CARATTERI E FATTORI DI SVILUPPO DEL DIRITTO PRIVATO ROMANO NEL IV
SECOLO*
[Saggio pubblicato in De vita et
operibus Mari Amelotti a Felice Costabile desciptis, libellisque quinque de
sera antiquitate auctis = Minima epigraphica et papyrologica V-VI,
2002-2003, 35-43]
Il
passaggio dal III al IV secolo è caratterizzato da un repentino quanto radicale
mutamento, nella forma come nella sostanza, delle costituzioni imperiali, unico
strumento ormai rimasto di produzione normativa. L'età di Diocleziano ed ancóra
la seconda tetrarchia presentano, in riferimento al diritto privato, l'uso
esclusivo del rescritto[1],
mentre riservano l'editto ai provvedimenti di carattere pubblico. Costantino si
serve, in un caso e nell'altro, della lex
generalis. Una nuova terminologia questa, che subentra all'editto,
attestata per la prima volta in CTh. XVI 8,3 del 321. Prima di allora lex era quella voluta dal popolo, mentre
i provvedimenti imperiali erano indicati complessivamente come constitutiones.
Per
rescritto s'intende la risposta dell'imperatore, in pratica della cancelleria
imperiale ad un quesito giuridico, attinente ad un caso concreto. Il quesito
poteva essere proposto da un funzionario, cui l'imperatore rispondeva con un
altro scritto, oppure da un privato, cui 1'imperatore
[p. 36]
rispondeva in
calce alla stessa richiesta: ragion per cui, in epoca classica, si parlava
rispettivamente di epistula[2] e di subscriptio. Con Diocleziano, fermo rimanendo il diverso
tipo di risposta e ricorrendo a termini già noti alla tradizione classica, si
parla piuttosto di rescripta ad
consultationes emissa e di rescripta
ad preces emissa. Esauriti nella loro funzione decreta e mandata, l'età dioclezianea conosce una nuova
forma di costituzione imperiale nell'adnotatio, di cui abbiamo la prima menzione in Coll. 1, 10, 1 del 290. Dapprima
semplice nota dell'imperatore in calce alla supplica privata, da convertire in
successivo rescritto[3],
divenne forma autonoma utilizzata per la concessione di privilegi.
È stata pratica
costante della cancelleria inviare l'originale del rescritto all'interessato e
destinare copia agli archivi imperiali. Ciò è ribadito da Diocleziano in C. 1,
23, 3 del 292 allorché afferma: Sancimus,
ut authentica ipsa atque originalia rescripta et nostra manu subscripta, non
exempla eorum, insinuentur. In un
tempo di facile ricorso a rescritti apocrifi, testimoniato da Paul., sent. 1, 12, 1 e 5, 25, 9, l'imperatore
precisa che in sede processuale va sempre presentato l'originale[4].
Ma la dispersione in provincia non pregiudica la notorietà dei rescritti e il
loro valore di precedenti autorevoli, d'importanti exempla. Allo scopo i
giuristi, ancóra quelli severiani, attingevano agli archivi e inserivano e
assimilavano i testi nelle loro opere. Ma ora si preferisce farne delle
raccolte. Abbiamo cosi il Codex
Gregorianus, strutturato in
almeno 14 libri, che parte probabilmente già da Adriano, ma presenta
soprattutto rescritti dai Severi ai primi anni di Diocleziano. Lo continua il Codex Hermogenianus, che in un unico libro riunisce rescritti del 293-294. Tali
collezioni private ebbero molto successo nella prassi e confluirono infine nel Codex Iustinianus.
Lo stile dei rescritti
è asciutto e preciso, il loro contenuto è diretto a risolvere lo specifico
caso. Con Diocleziano abbiamo un continuo
[p. 37]
richiamo dei
provinciali, sbandati dopo la Constitutio
Antoniniana, all'osservanza del
diritto romano. Si respingono le richieste aberranti: ne offrono esempi C. 6,
24, 7 contro l'affratellamento; C. 8, 46, 6 contro l'apokeryxis; C. 8, 47, 4
contro l'adozione per mero atto scritto. Ma in qualche caso Diocleziano attenua
la sua opposizione e viene incontro ai postulanti, introducendo prudenti
concessioni. Per fare anche qui degli esempi, ricordo l'adrogatio per rescriptum principis, che rende l'istituto più accessibile ai provinciali e rende
altresì arrogabili le donne; il caso di C. 8, 47, 5 che ad una donna, rimasta
priva di figli, permette una parvenza di adozione; la rinuncia ad insistere, in
materia testamentaria, su aspetti puramente rituali, accentrando piuttosto
l'attenzione sui testes e i septem signa[5]. È in
questo senso che va risolto il conflitto di opinioni, intercorso un tempo tra
il Taubenschlag, che parlava di un Diocleziano innovatore ed aperto agli
influssi greco-orientali, e l'Albertario, che vedeva in lui un intransigente
difensore del diritto classico.
Come
già detto, Diocleziano riserva gli editti ai provvedimenti di diritto pubblico.
Essi sono caratterizzati da testi prolissi, enfatici, magniloquenti, che
derivano da altro ufficio rispetto ai rescritti. Se questi provengono dallo scrinium a libellis, che esigeva persone fornite di specifica competenza giuridica,
agli editti provvedeva lo scrinium ab
epistulis, in cui prevaleva la
preparazione retorica. Di editti si sarà servito Diocleziano per la
riorganizzazione dello Stato (ma abbiamo solo generiche notizie letterarie), in
materia economica (si pensi all'edictum
de pretiis), in materia religiosa
(l'editto contro i Manichei di Coll. 15,
3; gli editti contro i Cristiani). La stessa scelta operano i suoi immediati
successori: rescritti in tema di diritto privato, editti di contenuto
pubblicistico. Ricordo così l'editto di Serdica, con il quale Galerio ammette
finalmente tolleranza per i Cristiani; la tavola di Brigetio, che attribuiva
privilegi fiscali ai soldati, e l'editto di Nicomedia, che è l'applicazione in
Oriente dell'accordo di Milano riguardo ai Cristiani, dovuti entrambi a Licinio[6].
[p. 38]
Dell'editto, o
meglio ora lex generalis, si serve in ogni caso Costantino. È generalis perché, preventiva e astratta
nella normativa, è dichiarata applicabile a tutti o almeno ad un'intera
categoria. Cade in sospetto il rescritto, quale possibile strumento di abusi e
ingiusti privilegi. Esso deve essere conforme all'ordinamento, come sancisce
l'imperatore in CTh. I 2, 2 del 315: Contra ius rescribta non valeant quocumque
modo fuerunt inpetrata. Ma
soprattutto Costantino apporta radicali riforme al diritto privato, ascoltando
influssi diversi, ma ancor più aderendo alle esigenze dei tempi nuovi.
Giustificata la frase di Ammiano Marcellino, che lo qualifica novator turbatorque priscarum legum et
moris antiquitus recepti[7].
Ma prima di
approfondire il tema costantiniano esaminiamo i tentativi di appianare il
contrasto tra Diocleziano e Costantino. Non è qui il caso d'insistere, in
quanto attinente piuttosto al diritto pubblico, sulla concezione, cara a molti
storici e storici del diritto, di una monarchia dioclezianeo-costantiniana. È
vero che Costantino prosegue l'opera di Diocleziano nella instaurazione di un
impero assoluto e burocratico, ma diverso è lo spirito che anima i due
imperatori. Diocleziano vuole la restaurazione dell'impero romano pagano e
questo spiega aspetti importanti della sua politica: designazione del
successore, che è insita nel sistema tetrarchico; difesa disperata del denarius, che è la moneta della piccola gente, contro l'inflazione; accanita
persecuzione dei Cristiani. Costantino si fa pragmatico interprete della realtà
e in questa cerca nuove forze che rinsaldino il suo potere. Trasmetterà questo
potere ai figli secondo il principio dinastico. Abbandona il denarius, ancorando saldamente l'economia all'oro, che è nelle mani delle
classi superiori. Non si limita a tollerare, ma chiama ad una partecipazione
attiva i Cristiani, con una politica di favore e d'intervento. Tornando però
alla materia privatistica, abbiamo anzitutto la vecchia tesi del Vernay, per il
quale il salto stilistico tra i testi dioclezianei e quelli costantiniani
deriva da un fatto estrinseco, perché ci sono trasmesse costituzioni di natura
diversa. Lo stile amministrativo, con i suoi caratteri di prolissità e di
enfasi, esisteva per gli editti già da molto tempo. Ma l'importante è che
Diocleziano, mettendosi sul piano del giurista largitore di pareri, abbia
voluto servirsi del rescritto, mentre Costantino sceglie la via autoritativa
con la lex generalis. Più pericolosa
è la tesi della cosiddetta 'massimazione'
[p. 39]
allorché postula, in riferimento al
nostro problema, che le costituzioni imperiali siano state ridotte, subito dopo
l'emanazione e forse dalla stessa cancelleria, a brevi riassunti, in tutto
sostituiti alla fantomatica redazione completa. Altro è il discorso sulle
manipolazioni che le stesse costituzioni hanno certamente subíto, ma in modi
diversi e con finalità diverse, dagli autori delle successive compilazioni che
le hanno raccolte. Contro talune esagerazioni in tema di massimazione, che
porterebbero a perenne sfiducia nel testo trasmesso delle costituzioni, ho già
preso posizione ed altri inviti alla moderazione sono stati espressi, che hanno
conseguito un significativo ridimensionamento della tesi originaria[8].
All'evidenza resta la radicale differenza, per stile e contenuto, tra i
rescritti dioclezianei e le leges
generales di Costantino. Si deve ancora discutere della distinzione
recentemente avanzata tra diritto giurisprudenziale e diritto legislativo. «Se,
fino all'età dei Severi, il campo delle fonti di produzione normativa ancora
attive era stato tenuto saldamente dall'azione congiunta, e spesso in simbiosi
mutualistica, di giuristi e princeps, col passaggio dal principato al
dominato» si passa altresì da un modello di diritto giurisprudenziale «ad uno
di diritto legislativo, derivante esclusivamente dall'attività incontrastata
del principe legislatore». In quest'ultima interpretazione che viene proposta
si fa perno per il passaggio su Diocleziano, ancor prima di Costantino[9].
Si può obiettare che in età dioclezianea appaiono ancora operanti figure minori
di giuristi, Ermogeniano e Arcadio Carisio. Si può osservare che Codex Gregorianus e Codex Hermogenianus vengono allora citati e utilizzati più come
opere di letteratura giuridica che come raccolte di costituzioni imperiali. Si
può soprattutto ripetere che Diocleziano ha preferito la via
'giurisprudenziale' del rescritto e Costantino quella autoritativa della lex generalis. Resta da dire che la distinzione tra diritto giurisprudenziale e
diritto legislativo, di per sé esatta non è che un modo di esprimere
[p. 40]
i due termini della lenta graduale
evoluzione dei mezzi di produzione giuridica, senza implicare alcuna soluzione
dei problemi.
A dimostrare lo spessore delle riforme costantiniane
giova, più di un elenco vanamente esaustivo, l'analisi di alcune costituzioni
davvero esemplari. Cominciamo da quella già al primo sguardo più clamorosa. In CTh. III 16, 1 del 331 si prende
posizione contro il ripudio, drasticamente limitato a tre casi estremi: contro
l'uomo homicida, medicamentarius,
sepulchrorum dissolutor; contro la donna moecha, medicamentaria, conciliatrix. In ogni altro caso è punito, qualificandosi addirittura prava cupiditas il desiderio della donna
di ripudiare un marito dedito al vino, al giuoco, alle avventure libertine. Per
affermare che la donna colpevole d'ingiustificato ripudio perde la dote e la
donazione nuziale e viene esiliata, si scrive: oportet eam usque ad acuculam capitis in domo mariti deponere et pro
tam magna sui confidentia in insulam deportari. Se invece è il marito ad aver ripudiato illecitamente la donna e
ad aver contratto seconde nozze, si scrive, autorizzando l'esercizio arbitrario
delle proprie ragioni, che priori coniugi
facultas dabitur domum eius invadere et omnem dotem posterioris uxoris ad semet
ipsam transferre pro iniuria sibi inlata. Esagerato è il contenuto, sul quale imperatori successivi
torneranno indietro; sorprendente è la forma, piena di termini nuovi e frasi
inusitate[10].
Riesce suggestivo pensare che la costituzione provenga da un ambiente
cristiano, da uomini nuovi penetrati nella cancelleria di Costantino. La
cancelleria dioclezianea, rigorosa e precisa, era finita con Galerio e poi
Licinio[11].
Più
moderate, all'apparenza, altre costituzioni. In C. 7, 32, 10 del 314 si finisce
per dire che vero possessore è chi ha il diritto di possedere. Concezione
volgare che più non distingue tra proprietà e possesso. Non è qui il caso di
riprendere la discussione ormai superata su diritto volgare e volgarismo. Basti
dire che alla prima espressione, come indicativa di un imprecisato sistema
normativo, è da preferire la seconda,
[p. 41]
intendendo il
volgarismo come atteggiamento culturale, o magari piuttosto inculturale, che
vede il diritto con l'occhio dell'uomo della strada. In Fr. Vat. 249, del 323, meglio che 316, Costantino subordina la
validità della donazione al concorso di tre requisiti formali: redazione
scritta, traditio solenne advocata vicinitate, allegazione nei gesta. La donatio ne risulta implicitamente, ma radicalmente
riformata. Non è più una causa di acquisto, e non di soli diritti reali, come
era nella concezione classica e ancora dioclezianea, in quanto ora si presenta
come negozio tipico, che implica sempre acquisto di proprietà. Diventa un
contratto, soggetto a prestabilite formalità e produttivo di effetti reali. La
riforma non risponde a fattori insiti nello sviluppo dell'istituto, ma a motivi
esteriori di certezza e forse di ordine fiscale, ma soprattutto traduce quella
forma di donazione, la donazione reale, che normalmente si conosce nella
prassi. In Fr. Vat. 35, del 337
meglio che 313, si prevedono per la compravendita di immobili, oltre alla
redazione scritta e al fine dichiarato di evitare evasioni fiscali ed escludere
il commercio di cose altrui, i requisiti della inspectio consualis e del compimento solenne del negozio dinanzi ai
vicini, i quali forniscano testimonianza che il venditore è proprietario.
Motivi immediati sono anche qui la certezza e l'interesse fiscale, ma implicita
nella riforma è la concezione di una compravendita produttiva di effetti reali.
Nulla nella costituzione rispecchia la concezione classica di contratto
consensuale. Si sente forse l'eco delle dottrine greche ed ellenistiche, che
sopravvivono nelle province, ma si percepisce comunque la mentalità volgare,
che identifica il vendere e il comprare con l'effettivo scambio della cosa
contro il prezzo.
Per chiudere
consideriamo ancora una legge, pervenutaci in frammenti, che l'inscriptio attribuisce a Costantino, ma
la data del 339 ritarda di poco ai figli e successori, nel caso specifico a
Costanzo[12].
Gli uomini della cancelleria erano ancora gli stessi. La legge rende inutile
nelle disposizioni testamentarie l'osservanza delle parole solenni, in
particolare per l'istituzione d'erede e i legati. Il testatore può usare le
parole che vuole e alla sua volontà ci si deve rimettere. Emanata in Oriente
per venire incontro agli orientali, la costituzione esprime una riforma
certamente moderna, che elimina vecchi formalismi, ma che al contempo
rispecchia e fomenta il caos nella documentazione
[p. 42]
già prodotto,
dopo la constitutio Antoniniana, dalla legge di Severo Alessandro che
aveva loro permesso di testare in greco.
Costantino
apre veramente per il diritto privato una nuova epoca, si chiami pure
postclassica o tardoantica[13]. Le
costituzioni degli imperatori successivi seguono una linea discontinua, con
avanzamenti e arretramenti, mossa spesso da motivi occasionali. Su un piano più
generale si mescolano esigenze economiche, concezioni volgari, influenze
cristiane, tradizioni orientali. È unilaterale parlare solo di crisi
economico-sociale o di diritto volgare o di diritto romano-cristiano o di
diritto romano-ellenico.
La necessità di
tener conto delle diverse influenze e dell'andare e venire della legislazione
rende inattuabile una puntuale ricostruzione del diritto privato del IV secolo.
È maggiormente valido sottolineare alcune linee di tendenza.
Per
quanto riguarda i diritti patrimoniali le novità sono profonde, ma poco
appariscenti. Si perde il rigore giuridico nella concezione dei diversi negozi;
scompaiono le forme tipiche, orali e rituali, sostituite da una generale ma
anodina redazione scritta; l'interpretazione fa richiamo, più che ai dati obiettivi
del negozio, alla voluntas. Da notare, tra i diritti reali, lo
svilupparsi di stabili concessioni di terre, anche per rimediare al fenomeno
degli agri deserti: esse si unificheranno nella nozione di
enfiteusi.
Più
evidenti le novità nei diritti della persona e della famiglia. Tende a
svuotarsi la fondamentale distinzione tra liberi
e servi per la crisi della
schiavitù. Il fenomeno è dovuto non solo all'influsso cristiano, di cui è
espressione la manumissio in ecclesia, ma al venir meno di guerre vittoriose e
ancor più alla diversa organizzazione del lavoro. La schiavitù appare ridursi
all'ambito domestico. Le distinzioni sono ora tra i liberi, di cui la più
grave per conseguenze civili e penali è quella tra honestiores e humiliores. Tutti sono però vincolati, per esigenze
economiche che la legislazione fa proprie, a corporazioni, in una scala che
dalle curie cittadine scende alle associazioni dei più modesti mestieri. La
posizione infima è occupata dai contadini, che sono sempre più legati alla terra
da complessi, diversificati rapporti che si suole raccogliere sotto la nozione
di colonato. Il fenomeno, secondo alcuni, preluderebbe
[p. 43]
alla futura
servitù della gleba. È però da aggiungere che la nozione stessa di colonato,
oscillante tra prospettive continuistiche e richiami al nuovo e al particolare,
tra interpretazioni privatistiche, come forma di dipendenza personale, e
spiegazioni pubblicistiche, come conseguenza del sistema fiscale, è adesso
oggetto di viva discussione e revisione[14]. Una
posizione privilegiata acquistano invece le chiese e clerici e monachi, che
godono di favori e di esenzioni fiscali. Particolare è il prestigio dei
vescovi, sul piano politico, amministrativo e anche giudiziario, ricorrendo
spesso le parti alla loro episcopalis audientia.
In
materia matrimoniale crescono d'importanza gli sponsalia, rafforzati da arrhae
sponsaliciae. Il matrimonio stesso acquista maggiore
stabilità, per sfavore al divorzio, ma di contro trova favore anche il
celibato, contro cui viene meno la legislazione augustea. Se per gli sponsalia possiamo pensare a influssi
orientali, per gli altri fatti è palesemente operante la dottrina cristiana. Si
diffonde, in corrispettivo alla dote, l'uso di donazioni nuziali da parte del
marito, con finalità diverse come praemium
pudicitiae o beni assicurati alla vedova o penalità contro il divorzio.
Nel regime
familiare assistiamo al venir meno del rapporto potestativo e al prevalere
della parentela nel nostro senso. Anche l'adozione diventa una filiazione
fittizia, che si accosta alla greca uƒoqes…a: ne abbiamo
esempi in papiri egizi di quell'epoca, che ne regolano per atto scritto e in
forma contrattuale i vari effetti[15].
Tutela e cura tendono ad assimilarsi e la seconda si presenta come
continuazione della prima.
Altro ancora si
potrebbe dire sul diritto privato del IV secolo, che ai richiami al passato
unisce radicali innovazioni che con quei richiami si accavallano e
s'intrecciano. Sarebbe vano cercare razionali evoluzioni e tanto meno tentare
costruzioni geometriche. Il secolo successivo porterà un ulteriore sviluppo ma
anche un maggior ordine, almeno in Oriente, per merito del Codex Theodosianus e della stabilizzata documentazione notarile in
attesa della sistemazione giustinianea.
* Per questa relazione sono partito, per tener poi conto della
letteratura più recente, dal mio libro Per
l'interpretazione della legislazione privatistica di Diocleziano,
Milano1960, integrato per la seconda tetrarchia e la prima età constantiniana
dallo scritto «Da Diocleziano a Costantino. Note in tema di costituzioni
imperiali», in Studia et Documenta
Historiae et Iuris XXVII (1961), pp. 241 ss. (ora in Scritti giuridici, Torino 1996, pp. 492 ss.).
[1] Troviamo un
solo editto, in tema d'impedimenti matrimoniali, in Coll. 6, 4 del 295. La generale finalità di vietare nozze
incestuose spiega il carattere edittale, che si manifesta anche nella
prolissità e nell'enfasi.
[2] Sulla
specifica tipologia delle epistulae e
la loro efficacia ved. ora la ricerca di F. Arcaria,
Referre ad principem. Contributo allo
studio delle epistulae imperiali in
età classica, Milano 2000.
[3] Ancora
Costantino in CTh. I 2, 1 ne afferma
l'invalidità senza susseguente rescritto.
[4] Su questa
problematica e in particolare l'interpretazione di C. 1, 23, 3 ved. N. Palazzolo, «Le modalità di trasmissione
dei provvedimenti imperiali nelle province (II-III sec. d.C.)», in Iura XXVIII (1977), pp. 40 ss.
[5] Per il
contrasto in questa materia tra la cautela di Diocleziano e l'intervento ben
altrimenti eversore di Costantino rimando al mio volume Il testamento romano attraverso la prassi documentale, I, Firenze 1966, pp. 240 ss.
[6] Questo mio
discorso significa che non credo al preteso editto di Milano del 313, ma ad un
accordo politico ivi intercorso tra Costantino e Licinio, che il secondo
applica malvolentieri, con un mero editto di tolleranza, mentre il primo lo
traduce in azioni positive, di favori e privilegi alle chiese e d'intervento
nelle controversie religiose.
[7] Amm. Marc.,
XXI 10, 8.
[8] Ved. l'ampia
replica alle mie obiezioni di E. Volterra, « Il problema del testo delle
costituzioni imperiali», in La critica
del testo. Atti del II Congr. Intern. Soc. it. stor. dir., Firenze 1971,
pp. 821 ss. (ora in Scritti giuridici,
VI, Napoli 1994, pp. 3 ss.), e la pacata puntualizzazione di G.G. Archi, «Sulla cosiddetta ‘massimazione’
delle costituzioni imperiali», in Studia
et Documenta Historiae et Iuris LII (1986), pp. 161 ss. (ora in Studi2, Cagliari 1990, pp. 99 ss.).
[9] Ved. L. Maggio, in Le fonti di produzione del diritto romano. Epoca classica e
postclassica, a cura di F. Arcaria,
Catania 2001, pp. 83 ss.
[10] Faticheranno
nel V secolo i redattori dell'interpretatio
a dare al testo una veste giuridicamente più corretta, sostituendo intere
frasi.
[11] È plausibile
infatti che gli appartenenti a tale cancelleria siano passati al servizio di
quegli imperatori che, per legittimità costituzionale e atteggiamento, nonché
per sede territoriale, apparivano del grande predecessore i più diretti eredi,
anziché seguire l'avventura di Costantino. Questa mia ipotesi, rimasta
inosservata, è ora ripresa da R. Cardilli, La nozione giuridica di fructus, Napoli 2000, p. 334 nota 24.
[12] C. 6, 9, 9.
23, 15. 37, 21.
[13] Per una
visione d'insieme di quest'epoca, con particolare attenzione alla storia
politico-costituzionale e alle fonti giuridiche, ved. L. De Giovanni, Introduzione allo studio del diritto romano tardoantico, Napoli 1997.
[14] Provocate
soprattutto dai polemici saggi di J.-M.
Carrié. Ved. da ultimo il vol. miscellaneo Terre, proprietari e contadini dell'impero romano. Dal'affitto agrario
al colonato tardo antico, a cura di E.
Lo Cascio, Roma 1997, con scritti dello stesso Carrié e di altri
studiosi.
[15] Mi riferisco a
P. Oxy. IX 1206 del 335, riedito in Arangio- Ruiz, Negotia, n. 16, e a P. Lips. 28
del 381, riedito in Mitteis, Chrest. n. 363, sui quali è in corso uno
studio approfondito di M. Migliorini.