Università di Sassari
Introduzione al
colloquio
Sommario: – 1. Ubi societas ibi ius. – 2. Variabilità
storica dell’organizzazione dell’ordinamento: – a) La laicità
dell’ordinamento giuridico. – b) Produzione e attuazione delle norme. – 3. Ordinamenti accentrati e ordinamenti decentrati. – 4. Diritto internazionale e diritto interno. – 5. Accentramento e
decentramento in un’ottica diacronica. – 6. Il processo di
costituzionalizzazione europeo. – 7. Stato unitario e Stato federale. – 8. Organizzare l’ordinamento in Italia.
«La storia» – sosteneva Grozio – «ha due usi che convengono al giurista: da una parte ci somministra gli esempi, dall’altra il giudizio che diverse persone hanno formato su certi fatti»[1]. Se si concorda con questa osservazione, non può che far seguito il dubbio se sia corretta una contrapposizione fra momento della ragione e momento della storia[2]. Può la Storia del diritto fare a meno della dogmatica, cioè della definizione del suo oggetto, e viceversa, può la dogmatica prescindere dall’osservazione dei fatti che hanno preparato quelli cui essa dovrebbe in ultima analisi rivolgersi[3]? Il Convegno di studi, di cui qui si pubblicano gli Atti, parte dal presupposto che l’utilità metodologica della distinzione non possa essere intesa come separatezza senza gravi rischi di impoverimento reciproco. Di qui l’interdisciplinarietà delle relazioni, che contribuiscono a descrivere un percorso ideale non già nonostante, ma proprio a causa – e in proporzione diretta – della specialità di ciascuna.
Ubi societas ibi ius: la formula, molto diffusa nella scienza del diritto[4], sembra a tutta prima affermare una verità molto semplice, cioè che ove è società là è diritto; ma a ben guardare essa suggerisce una connessione biunivoca fra societas e ius, perché può essere interpretata sia nel senso che non vi può essere società senza norme giuridiche che la regolino, sia nel senso che il diritto attiene alla società e ne è l’espressione[5]. Questo in quanto si ammette che della società l'ordinamento giuridico, cioè l'insieme dei canoni di valutazione e, quindi, delle regole di condotta e delle loro reciproche relazioni, costituisca un elemento e una espressione strutturale[6]. Se, infatti, per società non si intende soltanto un raggruppamento più o meno stabile di individui ma, in questo distinguendosi essa dalla semplice coesistenza, un sistema di relazioni interindividuali[7], il rapporto in cui si pongono queste relazioni fra di loro si vuole costituisca la struttura della società stessa, struttura entro la quale si articolano le attività delle entità che la compongono e le norme che quelle attività regolano[8]. Si ammette, di conseguenza, che sia variabile tanto il modo in cui si articolano le attività dei soggetti che compongono quel sistema, quanto le norme che quelle attività organizzano regolando i rapporti intersoggettivi. Il diritto è ritenuto quindi sistema effettivo di organizzazione della vita sociale: attraverso di esso – si dice – la società pone, con processo immanente, le basi del proprio essere e del proprio divenire quale società organizzata. Le norme destinate a regolare i rapporti intersoggettivi scaturiscono pertanto da quella struttura che, così come conferisce ad alcune di esse carattere di giuridicità, allo stesso modo fornisce i criteri per la loro interpretazione[9].
La formula può, tuttavia, essere intesa anche in un senso
ulteriore. Essa può, cioè, voler implicare
una certa mutevolezza del diritto, correlata alle peculiarità della società cui
deve applicarsi; una mutevolezza, in altre parole, vuoi sincronica vuoi
diacronica, suscettibile di seguire, di quella società, tanto la diversità
rispetto alle altre, quanto l’evoluzione. Se ciò è corretto, ne deriva
non solo il rapporto costante fra le caratteristiche sociali della comunità e
il suo ordinamento giuridico[10]; ma
anche la forte variabilità dei rapporti fra la comunità e i suoi membri, così
come di quelli fra la comunità e il diritto a seconda del momento storico e del
tipo di società presa in considerazione. Ciò vuol dire che per comprendere tali
rapporti bisogna tenere conto anzitutto dei suoi orientamenti culturali[11].
Sono questi la radice della differenziazione, nell'ambito della stessa società,
della categoria del diritto, rispetto alle altre categorie del sociale; tale
differenziazione, per taluno, non consisterebbe in altro se non nella selezione
imperativa, volta a stabilire quali comportamenti incoraggiare e quali, invece,
scoraggiare[12].
Dunque, anche il giurista perviene, sia pur per altre vie, a concordare con lo
storico: il diritto non è se non un aspetto della cultura[13].
Ma se l'ordinamento di una società attiene alla struttura che questa si dà e la riflette, ciò significa che esso varia con il variare di tale struttura, non solo nei singoli giudizi, ma anche nella qualificazione dei fatti e nella loro rilevanza giuridica, nel rapporto del giuridico con gli altri aspetti della struttura sociale, così come nella attribuzione e nella stessa configurazione delle funzioni essenziali di ogni ordinamento[14].
Per la verità, anche l’ intendere il diritto come funzione diretta della società che lo esprime riflette la cultura del nostro tempo, e la temporalizzazione delle coscienze che in esso si è completata[15]. Non è un caso che la consapevolezza della relatività dell’ordinamento giuridico si affacci nei giuristi del secolo della Riforma. Certo, fu la considerazione critica dei testi, l’introduzione nel campo del pensiero giuridico della filologia degli umanisti, l’esigenza di in artem redigere il diritto, a provocarla; ma fu soprattutto il radicale mutamento di Weltanschauung[16] a far ritenere che il pensiero umano si potesse avventurare nella costruzione di una scienza del diritto nuova, basata su criteri puramente razionali[17]. Il peso di un tale mutamento di ottica, di cui oggi si colgono gli ultimi frutti, si rende particolarmente evidente alla luce tanto della relazione di Sini (per il diritto romano)[18], quanto di quella di Cortese (per il diritto medievale)[19]. Entrambi ci mostrano un quadro opposto, un quadro, cioè, ove la concezione del diritto era al contrario fortemente intrisa di religiosità, in un sistema etico e religioso che all’ordinamento giuridico forniva la fonte suprema dell’ordinamento. Del resto non è chi non veda come la radice di molti problemi che affliggono drammaticamente le società occidentali contemporanee (da questo punto di vista è di estremo interesse la relazione Stasolla sullo Stato islamico del XI secolo)[20] sia proprio la secolarizzazione della morale che, portata all’estremo, ha a sua volta generato una visione relativistica del diritto[21]. La scissione della coscienza individuale da quella politica ha finito per creare un vuoto che non ci si può illudere resti a lungo tale.
Kelsen ha convincentemente dimostrato che le funzioni previste dall’ordinamento possono essere accentrate o decentrate, anzi conoscere più gradi di accentramento o decentramento. Il giurista viennese faceva dipendere tale graduazione, in primo luogo, (e da un punto di vista quantitativo) dal numero di livelli gerarchici che l’ordinamento giuridico conosce al suo interno e dal numero e dalla importanza delle norme accentrate o decentrate. In secondo luogo (e da un punto di vista qualitativo), egli indicava nel problema dell’accentramento e del decentramento un aspetto statico e uno dinamico. Tali concetti non volevano, nella sua teoria, richiamarsi ad alcun moto temporale. Sotto il primo aspetto, infatti, egli indicava la differenza nella sfera di validità delle norme giuridiche; sotto il secondo aspetto, nei modi di esercizio di quelle funzioni dell’ordinamento cui abbiamo appena accennato, vale a dire la funzione legislativa, la giudiziaria, l’esecutiva.
Tali funzioni possono dipendere da un solo organo, essere esercitate da una pluralità di organi, ovvero rimanere in tutto o in parte affidate agli stessi soggetti dell’ordinamento. Alla variabilità della configurazione dell’organo cui sono affidate, si accompagna una altrettanto ampia variabilità dei modi di esercizio.
Quanto sopra risulta particolarmente evidente rispetto
alla funzione di garanzia, giacché non solo gli stessi conflitti non emergono
in eguale modo in ogni tipo di società, ma pure ogni società, e quindi ogni
ordinamento giuridico, ne appresta i mezzi di regolamento in modo profondamente
diverso. I sudditi di uno Stato non possono
legittimamente farsi giustizia da sé, restando l'autodifesa relegata a casi
estremi di minaccia gravissima e attuale. Questo divieto è, in un certo senso,
la sostanza stessa di una comunità statuale, ed è attraverso l'accentramento
della giurisdizione che si può distinguere lo Stato dalla comunità giuridica
interstatuale e superstatuale[22].
Considerazioni simili vanno fatte per la funzione normativa. Come quella giudiziaria, anche questa è suscettibile di variare in funzione della struttura della società. Il sistema giuridico vigente oggi in Italia, come nella maggior parte dei paesi europei, è un diritto che si fonda sull'idea di codice, inteso come raccolta normativa unitaria e organica; si tratta di un’idea scaturente dal principio della unicità delle fonti di produzione, e basata sul concetto che solo quello dello Stato è un diritto originario, così come originario è il potere dello Stato. Ben diverso il sistema anglo-sassone, ove l'individuazione della norma si raggiunge attraverso una ricerca che si sostanzia nel precedente giurisprudenziale[23]; e altrettanto diverso il sistema di fonti vigente nel continente europeo nell’età del diritto comune, quando il giudice, operando all’interno di ordinamenti giuridici aperti o comunicanti, di fronte al casus omissus, novus o dubius, cioè in caso di lacuna delle fonti legislative del suo ordinamento, poteva ricorrere alla communis opinio doctorum, vale a dire alla norma scaturente dalla interpretazione dottrinale e giurisprudenziale[24].
In una società statuale moderna le funzioni di produzione e di attuazione delle norme, quindi, sono – in via di principio – non solo concettualmente e istituzionalmente separate le une dalle altre, ma anche ormai quasi del tutto sottratte all'individuo-soggetto dell'ordinamento giuridico. Infatti, lo Stato, avocando a sé il potere di giudicare e di legiferare[25], funge anche da filtro di classificazione e smistamento delle tensioni sociali, sicché un soggetto non può controvertere con un altro se non nelle materie e nei modi lasciatigli a disposizione dall'ordinamento. La distinzione fra controversie attinenti il politico e controversie attinenti il giuridico fa sì che le prime siano competenza degli organi legislativi, le seconde degli organi giudiziari. D’altro canto, l'accentramento della applicazione del diritto, l'istituzione, cioè, di organi giudiziari centrali competenti ad accertare l'illecito e ad ordinare ed eseguire la sanzione, è caratteristico di un ordinamento giuridico costituente lo Stato moderno non solo perché è questo, attraverso i suoi organi centrali competenti che deve formulare e promulgare le norme o accertare l'eventuale illecito, ma anche perché è questo che deve ordinare ed eseguire la sanzione[26].
Il fatto è che nel
compiere una tale astrazione, che pone l'accento sugli aspetti formali
dell’ordinamento[27], si è portati a dimenticare che la figura dello
Stato rappresenta e riassume le diverse forze sociali che lo animano, e le cui
tensioni, mentre da un lato sono necessarie al ricambio giuridico stesso (che è
influenzato, e anzi spesso causato, dalla pressione di gruppi di interesse che
operano per ottenere il soddisfacimento dei propri fini), d'altro lato non
sempre trovano oggi uno sfogo nelle maglie di un ordinamento, dove fra diritto
e potere esiste e si allarga il diaframma delle istituzioni[28]. Nell’aumento continuo delle funzioni che vengono
attribuite allo Stato, vi è al tempo stesso una progressiva limitazione di
quelle esercitabili dai soggetti; una limitazione accompagnata, paradossalmente,
da un riconoscimento (che in realtà è una delimitazione) sempre maggiore degli
spazi di libertà e, talvolta, anche degli spazi di autonomia di singoli e di
collettività. Dunque quei gruppi di interesse sono talvolta portati a cercare
uno sfogo diretto, cioè a riappropriarsi di quelle funzioni di cui lo Stato –
attraverso la sua organizzazione – rivendica il monopolio.
Tale organizzazione, e cioè l’equilibrio delle funzioni che è proprio di un ordinamento di tipo statuale, è un prodotto della storia, e dunque non ha carattere di necessità, né è l’unico possibile. Nulla vieta che la società si orienti verso un ordinamento in cui non vi sia accentramento di poteri da parte di un ente sovraordinato nei confronti dei soggetti dell'ordinamento[29] ma nel quale, al contrario, questi mantengano la disponibilità così della formazione delle norme come della loro attuazione Tale è in effetti l’ordinamento proprio della Comunità internazionale generale. In tale Comunità non si attua quella sostituzione istituzionale della organizzazione centralizzata alla azione dei soggetti che è propria, invece, del diritto statuale. Decentrata nella sua dinamica, decentrato è anzitutto il ricambio normativo, come dimostra il ruolo tuttavia fondamentale che ha la consuetudine nel sistema delle fonti del diritto internazionale. Il decentramento dinamico delle funzioni impedisce l'avverarsi del fenomeno – proprio delle società statuali moderne – per cui molti conflitti di interesse suscettibili di interessare un numero rilevante di soggetti sono fatti propri dalla organizzazione accentrata, sicché la stessa ampiezza concettuale di controversia intersoggettiva, nonché le procedure e i mezzi di regolamento, ne risultano caratterizzati di conseguenza. Nella Comunità internazionale, non solo permane sempre, in capo a ciascun soggetto, il diritto di autotutela, sicché esso può esercitarla in qualunque momento anche con l'uso della forza bellica; la nozione stessa di controversia è estesa ad ogni possibile materia relativa ai rapporti fra soggetti. Così, mancando un ente a ciò costituzionalmente preposto, è frequente che il problema del ricambio giuridico emerga, appunto, in termini di controversia. Mancando correlativamente anche chi sia legittimato a stabilire la giuridicità o politicità della materia del contendere, ciò che distingue, in diritto internazionale, una controversia giuridica, cioè volta all'accertamento del diritto, da una controversia politica, cioè volta al suo ricambio[30], è la ragione addotta dalle parti a fondamento della pretesa e della resistenza[31]. Il che significa, da un lato, che sono gli stessi soggetti ad impostare la controversia su basi politiche o giuridiche[32] e, dall'altro, che la qualificazione stessa è soggetta a variare in relazione ad un mutato atteggiamento delle parti, sempre possibile. I soggetti sono liberi di risolvere una controversia con i mezzi che preferiscono e che essi stessi istituiscono di volta in volta o in via preliminare. La giustizia internazionale è, dunque, essenzialmente facoltativa, anche nelle sue forme più perfezionate[33], e il giudice internazionale trae comunque la sua esistenza e i suoi poteri dalla volontà delle parti.
La Comunità internazionale viene oggi ritenuta completamente distinta dalle comunità degli Stati che ne fanno parte. Tale distinzione riguarda sia i soggetti, sia i principi generali dell’ordinamento giuridico. Si vuole infatti che la Comunità internazionale comprenda solo enti diversi dagli individui, con una netta separazione fra gli Stati che ne costituiscono il gruppo e le società umane di cui gli Stati costituiscono gli enti esponenziali. Il diritto internazionale si riferirebbe dunque a una Comunità di Stati sovrani collegati gli uni con gli altri da relazioni politiche, e si rifletterebbe in una dottrina specifica. Sovranità e uguaglianza dei soggetti, così come universalità e anarchia del sistema sarebbero caratteristiche della Comunità internazionale al punto che non si potrebbe parlare di diritto internazionale prima dell’affermarsi di tale principio. L’odierna ipervalutazione della esposizione teorica, ha portato come conseguenza a ritenere che un ordinamento giuridico strutturato non si potrebbe affermare nell’assenza di una sua propria scienza. Ne è derivata la riluttanza di molti autorevoli studiosi ad ammettere l’esistenza di un diritto internazionale pre-groziano[34], di cui viceversa è stata successivamente dimostrata l’evidenza nella antichità classica[35], o addirittura nella prassi delle relazioni fra potentati dell’antico Medio Oriente, prassi particolarmente rilevante per l’influenza che avrebbe esercitato sul mondo romano e, attraverso questo, sul diritto che si situa alle radici del moderno diritto internazionale, vale a dire il diritto canonico[36]. La relazione Cimma[37] è, da questo punto di vista, illuminante[38].
Va notato, peraltro, che la separatezza del diritto internazionale da quello interno ha di certo un dies a quo, poiché risale in ultima analisi a Vitoria[39] e matura nella dottrina del diritto naturale, la quale accentuò l’esclusione degli individui come tali e in quanto tali dal novero dei soggetti del diritto internazionale[40]. Con una identificazione della storia del diritto internazionale generale con la storia del diritto internazionale sviluppatosi in Europa[41], si è a lungo sostenuto che negli anni del Congresso di Westfalia a causa del venir meno del sistema feudale sarebbero venuti in vita enti politici del tutto nuovi. Avrebbe così preso l’avvio una nuova Comunità di Stati caratterizzata dai principi della uguaglianza e della anarchia, diversa da quella precedente, ordinata invece gerarchicamente. Da questo momento in poi, la Comunità internazionale non avrebbe conosciuto discontinuità, e alla sostanziale identità del corpo sociale avrebbe corrisposto l’identità del suo diritto[42].
Di fatto, si è riflessa sul piano storico l’ottica dei giuristi avvezzi a considerare il fenomeno giuridico in termini di diritto positivo[43]. Di conseguenza, il diritto internazionale è stato concepito come un diritto statuale esterno – secondo le linee di Austin e Zorn[44] – ovvero – come ritengono Triepel e Anzilotti – come il risultato del volere congiunto degli Stati, da considerare però di natura diversa dal volere del singolo Stato[45]. E’ a partire da tale momento che la dottrina ha offerto una teoria coerente circa la autonomia del diritto internazionale rispetto al diritto interno[46]. Ma ancora Kelsen – e siamo alla prima metà del XX secolo – offre una rigorosa visione monista del fenomeno giuridico. Quanto l’autonomia rivendicata sul piano teorico, pur rigorosa dal punto di vista dogmatico[47], finisca col comportare una rigidità formale continuamente superata dalla prassi delle relazioni internazionali è rilevato dalla storiografia più attenta e diviene ogni giorno più drammaticamente evidente. Una delle conseguenze più eclatanti è che – come è stato talvolta notato – è stato criminalizzato l’uso “interno” della forza, lasciando senza alcun controllo quello “esterno”[48]. Si ammette ora che si sarebbe sviluppata nella Comunità internazionale una norma consuetudinaria per la quale sarebbe condannato l’uso della forza non teso alla legittima difesa[49]. Ma se è certo che la violazione di una norma non significa evidentemente che la stessa non sia valida, è certo anche che è in corso un attacco concentrico alla base del principio che consente la separazione fra diritto internazionale e diritto interno: il principio della imputazione allo Stato degli atti commessi dai suoi cittadini. Tale attacco viene da un lato dai mezzi di offesa che singoli individui possono dispiegare sul piano internazionale, dall’altro dalla incapacità a costruire teoricamente e ad attuare efficacemente un intervento inteso come ingerenza autoritativa di uno o più Stati nella vita interna o internazionale di un altro Stato in funzione di executio iuris[50].
Storicamente, la configurazione dell’ organo cui sono state affidate le funzioni dell’ordinamento, quando queste non sono rimaste diffuse nel corpo sociale, ha conosciuto profonde modificazioni. Talvolta quelle funzioni sono dipese tutte da un solo organo, talaltra sono state esercitate da una pluralità di organi. Come esempio del primo tipo si pensa generalmente alla Francia dell’età moderna, ove un monarca ereditario avoca a sé il potere assoluto. A questo tipo di accentramento è stata contrapposta la pluralità di organi espressa dagli Stati contemporanei, la cui Costituzione si ispira al principio della separazione dei poteri, il cui fondamento viene tradizionalmente riconosciuto nel costituzionalismo inglese. Ma il rifugiarsi in questa alternativa[51] è frutto di una più o meno consapevole adesione a quella concezione della sovranità – scaturita dalla evoluzione dello Stato assoluto e predicata da Bodin – che storicamente prende l'avvio a seguito delle guerre di religione[52].
Proprio queste ultime hanno spinto il Principe verso l'assolutismo. Sebbene più di frequente si ricordi come esse abbiano avuto, come fall-out principale, la frattura dell’ unità della Christianitas (la quale avrebbe provocato l’emergere della moderna Comunità internazionale[53]), assai più rilevante è stata l’influenza che esse hanno dispiegato a livello interno, ove hanno mostrato la necessità di una autorità sovrana decisiva, il cui potere fosse capace di risolvere i problemi posti dalla frattura sociale. Tale autorità doveva assumere su di sé la responsabilità della pace e della salvezza mondana e ultramondana; ma questa assoluta responsabilità non poteva garantire la pace se non con il dominio assoluto[54], a prezzo, cioè, di un profondo mutamento nell'equilibrio della società[55]. Molti diritti che erano rimasti sin qui decentrati dovevano ora essere monopolizzati dal Principe. Anzitutto l’uso legittimo della forza, lo jus ad bellum[56], ma anche lo jus condendi leges: la legittimità della legge non doveva risiedere più nella sua corrispondenza ad una equità superiore, ma nella legittimità della sua fonte di produzione[57]. Così, il grandioso fenomeno del diritto comune, caratterizzato dalla ricerca delle concordanze e dal valore da esso attribuito alla communis opinio totius orbis nonchè alla lex alii loci in ordinamenti giuridici “aperti”[58], si avvia ad uno “strappo” che diviene definitivo con le grandi codificazioni: sono queste che rendono compiuta quella “statualizzazione” e “nazionalizzazione” del diritto dello Stato che aveva seguito di pari passo l’affermarsi di quest’ultimo. Come nota limpidamente Dezza[59], vi è un «movimento legislativo di stabilizzazione e di statualizzazione» (l’attenzione di Dezza si rivolge in particolare alle regole procedurali), che egli rileva come particolarmente evidente in Francia e in Germania, ove «un ruolo di particolare rilievo è assunto, tra la fine del Quattrocento e la metà del Cinquecento, da alcune ordonnances regie in Francia, e da una serie di interventi legislativi culminati in Germania nella celeberrima Constitutio Criminalis Carolina». Ma anche altrove in Europa – dai Paesi Bassi alla penisola iberica, dall'Italia all’ Inghilterra – egli riconosce segnali non dissimili. Questa legislazione tende a realizzare un progressivo accentramento dei poteri giurisdizionali nelle mani dei magistrati e dei funzionari delle corti regie, e ad affermare la giurisprudenza – nel contempo autoritativa e uniformatrice – dei grandi tribunali centrali degli Stati europei, sorti in gran numero nel corso del Quattrocento e avviati ad assumere un ruolo di assoluta rilevanza nel panorama delle strutture giurisprudenziali del tardo diritto comune[60]. In questo processo diventa rilevante la posizione del tribunale rispetto alla legge e alla dottrina, e cioè la maggiore o minore autorità che, per varie ragioni, i tribunali riconoscono alla legge e la loro tendenza a mantenere un ruolo vicario. Come a suo tempo avvertiva Gorla, la storia comparata presenta una gamma di attività che, con gradi intermedi, corrono fra gli estremi di una interpretazione impotente e di una interpretazione onnipotente, la quale ultima però si maschererebbe ovvero si coprirebbe sempre di tecniche o espedienti vari per poter dire che si è semplicemente «trovato ciò che è diritto»[61]. Ma quella del diritto giurisprudenziale resta tuttavia un’opzione alternativa a quella codicistica[62], un’opzione che la relazione Bariatti[63] ci dimostra crescente oggi nella formazione del diritto della Comunità europea. Non che il diritto scritto debba ritenersi quantitativamente meno rilevante – la Bariatti parla anzi di un aumento esponenziale dell’ordinamento comunitario – ma la normativa non scritta dei casi decisi giudizialmente, in rapporto di stretta cooperazione e fiducia reciproca fra la Corte di Giustizia e i giudici nazionali, ha finito col porre la Corte come fonte di produzione giuridica propria dell’ordinamento comunitario. Peraltro, come la relazione Padoa Schioppa lamenta, non è stata ancora realizzata, quantunque il trattato di Maastricht l'avesse preannunciata, una definizione di una gerarchia delle norme, che valga a distinguere le norme di natura propriamente legislativa dalle norme di natura regolamentare – con lo scopo di limitare alle prime l'intervento del Parlamento europeo[64].
Nel cogliere le linee essenziali del processo di costituzionalizzazione svoltosi in Europa fra Medioevo ed età moderna, se, per il Medioevo bisogna, come ricorda Grossi, tenere conto di uno «svincolo del giuridico dall’abbraccio condizionante del politico» [65], bisogna anche ricordare quanto il politico sia costituito da un bisogno di ordine e di legalità che nasceva proprio dall’accentuato decentramento statico dei poteri. La realtà medievale ricorda molto più da vicino quella internazionale che quella statuale, soprattutto se si tien conto di quanto il bisogno di pace sottenda a due fenomeni epocali, il comune cittadino e la signoria territoriale. Come ha puntualizzato la storiografia più recente, la signoria territoriale non si sarebbe affatto modellata sul paradigma astratto di un sistema “statale”, né sarebbe un fenomeno collegabile solo a pericoli “esterni” – come le incursioni di Saraceni, Ungheri, o Scandinavi – ma nascerebbe anche, se non principalmente, dalla necessità di difesa da aggressioni di signori e armati della regione[66]. Essa avrebbe ripetuto, dilatandoli, i caratteri della signoria curtense[67]. Giustamente, la Guerra Medici ricorda l’importanza delle istituzioni familiari nella formazione dello Stato signorile[68]. Gli stessi regni si sarebbero atteggiati secondo il modello patrimoniale[69]. La storiografia tradizionale per molto tempo ha seguito lo schema statualistico di un Impero originariamente monarcocentrico, governato con un sistema di concessioni di diritti la cui titolarità sarebbe stata via via “usurpata” dai concessionari. Ma proprio il fenomeno comunale è fra quelli che maggiormente smentiscono questa impostazione, perché – come ci ricorda Ascheri[70] – il Comune è esso stesso embrione di Stato, è “persona” assai prima che Innocenzo IV teorizzi la persona ficta. Nell’aristocratico mondo del potere dell’alto Medioevo, per mezzo della formazione del comune e dell’unione di più comuni in lega, il comune penetra come un’associazione direttamente legata all’Impero e perciò in una posizione simile a quella dei principi. «Serra del moderno stato cittadino»[71], paragonato dai contemporanei all’antica polis, il comune mostra le caratteristiche salienti della sovranità di impianto moderno, benché l’autocefalia restasse confinata all’ambito mondano, e all’interno della città – come ci ricorda Dilcher – non siano validi né il principio di uguaglianza, né quello della totale partecipazione democratica[72].
A uno sguardo più disincantato, tuttavia, il principio di uguaglianza si rivela come un concetto-limite, storicamente mai realizzato in via assoluta (citando Jacob si potrebbe parlare di Chimäre des Gleichgewichts[73]), in opposizione al quale si pone il principio gerarchico della dipendenza ordinata di tutti i soggetti da un unico potere superiore. A ben vedere esso riveste, oggi, il carattere di un principio politico che si salda con quello dell’unicità del soggetto giuridico. Fa pensare il fatto che il rafforzarsi di questo binomio si accompagni con l’affermarsi del moderno concetto di sovranità nazionale. Unicità del soggetto giuridico e separazione del diritto internazionale da quello interno appaiono in qualche modo in corrispondenza biunivoca, così come collegati possono essere considerati ordinamento integrato e principio gerarchico. Nell’ottica di una effettiva possibilità di concorrere alla formazione della volontà del corpo sociale da parte dei soggetti, può risultare sorprendente l’osservazione di Wawrzyniak, per il quale la antica costituzione polacca di ancien régime consentiva la partecipazione alla vita politica di più del 10 % della intera popolazione, una percentuale molto più alta di quanto non faranno le riforme elettorali del XIX secolo[74].
Certo, noi scontiamo ancora una visione evoluzionistica degli ordinamenti, secondo la quale il fenomeno giuridico, apparso all'origine in forma embrionale e in ambiti ristretti, si sarebbe gradualmente esteso ad ambiti più vasti, perdendo via via le caratteristiche troppo legate ad una società determinata per acquistarne di universali[75]. Al riguardo hanno avuto rilievo le impostazioni seguite non solo dalla teoria generale del diritto ottocentesca, ma anche da buona parte di quella del XX secolo. Come riflesso di tali impostazioni teoriche, anche la storiografia, impigliata nelle categorie del moderno Stato nazionale, ha a lungo tralasciato i quadri alternativi, anche quando essi rappresentavano la stessa radice storica della sua nascita e del suo sviluppo, ed erano in grado di offrire una straordinaria ricchezza concettuale. Esempio tipico di tale impostazione è stata a lungo la mancata attenzione prestata alle strutture del Sacro Romano Impero della nazione tedesca, di cui Sellert ha ricordato la complessa evoluzione. Fino agli anni ’50, tanto la dottrina costituzionalistica quanto la storia del diritto hanno per lo più ritenuto di poter trarre ben poco di positivo da tale quadro, caratterizzato da una miriade di particolarismi e da un debole potere centrale. Solo dopo la seconda guerra mondiale, tornando a pensare nelle più ampie prospettive europee, e dipanandosi nuovi percorsi anche per gli studiosi di diritto positivo, tale dottrina si è rivolta nuovamente a riflettere su quelle antiche strutture e sul loro diritto[76].
Scosso dalla bufera napoleonica, il Sacro Romano Impero fu sciolto nel 1806, destino che dopo poco più di un secolo doveva seguire anche il suo erede, l’Impero d’Austria. D’altro canto, l’eredità della scuola del diritto naturale ha continuato a guidare la speculazione dei giuristi, con l’idea, più o meno esplicita, di un diritto “ideale” astrattamente suscettibile di accoglimento da parte di una società altrettanto astrattamente considerata. Come ben ci illustra la relazione Hoke[77], la prima costituzione, emanata dall’Imperatore d’Austria sotto la spinta rivoluzionaria il 25 aprile 1848 e nota come “costituzione di Pillersdorf”, concepì come Stato unitario persino un organismo a vocazione sovranazionale come quello asburgico. è significativa l’avversione mazziniana alle idee federaliste ricordata da Lacaita: il federalismo sarebbe stato adatto a situazioni multietniche, come quella elvetica, non alla situazione italiana, fondata sull’identità morale e culturale della nazione. Quanto tale identità rappresentasse una petizione di principio e quanta parte di ragione – almeno al tempo – avesse Cattaneo lo mostra lucidamente la relazione di Lacaita[78]. Questo studioso addita Cattaneo quale coscienza critica dello Stato unitario che si volle scegliere, nonostante tale forma di Stato, oltre quella di Cattaneo, suscitasse perplessità anche in altri. In proposito, la puntuale relazione Corona Corrias[79] ci ricorda l’influenza che ebbero le idee di Ferrari sul pensiero politico successivo. Come è noto, l’indipendenza italiana si accompagnò alla sconfitta dell’idea federale a favore di quella unitaria. Ma il faticoso amalgama delle diverse parti del Paese sembra testimoniare della giustezza delle intuizioni di questa parte del nostro Risorgimento. Quanto è corretto oggi rimettere in discussione quella scelta?
Insieme a quella di Sellert, le relazioni di Hoke e di
Malinverni[80]
ci mostrano come quasi tutti i territori sui quali si è estesa direttamente
l'autorità del Sacro Romano Impero hanno sviluppato strutture quale più, quale
meno, di impronta federale in senso lato. Alla matrice mitteleuropea, e diciamo
pure tradizionale dello Stato federale, si è contrapposta poi quella
nord-americana che, pur essendo frutto anch'essa – com'era inevitabile – di un
processo di maturazione e, dunque, di un processo storico, aveva però seguito
un iter diverso: quello di un incontro di volontà storicamente individuabili
più che quello del lento evolversi delle risposte giuridiche al diverso
atteggiarsi del corpo sociale. Quasi per una paradossale inversione della
tipica forma mentale di due culture diverse, l'impostazione americana
(illustrata al Convegno dalla relazione di Giorgio Recchia, purtroppo non
consegnata agli Atti) – ha finito così con l'assumere contorni formali di
fronte al pragmatismo della concezione mitteleuropea. Concezione – è bene
sottolinearlo – propria di una Comunità integrata per la quale, come si è detto
innanzi, la separazione fra il livello proprio dei soggetti di diritto
internazionale e quello dei soggetti di diritto interno aveva rappresentato una
ricombinazione funzionale, che si era sovrapposta alla originaria
stratificazione aristocratica. I problemi teorici implicati da questa
circostanza spiegano probabilmente la fortuna della teoria contrattualistica
della nascita dello Stato federale, teoria dalla quale la dottrina si è
liberata solo a fatica, chiarendo che questo non nasce da un trattato più di
quanto uno Stato, a sua volta, nasca dal riconoscimento che ne facciano altri
Stati. Friedrich – il cui pensiero è stato portato all’attenzione del Convegno
dalla relazione Caruso[81] –
parla acutamente di un processo di costituzionalizzazione della comunità
politica ove, nel processo di aggregazione e disgregazione, pesano non solo gli
aspetti puramente formali, ma anche le possibili linee evolutive[82].
Ma che la logica formale funzioni a volte come un letto di Procuste è ben noto,
e nel caso di specie è dimostrato una volta di più dalla osservazione dei
modelli storicamente affermatisi nel continente europeo e negli altri. La
relazione di Wawrzyniak[83],
circa il federalismo dei Paesi dell’Est, dimostra quanto poco qui il processo
federativo sia descrivibile mediante il ricorso ai modelli astratti di
federazione o di regionalismo elaborati in sede teorica, mentre Alvarez Conde[84],
riflettendo sulle scelte spagnole, mostra la fertilità di un approccio che
tenga conto de las diferentes vías de acceso a la autonomía[85].
In Italia, l’organizzazione politica del paese tramite comuni equiparati nei diritti, quale si sarebbe potuta avviare già nel declinare del Medio Evo, era destinata storicamente a non avere futuro. La Penisola si mostra tetragona a sviluppare germi federalistici vuoi dall’esperienza comunale – come illustra la Relazione Dilcher – vuoi da quella signorile, come la relazione Artizzu mostra chiaramente per la Sardegna[86].
Riguardando i problemi attuali in una tale prospettiva, due relazioni risultano particolarmente incisive: anzitutto la relazione Melis[87], il quale ci ha mostrato ancora una volta quanto variegato e faticoso sia stato il cammino della Pubblica Amministrazione in Italia, un cammino che si è ispirato a modelli amministrativi diversi, nell’ «idea che l’uniformità amministrativa non fosse un valore ma semmai, in determinate circostanze, un disvalore»[88].
La relazione di Paolo Fois, dal canto suo[89], ci mette in guardia nei confronti dei rischi insiti nel procedere verso un’Europa che non tenga conto delle specificità regionali. Si tratta di un monito che suona anche come invito al recupero delle radici originarie della nostra cultura, la cui ricchezza sta proprio nella sua complessità, scaturente tuttavia da una matrice comune.
E’ dunque utile interrogarsi su quanto possa impiantarsi uno stato federale senza una cultura federale così come a lungo ci si è interrogati sulla difficoltà di formare uno Stato accentrato senza un vero senso dello Stato: il problema ci riguarda oggi non solo dal punto di vista interno, come propensione all’autonomismo, ma anche da un punto di vista internazionale, come rafforzamento delle istituzioni europee.
La relazione Contini[90], se da un lato ci fa comprendere quanto pochi, nei primi quattro lustri di vita della Repubblica , siano stati gli studiosi i quali hanno creduto di poterla vedere come uno stato regionale, lamenta anche quanto, ormai, si sia andati in materia ben aldilà dell’originario disegno costituzionale per avviarsi verso schemi, quanto meno tendenzialmente, federalistici. Schemi ibridi, tuttavia, nei quali ora sembra affiorare una matrice olivettiana, ora sfumature titoiste che sembrano guardare all’autogestione partecipativa. Ma se rileggere oggi le riflessioni di La Loggia[91] ci da la misura di quanto sia necessario ponderare gli interventi strutturali sulla nostra Costituzione, la relazione Nicolic[92] è una tremenda quanto puntuale testimonianza di come una compagine politica possa avviarsi nella direzione della propria autodistruzione, coinvolgendo in essa lo stesso Stato.
[1] Ugone Grozio, Il diritto della guerra e della pace, (tr. D.A. Porpora), Discorso preliminare, XLVII, ed. Napoli 1777= Firenze 2002 (introduzione F. Russo, premessa S. Mastellone), vol. I, 167.
[2] «La storia – quella autentica – non è mai né fuga, né elusione né di-vertimento dall’oggi». Così giustamente P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, Bari 1995, 12.
[3] Il problema ha ripetutamente attirato l’attenzione degli studiosi. Vedi G. CASSANDRO, Metodologia storica e storia giuridica, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza della Università di Bari, IX, 1948, 115 - 117); Storia e diritto, un'indagine metodologica in Rivista di Storia del diritto italiano, XXXIX, 1966; Sul problema della continuità, in AA. VV. La continuità nella storia del diritto, Seminario italo - tedesco di storia del diritto, Milano 1972, 31 - 46) ; voce Storia del diritto, in Novissimo Digesto Italiano, vol. XVIII, 339 - 467. Tutti gli scritti sopra citati sono ora riuniti in G. CASSANDRO, Lex cum moribus. Saggi di metodo e di Storia giuridica meridionale, Bari 1994, I.
[4] Anche nell’esperienza giuridica romana, sia il populus sia la civitas sono indicati come societas: vedi infra, G. Lobrano, La Respublica romana, municipale-federativa e tribunizia: modello costituzionale attuale, nota 26.
[5] I più compiuti sviluppi di queste premesse, che come è noto risalgono ai fondamentali studi di M. Hauriou, (il quale nei Prècis de droit constitutionnel, Paris 1929, 115 sostiene: «On peut poser, en principe, que tout gouvernement d'Etat est un pouvoir unique superposé à des pouvoirs primaires multiples préexistant dans la nations») e del S. Romano (vedi L'ordinamento giuridico, Pisa 1818; ma anche Principi di diritto costituzionale generale, Milano 1946, 45 e ss.; Frammenti di un dizionario giuridico, Milano 1947, 14 e ss.) sono dovuti soprattutto alla scienza internazionalistica italiana, ed agli studi di R. Ago, Scienza giuridica e diritto internazionale, Milano 1950, 53 e ss.; M. Giuliano, La Comunità internazionale e il diritto, Padova 1950, 161, 221 e ss.; D. Barile, Diritto internazionale e diritto interno, in Rivista di diritto internazionale, 1956, 439, cui si rinvia anche per le necessarie indicazioni bibliografiche.
[6] P. Biscaretti di Ruffia, Diritto costituzionale, Napoli 1986, 4.
[7]
E. Bussi, Evoluzione storica dei tipi di
Stato, Cagliari 1970, ora in rist. Milano 2002, con introduzione di P.G.
Grasso, 133; cfr. C. Lavagna, Istituzioni
di diritto pubblico, Torino 1985,
6a, 3; per G. Simmel la società esisterebbe se e in quanto più
individui entrino in interazione. Il concetto di interazione viene poi ancorato
all'esistenza di certi impulsi o di certe necessità come religione, difesa,
istruzione. Vedi The Problem of Sociology, in Essays on Sociology, Philosophy and
Aesthetics, New York 1959, 314.
[8] Su ciò G. Sperduti, Norme primarie e fondamenti del diritto, in Rivista di diritto internazionale, 1956, 15.
[9] Ciò in quanto i “principi ideali” informatori della società, pur se distinti dall'ordinamento giuridico positivo, operano come stimolo a procedere a mutamenti del diritto, ove questo sia in contrasto con quelli. Questi prima ancora che il mutamento sia compiuto, influiscono sulla pratica e sulla interpretazione del diritto esistente. Si vedano, in proposito, le acute osservazioni di T. PERASSI, Introduzione alle scienze giuridiche, rist., Padova 1967, 36 e ss.
[10] Cfr., sul punto, E. Ehrlich, Fundamental Principles of the Sociology of Law, Cambridge 1936, 397: un atto giuridico non è, nè può essere un atto individuale, isolato, ma è parte dell'ordine sociale prevalente.
[11] Già P.G. Vinogradoff notava in
proposito nel suo Historical Types of
International Law, in Bibliotheca
Visseriana, I, Lugduni Batavorum 1923, 68-70: «It seems clear that the contents of political and legal evolutions
cannot be brought under the rule of universal abstract formulas: the relations
between Law and the State, between communities and their members vary greatly
in the course of history and have to be estimated by different standards. The only two universal and permanently
fixed points in this respect are the individual as a given real being and the
society as a necessary real relation».
[12] In tal senso, vedi Opler, Themes and Dynamic Forms in Culture , in
American Journal of Sociology, 1945,
II, 198-206.
[13] L’ultima affermazione è di H. Coing, Europäisches
Privatrecht 1500 bis 1800, I
Älteres Gemeines Recht, München 1985, 1.
[14] Cioè nella organizzazione dell'ordinamento, che è di necessità strettamente collegata alle funzioni dell'ordinamento stesso. Su ciò si veda A. Malintoppi, Organizzazione e diritto internazionale, in Archivio giuridico "Filippo Serafini", 1968, CLXXV, 322.
[15] Che gli ordinamenti della ecumene cristiana medievale fossero strutturati entro moduli formali fondamentalmente ‘teo-politici’, incentrati sulla ‘presenza reale di Dio’ al vertice del tutto (e dunque fossero sistemi acefali dal punto di vista temporale) è stato sostenuto con particolare vigore da P. Bellini , Respublica sub Deo. Il primato del Sacro nella esperienza giuridica della Europa preumanistica, Firenze 1985, 4a, XV.
[16] Su quanto rilevi il rinnovato studio dei classici ai fini di una mutata concezione dello “Stato” vedi E. Bussi, Evoluzione, cit., 209.
[17] V. Piano Mortari, Gli inizi del diritto moderno in Europa, Napoli 1980, 310.
[18]
Vedi infra F.Sini, Religione e sistema giuridico in Roma
repubblicana: «..dal punto di vista umano, il “legalismo
religioso” dei sacerdoti romani configurava la pax deorum come una somma di atti e comportamenti, ai
quali collettività e individui dovevano necessariamente attenersi per poter
conservare il favore degli dèi».
[19] Vedi infra E. Cortese, Un personaggio in cerca di autore. La compilazione giustinianea nel Medioevo, 1.
[20]
Vedi infra, M.G. Stasolla, Stato centralizzato e delega del potere
nello Stato islamico di età abbasside: la questione del visirato e dell’emirato
nella dottrina di al-Mawardi.
[21] Cfr. R. KOSELLECK, Kritik und Krise. Ein Beitrag zur Pathogenese der bürgerlichen Welt, Freiburg-München 1959, trad. it. Critica illurminista e crisi della società borghese, Bologna 1972, 37-39. Per una interpretazione ormai classica del pensiero rivoluzionario cfr. A. Camus, L'homme revolté, trad. ital. L'uomo in rivolta, Milano 1957, 141 e ss.
[22] Si veda, in tema, il volume collettaneo Die Entstehung des modernen Staates, hrg
H.H.Hofmann, Berlin-Würzburg 1967. Si coglie storicamente il punto di trapasso
in F.G. Svarez, Vorträge über Recht und
Staat(a cura di H. Conrad), Köln und Opladen 1960, 18 e ss., 481 e ss.; ma
anche in J. L. Klüber, Öffentliches Recht
der teutschen Bundes und der Bundesstaaten, Frankfurt am Main 1840, 561 e
ss.
[23] L’uso del verbo to find sarebbe proprio delle corti inglesi e di quelle dei Paesi di Common Law, Vedi G. Gorla, voce Giurisprudenza, in Enciclopedia del diritto, XIX, 1970, 493
[24] L. Bussi, Il diritto comune nella storiografia italiana di questo secolo, in Le carte e la storia, IV, 1, 171.
[25] Su tale processo si veda E. Bussi, Evoluzione storica, cit. , 203 e ss.
[26] H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. it., Milano 1959, 330.
[27] Per la distinzione fra costituzione formale e costituzione materiale e la connessione di quest' ultima alle forze sociali assurte ad una posizione di predominio sulle altre, cfr. C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova 19697a, I, 23-35.
[28] L'osservazione è di C. Mortati (op. cit., II, 728-729), il quale, come soluzione proponeva una migliore istituzionalizzazione delle forze sociali stesse, richiamandosi all'esperienza americana. D'altra parte la psicologia sociale della scuola di Yale, mentre da un lato veniva formulando una teoria ludica dei conflitti che permetteva di formalizzare la struttura di una situazione di conflitto, dall'altra, nel tentativo di studiare l'origine dei conflitti, l'avrebbe ravvisata nella tendenza a sviluppare un comportamento aggressivo da parte delle vittime di un maggior numero di frustrazioni dovute all'interdipendenza necessaria, ovvero nella collera che può svilupparsi non solo per la frustrazione, ma anche per l'osservazione della violenza. E mentre per i sociologi americani - descrivendo essi un sistema sociale come un insieme di individui che cooperano per raggiungere un fine comune - il conflitto potrebbe essere risolto come un semplice problema di organizzazione intelligente, per la teoria marxista sostanziandosi la dinamica sociale nella lotta di classe, il conflitto si radicherebbe nelle relazioni d'autorità della società stessa e la soluzione dei conflitti sociali non potrebbe ricercarsi che in una società senza classi (cfr. H. Touzard, La mediation et la resolution des conflits, Paris 1977, 30 e ss.). In questi termini, il conflitto è visto come strumentale, spogliato d'ogni psicologismo. Sul punto concorderebbe anche Dahrendorf, per il quale il conflitto sociale troverebbe la sua fonte nell'inuguaglianza di potere che affetta le relazioni d'autorità. In termini istituzionali questo significa che in ogni organizzazione sociale, alcune posizioni hanno il diritto di esercitare un controllo su altre posizioni, tendendo a realizzare una coercizione effettiva; la tesi rinvia, in altri termini, a una distribuzione differenziale del potere e dell'autorità suscettibile di divenire il fattore determinante dei conflitti sociali (R. Dahrendorf, Class and Class Conflict in Industrial Society, Stanford 1959, 165).
[29] Tale affermazione si pone su un piano diverso da quello sul quale R. Quadri (Diritto internazionale pubblico, Napoli 1968, 5a, 27) ravvisa l'esistenza di una «autorità sociale superiore ai consociati», ove risiederebbe il fondamento dell'ordinamento giuridico relativo alla società stessa, giacché qui si pone l'accento sulla organizzazione decentrata della società internazionale, che il Quadri stesso, a ben guardare, sembra riconoscere implicitamente, quando ammette che: «...le funzioni giuridiche della Comunità (internazionale) non appaiono coscientemente ripartite fra un complesso di organi deputati al loro espletamento».
[30]
Da una visuale leggermente diversa si pone la differenza fra controversie justiciables e non justiciables, giacchè questa ha riguardo alla effettiva
possibilità che la pretesa o la resistenza vengano fatte valere sul piano
giuridico o su quello politico. Tale distinzione ha contorni diversi per il
politico e per il giurista: per quest'ultimo dipende dall'obbiettivo esame se
la controversia possa essere risolta sulla base di norme giuridiche; viceversa
il politico sarà portato a considerare il problema dal punto di vista della sua
più o meno intima connessione con gli interessi dello Stato. Si veda, sul punto, C. De Visscher, Théorie et réalité en droit international
public, Paris 1953, 396.
[31] Su pretesa e resistenza come elementi costitutivi della controversia internazionale e sulle conseguenze che tale concezione comporta in ordine alla qualificazione della controversia stessa, si veda per tutti G. Morelli, Nozioni di diritto internazionale, Padova 1967, 368 e ss.; nonchè, dello stesso a., Nozione ed elementi costitutivi della controversia internazionale, in Rivista di diritto internazionale, 1960, 405 e ss.
[32] Ciò discende logicamente dalla nozione stessa di controversia. Molto coerentemente Morelli ne deduce che, in caso di difformità circa la base politica o giuridica della pretesa o della resistenza, sorgerebbe una seconda controversia relativa a questo punto specifico. Cfr. Nozioni, cit., 371. Sulle procedure volte a superare questo tipo di controversia preliminare, P. Chapal, L'arbitrabilité des différends internationaux, Paris 1957.
[33]
Ne consegue infatti che anche la Corte Internazionale di Giustizia, sebbene
dalla dottrina e dalla Carta - vedi articoli 7 e 92 - venga definita quale
organo giudiziario delle Nazioni Unite, in realtà «funziona quasi sempre in
base a “compromesso” ed ha, quindi, di regola, natura arbitrale», come rileva
R. Quadri, op. cit., 253. Sul punto,
cfr. quanto affermato dalla Corte Permanente di Giustizia Internazionale nel
parere reso a proposito della Carelia Orientale: «Il est bien établi, en droit international, qu'aucun État ne saurait
être obligé de soumettre ses différends avec les autres États soit à la
Médiation soit à l'arbitrage, soit à n'importe quel procédé de solution
pacifique sans son consentement. Ce
consentement peut être donné une fois pour toutes sous la forme d'une
obligation librement acceptée; il peut, par contre, être donné dans un cas déterminé,
en dehors de toute obligation préexistante». Vedi Publications de la
Cour Permanente de Justice Internationale, Serie B, n°5, 27.
[34] Per una critica di tali posizioni vedi W.
Preiser, Völkerrechtsgeschichte, in
Strupp - Schlochäuer, Wörterbuch des
Völkerrechts, vol.III, Berlin 1962, 680 ss.; History of the Law of Nations, in Enciclopedia of Public international Law, 7, 1984, 128.
[35] Per una acuta disamina delle principali posizioni dottrinali in materia, vedi F. SINI, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, Sassari 1991, 13-44.
[36] W.Preiser, Zum Völkerrecht der vorklassischen Antike, in Archiv des Völkerrechts, 4 Bd., 3 H., 1954; R. AGO, Les premières collectivités intéretatiques méditerranéennes, in Mélanges offerts a Paul Reuter. Le Droit international, unité et diversité, Paris, 10; Idem, La comunità internazionale alle sue origini, in Studi in onore di G. Balladore Pallieri, Milano 1977, II, 31 dell'estr.
[37]
Vedi infra, M.r.Cimma, Reges socii et
amici populi romani.
[38] E’ ammissibile che un tale diritto possa essersi atteggiato diversamente da quello attuale. Rimarchevole in proposito P. Catalano (Linee del sistema sovranazionale romano, Roma 1965), che parla di un sistema sovranazionale, connesso con gli aspetti religiosi del diritto romano.
[39]
Il quale nella definizione ulpianea dello jus
gentium sostituì le gentes agli homines, 257 ed. CIL D. 1,1,1; ma anche Inst I,II,§1: Quod vero naturalis ratio inter omnes
homines constituit, id apud omnes peraeque custoditur, vocaturque jus gentium,
quasi quo jure omnes gentes utantur.
[40] Su ciò M. Giuliano, La comunità internazionale e il suo diritto, Padova 1950, 30.
[41] Nei numerosi studi dedicati alla storia del diritto internazionale, Ago metteva in guardia contro i rischi di diversa natura nascosti in questa teoria. In particolare vedi R. Ago, Scienza giuridica e diritto internazionale, Milano 1950, 27. Questo studioso avvertiva che il diritto internazionale sarebbe stato esposto alla reazione di quei soggetti che non riconoscono le loro radici nella cultura europea. Preiser dal canto suo ha dimostrato che oltre alla Comunità di Stati stabilitasi nel Vicino Oriente e in Europa, ci sono prove di altre Comunità e di altri ordinamenti internazionali. W. Preiser, Frühe völkerrechtliche Ordnungen der ausserëuropäischen Welt. Ein Beitrag zur Geschichte des Völkerrechts, in Sitzungsberichte der Wissenschaftlichen Gesellschaft an der J.W.Goethe Universität, Frankfurt am Main, IV, 5, Wiesbaden 1976, 89-292. Quanto alla continuità della Comunità internazionale, se è in discussione quella fra la Comunità emersa dalla pace di Wesfalia e la precedente, il problema si pone anche per la Comunità internazionale contemporanea, dopo la decolonizzazione e l’affermarsi delle organizzazioni internazionali: si parla di un “modello Westfalia” in opposizione a un “modello ONU”. Vedi A. CASSESE, Il diritto internazionale nel mondo contemporaneo, Bologna 1984, 10.
[42] M. Zimmermann, La crise de l'organisation internationale a la fin du Moyen Age, in Recueil des Cours de l'Académie de Droit International, 1933, II, 310 ss; G. Balladore Pallieri, Diritto internazionale pubblico, Milano 1937, 1, 4 ss.; dello stesso a. , Introduzione a Balladore Pallieri - Vismara, Acta pontificia juris gentium usque ad annum MCCCIV, Milano 1946, XIII ss.
[43] Così P. Catalano, Linee del sistema sovranazionale romano, I, 1965, 12-13.
[44] Vedi sul punto M. Giuliano, La comunità internazionale e il diritto, Padova 1950, 70.
[45] Vedi D.Anzilotti, Corso di diritto internazionale, Padova 1954, I; ma anche Opere di Dionisio Anzilotti, Padova 1955, 19. Cfr. P. Fois, L’insegnamento del diritto internazionale in Italia durante il Novecento, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, XXVIII, 1992, n.1, 17-28.
[46] H. Triepel, Diritto internazionale e diritto interno, tr. it. Torino 1913, 51 e ss. ove l'a. individuava una netta separazione fra i due diritti. Fonte del diritto internazionale era, in questa concezione, la convenzione fra due o più Stati, da distinguersi dal trattato che ammette due sole parti. A tali posizioni aderì anche D. Anzilotti, (Corso di diritto internazionale, Padova 1954, I, 67), pur tentandone una fusione con la teoria kelseniana (l'accordo trarrebbe la sua forza obbligatoria dalla norma-base "pacta sunt servanda"). Per un esame critico degli orientamenti dottrinali relativi al fondamento giuridico del diritto internazionale, si veda R. Ago, Scienza giuridica, cit., in particolare 27 e ss.
[47] Ma quasi subito la dottrina ha dovuto riconoscere il ruolo di soggetto internazionale anche a enti che non hanno natura di Stato o che non si trovano in condizioni di parità effettiva con gli altri soggetti della Comunità internazionale.
[48] L. Bussi, Il problema della guerra nella prima civilistica, in A Ennio Cortese, Roma 2001, I, 149.
[49]
Vedi Quadri, op. cit., 270. P. Fischer – H.F. Köck ( unter mitarbeit I. Marboe), Allgemeines
Völkerrecht. Das Recht der
universellen Staatengemeinschaft. Ein Lehrbuch mit den wichtigsten
Rechtstexten, Wien 2000, 328 e ss.
[50] Quadri, op. cit., 273. Il problema non è certo nuovo. Già la scienza giuridica medievale si è posta il problema an universitas possit delinquere e in qual modo potesse venire punita.Vedi sul punto L. Bussi, Il problema della guerra, cit., 136-137
[51] Lobrano parla di due linee di tendenza, di due costituzionalismi pensando, come esempi contrapposti, da un lato, ai difensori delle prerogative delle assemblee rappresentative come Boulainvilliers, dall’altro ai sostenitori delle autonomie municipali come Dubos. Vedi infra, G. Lobrano, La Respublica, cit.
[52] In tema vedi L. Bussi, Fra unione personale e Stato sovranazionale. Contributo alla storia della formazione dell’impero d’Austria, Milano 2003, 281 e ss., 492.
[53] In argomento vedi L. Bussi, The growth of international Law and the
mediation of the Republic of Venice in the Peace of Westphalia, in Parliaments estates &Representation, vol. 19, 1999, 73 e ss.
[54] R. Koselleck, Kritik und Krise. Ein Beitrag zur Pathogenese der bürgerlichen Welt, Freiburg-München 1959, trad. it. Critica illuminista e crisi della società borghese, Bologna 1972, 25.
[55] Cfr. Koselleck, Critica illuminista..., cit., 21; sulla necessità di distinguere a questo proposito fra un illuminismo giuridico inteso come ideologia dei sovrani, e un illuminismo giuridico inteso come ideologia di opposizione di fronda, vedi G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna. I. Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna 1976, 227; su questi concetti torna a più riprese O. Brunner, vedi in particolare Feudalismus. Ein Beitrag zur Begriffsgeschichte, trad. ital. Feudalesimo, un contributo alla storia del concetto, in Per una nuova storia costituzionale e sociale, Milano 1970, 90.
[56] L’uso legittimo della forza era nella società medievale una funzione non accentrata. Sul punto vedi da ultimo L. Bussi, Il problema della guerra nella prima civilistica, cit., 117 e ss.
[57] Cfr. Koselleck, op. cit., 35; in tal senso anche Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, I, cit., 49.
[58] Vedi G. Gorla, Esperienza scientifica, diritto comparato in Cinquanta anni di esperienza giuridica in Italia, Messina-Taormina 3-8 novembre 1981, Milano1982; ma anche, dello stesso a. Unificazione legislativa e unificazione giurisprudenziale: l’esperienza del diritto comune, in Foro italiano 1977, V, 91.
[59] Vedi infra
E. Dezza, «Pour pourvoir au bien de
notre justice». Legislazioni statali, processo penale e
modulo inquisitorio nell'Europa del xvi secolo.
[60] Sulla giurisprudenza dei grandi tribunali europei nell'età del tardo diritto comune, M. Ascheri, Tribunali, giuristi ed istituzioni dal medioevo all'età moderna, Bologna 1989 (bibliografia alle 255-258).
[61] G. Gorla, voce Giurisprudenza, cit., 493. Tale conoscenza, per quanto concerne l’Inghilterra, risale anche ad un tempo anteriore, ai secoli XII-XV e a giuristi come Glanvill, Bracton, Fortescue e altri. Vedi Gorla, I grandi tribunali ialiani fra i sec. XVI e XIX: un capitolo incompiuto della storia politico-giuridica d’Italia in Quaderni del Foro italiano, 1969; Il valore del precedente giudiziale e la “autorità” dei dottori in Italia (e altrove) fra i secoli XVIII e XX, in Quaderni del foro italiano, 1969-1970. Per un esame critico delle posizioni di Gorla vedi A. Cavanna, La storia del diritto moderno (secoli XVI-XVIII) nella più recente storiografia italiana, Milano 1983, in particolare 72 e n. 68.
[62] Sulla necessità di sganciarsi dal concetto di norma come “comando del potere sovrano” ritiene necessario pronunciarsi L. Lombardi, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano 1967, 382.
[63]
Vedi infra, S. Bariatti, Il ruolo del
giudice nella costruzione dell’ordinamento comunitario.
[64]
Vedi infra A. Padoa-Schioppa, Note
sulle riforme istituzionali del Trattato di Amsterdam.
[65] P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari 1995, 41-52.
[66] Vedi M. Caravale, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Bologna 1994, 155 e ss.
[67] G. Tabacco, Ordinamento pubblico e sviluppo signorile nei secoli centrali del Medioevo, in Archivio muratoriano, LXXIX (1968), pagg. 37-39, L. Bussi, Terre comuni ed usi civici: dalle origini all'Alto Medioevo, in Storia del Mezzogiorno, vol. III, Napoli 1990, pag. 211 e segg.
[68]
Vedi infra, M.T. Guerra Medici, Le origini dello Stato moderno fra res
familiaris e res publica.
[69] E. Bussi, Evoluzione storica, cit., pag.166.
[70]
Vedi infra, M. Ascheri, Questioni storiografiche relative al comune
basso-medievale.
[71]
L’immagine è di Wilhelm Ebel, citato da G. Dilcher, infra , Formazione dello
stato e comune cittadino nel Sacro Romano Impero.
[72] Ancora Dilcher, Formazione dello Stato, cit.
[73] K. Jacob, Die Chimäre des Gleichgewichts, in Archiv für Urkundenforschung,
6, 1918, 364.
[74] J. WAWRZYNIAK, La Polonia e le sue costituzioni dal 1791 ad oggi. Le radici istituzionali della svolta polacca, Rimini 1992, pag.30. A sua volta E.Bussi ha parlato di una “democrazia” riconoscibile nelle strutture del primo Reich; vedi La democrazia nel primo Reich, in Rivista di Storia del diritto italiano, XXXII; il saggio è stato ripubblicato in Diritto e politica in Germania nel XVIII secolo, Milano 1971.
[75] Secondo tale modo di intendere, il fenomeno giuridico sarebbe apparso inizialmente in ambiti ristretti e si sarebbe gradualmente esteso ad ambiti più vasti sino a coinvolgere quello internazionale. Deriverebbe di qui la convinzione della presunta novità di tale diritto, il cui inizio dovrebbe essere visto nella pace di Westphalia - cioè nei Trattati di Osnabrück (6 agosto 1648) e di Münster (24 ottobre dello stesso anno) – e nell’opera di Grozio De jure belli ac pacis. Vedi M. Panebianco, Ugo Grozio e la tradizione storica del diritto internazionale, Napoli 1974, 119 e ss.
[76] A partire da E. Bussi, Il diritto pubblico del Sacro Romano Impero alla fine del XVIII secolo, vol. I, Milano 1957, vol. II Milano 1959.
[77]
Vedi infra, R. Hoke, Il federalismo
austriaco.
[78]
Vedi infra C. Lacaita, Il federalismo di Cattaneo e il problema
nazionale italiano.
[79] Vedi infra, M. Corona Corrias, Il federalismo di Giuseppe Ferrari:dalla
Filosofia politica alla forma di Stato.
[80]
Vedi infra G. Malinverni, Federazione e confederazione nella dinamica
della costituzione elvetica.
[81]
Vedi infra B. Caruso, Costituzione e potere costituente in Carl J. Friedrich.
[82] L. Bussi, Fra unione di Stati e Stato sovranazionale, cit.
[83] Vedi infra, J. Wawrzyniak, Il principio federale nelle nuove costituzioni dei Paesi dell’Europa centro-orientale.
[84] Vedi infra, E. Alvarez Conde, Homogeneidad
y asimetría en el modelo autonómico español.
[85]
Ibidem.
[86]
Vedi infra F. Artizzu, Il particolarismo dei giudicati.
[87]
Vedi infra G. MELIS, Accentramento e decentramento nella storia
d’Italia.: il centralismo debole e le
autonomie.
[88] G. Melis, Accentramento e decentramento, cit., 3.
[89]
Vedi infra P. Fois, Europa delle Regioni e federalismo europeo.
[90]
Vedi infra G. Contini, Federalismo e devolution. Gli aspetti istituzionali.
[91] Vedi infra E. La Loggia, Il dibattito in corso.
[92] Vedi infra P. Nicolic, Le
fédéralisme et l'experience yougoslave (les aspects constitutionnels).