Università di Messina
Sommario: 1. Premessa. – 2. Brevi accenni al metodo: una premessa necessaria. – 3. La definizione di costituzione come processo politico. –
4. I limiti sostanziali della costituzione: la costituzione
reale. – 5. Il potere di emendamento costituzionale e
l’accordo sui principi fondamentali. – 6. Lo snodo
fondamentale: il potere costituente come sostituto operativo del concetto di
sovranità. – 7. Conclusioni.
L'idea di costituzione e di potere
costituente rappresentano due aspetti fondamentali del pensiero politico di Carl
Joachim Friedrich[1].
Teorico del costituzionalismo moderno, studioso dei processi istituzionali,
inventore della formula del c.d. “federalizing process”, Friedrich si
avvicina, fin dalle sue prime opere, allo studio ed alla definizione dei
concetti politici: l'approccio, critico nei confronti delle teorie del diritto
naturale e del formalismo giuridico, è sostanzialmente volto ad evidenziare il
carattere dinamico dei processi politici e a coglierne i dati qualificanti.
Il suo interesse verso gli elementi del
costituzionalismo è di conseguenza determinato non dal loro proporsi come fatti
normativi o ipotesi speculative, ma dalla loro natura essenzialmente politica.
In questa prospettiva, essi sono concepiti quali momenti peculiari di un
fenomeno più ampio, rappresentato dal processo di costituzionalizzazione
di una comunità, vale a dire dal suo organizzarsi in società politica.
Se questa è la chiave di lettura
principale della tematizzazione friedrichiana e se, d'altro canto, si vuole
mantenere valido l'assunto che costituzione e potere costituente rappresentino
il momento di passaggio nel quale si realizza il raccordo fondamentale tra la
dimensione politica e la dimensione giuridica del diritto[2],
emerge, allora, in tutta evidenza, la non casualità della scelta di tale autore
in un contesto nel quale s'intende riflettere sulle possibili ridefinizioni
delle forme d’organizzazione della società politica: ogni teorizzazione a
questo riguardo non dovrebbe prescindere dall'analisi e dalla ricerca sulla
natura e sul significato concreto che tali concetti assumono in un dato momento
storico e che rappresentano, pertanto, l'irrinunciabile punto di partenza e il
fondamento da indagare per capire ed interpretare le ragioni e le dinamiche
delle relazioni esistenti tra governanti e governati.
Gli appunti che seguono intendono esporre
gli argomenti che qualificano la teoria di Friedrich alla luce dei risultati
cui egli perviene sulla base di un processo di riconcettualizzazione delle
definizioni di costituzione e di potere costituente. Tale indagine, al di là
della neutralità del puro interesse scientifico, si presenta invero ricca di
suggestioni perché, nello specifico del pensiero politico dell'autore,
costituzione, potere costituente e gruppo costituente non soltanto rappresentano
i concetti fondanti la comunità politica, ma, allo stesso tempo e secondo suo
esplicito intento, sono interpretati in modo tale da creare i presupposti per
una teoria alternativa alle dottrine dello Stato e della sovranità. Teoria che,
nel processo federativo - il c.d. “federalizing process” - inteso come
principio di organizzazione politica delle comunità, trova la sua formulazione
definitiva.
L'approccio metodologico
costituisce la premessa indispensabile per intendere le coordinate della teoria
oggetto di studio. Il contesto nel quale Friedrich inquadra i fenomeni politici
è essenzialmente dinamico: i modi di organizzazione di una comunità come i
valori e i principi di riferimento non sono espressioni statiche, ma variano
con il mutare e l'evolversi dei tempi. Non può esistere in quest’ambito un
principio, una legge certa, verificata e verificabile, che possa aiutare lo
studioso nell'indagine. Le variabili dell'equazione sono tali da impedire una
loro classificazione in termini quantitativi. Il problema è dato dal fatto che
i dati della politica sono diretta espressione ed evolvono all'evolversi della
comunità, che a sua volta interagisce costantemente in termini diacronici e
sincronici con la realtà che la circonda. Ne segue che l'analisi dei processi,
se considerati in termini fissi ed astratti, porta a risultati ogni volta
diversi a seconda delle condizioni e dei presupposti storici, politici,
economici e culturali esistenti nella comunità nella quale essi hanno origine.
L'incertezza del risultato induce
Friedrich a concentrarsi sull'analisi del processo e sulle variabili che ne
condizionano l'evoluzione. E', infatti, l'azione politica, la politica nel suo
costante divenire che deve essere oggetto di studio e non il risultato più o
meno stabile, ordinato o duraturo cui l'azione politica dà luogo[3].
Nel movimento è, dunque, la sostanza dei fenomeni politici.
Ogni atto politico è, tuttavia, orientato
al raggiungimento di uno scopo determinato. In polemica con la Wertfreiheit di
Weber e di Pareto, per Friedrich sono i valori che muovono gli individui a
porre in essere una determinata azione piuttosto che un’altra. Essi tuttavia
vanno concepiti come “fatti” e, in quanto tali, valutati alla stregua di tutti
gli altri dati oggetto d’analisi da parte delle scienze sociali[4].
I valori che la scienza politica prende in
considerazione, tuttavia, non sono né i valori strumentali dei relativisti, né
i valori intrinseci dei dogmatici: quelli che effettivamente rilevano ai fini
dell'indagine del Nostro sono soltanto quei valori che hanno un’object-like
existence, un’esistenza oggettivata. In altre parole, si tratta di quella
serie di motivazioni che, concretamente, hanno determinato il verificarsi di
determinati fatti e sono diventati operativi nelle scelte poste in essere dagli
individui all'interno della comunità. I dati di fatto della politica, dunque,
si fondano tanto sull'esperienza interiore quanto su quella esteriore e
soltanto un concetto d’esperienza che li richiami entrambi può avere validità
per la scienza[5].
La questione dei valori gioca un ruolo di
estrema importanza all’interno dell’impostazione speculativa di Friedrich. Essa
spiega, in primo luogo, il ridimensionamento che l’autore opera rispetto alla
trasformazione dei principi ideali in obiettivi politici. Tale
ridimensionamento dipende dal fatto che, conformemente all'assunto, gli
obiettivi dell'azione politica sono strettamente collegati al sistema di
credenze esistente in una data comunità. Il “pareggiamento” - per usare
l'espressione di Sartori - tra valore reale e valore ideale nella realtà
esistenziale, consente a Friedrich di mantenere l'orientamento ai valori
dell'agire politico, evitando, al tempo stesso, che il suo contenuto ideale si
cristallizzi in dogmi assoluti, eterni, immutabili. Ogni atto politico è
orientato al raggiungimento di uno scopo determinato. Ora, ogni scopo contiene
in sé un valore in quanto presuppone la scelta di realizzare un obiettivo
piuttosto che un altro. Qual è, allora, il ruolo che gli obiettivi occupano in
un tale contesto? La giustizia, l’uguaglianza, la libertà sono certamente fini
cui dovrebbe tendere ogni azione politica. La realizzazione di tali valori, la
loro realtà esistenziale tuttavia, è strettamente connessa all’ambiente
storico-organizzativo della comunità e, dunque, essi non possono valere come
immutabili. In altri termini, non sempre gli obiettivi di una determinata
società politica corrispondono ai principi generali ed astratti ai quali si sostiene
che l'azione politica debba necessariamente orientarsi: la giustizia di un
atto, la legittimità dell'azione politica sono termini che vanno analizzati,
per Friedrich, in relazione al soggetto che è chiamato ad esprimere tali
giudizi di valore, vale a dire la comunità politica, in quanto sono soltanto i
suoi «particolari valori, convinzioni e scopi [che esprimono] il contesto
all'interno del quale gli obiettivi generali e i compiti dello Stato possono
essere realizzati»[6].
Ora, non solo tali credenze e convinzioni mutano con il passare del tempo, ma
gli individui stessi che compongono la società in una determinata epoca storica
sono portatori di valori diversi tra loro, talvolta perfino contrastanti: «Non
esiste nessun ordine di grado, nessuna chiara gerarchia dei valori. L’uomo
organizzato in una comunità politica rifiuta di decidersi. Egli preferisce (…)
perseguire allo stesso tempo una molteplicità di scopi, alcuni dei quali
possono essere tanto in contrasto tra loro da elidersi reciprocamente in termini
logici. Anche l’uomo politico adegua l’ordine della gradazione dei suoi valori
alla situazione che muta (...). Il razionalista politico può lamentarsi di
questo, ma egli dovrà ammettere che l’uomo è evidentemente disposto a vivere
con una molteplicità di obiettivi e di scopi. (…). Ciò significa, nello stesso
tempo, che non è possibile formare una lista di priorità valida sempre e
ovunque»[7].
Tale “oggettivizzazione” dei valori,
tuttavia, non porta necessariamente alla negazione di un piano deontologico di riferimento.
Ad esso, certamente, appartiene la natura “ideale” del valore, che si riferisce
sostanzialmente alla dimensione etica della comunità, ma non necessariamente a
quella politica: «il valore [la sua natura ideale] è una particolare dimensione
dell’essere: vale a dire la dimensione del “dover essere”. Questo “dover
essere” può o non può essere realizzato; molto spesso nelle norme etiche e
giuridiche esso non è realizzato. Ma questa mancanza di realizzazione non
inerisce al valore o alla norma. (…) La norma “non uccidere” implica che “la
vita è un valore”, che “la vita dovrebbe esserci”. Essa resta un valore tanto
se nessuno è ucciso e la norma è, quindi, completamente realizzata, quanto se
molti sono uccisi»[8].
Ora, quanto più tali principi si inverano
nella cultura e nelle convinzioni profonde di una società, tanto più questa
sarà in grado di condizionare i procedimenti politici . La relazione, sebbene fondamentale, resta in ogni
caso indiretta e il severo giudizio di Friedrich nei confronti del positivismo
giuridico[9]
non da ultimo deve essere interpretato come una sostanziale critica per aver
reso ancora più evanescente il rapporto tra dimensione etica, dimensione
politica e dimensione giuridica della vita della comunità. Attraverso la
traduzione dei principi ideali nel sistema di credenze esistente in una
comunità in un tempo dato, infatti, egli riesce a mantenere la dimensione del
valore nell’ambito politico, senza che quest’ultimo venga riassorbito dal
primo, perché scopo dell'azione politica è e resta il soddisfacimento delle
esigenze e delle credenze di una comunità e non la diretta realizzazione delle
proposizioni etico-religiose che ne sono all’origine. Stabilita, in tal modo,
la necessaria relazione, Friedrich esclude ogni possibilità di sopraffazione
della dimensione etica su quella politica e, dunque, di “sostituzione” degli
obiettivi politici con proposizioni esprimenti verità assolute, principi
astratti ed immutabili.
Una volta resa autonoma la sfera politica
da quella etica, egli prosegue nell’affermare la sostanziale autonomia della
politica anche nei riguardi della dimensione giuridica della comunità e
affronta il problema con gli stessi criteri distintivi d’analisi[10].
Il processo di “cristallizzazione” dei concetti giuridici, infatti, l'imporsi
progressivo della norma non più come regola volta a stabilire un ordine per la
realizzazione di determinati obiettivi, ma essa stessa come principio e fine di
una logica autoproducentesi, hanno avuto come conseguenza la dogmatizzazione
della dimensione giuridica. Uno dei paradossi più evidenti di tale
trasformazione è stata l'identificazione del concetto di legittimità con quello
di legalità[11].
Lungi dal costituire un veicolo d’integrazione, la norma così intesa ha
contribuito al progressivo allontanamento della regola giuridica dalla realtà
storica esistente in un contesto dato. Ciò ha comportato la sostanziale
alterazione della natura della dinamica formativa dei processi politici e la
loro distrazione dall'obbiettivo originario volto al soddisfacimento delle
esigenze della comunità[12].
L'assolutizzazione dei concetti in politica, il verificarsi di un distacco
formale quanto sostanziale dei procedimenti politici dalla cultura e dai
concreti bisogni di una comunità comporta, in ultima analisi, una perversione
dell'atto politico, in quanto esso perde la sua originaria natura operativa per
diventare affermazione di verità assiomatiche. Esemplari a questo riguardo sono
le riflessioni di Friedrich quando, con l’incarico di consigliere per gli
affari costituzionali del Governo Militare d’occupazione statunitense in
Germania alla fine della II Guerra Mondiale, in un rapporto sul progetto di
costituzione elaborato dalla SED (Sozialistische Einheitspartei Deutschlands)
per la Germania, riferisce del colloquio con Otto Grotewohl, rispetto alle
obbiezioni sollevate riguardo alla mancata previsione, nel documento, di un
organo ad hoc, diverso dal parlamento, per il controllo di
costituzionalità delle leggi e per la garanzia dei diritti fondamentali. La
risposta del rappresentante della SED che non occorreva, in realtà,
preoccuparsi della garanzia dei diritti fondamentali perché, nel momento in cui
veniva affermata in Costituzione la completa sovranità popolare, nessuno
avrebbe potuto garantire i diritti del popolo meglio del popolo stesso
attraverso il potere legislativo, sintetizza in una battuta ciò che Friedrich
intende dimostrare come conseguenza del processo di assolutizzazione normativa
dei concetti e dei processi politici[13].
Muovendo da tale prospettiva, è evidente
come il costituzionalismo, il processo di costituzionalizzazione della comunità
politica rappresenti il punto di riferimento fondamentale dell'intera teoria.
Cos’è, dunque, una costituzione? Dopo aver passato in rassegna i diversi
significati ad essa generalmente attribuiti[14],
Friedrich perviene ad una definizione di costituzione in senso funzionale[15],
intesa quale insieme organizzato di limitazioni concrete ed efficaci poste
all’esercizio del potere da parte del governo e dei gruppi esistenti nella
società[16].
Le ragioni dell'adozione del concetto
funzionale di costituzione - ritenuto peraltro dall'autore il solo
politicamente valido - discendono da una serie di considerazioni. In primo
luogo, esso apre immediatamente ad una dimensione dinamica che tiene conto, in
linea con quanto precedentemente affermato, della molteplicità delle variabili
che intervengono nel processo di organizzazione politica di una società[17].
Friedrich non cerca un concetto incontrovertibile, statico al quale collegare
le norme costituzionali, ma lascia che la definizione descriva il movimento in
modo tale che il fine si riassuma nel suo significato operativo. Ne segue che
il carattere di costituzionalità di un regime politico si risolve, in ultima
analisi, in una semplice questione di grado. In altre parole, la
contrapposizione non è tra governi costituzionali e governi incostituzionali
ovvero, nel senso formale del termine, tra governi che possiedono una carta o
più leggi che costituiscono un
documento costituzionale, bensì tra governi più o meno costituzionali. Il grado
di costituzionalità, invero, dipende dall’effettività dei vincoli posti
all’esercizio del potere e va, dunque, individuato all’interno di due estremi
teorici costituiti rispettivamente dall’assenza di un qualsiasi limite e, per
converso, dalla presenza di limiti perfettamente efficaci all’esercizio del
potere.
Un’ulteriore conseguenza dell’adozione del
concetto funzionale di costituzione è data dalla concreta possibilità di
verificare la costituzionalità di un governo, indipendentemente dall'esistenza
di un documento scritto. La definizione di costituzione come processo politico
significa, in concreto, poterne verificare l'effettiva vigenza, poiché soltanto
laddove i limiti al potere sono realmente operanti, si può affermare di essere
in presenza di un governo costituzionale. Si rende, in tal modo, possibile
l’applicazione di un criterio di verifica di tipo esistenziale: se,
infatti, in una determinata comunità politica nessuno - organo o individuo che
sia - detiene un potere assoluto, se nella realtà effettiva non esiste
alcun sovrano in grado di esercitare un potere illimitato, soltanto
allora le restrizioni potranno considerarsi realmente efficaci e, di conseguenza,
il tipo di governo sarà costituzionale[18].
L’applicazione, in termini diacronici, di
tale criterio consente all’autore di rivisitare l’evoluzione del
costituzionalismo come storia della dialettica tra classi dominanti e classi
emergenti all’interno della società per l’affermazione di limitazioni efficaci,
al fine di impedire l’abuso di potere da parte di ciascuna delle parti in
conflitto. Le conseguenze di una tale interpretazione sono essenzialmente due:
se, infatti, nella definizione del costituzionalismo non si «guarda tanto a chi
deve governare, ma a come si deve governare» ovvero si tende ad
identificarlo - secondo la definizione di Matteucci - come la «tecnica
giuridica delle libertà»[19],
allora non esiste una vera e propria frattura fra costituzionalismo antico e
moderno e, dunque, la possibilità di determinare storicamente un’eventuale data
d’inizio dell’epoca costituzionale. D’altra parte, non pare ugualmente lecito
asserire che, dal diciottesimo secolo in poi, l’umanità abbia vissuto e
continui a vivere in un periodo d’ininterrotto costituzionalismo, come
l’avvento dei regimi totalitari hanno ampiamente dimostrato. L’equilibrio dei
poteri tra le classi all'interno di una società è, infatti, per sua stessa
natura instabile: se dalla sua esistenza dipende l’efficacia dei limiti, è
chiaro che ogni qual volta tale equilibrio si rompe, insieme ai vincoli del
potere verrà meno anche il carattere costituzionale del governo[20].
E’ evidente la diretta filiazione delle
teorie di Friedrich da quelle del suo antico maestro Charles McIlwain. Al senso
della continuità storica ed alla consapevolezza della stretta connessione
esistente tra eventi e idee politiche tuttavia, il discepolo aggiunge le
suggestioni derivanti dall’elaborazione di quei principi che hanno
caratterizzato il costituzionalismo moderno e contemporaneo: la teoria della
separazione dei poteri, articolata nelle due dimensioni funzionale e
territoriale e della rappresentanza politica, sebbene quest’ultima non sia assimilabile
né tanto meno riferibile, come vedremo, all’idea di sovranità.
Ciò che rende reale la costituzione è,
dunque, l'effettività dei limiti in essa contenuti. Essenzialmente due sono le
tipologie enucleate: i limiti procedurali e i limiti sostanziali. I primi sono
l’esplicitazione del principio della separazione dei poteri. Essi sono posti a
tutela e a salvaguardia degli ambiti di competenza delle singole istituzioni.
Ciò che, tuttavia, rende la costituzione una forza politica, cioè tale da porsi
come il parametro di valutazione esistenziale per giudicare del grado di
costituzionalità di un governo dato, sono i suoi limiti sostanziali che
«esprimono il modo di vivere di un popolo»[21]: essi
hanno la funzione di garantire quelli che sono i diritti avvertiti come
fondamentali dai membri della comunità politica e che, in genere, si
esprimono in forma di statuizioni e dichiarazioni di principio contenute nei
preamboli delle carte fondamentali, le quali rappresentano e sintetizzano, a
loro volta, la costituzione materiale della società. I limiti sostanziali
determinano, dunque, la forza politica di una costituzione ponendosi, a tutti
gli effetti, quali parametri di valutazione esistenziale per giudicare del
grado di costituzionalità di un governo. In altri termini, essi verificano
della conformità, all'interno di una comunità politica, della natura e dei modi
di esercizio del potere con ciò che vi è di comune in fatto di valori,
credenze, interessi e la cui violazione da parte del legislatore legittimo
sarebbe impensabile.
L'ancoraggio dei diritti fondamentali alle
convinzioni profonde esistenti tra i membri di una comunità, la negazione di un
loro fondamento metapolitico[22],
rappresenta un passaggio fondamentale nel pensiero costituzionale di Friedrich.
A suo avviso, infatti, i diritti fondamentali degli individui non sono
assimilabili a quelli che generalmente la dottrina indica come diritti
naturali. I diritti naturali sono stati considerati, nella storia del pensiero
politico, come diritti inalienabili, intangibili ed immutabili dell’individuo:
il loro fondamento risiede nell’etica cristiana e la loro natura è
sostanzialmente “difensiva” in quanto esistenti contro, come limite al governo
costituito. L’evoluzione successiva e la sempre maggiore accentuazione delle
libertà civili - prosegue - ha dimostrato quanto alla libertà intesa come
indipendenza si sia andata affiancando, superandola e trasformandola, la
libertà intesa come partecipazione degli individui alla gestione della cosa
pubblica. In tempi recenti, poi, si è andato affermando un nuovo concetto di
libertà che può realizzarsi soltanto attraverso il governo, «ossia di libertà
che gli uomini possono ottenere soltanto attraverso il governo»[23].
Si tratta della libertà dal bisogno e dalla paura. Essa implica un’azione che,
tramite il governo, è rivolta alla realizzazione della libertà più importante e
che, di fatto, riassume tutte le altre: il riconoscimento dell’intrinseca
dignità dell’uomo e il conseguente diritto di esprimere pienamente le sue
potenzialità. Ora, queste che Friedrich chiama le dimensioni della libertà,
insieme al fatto che i contenuti di tali diritti e di tali libertà continuino a
non essere riconosciuti, sia per numero sia per intensità, in tutte le carte
dei diritti oggi esistenti, dimostrano quanto possa «essere arduo affermare che
i diritti esistono indipendentemente dal loro riconoscimento da parte di coloro
che ne beneficiano. Ma io sono portato a sostenere - conclude - che essi
esistono, non in modo assoluto, ma da un punto di vista politico»[24].
A prescindere dal fatto che essi possano
trovare un giustificazione trascendente nella dimensione etico-religiosa della
comunità, ciò che rileva a livello politico è il loro riconoscimento in termini
costituzionali, la loro traduzione in limitazioni efficaci all’esercizio del
potere. Se, infatti, la costituzione rappresenta il momento culminante del
processo di organizzazione del potere, questo deve necessariamente preesistere
ai diritti e al loro riconoscimento come fondamentali[25].
Né, d’altra parte, tali diritti sono il risultato di un processo di
autolimitazione dello Stato, come vorrebbero i sostenitori dello Stato di
diritto[26]:
il fatto che essi formino il contenuto di norme positivamente date non
garantisce necessariamente l’effettività dei limiti che abbiamo visto essere il
carattere qualificante di un governo costituzionale.
I diritti fondamentali sono, dunque, per
Friedrich diritti essenzialmente politici[27]
proprio per il fatto che essi sono riconosciuti come tali dalla comunità che ha
inteso proteggerli da ogni potere. Essi esprimono le convinzioni profonde, i
valori essenziali che permeano la società in un determinato momento storico e
senza il rispetto dei quali nessun governo potrebbe legittimamente governare.
Come abbiamo già avuto modo di dire, Friedrich non esclude per questo
l'esistenza di un piano deontologico di riferimento, ma esso riguarda soltanto
indirettamente la dimensione politica della comunità. L'effettività di un
diritto non dipende né dalla morale, né dalla norma, ma dal grado d’importanza
ad esso attribuito da parte dei membri della comunità e s’inserisce in quella
che si potrebbe definire la dimensione, dai confini incerti, che divide
l’essere dal dover essere. Quanto più profonda sarà la convinzione rispetto
all’irrinunciabilità di un diritto da parte della comunità, tanto maggiore sarà
l’efficacia dei limiti presenti nella costituzione e dunque la sua forza
politica. Le Carte dei diritti sono, allora, il riconoscimento formale della
costituzione reale di una determinata società.
La prospettiva adottata permette a
Friedrich di collegare direttamente il rispetto e la tutela di tali diritti
alla forza politica che la costituzione realmente possiede, e quest’ultima al
grado di consenso espresso dalla comunità. Dimensione giuridica e dimensione
politica della costituzione si fondono in un unico processo, laddove la
costituzione materiale contenuta nelle carte dei diritti diventa un fatto reale
e non rimane a livello d’astratta dichiarazione di principio.
L’amending power - il potere
del popolo di emendare la costituzione secondo procedure stabilite[28]
- rappresenta la chiave di volta dell'intero sistema. Il mantenimento di un
governo costituzionale dipende dalla capacità di adattamento della costituzione
alle mutevoli condizioni della società politica: soltanto in questo modo,
infatti, non viene meno, col tempo, quell’armonia tra principio e realtà
politica tanto necessaria all’effettiva vigenza delle norme costituzionali. Pur
optando per un modello rigido di costituzione[29],
Friedrich distingue all’interno della carta fondamentale le parti concernenti i
principi di organizzazione e quelle che invece tendono a delineare la
fisionomia della comunità politica: «E' chiaramente irragionevole collocare una
disposizione come quella che la Germania è una repubblica, o che tutto il
potere emana dal popolo (art. 1), allo stesso livello della disposizione che
tutti i bambini che si diplomano alla scuola normale riceveranno una copia
della costituzione (art. 148). (…) La tecnica più semplice per far fronte alla
difficoltà sembrerebbe essere una disposizione per cui parti dello stesso documento
costituzionale possano essere emendate con metodi differenti»[30].
Perché la previsione di gradi di rigidità
diversi? Perché sono essenzialmente due le finalità del potere di emendamento:
da un lato, consentire alla carta costituzionale, tramite le necessarie
modifiche, di adattarsi quanto più speditamente possibile ai cambiamenti che si
verificano all’interno della comunità; dall’altro, garantire e difendere i
principi che ne stanno a fondamento da possibili sovvertimenti con la
previsione di una particolare procedura di attivazione. Un procedimento di
emendamento costituzionale estremamente flessibile, infatti, comporta - come
vedremo tra breve trattando della rivoluzione - una serie di conseguenze
particolarmente negative per la sopravvivenza di un ordinamento costituzionale:
in primo luogo, non garantisce la costituzione dagli attacchi di coloro che
intendono distruggere qualsiasi sistema di limitazione del potere; in secondo
luogo, esso non ostacola il verificarsi di quel complesso di circostanze che
conducono al sovvertimento del governo legittimo. Infine, è da considerare il
fatto che l’esclusiva titolarità del potere di emendamento in capo ad un solo
organo, l’assemblea legislativa, favorisce, in ultima analisi, l’«applicazione
della violenza, nello sforzo di costringere tale corpo ad esercitare il potere
di emendamento per la distruzione della costituzione». Per queste ragioni è
necessario limitare e disciplinare tale potere: la previsione di un diverso
grado di rigidità rispetto al contenuto delle norme esistenti all’interno della
carta fondamentale rappresenta una possibile tecnica, ma - aggiunge Friedrich -
non è la sola. Le conseguenze negative appena elencate, infatti, gli consentono
di elaborare anche una «massima politica pratica», per la quale il potere di
emendamento dovrebbe essere diffuso ed attribuito ad organi diversi in
«località separate»[31].
La facoltà di emendamento tende a colmare
l’eventuale divario tra costituzione formale e costituzione reale causato
dall’evoluzione politica della comunità. Essa, tuttavia, agisce efficacemente
fintantoché vi sia accordo sui principi fondamentali che presiedono
l'organizzazione politica di quella data società e, dunque, fino a quando il
governo eserciti il suo potere nei termini e nei limiti costituzionalmente
sanciti. Ciò che Friedrich intende con accordo sui principi fondamentali non
riguarda né uniformità di opinioni, né parità di condizioni economiche, né
tantomeno comunanza di origini culturali e religiose. A tale proposito egli
porta l'esempio della democrazia elvetica e dell'esperienza statunitense,
realtà nelle quali il costituzionalismo è prosperato a dispetto di qualsiasi
divisione culturale, linguistica, religiosa ed economica. In realtà, spiega,
l'accordo in una democrazia, deve riguardare gli elementi del costituzionalismo
e, dunque, le convinzioni essenziali rispetto alle regole che disciplinano
l'esercizio del potere[32].
Ora, poiché tutte le costituzioni dichiarano e, in genere, proteggono le
fondamentali libertà degli individui - in special modo la libertà di
espressione – si può affermare, sintetizzando in una formula, che l’accordo sui
principi fondamentali è the agreement to disagree[33].
La rottura dell'accordo sui principi
fondamentali, o in altri termini, sulle regole del gioco, sancisce lo stato di
crisi della democrazia costituzionale. Alterando le regole, il governo smette
di esercitare costituzionalmente il suo potere. Esso diventa illegittimo in
quanto viene meno il riconoscimento, da parte dei membri della comunità, della
validità del fondamento della titolarità dell’esercizio del potere. Questo
accade in quanto i suoi comandi perdono di autorità, ovvero non sono più in
grado di «elaborare le opinioni, gli interessi e le necessità di una comunità»[34].
Il venire meno del consenso annulla ogni motivazione che fonda l'obbligazione
politica e nessun tipo di procedura di emendamento costituzionale potrà, a
questo punto, «prevenire l’emergenza rivoluzionaria del potere costituente»[35].
Si rende dunque necessaria la creazione di
un nuovo ordine politico e questo sarà compito del potere residuale non
organizzato di resistenza[36].
Tale è il potere costituente, «l’atto generatore iniziale», che Friedrich
descrive come un potere permanente all'interno della comunità, che agisce in
modo intermittente nei procedimenti di emendamento costituzionale, ma che
esplode in tutta la sua forza creativa dinanzi ad un potere arbitrario. Esso è,
dunque, il potere della comunità di fare la rivoluzione[37]
e di sostituire al vecchio un nuovo ordine costituzionale: «il est évident
que derrière les pouvoirs qui doivent être séparés, il doit exister un autre
pouvoir que est un et indivisible. C’est le pouvoir de faire la Constitution,
d’établir l’ordre constituionnel et, en cas de besoin, de l’amender et de le
transformer même pour lui substituer un autre»[38].
La definizione di potere costituente come
forza creativa, come energia rivoluzionaria fondante un nuovo ordine costituzionale
richiama, indubbiamente, la terminologia adottata da Carl Schmitt nella sua
opera Verfassungslehre[39].
Ma la prospettiva e le finalità attribuite dai due autori a tale potere
divergono in modo sostanziale. Per Schmitt «il popolo che non esiste come
nazione è soltanto una qualunque unione di uomini affine etnicamente o
culturalmente, ma che non necessariamente esiste politicamente»[40],
laddove per Friedrich l’affinità etnica e culturale è condizione marginale di
esistenza politica rispetto all’accordo sui principi del costituzionalismo. E
ancora, mentre per Schmitt «l'atto con il quale il popolo si dà una
costituzione presuppone (…) lo Stato»[41],
quest’ultimo è per Friedrich una creazione giuridica incompatibile con il
costituzionalismo moderno. Lo stesso problema della sovranità troverà, come
vedremo, soluzioni differenti: mentre, infatti, per Schmitt «un sovrano deve
esserci perché ci sia effettualmente una forma giuridica»[42],
Friedrich farà del potere costituente il sostituto operativo del concetto di sovranità.
Per il Nostro, infatti, il potere
costituente non si riassume nella decisione fondamentale, non è espressione di
una volontà libera ed immediata, ma è vincolato ad un progetto e condizionato
dall’esistenza di un consenso reale. L’emergenza rivoluzionaria, infatti, non
sempre attiva il potere costituente: le rivoluzioni politiche possono anche non
avere come scopo la creazione di un nuovo ordine costituzionale. Tali ad
esempio furono la rivoluzione bolscevica o il colpo di stato di Hitler in Germania,
il cui obiettivo non fu quello di stabilire un nuovo sistema di limitazione dei
poteri, ma, al contrario, di concentrare tutto il potere nelle mani di una
élite di governo.
Perché, infatti, un potere rivoluzionario
abbia natura costituente è necessaria l'esistenza di due condizioni: la prima,
è che esso agisca contro un governo effettivamente arbitrario; la seconda
riguarda la finalità dell'azione rivoluzionaria, che deve essere rivolta alla
creazione di un nuovo ordine costituzionale. Senza questi due presupposti, non
è possibile parlare né di potere costituente, né di gruppo costituente.
Il potere costituente è esercitato dal
gruppo costituente. Esso si forma spontaneamente in risposta all'esigenza
rivoluzionaria e comprende tutti quei membri della comunità che più si
dimostrano in grado di difendere le libertà violate dall’esercizio arbitrario
del potere. Essi agiscono in base al consenso della comunità e sono espressione
delle esigenze, delle convinzioni e dei valori di questa.
Il gruppo costituente non si configura,
tuttavia, come una élite: per Friedrich, infatti, non esistono in
politica parametri oggettivi per stabilire l’eccezionalità di una determinata
prestazione[43].
Le straordinarie capacità individuali che possono caratterizzare i membri del
gruppo, le loro qualità soggettive, dipendono, in ultima analisi, dal grado di
compatibilità delle scelte operate con le esigenze e le convinzioni più
profonde della collettività di cui si fanno interpreti. Per questo motivo è
impossibile stabilire in via definitiva l’esistenza di una élite di
governo e questo non perché tutti gli individui siano fondamentalmente in grado
di governare o di criticare il governo, ma per la semplice ragione che non è
possibile prevedere chi tra gli uomini che vivono nella comunità sia
effettivamente capace di governare o realmente interessato a partecipare alla
gestione del potere[44]. Il
potere costituente - esercitato dal gruppo costituente - è un potere
relazionale, generato dal consenso[45] e fondato
sulla cooperazione tra i gruppi per il perseguimento del fine comune di
stabilire regole certe all’esercizio del potere. In accordo con la teoria del
potere costituente[46], è
alla comunità che spetta, infine, il giudizio e questa constatazione contrasta
con una possibile definizione del gruppo costituente in termini elitari.
Ma non si tratta nemmeno di un’entità
indistinta, espressione di una volontà unitaria. Se, infatti, il gruppo
costituente è tale quando opera per il ristabilimento di un nuovo ordine
costituzionale, e se la costituzione è l’insieme dei limiti efficaci
all’esercizio del potere di governo a tutela delle libertà della comunità,
prima fra tutte quelle di dissentire, ne segue che il gruppo costituente potrà
essere soltanto espressione di un accordo sui principi fondamentali del
costituzionalismo, non il portavoce di una superiore volontà generale. La
dialettica pluralistica che il costituzionalismo deve garantire contrasta con
l’attribuzione al gruppo costituente della qualifica di “sovrano”. Il fatto che
il fondamento ultimo dell’autorità costituzionale risieda nella comunità nel
suo complesso non comporta necessariamente, come vorrebbero le dottrine della
sovranità, il manifestarsi di una volontà unitaria distinta e trascendente le
volontà dei singoli e dei gruppi[47].
Proprio perché fondato sul consenso, il potere costituente - ed il gruppo
costituente che ne è espressione - deve necessariamente tenere conto della non
unanimità, delle possibili divergenze che possono verificarsi tra i gruppi in
una società in ordine alle questioni che saranno oggetto di decisione. Occorre,
pertanto, tenere fermo il concetto che la decisione fondamentale ha come
contenuto la definizione dei modi di organizzare l'esercizio del potere nella
comunità proprio in considerazione del riconoscimento dell’esistenza al suo
interno di diversi centri di potere.
L’idea pluralistica da un lato, e il
carattere di permanenza del potere costituente in seno alla comunità
dall’altro, conducono Friedrich non soltanto a negare la validità concettuale
della “sovranità”, ma anche a considerare come negativi gli effetti della sua
applicazione alla dinamica costituzionale. La sua connotazione assolutistica
comporta che l’idea di sovranità, ove adottata, provoca un’alterazione del principio
della separazione dei poteri, in quanto prevede l’esistenza di un potere
superiore agli altri, onnicomprensivo e onnipotente e, dunque, capace in ogni
momento di cambiare l’equilibrio esistente. L’organo esponenziale di tale
potere è messo così in grado di concentrare su di sé quante più competenze
possibili fino al punto da rendere inefficaci i limiti costituzionali. In una
tale perversione del sistema, lo stesso potere costituente può essere ridotto
all’impotenza, soffocato dall’estensione di un potere di tipo coercitivo che,
ergendosi ad unico interprete di una necessariamente vaga “volontà popolare”,
ne riduce con tutti gli strumenti a sua disposizione ogni margine di manovra.
Le vicende costituzionali relative alla fine della repubblica di Weimar e
all'avvento del nazismo in Germania[48]
restano, per Friedrich, esemplari a questo riguardo. Dunque, egli sembra
concludere, delle due l’una: o si ha un diritto illimitato della maggioranza -
in quanto esponente del popolo sovrano - con la conseguente concentrazione del
potere in un unico organo e dunque, un sistema non costituzionale; oppure si ha
l’emersione immediata del carattere limitato del diritto, del suo essere
diritto tra gli altri diritti e potere tra gli altri poteri. Se si vuole che al
popolo sia sempre concesso d’essere arbitro del proprio destino, occorre che
l’esercizio del potere costituente permanga intatto nella comunità. Ma allora
si devono prendere le distanze dal concetto di sovranità e parlare in termini
di potere, in particolare di potere costituente. Questo stabilisce regole e
limiti al governo senza che la sua efficacia e permanenza all’interno della
società politica possa mai venire meno: «il solo modo teoricamente chiaro e
ammissibile di porre la questione - conclude Friedrich - è di ammettere che
invece di essere diretto da un potere sovrano, un sistema costituzionale riposa
sul potere costituente»[49].
E’, dunque, il potere costituente l’anello
di raccordo tra la costituzione politica e la costituzione giuridica di una
comunità. Attraverso l’azione costituente, tramite la collaborazione tra gli
individui e tra i gruppi per l’adozione delle decisioni comuni, Friedrich
delinea un particolare tipo di organizzazione politica senza Stati né Sovrani,
basata sul consenso e sulla cooperazione costante tra i suoi membri, che trova
nel principio federativo l’elemento ordinante. Non esiste più un unico centro
nel sistema: ne esistono diversi, ciascuno con propri poteri e competenze, in
relazione dialettica tra loro. Tali sono le comunità politiche nelle quali,
sulla scia della Korporationslehre e della teoria dei corpi intermedi,
Friedrich riconosce la reale dimensione politica dell’individuo: è qui, in
sostanza, che si realizzano in pieno i principi del moderno costituzionalismo
della partecipazione dei membri della società alle decisioni, della
responsabilizzazione di coloro che tali decisioni sono chiamati ad eseguire,
dell’effettivo controllo sulla gestione. Il processo federativo è «principio
universale di organizzazione politica»[50] che
consente il mantenimento del necessario equilibrio tra autonomia e
collaborazione, tra centri e periferie, tra politiche comuni e interessi
particolari che caratterizza le relazioni tra le diverse formazioni
comunitarie.
Si tratta, come è evidente, di un
complesso e delicato equilibrio, la cui natura necessariamente dinamica per la
mutevolezza delle condizioni del vivere sociale, riporta inevitabilmente al
nucleo fondamentale del pensiero costituzionale di Friedrich, al suo concetto
funzionale di costituzione, il solo in grado di garantire proprio
quell’equilibrio che egli definisce, per la natura stessa degli interessi
coinvolti, come “instabile”.
Il “federalizing process”
rappresenta, dunque, l’anello di chiusura dell’intero sistema. Nei suoi elementi
organizzativi esso sembra non distaccarsi in modo particolare dai modelli
classici di federalismo, se non per il rilievo che l’elemento dinamico occupa
all’interno della teoria. Come per il costituzionalismo, così la teoria
federale di Friedrich si concentra sulle relazioni, sui rapporti di
cooperazione, sul rispetto e sulla garanzia dei limiti dei poteri interagenti
tra le comunità federate, sui meccanismi di partecipazione di queste ultime
alle decisioni comuni.
L’analisi del sistema è ancora oggetto di
approfondimento da parte di chi scrive, ma dalle riflessioni fin qui svolte
crediamo emerga almeno una considerazione importante: e cioè che se le esigenze
di cambiamento si richiamano direttamente alla sostanza, piuttosto che alla
forma del problema, diventa allora necessaria una più attenta riflessione su
quali siano oggi i soggetti della politica, di modo che una certa idea di
ordinamento non si risolva in un adattamento di modelli già esistenti, ma sia
progetto consapevole che tenga conto delle mutate condizioni e delle diverse
prospettive di convivenza politica.
[1] Carl Joachim Friedrich nasce a Lipsia in Sassonia nel
1901. Allievo di Alfred Weber a Heidelberg, si trasferisce ben presto
all’università di Harvard negli USA, dove ottiene l'incarico di
professore di Government. Nel 1938 chiede ed ottiene la cittadinanza
americana ed alla fine del secondo conflitto mondiale ritorna in Germania al
seguito del Generale Clay come consigliere per gli affari costituzionali presso
il Governo Militare di occupazione statunitense. Professore incaricato di
Filosofia e di Scienza della Politica in numerose università americane ed
europee, è presidente di diverse associazioni tra le quali ricordiamo l’“American
Political Science Association” e l'“Association de Philosophie politique”.
Muore negli Stati Uniti nel 1984. Tra le sue opere ricordiamo: Constitutional
Government and Democracy, 1950; The New Belief in the Common Man,
1942; Constitutional Reason of State, 1957; Man and His Government,
1963; Federalism. Trends in Theory and Practice, 1968. Per un'ampia bibliografia dell'autore cfr. K. von Beyme (a cura di), Theorie
und Politik. Festschrift zum 70. Geburtstag fuer Carl Joachim Friedrich, Haag 1971.
[2] Scrive Maurizio Fioravanti: «il nostro potere costituente
vive, proprio per le sue caratteristiche intrinseche, ai confini tra “diritto”
e “politica”: è quella particolare fonte di diritto che si contraddistingue,
rispetto alle fonti di diritto direttamente riconducibili alla costituzione in
senso formale, per la necessaria presenza in essa di un “principio politico”
che opera in senso costituente, ma è anche quella particolare volontà politica
che si contraddistingue, rispetto a tutti i tipi possibili di decisione, per la
sua disponibilità a lasciarsi disciplinare in forme giuridiche di tipo
costituzionale, come tali sufficientemente stabili nel tempo». M. Fioravanti, Stato e Costituzione.
Materiali per una storia delle dottrine costituzionali, Torino 1993, 218.
[3] C.J. Friedrich, Man
and His Government, New York 1963, 18.
[4] Cfr. C.J. Friedrich, Man and His
Government, cit., 55 e in generale l’intero capitolo II “Function,
purpose and value”.
[5] Cfr. C.J. Friedrich, Die Politische
Wissenschaft, Freiburg-Muenchen 1961, 8 ss. Secondo Giovanni Sartori «l'opera di Friedrich è un caso esemplare di Wertfreiheit
“bene intesa”». Egli definisce la posizione assunta dallo studioso nei
confronti della questione dei valori come «mediana», vale a dire
«caratterizzata, e spiegata, da una concezione che potremmo dire di
oggettivismo o fattualismo assiologico». G.
Sartori, La teoria empirica della politica di Carl J. Friedrich, in
Il Politico, 1966, nr. 1, 61 ss.
[6] G. Sartori,
La teoria empirica della politica di Carl J. Friedrich, cit., 3.
[7] C.J. Friedrich, Di Verfassungsproblematik
der Entwicklungslaender in Himblick auf die Aufgaben des modernen Staates, in
C.J. Friedrich - B. Reifenberg, Sprache
und Politik, Heidelberg 1968, 460.
[8] C.J. Friedrich, Man
and His Government, cit., 56.
[9] Sulla
critica di Friedrich al positivismo giuridico e, in particolare, alla teoria
pura del diritto di Kelsen cfr. C.J.
Friedrich, Die Philosophie des Rechts in historischer Perspektive,
Berlin-Goettingen-Heidelberg 1955, 105 ss. Per quanto riguarda la tendenza attuale a considerare
la norma giuridica come mezzo d’attuazione e di realizzazione della volontà e
dei bisogni concreti degli associati, cfr. N.
Lipari, v. Diritto, in Dizionario delle idee politiche,
diretto da E. Berti - G. Campanini,
Roma 1993; G. Zagrebelsky, Il
diritto mite. Legge diritti giustizia, II ed., Torino 1992; J.M. Kelly, Storia del pensiero
giuridico occidentale, Bologna 1996, 485 ss.
[10] Una critica di analogo tenore si ritrova in un saggio
di Nicola Matteucci nel quale l'autore, criticando la netta distinzione di
Kelsen tra giurisprudenza analitica e giurisprudenza sociologica sulla base dei
rispettivi fondamenti del dover essere della norma e dell’essere del
comportamento umano, sostiene, al contrario, la necessaria interdipendenza tra
le due richiamandosi entrambe ad un valore: «la differenza fra giurisprudenza
normativa e giurisprudenza sociologica - conclude - non è quindi tanto dovuta
ad un diverso oggetto (essere o dover essere), quanto a diverse tecniche
metodologiche attraverso le quali s’illumina l'esperienza giuridica, o a
diverse sintassi logiche che reggono i due discorsi». N. Matteucci, Giurisprudenza analitica e giurisprudenza
sociologica, in Filosofia e Sociologia. Atti del Convegno di Studi sul
tema “Filosofia e Sociologia”, (Bologna, 23-25 aprile 1954), s.d., 171 s.
[11] «The legality
of a rule is the result of its being in accordance with the positive law; it
may therefore be the same as legitimacy when the prevalent belief is positivist
and merely asks that title to rule be in accordance with the law in order for
it to be considered legitimate. Here it might be said that legalism is itself
an ideology justifying rule». Così C.J.
Friedrich, Man and His Government, cit., 234.
[12] Cfr. l’intervista rilasciata dallo studioso a A.
Berndt, Rias Berlin, Funk Universitaet, del 27/12/1955 su Begriff und
Funktion politischer Moral, dattiloscritto, 2 ss. Anche nella sfera
normativa assume un particolare rilievo la distinzione tra etica, morale
politica e ragion di Stato operata dall'autore. Perché se da un lato non
esiste, per Friedrich, un’unica morale politica, mutando questa di contenuto a
seconda della «comune opinione etica» che è patrimonio ideale di ogni comunità
in un contesto dato ed in un’epoca determinata; dall'altro sarà proprio nel
rispetto di tale morale, vale a dire dei valori condivisi da parte degli
appartenenti alla comunità, che il gruppo troverà la propria identità e le
ragioni stesse del vivere in comune. In questo quadro non può esistere una
ragion di Stato che si opponga alla morale politica, perché, in caso di
conflitto, dovrà essere la morale politica a prevalere - in quanto sintesi dei
valori di una comunità- sull'interesse dello Stato astrattamente inteso. Se lo
Stato, infatti, per realizzare ciò che sembra utile per la sua conservazione,
dovesse, di fatto, annullare i principi etici condivisi dal gruppo, allora
metterebbe a rischio la sua stessa ragion d'essere: «così si risolve il
conflitto tra ragion di Stato e morale politica; poiché la morale politica è la
ragion di stato propria del libero ordinamento statale».
[13] «Grotewohl
recongnized the importance of these objections but answered that the
fundamental rights of this constitution are 'much more than [more] rights of
individuals against the state'. He added that 'these rights are in fact the
fundamental principles of the future policy of German state.' He expressed
himself as of the opinion that there was no need to worry about the fundamental
rights of the people if there was complete popular sovereignity established,
because the enforcement of these rights would be good hands if put in charge of
the legislative power of the people. He exclaimed, “who should be better
guaranter of the rights of the people than the people itself”». C.J. Friedrich, The significance of
the Constitution Draft prepared by the SED, November 1946, in OMGUS/CAD/DIRECTOR,
3, 162-2, 20, 1947 Feb. - 1947 Mai.
[14] Friedrich distingue le definizioni di costituzione in
descrittive e formali. Le prime si riferiscono essenzialmente alle concezioni
che intendono il termine come espressione dell’organizzazione politica di una
data comunità: così la politeia di Aristotele si riferisce «all’intero
ordine di cose in una città», oppure il concetto hegeliano per il quale la
costituzione definisce «l’organizzazione effettiva del governo nelle sue linee
generali», ed infine Coke, che sosteneva che essa altro non fosse che la
concretizzazione delle «fondamentali concezioni legali della comunità, la loro
visione della vita o Weltanschauung, nella misura in cui può essere
concretizzata in norme legali generali». Le definizioni formali sono invece
quelle relative a suoi determinati aspetti come ad esempio il fatto che si
presenti in documento scritto («concetto documentario»), o preveda tecniche
precise per le sue modifiche («concetto procedurale») Cfr. C.J. Friedrich, Governo
Costituzionale e Democrazia, Vicenza, s.d., tit. or. Constituional
Government and Democracy, Boston 1950, 175 s.
[15] Spiega l'autore: «For
if constitutionalism is the process by which a constitution is made, including
its advocacy and its defense, there can be little doubt that the rise of modern
constitutionalism is intimately linked with the problem of how to secure
effective and regularized restraints upon governmental action. This is not to
deny that there are numerous other conceptions of a constitution which may
serve a useful purpose in other contexts, notably the one which speaks of the
constitution of an unconstitutional government, as is the case with Aristotle's
definition; he thinks of tyranny as having a constitution. In defining
constitutionalism as a system of effective, regularized restraints upon
governmental action, we have approached a constitution in terms of the function
it is supposed to serve in the political community. This means that a
constitution is seen as a process». Cfr. C.J.
Friedrich, Federal Constitutional Theory and Emergent Proposals, in
Arthur W. MacMahon, Federalism:
Mature and Emergent, Garden City New York 1955, 516 s.
[16] C.J. Friedrich,
Governo Costituzionale e Democrazia, cit., 173 ss. Non può sfuggire, a
questo riguardo, la straordinaria affinità della definizione friedrichiana con
quella di costituzione materiale elaborata da Costantino Mortati (La
costituzione in senso materiale, Milano 1940) ed il principio d’effettività
che ne è alla base. Com’è stato giustamente osservato, «la costituzione in
senso materiale non è dunque il gruppo politico dominante, come talvolta si
dice; essa è il complesso delle norme istituzionali per il
raggiungimento dello scopo voluto dal gruppo dominante, quale risulta temperato
dalla presenza, dialettica e polemica, delle altre forze politiche efficienti,
sia di quelle schierate a fianco della maggioranza, sia di quelle schierate
all’opposizione». E ancora: «quello che gioca ancora una volta è il principio
di effettività. La costituzione materiale è quella effettivamente vigente,
e tale effettività viene ad essere assicurata esclusivamente da quella convinzione
collettiva che, nel campo costituzionale, corrisponde alla risultante dei
gruppi politici che intendono sorreggere la costituzione». Così P. Barile, E. Cheli, S. Grassi, Istituzioni
di diritto pubblico, VII ed., Padova 1995, 9 s. Nonostante l’autorevolezza
del suo maggiore interprete, il concetto di costituzione materiale, come del
resto l’importanza della sua matrice storico-evolutiva e la stretta connessione
con la dimensione politica della comunità dalla quale trae origine,
rappresentano tendenze teoriche ancora piuttosto isolate all’interno della
scienza giuridica italiana. A prescindere dalle posizioni di netta opposizione
- quale quella, ad esempio, del Balladore-Pallieri - o, al contrario, di netto
orientamento interpretativo verso la dimensione storico-politica del concetto -
come ad esempio le tesi di G. Zagrebelsky, M. Fioravanti e degli stessi autori
del brano appena citato - si è registrata negli ultimi anni una graduale
apertura in questo senso da parte di autorevoli esponenti del mondo giuridico:
così, ad esempio, Biscaretti di Ruffia, Modugno, Martinez ed altri. Nella
maggior parte dei casi tuttavia, si è trattato esclusivamente di una maggiore
disponibilità intellettuale ad un procedere metodologico meno dogmatico, più
sensibile al problema delle origini e delle contestualizzazioni storiche, ma
che resta ben lontano dal mettere in dubbio la distinzione netta tra ciò che è
dominio della scienza giuridica in quanto scienza e ciò che, comunque, pertiene
ad altri campi d’indagine, primo tra tutti quello della politica, che può
influenzare la comprensione e l’interpretazione del concetto, ma resta
sostanzialmente estraneo ad ogni processo definitorio dei termini della scienza
giuridica.
[17] «Function and
process are closely related and are a modern version of the
teleological-genetic approach to social phenomena. Like the latter, the
functional-procedural approach is value-oriented without being
value-preoccupied. The central value toward which the constitution is oriented
is freedom but this value is not the only one; security, for example, is
another important value differentiating constitutionalism from all forms of
anarchism», C.J. Friedrich, Federal
Constitutional Theory, cit., 517.
[18] C.J. Friedrich,
Governo Costituzionale e Democrazia, cit., 177. Sulla questione cfr.
anche dello stesso autore, The New Belief in the Common Man, Boston
1942, in particolare i capitoli II e IV.
[19] N. Matteucci,
Lo Stato moderno, Bologna 1993, 128.
[20] «Il mantenimento di tutte le limitazioni dipende, alla
fine, da un equilibrio di gruppi e di classi della comunità al cui governo esse
si applicano». Cfr. C.J. Friedrich,
Governo Costituzionale e Democrazia, cit., 180.
[21] C.J. Friedrich,
Governo Costituzionale e Democrazia, cit., 225.
[22] La questione è complessa e va, a nostro avviso,
esaminata nel più ampio disegno friedrichiano. La negazione di ogni fondamento
metapolitico dei diritti fondamentali è, infatti, conseguente alla
destrutturazione che Friedrich opera del linguaggio politico e dei concetti che
ne sono alla base. La convinzione - rafforzata anche dall’esperienza vissuta
come consigliere degli affari costituzionali del Generale Lucius Clay - che, in
materia costituzionale, bisogna diffidare delle astratte affermazioni di
principio per andare alla sostanza operativa dei concetti, porta il nostro
autore a considerare come destabilizzante ogni tipo di sacralizzazione dei
principi politici. Occorre impedire che il legislatore legittimo si trovi a
disporre di termini astratti. In caso contrario, la sua legittimazione
comporterebbe anche il monopolio dell’interpretazione di tali principi, che
svincolati dalla realtà concreta e considerati sacri dal potere,
escludono di fatto ogni possibile confronto sulla loro esplicitazione. Il
risultato è, dunque, la tendenza autoritaria e totalitaria dell'organizzazione
politica in conformità a principi la cui interpretazione è affidata
esclusivamente a chi detiene il potere. Ma in questo modo viene meno uno dei
cardini fondamentali del costituzionalismo, vale a dire l’efficacia dei limiti
al governo.
[23] C.J. Friedrich,
Introduzione alla teoria politica. 12 lezioni a Harvard, Milano prima
edizione italiana 1971, trad. Piero Bartellini, tit. or., An Introduction to
Political Theory, New York 1970, 5.
[24] C.J. Friedrich,
Introduzione alla teoria politica, cit., 9. Sul problema dei diritti
cfr. anche Id., Diritto
naturale e leggi di natura, in Rivista Internazionale di Filosofia del
Diritto, fasc. IV-V, luglio - ottobre 1935, 481 ss. La critica al diritto
naturale richiama, per certi versi, i motivi vichiani della Scienza Nuova.
Il filosofo napoletano fu il primo, infatti, a sostenere che non esisteva alcun
diritto naturale in grado di dare norme uguali per tutti gli uomini, ma che, al
contrario, ogni società esprimeva, con le sue particolari istituzioni, la sua
storia particolare. Cfr. G.B. Vico,
Principi di Scienza Nuova, sez. II, Assioma VI, in Opere filosofiche,
Firenze 1971, 435.
[25] «L'idea - scrive Friedrich - che certi diritti siano
diritti naturali possiede una lunga storia. Essa produce l'impressione che
certe cose, come la proprietà privata, o la libertà di riunione, abbiano
un'esistenza ed un significato del tutto separati da qualsiasi governo.
Tuttavia, in effetti, esse presuppongono tutte un governo. Sarebbe quindi più
appropriato chiamare questi diritti sociali o politici. Sebbene non siano
necessariamente limitati ai cittadini, essi richiedono un governo per la loro
applicazione. Essi sono radicati nella convinzione profonda. Le carte dei
diritti esprimono le idee dominanti concernenti le relazioni tra il singolo
cittadino e il governo» Così C.J.
Friedrich, Governo Costituzionale e Democrazia, cit., 230. E
prosegue poi in nota: «L'argomento di questo paragrafo è chiaramente compreso
nella maggior parte degli scritti a partire dall’eclisse della scuola del
diritto naturale, ma è spesso oscurato dalla diatriba sulla sovranità».
[26] In senso liberale: come giustamente osserva
Zagrebelsky, la «categoria fondamentale di quest’impostazione [liberale] dei
problemi costituzionali [consiste nella] legalità come fondamento e limite del
potere. (…) il criterio di legittimità dello stato è dunque un criterio
giuridico-formale, non un criterio politico-materiale». Dallo Stato di diritto
in senso liberale, l’autore distingue lo «Stato secondo diritto» che «deve
intendersi in riferimento ai diritti soggettivi. (…) Questo è il senso del
concetto di Stato di diritto nell’individualismo garantista che potrebbe anche
definirsi “Stato di diritto soggettivo”. Non è dunque “di diritto” qualunque
Stato in cui gli organi pubblici agiscano secondo la legge. La formula “Stato
di diritto”, nella prospettiva della garanzia dei diritti individuali allude
anche a un particolare contenuto della legge. Lo stato le cui leggi
attribuissero ai pubblici poteri sconfinata libertà d’azione nei confronti dei
cittadini non potrebbe dirsi “di diritto”». G.
Zagrebelsky, Società – Stato – Costituzione. Lezioni di dottrina
dello stato degli anni acc. 1986-1987 e 1987-1988, Torino 1988, 91 s.
[27] «(…)all rights
are political in the sense of depending upon the political order for their
maintenance and eforcement.. They are political, however, in the further
sense of depending upon the values and beliefs of the political community which
the order servers». Così C.J. Friedrich, Trascendent Justice.
The
religious dimension of Constitutionalism, Durham 1964, 104.
[28] Friedrich distingue il potere di emendamento dal
potere costituente: entrambi fanno capo al gruppo costituente; ma mentre
il primo si manifesta secondo procedure costituzionalmente regolate ed ha come
unico scopo quello di modificare aspetti parziali della costituzione secondo le
esigenze della comunità, il secondo è il potere rivoluzionario di abolire la
costituzione esistente e di sostituire ad essa una nuova. C.J. Friedrich, Governo
costituzionale e democrazia, cit., 194 s.; Id., The New Belief in the Common Man, cit, 129 ss.
[29] Friedrich conviene sul fatto che la costituzione
flessibile ha il vantaggio di adattarsi con facilità ai mutamenti che occorrono
all'interno della società. Egli, tuttavia, avverte che tale flessibilità è
realmente efficace soltanto in paesi dalla cultura politica fortemente
radicata, in quanto «presuppone una nazione immersa nella tradizione e per
natura contraria al cambiamento, altrimenti l’intera struttura politica
diventerà facilmente oggetto di attacco da parte di gruppi irrequieti e
irresponsabili», C.J. Friedrich, Governo
costituzionale e democrazia, cit. 199.
[30] C.J. Friedrich,
Governo Costituzionale e Democrazia, cit., 207. Sulle tesi di
Friedrich a questo riguardo, cfr. A. La
Pergola, Tecniche costituzionali e problemi delle autonomie
«garantite». Riflessioni comparatistiche sul federalismo e sul regionalismo, Padova
1987, 125 ss.
[31] E conclude: «La Costituzione federale degli Stati
Uniti dispone conformemente a queste osservazioni». Così C.J. Friedrich, Governo
Costituzionale e Democrazia, cit., 215.
[32] C.J. Friedrich,
Governo costituzionale e democrazia, cit., 236. Altrove l'autore è
ancora più esplicito: «La costante aderenza ai tradizionali modi di
comportamento comunitariamente stabiliti e la semplice chiara valutazione di
cosa sia in accordo con esse - questi sono gli elementi del consenso e
dell'ordine in una comunità democratica. Essi sono talvolta molto diversi dai
diritti fondamentali in senso razionale o filosofico. Essi sono inclusi in
proverbi, non in dogmi». Così, C.J.
Friedrich, The New Belief in the Common Man, cit., 153. E ancora a p. 173: «Il problema di che cosa
costituisca un principio fondamentale non può avere una risposta in senso
stretto democratica. L’accordo sui principi fondamentali non può essere un
prerequisito di una democrazia o del costituzionalismo perché esso non può
assumersi che ci sarà alcun accordo sui ciò che è fondamentale. Il
fondamentalismo è, in tutte le sue varie forme, antidemocratico,
anticostituzionale, contrario allo spirito di libertà. Ogni insistenza
sull’accordo sui principi fondamentali è fondamentalmente correlato all’idea
che noi abbiamo respinto come incompatibile con la democrazia costituzionale: e
cioè che alcune persone conoscano ciò che è giusto. Perfino la stessa
costituzione non dovrà essere proclamata come un principio fondamentale per il
timore di renderla un feticcio». Sull'argomento cfr. Id.,
Man and His Government, cit. 237 s. e, in particolare, Demokratie als
Herrschafts- und Lebensform, Heidelberg 1959, 66 s.
[33] C.J. Friedrich, Man
and His Government, cit., 238.
[34] C.J. Friedrich,
L'autoritarismo e la società contemporanea, in AA.VV., L'autoritarismo
e la società contemporanea, Firenze 1969, 9. Legittimità ed autorità sono
per Friedrich strettamente collegate in una democrazia costituzionale. La
legittimità di un governo sta nel riconoscimento da parte dei membri della comunità
politica della titolarità del potere in capo a chi lo esercita. Ma tale
consenso è strettamente legato al grado di autorità degli ordini impartiti dal
governo, vale a dire della loro capacità di risultare diretta elaborazione
delle opinioni, degli interessi e delle necessità esistenti nella società
politica. Da ciò dipende, inoltre, il grado di efficacia dell’obbligazione
politica, la convinzione da parte dei governati che essi debbano obbedire ai
governanti: più questi ultimi riterranno valide le motivazioni sulle quali un
ordine è fondato, maggiore sarà il riconoscimento della legittimità del
titolare del potere che tali ordini ha emanato. Autorità e legittimità trovano,
dunque, il loro fondamento nel consenso della comunità. Mentre, tuttavia, l'autorità
è un requisito impersonale applicabile agli ordini o alle leggi, la legittimità
riguarda colui o coloro che esercitano il potere. Ne consegue che esso può
essere esercitato, tramite coercizione e violenza, anche illegittimamente. Ma
solo un governo i cui ordini possiedono il carattere di autorità sarà un
governo legittimo, vale a dire fondato sul consenso della comunità. Amplius cfr. Man and
His Government, cit., 236 ss., e Id.,
Loyalty and Authority, in Confluence, Harvard 1954, 307 ss.
[35] C.J. Friedrich,
Governo costituzionale, cit., 205. Per Friedrich rivoluzione politica e
resistenza sono fenomeni endemici in ogni ordine politico ed essi sono
strettamente connessi tra loro. Riguardo al concetto di rivoluzione, in
particolare, l’autore distingue tra rivoluzioni limitate, rivolte al
cambiamento dell’ordine politico esistente, e rivoluzioni illimitate che,
invece, hanno ad oggetto la trasformazione radicale di tutti gli aspetti della
vita di una comunità. A questo riguardo cfr., oltre al già citato Governo
Costituzionale e Democrazia, l’opera Man and His Government, in
particolare il capitolo 34 “Resistance and Revolution”, 634 ss. e, per
una breve sintesi, An Introductory Note on Revolution in Revolution,
VIII, a cura di C.J. Friedrich,
New York 1966, 3 ss.
[36] Cfr., C.J. Friedrich, Le problème du
pouvoir, in Annales de Philosophie Politique, I, Le Pouvoir,
Paris 1956, 47 ss., ed anche Id.,
Governo costituzionale, cit., 195.
[37] C.J. Friedrich, The
New Belief in the Common Man, cit. 129.
[38] C.J. Friedrich, Le probléme du pouvoir dan
la théorie constitutionaliste, cit., 46.
[39] A questo proposito sarebbe auspicabile uno studio
approfondito sulle affinità e divergenze dell’opera dei due studiosi. Allo
stato attuale della nostra ricerca siamo in grado di avanzare soltanto una
serie di ipotesi riguardo ad alcune precise convergenze delle due dottrine
quali, ad esempio, la polemica nei confronti delle teorie formalistiche del
diritto, l’emersione del “politico” come chiave di volta del sistema
costituzionale, il comune referente costituito dalla teoria dell’integrazione
di Rudolf Smend, il carattere esistenziale della costituzione e l’idea di
processo. Ma altrettanto profonde sembrano emergere le differenze tra le due
impostazioni teoriche (l’insistenza di Schmitt, ad esempio, sul concetto di
unità politica), soprattutto in relazione ai risultati delle rispettive
riflessioni, tant’è che, a nostro avviso, si potrebbe ipotizzare da parte di
Friedrich una successiva, puntuale rielaborazione critica di molti concetti schmittiani.
Contro
questa interpretazione cfr. H. Lietzmann,
Buendische Gemeinschaft und “Responsible Bureaucracy”. Macht in der
Demokratie bei Carl Joachim Friedrich, in J.
Gebhardt – H. Muenkler (hrsg.), Burgerschaft und Herrschaft,
Baden-Baden 1993, 289 ss.
[40] C. Schmitt,
Dottrina della Costituzione, a cura di A.
Caracciolo, Milano 1984, 114, tit. or. Verfassungslehre, Berlino,1928.
[41] Ibidem.
[42] C. Galli,
Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico
moderno, Bologna 1996, 336.
[43] Sulla critica alla categoria paretiana cfr. C.J. Friedrich, A critique of
Pareto’s contribution to the Theory of a Political Elite, in Cahiers
Vilfredo Pareto, 5, Genève 1965, 259 ss.; e Id., Introduzione alla teoria politica. 12 lezioni a
Harvard, cit., 60 ss.
[44] «The true
meaning of such notions is not that everyone is equally at governing, or even
at criticizing the government, but that it is unpredictable who among
the people might be either good at it or interested enough to partecipate
effectively». Così C.J. Friedrich,
Man and His Government, cit., 49.
[45] C.J. Friedrich, Le problème du pouvoir, cit.,
46.
[46] C.J. Friedrich, The
New Belief in the Common Man, cit., 129.
[47] A questo proposito Friedrich non manca di notare come
nel linguaggio della scienza giuridica del diciannovesimo secolo il concetto di
sovranità sia stato trasformato retoricamente, intendendo la sovranità popolare
come volontà del popolo di delimitare da se stesso i propri poteri, dandosi una
costituzione. Ma, ribatte l'autore, questa interpretazione è, in realtà, una
perversione del concetto originale dei teorici della sovranità, i quali la
intendevano come il potere attribuito ad un arbitro finale dallo Stato,
nell’interesse della comunità. E conclude affermando l’evidenza
dell’incompatibilità di questa idea della concentrazione del potere nelle mani
di uno solo (sia esso individuo/sia corpo composto come un parlamento) con
quella del costituzionalismo. Cfr. C.J.
Friedrich, Man and his Government, cit., 552.
[48] Cfr., C.J.
Friedrich, Governo costituzionale e democrazia, cit. 213 s.
Scrive l’autore:«Pur essendo esagerato definire quella della Repubblica di Weimar
una situazione di assolutismo parlamentare, è pur vero che era assai vicina a
quel tipo di democrazia radicale contemplato da Rousseau., con poteri assai
estesi conferiti ad una maggioranza popolare. (…) Ciò che questo implicasse fu
per un certo tempo oscurato dal sistema pluripartitico. Ma i poteri arbitrari
latenti di una maggioranza popolare erano destinati ad apparire non appena tale
maggioranza potesse essere costruita. I poteri governativi erano illimitati. La
ragione costituzionalmente decisiva del fallimento della Repubblica in Germania
sembra, quindi, sia stata la debolezza della costituzione politica stessa.
Senza un adeguato sistema di limitazioni all’azione governativa, la dittatura
soppiantò l'assolutismo parlamentare mediante il semplice accorgimento di
ridurre i membri del parlamento ad un numero sufficiente per dare ai fautori
del cambiamento una sicura maggioranza».
[49] C.J. Friedrich, Man
and His Government, cit., 597.
[50] C.J. Friedrich,
Federal Constitutional Theory and Emergent Proposals, in Federalism mature and Emergent, a cura di Arthur W.
Macmahon, New York 1955, 514.