che contiene in allegato la copia del verbale di apertura
relativo al testamento in base al quale sono stati acquistati i beni. E’ un
testamento librale fatto in età antonina da una cittadina romana, che nel suo
atto di ultima volontà “non solo procede a nominare i figli eredi in quota”
–come prevede il ius di Roma- “ma
ripartisce tra di loro i singoli beni”, in ciò rispecchiando la tradizione
testamentaria greco-egizia, che si concretizza sostanzialmente in distribuzioni
post mortem dei vari beni. Un
documento, che non poteva non sollecitare la curiosità dello studioso, autore
molti anni dopo di un’ampia monografia sul testamento romano e al contempo
profondo conoscitore del diritto successorio greco ed ellenistico, come
dimostra efficacemente l’ editio princeps
di un altro papiro fiorentino, nel quale egli riconosce pur nella frammentaietà
del testo parte di un testamento inquadrabile nella tradizione greco-egizia
delle diathekai (1965).
Anche il volume XIV dei PSI (1957) contiene una sua
edizione: si tratta in questo caso di un papiro del III secolo d.C., che
restituisce il testo lacunoso di una petizione in tema di privilegi concessi
agli atleti. Nel caso in questione l’anonimo postulante egiziano facendo
appello alla benevolenza degli imperatori chiede di poter ottenere il posto di
banditore presso la pubblica amministrazione, adducendo le circostanze che lo
rendono degno di un particolare trattamento: egli infatti ha partecipato per
più di vent’anni agli agoni e solo gli ex-atleti secondo alcuni precedenti
imperiali da lui ricordati nel testo dell’istanza possono esercitare il
mestiere di kerux.
Proprio partendo dalla vicenda testimoniata nel
papiro fiorentino, il giovane ricercatore affronta in quegli stessi anni il
tema più generale della posizione degli atleti di fronte al diritto romano e in
un ampio saggio dedicato a questo problema egli non limita la sua indagine ai
brani della giurisprudenza classica e ai provvedimenti autoritativi in materia
ma esamina con attenzione i documenti della prassi, che ancora una volta
offrono preziosi elementi per ricostruire in concreto quali fossero i numerosi
benefici di cui godevano le associazioni sportive nel mondo antico –da un lato
una lunga serie di esoneri, dal servizio militare alla tutela, dall’esecuzione
personale alle liturgie ed ai munera
civilia, dall’altro una numerosa serie di privilegi che comportavano
l’acquisto di diritti, dalla pensione vitalizia fino alla cittadinanza romana.
Nel frattempo Mario Amelotti è diventato professore
incaricato di discipline romanistiche nella stessa Facoltà di Firenze, poi
straordinario in quelle di Sassari e di Modena ed infine dal 1 novembre 1964
egli è a Genova come ordinario di Diritto Romano: qui entra in amicizia
dapprima con il grande latinista Francesco Della Corte, poi con lo storico di
Roma Giovanni Forni ed è in quel periodo –già l’ho ricordato- che egli tiene
alla Facoltà di Lettere nel corso di Storia antica l’insegnamento di Papirologia,
che alcuni anni più tardi sposterà a Giurisprudenza, facendola inserire a buon
diritto nei piani di studio tra le discipline giusromanistiche con la più
puntuale denominazione di Papirologia giuridica.
Nel 1966 esce l’ampia monografia dedicata al
testamento romano nella prassi documentale, nella quale lo studioso con
assoluta padronanza delle fonti indaga l’ istituto testamentario, superando la
rigida costruzione dogmatica per cogliere la concreta applicazione del diritto
nei numerosi documenti, conservati vuoi nei papiri di provenienza egiziana vuoi
nelle iscrizioni restituite da differenti province dell’impero: ed è proprio da
questa attenta disamina che emerge con chiarezza come di fronte a siffatto
istituto, ampiamente diffuso nelle varie parti dell’impero, affatto diverso sia
l’orientamento della prassi occidentale profondamente romanizzata da quella
orientale fortemente influenzata dalle tradizioni giuridiche locali.
Nel 1972 viene dato alle stampe il volume
intitolato, insieme con Giuseppe Ignazio Luzzatto, alle costituzioni
giustinianee nei papiri e nelle epigrafi, che costituisce il primo dei Subsidia al Legum Iustiniani Imperatoris Vocabularium fortemente voluti da Gian
Gualberto Archi in quella preziosa iniziativa di raccogliere tutto quanto di
Giustiniano ci è pervenuto al di fuori del Corpus
Iuris Civilis: e proprio nell’ Introduzione
alla prima parte curata da Mario Amelotti, dove sono riuniti accanto ai pochi
papiri letterari utili per il
vocabolario delle leges giustinianee
anche i numerosi testi documentari che contengono un esplicito rinvio ad una
legge di Giustiniano, lo studioso affronta lo spinoso tema della recezione in
Egitto del diritto giustinianeo, giungendo alla conclusione che nella prassi
giuridica egiziana non vi è mai stato un adeguamento profondo e generale alla
Compilazione, neppure nei confronti di quegli elementi più attuali
rappresentati dalle costituzioni, “la cui conoscenza ed applicazione … risulta
in complesso occasionale e frammentaria”.
Ma a partire dal 1966 il percorso scientifico di
Mario Amelotti papirologo si era già
intrecciato strettamente con il mio e nei primi anni ‘70 si era fatta più
intensa e proficua la collaborazione tra il maestro e l’allieva, ora impegnati
nell’edizione critica dei papiri appartenenti all’Università di Genova.
La piccola collezione, frutto negli anni ’50 di
alcune acquisizioni da parte di Augusto Traversa, che insieme con Clara Pasqual
ne aveva poi pubblicato un limitato numero in edizioni peraltro sparse e spesso
prive di rigore scientifico, dagli anni ’70 in poi si è potuta notevolmente
arricchire proprio grazie a Mario Amelotti, che pure nella ristrettezza sempre
crescente dei fondi attribuiti alla ricerca ha saputo cogliere le poche
opportunità d’acquisto esistenti sul mercato antiquario.
Oggi la raccolta dei Papiri dell’Università di
Genova (PUG), nella più gran parte depositata nei locali della sezione di
Diritto Romano del Dipartimento di cultura giuridica Giovanni Tarello, anche se
non può essere di certo paragonata per numero ed importanza degli esemplari
alle prestigiose collezioni berlinesi, viennesi o inglesi, ha comunque un suo
rilievo che degnamente la colloca a fianco delle altre non numerose collezioni
italiane.
Nel 1974 è dato alle stampe il primo volume dei PUG,
nel quale Mario Amelotti non ha disdegnato di mettere accanto al suo nome anche
il mio: ma se a chi vi parla è dovuta soltanto la materiale lettura o rilettura
dei cinquanta testi pubblicati, è stato esclusivamente suo il gravoso compito
di affrontare i difficili problemi interpretativi, che soltanto un profondo
conoscitore dei diritti antichi -siano essi greci, ellenistici, romani o
bizantini- può risolvere.
In questa rapida presentazione non posso citare
dettagliatamente il contenuto di questi
papiri, alcuni dei quali già pubblicati provvisoriamente dal Traversa e dalla
Pasqual sono offerti al lettore in
edizione del tutto rinnovata ed
accompagnata da un più congruo commentario giuridico, vuoi per l’epistula di Nerone agli Alessandrini
(PUG I 1), per l’homologhia tou kompromisssou (PUG I 23) o per
l’ampio frammento di un registro contabile relativo alla vestis militaris (PUG I 24). Né mi soffermo a ricordare tra gli
inediti la ricevuta fiscale relativa al pagamento del cosiddetto epikephalaion poleos (PUG I 19), il
contratto d’affitto di un topos
hypogheios (PUG I 22) o il frammento di una vendita di vino a prezzo
anticipato (PUG I 30).
Voglio invece menzionare un caso singolare, che
aiuta a capire l’arduo compito del papirologo, che mai può tendere a risultati
certi, soprattutto quando si tratti come nel caso in questione di acquisti
fatti sul mercato antiquario: si tratta di due papiri di provenienza egiziana,
che conservano il testo frammentario di due contratti di società diretta
all’assunzione di portatori e all’organizzazione di un servizio di trasporto
relativo alla Grande Oasi (PUG I 20 e 21). Conclusi dagli stessi contraenti,
Aurelio Timotheos ed Aurelio Uonsis, rispettivamente nel 319 e nel 320 d.C.,
sono redatti nella forma privata del chirografo e rilasciati come quietanza dal
socio imprenditore, che si impegna a condurre l’affare, al socio capitalista
che fornisce il denaro. Anche se
richiamano l’istituto della societas
unius negotiationis ben noto ai giusromanisti, essi non sembrano trovare
riscontro nelle fonti giuridiche e neppure nei documenti della prassi, che pure
attestano contratti di società costituite a scopo di traffico o di industria.
Ma non è tanto il contenuto giuridico che voglio in
questa sede richiamare –i due testi sono stati oggetto di approfondita indagine
da parte di Mario Amelotti nell’editio
princeps pubblicata isolatamente alcuni anni prima- quanto un fatto
singolare che ha comportato una successiva riedizione dei due papiri genovesi.
Nello stesso 1974 è stato pubblicato sulla rivista Aegyptus un frammento della collezione appartenente all’Università
Cattolica di Milano, che conserva una piccola sezione longitudinale di uno dei
due contratti genovesi: acquistati separatamente dallo stesso mercante e
pubblicati separatamente in due differenti raccolte, soltanto in un secondo
tempo i due frammenti sono stati così ricostruiti almeno virtualmente,
completando parole ed espressioni considerate perdute e recuperando alcune
clausole contrattuali, che solo in via di ipotesi erano state da noi integrate
e che hanno trovato parziale conferma nel frustulo finito a Milano.
Il giurista papirologo non cura peraltro le sole
edizioni di materiali inediti e quando lo accompagni una preparazione non
circoscritta a singoli momenti e luoghi della scientia iuris e soprattutto quando lo stimoli la passione e la
curiosità dello storico, insieme al rigore del filologo, egli può affrontare
con perizia e sapienza le più diverse tematiche che la documentazione giuridica
conservata nelle fonti papirologiche presenta alla sua attenzione.
Così è stato e continua ad essere per Mario
Amelotti, che nella lunga
frequentazione con i papiri ha saputo scrivere intense pagine di
sintesi, come sono quelle consacrate alla figura del notaio romano: solo chi conosca
bene sia i testi dottrinali e autoritativi raccolti soprattutto nella
compilazione giustinianea sia i documenti della prassi giuridica restituiti
copiosamente dall’Egitto, dal Vicino Oriente e in numero minore dall’Occidente,
può affrontare con efficacia lo studio del tabellionato in un momento assai
delicato e importante della sua lunga storia. Lo dimostra la bella monografia,
intitolata “Alle origini del notariato italiano”, che egli ha pubblicato nel
lontano 1975, insieme con Giorgio Costamagna, e che ancora oggi rappresenta una
efficace e utilissima base culturale sia per chi aspiri a diventare notaio sia
per chi inizi gli studi di paleografia e diplomatica: queste pagine infatti,
senza voler essere una trattazione esaustiva del notariato romano e dell’instrumentum tabellionico, svolgono
soprattutto la funzione di mettere in luce quei filoni che appaiono
significativi per l’ulteriore sviluppo dell’istituto.
Appartengono allo stesso campo d’indagine i
contributi sulla duplice scritturazione
e sulle diverse forme redazionali degli atti negoziali, insieme alle
molte pagine dedicate alla genesi del documento, che hanno condotto Mario
Amelotti a superare i convenzionali limiti temporali e linguistici del
giusromanista, per giungere a comprendere da un lato le più risalenti
testimonianze documentali di età ellenistica conservate nei materiali
soprattutto ma non esclusivamente egiziani e dall’altro le tarde pergamene
greche restituite dall’Italia meridionale, per molto tempo rimasta in alcune
sue plaghe sotto il dominio di Bisanzio
e del suo diritto.
Per quanto poi riguarda in particolare il documento
romano, il nostro studioso ne ha percorso gran parte della lunga ed avvincente
storia, dai più risalenti instrumenta
privata quali sono la testatio ed
il chirographum a quelli publice confecta redatti dai tabellioni fino agli instrumenta confezionati presso la pubblica autorità o insinuati
nei gesta municipali, sempre
coniugando i dati forniti dalla prassi con gli elementi tratti dalla
legislazione in materia. Questa ricerca lo ha condotto pertanto ad esaminare
con attenzione la legislazione di
Giustiniano, che non soltanto nel Codice ma soprattutto nelle Novelle ha
affrontato per la prima volta in modo organico e non frammentario il tema del
documento, sia sotto il profilo dei requisiti formali sia dell’efficacia
probatoria in sede processuale: si pensi in particolare alla Novella 73 del 538
d.C., che ancora una volta –come nei precedenti interventi giustinianei- trae
spunto dal caso concreto, rappresentato dalle numerose controversie sollevate
in quel tempo sul valore e la funzione dell’instrumentum.
L’elenco degli studi papirologici condotti da Mario
Amelotti insieme con quelli più
specificamente epigrafici, che soltanto una convenzionale distinzione accademica
tiene separati e che devo comunque qui tralasciare anche per questioni di
tempo, potrebbe ancora proseguire ma non posso né voglio limitarmi ad un’arida
esposizione di titoli: chi sia curioso di ripercorrere tutte le tappe di questo
affascinante itinerario scientifico potrà farlo agevolmente, leggendo la
bibliografia che l’amico e collega Felice Costabile ha approntato per questa
fausta occasione.
Nel poco tempo che mi resta desidero invece
ricordare soltanto il maestro dal quale ho appreso la difficile arte della
ricerca paziente e metodica, mai ristretta in un unico filone d’indagine ma
sempre aperta a nuove tematiche: e proprio questa curiosità e questa sete di
conoscenza, che lo ha spinto e lo spinge ancora oggi ad esplorare le molteplici
vie del sapere e le molte strade del mondo, è il tratto del suo carattere che
sempre mi ha più profondamente colpito, destando ammirazione e rispetto.
Quanti viaggi insieme abbiamo fatto, dall’Egitto al
Vicino Oriente, nelle terre dove sono nate le grandi civiltà della scrittura:
quanti luoghi insieme abbiamo visitato sempre accompagnati dallo stesso
entusiasmo e dallo stesso desiderio di conoscere “l’altro”, sia colui che tanti
secoli addietro ha lasciato nella parola scritta tracce indelebili della sua
quotidianità, sia colui che vive oggi come allora i suoi bisogni e le sue
aspirazioni.
Mi piace ora conchiudere questo profilo con le
parole da me coscientemente rubate ad un grande giusromanista che le ha usate
nei confronti di un altro illustre studioso, il quale ha percorso un cammino
scientifico ugualmente coinvolgente e che di certo chi ascolta saprà
riconoscere: “… a lui non basta(va)
ricostruire le linee ed individuare gli elementi di un ordinamento giuridico …
Se si fosse fermato a questo livello egli sarebbe (stato) uno storico e un
umanista erudito … Invece egli” ha voluto “andare più in là, penetrare lo
spirito e misurare l’efficacia dell’ordinamento …” e “… in questa coscienza
della necessità di entrare nell’intimo della vita giuridica, è da cercare la spiegazione
dell’ardore che lo” ha spinto e lo spinge ancora oggi “allo studio dei
documenti, in cui” si possono “ valutare le differenze fra la teoria e la
prassi, capire il gioco dei vari fattori umani che influiscono
sull’applicazione del diritto, interpretare persino il carattere dei soggetti
che in quei documenti negoziali o giudiziari erano presenti per accordarsi o
per combattere ...”
In questo profilo ritrovo Mario Amelotti, giurista,
storico, filologo, ricercatore e viaggiatore instancabile, sempre pronto a
nuove indagini e nuove conoscenze, ma soprattutto maestro di scienza e di vita
e di questo sommessamente lo ringrazio.