N. 3 – Maggio 2004 – Lavori in corso – Didattica
Il diritto romano in Albania: insegnamento e strumenti
1. – Vorrei trattare dell’insegnamento del diritto romano
nella storia più recente dell’Albania. In primo luogo vorrei sottolineare
l’influenza diretta o indiretta avuta dal diritto romano nella formazione dello
Stato moderno di Albania.
Con la dichiarazione
di indipendenza, sin dal 1912, si è proceduto a delineare le linee del diritto
della nuova realtà politico-costituzionale che si andava delineando con
specificità proprie che dovevano segnare il distacco dalla precedente appartenenza
alla Grande Porta[1].
Il “complesso” di
insicurezza e di accerchiamento che ne conseguì spinse gli Albanesi ad
arroccarsi intorno ai propri costumi come simbolo della propria specificità ed
identità. Essi videro perciò nel kanun
la fonte di diritto che salvaguardava ed esaltava la loro appartenenza ad una
entità etnica e culturale diversa da quelle dei popoli viciniori e dai quali in
gran parte temevano di venire fagocitati. Si può dire che sorse una vera e
propria ‘psicosi’ causata dal timore di venire aggrediti e di perdere i propri
territori. Fu questo stato d’animo a spingere gli Albanesi a vedere di buon
occhio l’intervento dell’Italia e persino, da parte di qualcuno, a giustificare
il ‘fascismo’ e la sua politica espansionistica e di occupazione usurpatrice e
repressiva.
In questo quadro
ideologico e teorico il diritto romano, legato alle antiche tradizioni
illiriche, fu visto come un importante punto di riferimento. Rivendicando
l’origine dal diritto romano del proprio diritto (quello dei kanuni) gli Albanesi intendevano
sottolineare la propria differenziazione dagli slavi e dai musulmani.
Fu perciò stabilito
un parallelismo tra kanun e diritto
romano o, meglio, tra kanun e principi
del diritto romano. L’identificazione che ne seguì fu esaltata e
strumentalizzata dal fascismo il quale per farsi accettare si propagandò come
difensore contro eventuali invasori (in particolare i Serbi) e come
ripristinatore del diritto degli Albanese attraverso la valorizzazione delle
radici comuni che risiedevano nel diritto romano. Come esempio di questa
visione propagandistica possiamo leggere alcune pagine nelle quali vengono
evidenziati i legami tra kanun e
diritto romano come base dell’identità albanese e come salvaguardia di essa[2].
In tal modo si
arrivò alla fine di un processo partito dalla dichiarazione di indipendenza
della Prima Repubblica del 1912, la quale aveva rinviato espressamente al kanun come fonte del diritto albanese.
Le vicende
successive sono note. La Conferenza degli
Ambasciatori dette un diverso assetto, con molte mutilazioni territoriali,
all’Albania, distruggendo ogni velleità di ripristino della Grande Albania. L’Albania fu configurata
come Principato ed il modello
dell’ordinamento divenne quello tedesco. In esso il diritto romano aveva ugualmente
un ampio spazio.
In conclusione
possiamo dire che la presenza o quanto meno l’influenza del diritto romano
nell’esperienza e nel diritto albanese si realizzò attraverso una duplice via:
1.
attraverso l’influsso sul kanun;
2.
attraverso il peso del diritto tedesco.
2. – Riguardo al kanun
occorrerebbe un’analisi complessa che non mi è possibile affrontare in questa
sede, dove credo sufficiente fare notare che in realtà il costume albanese ha
articolazioni molteplici e che, perciò, bisognerebbe esaminare ogni singolo kanun per un’analisi completa delle sue
caratteristiche, che pur in un quadro di riferimento spesso omogeneo presentano
aspetti e regole differenti da kanun
a kanun.
In essi l’influenza
del diritto e della tradizione romana sono ugualmente considerevoli per due
motivi: al Sud per l’influenza della tradizione bizantina, conosciuta
soprattutto attraverso l’opera di Harménopoulos[3], al
Nord per il collegamento con una tradizione di matrice anche romana conservata
gelosamente nel costume locale, come indice della propria identità[4].
Al riguardo va
evidenziato che la peculiarità del diritto albanese non venne meno neanche
durante i cinque secoli di tradizione musulmana. Infatti il diritto e le
visioni musulmane certamente penetrarono nel diritto degli Albanesi ma non sino
al punto di assorbirlo e di annientarne le peculiarità; le quali, invece,
furono riconosciute ufficialmente dall’Impero Ottomano.
In generale si può
dire che vi era stretta assonanza tra la posizione del pater familias del diritto romano e la concezione ed il ruolo che i
kanuni assegnavano all’uomo ed in
particolare al padre all’interno della famiglia albanese.
Così come è
singolare un’altra coincidenza e probabile influenza del diritto romano
riguardava l’età del matrimonio, la quale anche nei kanuni si faceva risiedere nel raggiungimento della pubertà. Ciò
dipese dal fatto che anche gli Albanesi concepirono il matrimonio in funzione
della procreazione, sicché requisito
essenziale fu ritenuta la capacità fisiologica e non quella psicologica. Anche
in Albania, come in tutto l’arco dell’esperienza giuridica romana invalse la
pratica, invero frequente, di matrimoni ‘precoci’, la cui validità era tuttavia
riconosciuta solo al momento del sopraggiungere della pubertà; secondo il
costume, infatti, la donna prima del raggiungimento della pubertà poteva essere
sposata e andare a vivere con il marito, però i rapporti maritali potevano
essere instaurati solo dopo il raggiungimento della maturità sessuale e solo da
quel momento il matrimonio veniva riconosciuto[5].
In altri casi si
nota piú l’influenza delle concezioni greche. Emblematico è il fidanzamento (fejesa)
considerato come una forma di pre-matrimonio di difficile scioglimento e che,
pertanto, non era riconducibile agli sponsalia
romani. Il fidanzamento secondo i kanuni creava
il vincolo tra i fidanzati a vivere in matrimonio, nel senso che la donna fidanzata
era ritenuta ‘occupata’ e, quindi, non piú libera di avere un altro marito.
La pubblicazione nel
1929 del Codice civile, detto Codice Zogu[6], costituì
un nuovo elemento per il confronto e lo studio del diritto romano. Esso, a somiglianza
di molti altri codici civili dell’epoca, seguiva uno schema e aveva materie che
affondavano le radici proprio nel diritto romano.
Il riconoscimento
della potestà del padre e del marito, il riconoscimento della persona, la
tutela della proprietà privata e dei diritti reali (di godimento e di garanzia),
la successione ereditaria, le obbligazioni ed i contratti, l’istituto della
dote e la distinzione dei beni dotali dai beni parafernali etc. sono capisaldi
che affondavano le radici nel diritto romano e spesso di esso rispecchiavano la
configurazione essenziale. Sono questi punti sui quali l’analisi andrebbe
approfondita. Qui mi limito a notare che l’emanazione del Codice Zogu vide
anche l’affermazione del diritto romano come materia di insegnamento negli
studi giuridici. Affermazione che vide una ulteriore fioritura qualche lustro
piú tardi a seguito dell’occupazione italiana.
Essa, come il
documento del Koliqi mostra chiaramente, portò con sé addirittura l’esaltazione
del diritto romano e spinse gli Albanesi a vantare legami stretti con la tradizione
romana nei costumi e nel diritto.
È questa la ragione
o almeno una delle ragioni che motivarono la successiva soppressione del
diritto romano dall’insegnamento giuridico all’avvento del comunismo, il quale
maturò, anche in chiave patriottica, un’avversione generale per gli studi
classici, con la quasi totale scomparsa del latino sia nella scuola superiore
sia nell’università.
Ne conseguì la
scomparsa di testi sulle fonti romane; delle quali era difficile trovare in
Albania traduzioni in lingua albanese. Le poche esistenti erano pressoché
irreperibili e per lo piú erano prodotte e circolavano all’estero. Ne conseguì
anche la scomparsa o l’inesistenza di testi di diritto romano; anzi i pochi in
lingua albanese provenivano da altri Paesi, ad esempio dal Kossovo.
Il quadro generale
degli studi giuridici registrava la scomparsa degli insegnamenti di diritto
romano, da oltre trenta anni. Tuttavia il fascino ed il retaggio degli studi classici
resistevano! Alcuni professori, che si erano formati durante il periodo che
aveva preceduto la formazione della repubblica popolare Albanese, conservavano
solide basi di studi classici e, soprattutto, un’entusiastica adesione alle
visioni ed allo spirito di libertà che da essi si acquistava. Qualche
professore, titolare dell’insegnamento di storia del diritto, trovava modo di
parlare del diritto romano, spiegando agli studenti che il diritto romano aveva
posto le radici e i principi ispiratori del diritto albanese. Si risaliva
almeno a Giustiniano e si ancorava alla sua ‘legislazione’ (cioè al Corpus Iuris Civilis) gli sviluppi del
diritto albanese ufficiale e dei kanuni (vale a dire dei diritti propri delle
popolazioni albanesi, formatisi nelle varie regioni dell’attuale Albania, a partire
dal 1400 d.C.).
3. – Con la caduta del comunismo sorse l’esigenza di riformare gli
studi in Albania, compresi quelli giuridici, che qui ci riguardano. Interrogandosi
sul modo migliore per assicurare una solida formazione per i giuristi si proposero
diversi modelli, per lo piú riflesso della organizzazione degli studi operante
nei Paesi dell’Europa Occidentale. Si affrontò con nuovo spirito la riforma del
corso degli studi della Facoltà di Giurisprudenza, fatta oggetto di dibattito
non solo tra professori albanesi, ma anche confrontandosi con professori di
altri paesi ed in particolare dell’Italia.
Tra i punti messi in
evidenza vi fu la sottolineatura dell’assenza di almeno un insegnamento di
diritto romano. Nello specifico nel 1992 a seguito dei contatti avuti con
direttore dell’Istituto di diritto romano dell’Università di Bari (prof. Sebastiano
Tafaro) fu stabilito l’inserimento (secondo alcuni il ripristino) di un insegnamento curriculare (obbligatorio) di diritto romano con carattere
istituzionale. La decisione voluta dai giuristi, fu condivisa dall’intero corpo
accademico e (cosa degna di nota!) caldeggiata dai docenti di discipline tecniche (in particolare dal preside
della Facoltà di Ingegneria).
La decisione era per
molti versi coraggiosa, in quanto non si trovavano in circolazione libri di
Istituzioni di diritto romano ed i docenti non potevano fare affidamento sulla
lettura delle fonti: vuoi perché non ve ne erano nelle biblioteche ed in
commercio, vuoi perché comunque non sarebbero state comprensibili senza la conoscenza
del latino, ormai desueto. Per questo il motivo, il nuovo insegnamento fu affidato
alla prof.ssa Arta Mandro, storica del diritto albanese, che fu “dirottata”sul
diritto romano. Per far fronte alle esigenze del nuovo insegnamento si pensò ad
un primo periodo di formazione ed impostazione. Grazie ad un contributo del c.n.r. italiano fu possibile realizzare un soggiorno di studio della
docente presso l’Istituto di Diritto romano dell’Università di Bari.
Durante tale periodo
furono discussi gli aspetti concernenti l’organizzazione del corso di diritto
romano. Ci si rese conto che per i manuali si poteva sopperire in qualche modo
procedendo all’adozione di alcuni manuali italiani: ciò era possibile per la
sufficiente diffusione della lingua italiana presso gli studenti albanesi.
Emerse però subito
un ulteriore problema: quello di consentire agli studenti e, piú in generale,
agli studiosi del diritto, anche un approccio diretto alle fonti romane;
indispensabile strumento attraverso il quale gli studenti potevano capire da
dove e come si erano formate molte dottrine e molti principi, che spesso sono patrimonio
corrente della cultura giuridica. Fu ritenuto essenziale abituare lo studente
all’analisi diretta del dato testuale. Certo l’ideale sarebbe stato la
reintroduzione del latino nelle scuole di base (ginnasio e licei), ma ciò al
momento appariva del tutto improbabile e comunque avrebbe spostato di molto nel
tempo la soluzione del problema.
Dopo ponderate
riflessioni si delineò un progetto di traduzione delle fonti romane. Ci fu una
lunga riflessione su quale scegliere per prima, optando infine per la
traduzione di un’opera basilare, ma completa. In tale ottica fu automatica la
scelta dei due manuali istituzionali pervenutici per intero (o quasi): le Istituzioni
di Gaio e quelle di Giustiniano. Tra i due si preferì dare la precedenza alle
Istituzioni di Gaio, un’opera semplice ed in grado di offrire il quadro di
quello che era stato il diritto proprio della civitas romana (ius proprium civitatis), cioè del ius civile.
Della traduzione si
fece carico la stessa prof.ssa Arta Mandro, che vi ha lavorato, in fasi
alterne, dal 1994: oggi essa attende ancora di essere pubblicato. La traduzione
concerne i quattro i libri dell’opera gaiana; è stata effettuata partendo dagli
esemplari di traduzione in italiano e provvedendo al confronto del testo albanese
con il testo latino.
Delle molte
difficoltà superate è difficile dare qui conto. Esse derivano principalmente
dal tentativo di trovare nel vocabolario giuridico albanese i termini piú vicini
a quelli romani; alcuni dei quali sono spesso scomparsi e si riferiscono a
concetti di difficile intelligenza da parte dei giovani albanesi. Non mi
dilungo ulteriormente sugli aspetti tecnici e sull’esigenza di rendere comprensibili
alle giovani generazioni istituti scomparsi dai codici e dal diritto privato
odierno.
Il piano di
traduzione, come si è detto, prevedeva di proseguire con le Istituzioni di
Giustiniano. Esse per alcuni versi si sono proiettate piú di altre opere classiche
sul diritto successivo ed ancora oggi trovano molti riscontri nel diritto
albanese. Perciò può servire ad una utile comparazione e soprattutto può
fornire lo strumento piú efficace per la formazione dei giovani studiosi del
diritto. Il progetto è tuttavia rimasto fermo a lungo, perché non si riusciva a
trovare chi fosse disposto a procedere alla traduzione.
Nel 1999 mi è stato
chiesto se avessi voluto attendere alla traduzione del manuale istituzionale di
Giustiniano. Ciò perché in aprile mi ero laureata in Giurisprudenza anche in
Italia (ero già laureata in Albania), a Bari, con una tesi in diritto romano.
Ho accettato e spero di potere portare a termine il compito assunto. Ad oggi ho
completato la traduzione del primo libro e ho già messo mano a quella del
secondo libro. L’impegno maggiore l’ho posto nel rendere adeguatamente il testo
latino nella lingua albanese, la quale ha sovente altri etimi o istituti diversi.
Penso di potere dare, così, un testo fedele sia all’originale latino, sia alla
mentalità ed alla terminologia contemporanea. Però la cura maggiore è stata
posta nel tradurre nella maniera più vicina possibile al testo latino. Il primo
libro è stato già pubblicato.
Nel frattempo è
maturata l’idea di proseguire il lavoro con l’aggiunta di note storiche e
dottrinarie e di porre le disposizioni latine a confronto con le norme del
diritto attuale (in particolare del Codice Civile e della nuova Costituzione
Albanese) e dei kanuni.
Dopo la traduzione
degli altri tre libri, sarebbe molto utile fornire un lessico latino-albanese
dei principali termini ricorrenti nel manuale giustinianeo e preparare una
tavola di raffronto tra gli istituti scomparsi e quelli che, in qualche modo,
trovano riscontro nel diritto albanese. L’obiettivo è quello di fornire allo
studente ed allo studioso lo strumento per cogliere la formazione dei principi
e la loro evoluzione dal diritto romano sino ad oggi.
In conclusione,
vorrei sottolineare la circostanza che ormai il diritto romano è stato
saldamente reintrodotto negli studi del corso di laurea in diritto e che vi è
perciò la necessità di passare da un insegnamento nel quale il docente impartisce
le nozioni di diritto romano, ad un percorso nel quale lo studente possa partire
dalle fonti per procedere attraverso un apprendimento critico e formativo.
Instituti i Studimevet Shqiptare
Istituto di
Studi Albanesi
Presidente del Reale Istituto
il diritto
albanese del kanun e il diritto romano*
Quando, lo scorso
anno 1941, all'epico aprirsi della primavera vittoriosa, su tutto l'immenso
arco delle Alpi Albanesi s'addensarono minacciose e bene armate, fidenti sopratutto nelle posizioni e nel numero
incomparabilmente superiori, le
truppe Serbe, poche ma salde divisioni del nostro esercito, attestatesi sulla
breve pianura fra Scutari e i monti e nella valle del Drin ne contennero
l'impeto e poi le ricacciarono.
Ma il fronte era
immenso, le insidie vi si potevano celare innumerevoli, le infiltrazioni di bande potevano divenir pericolose.
Allora venne finalmente soddisfatto il
desiderio delle stirpi della montagna, e ad ogni uomo si concesse un pane e un fucile. Come per
incanto in tre giorni, una popolazione primitiva che non ha telegrafo, radio,
ferrovie, automezzi, strade, che non ha mai fatto prove di mobilitazione, si
trovò in armi al comando dei suoi capi ereditari, pronta a battersi per i suoi
confini; occupò i valichi, li difese arditamente, li bagnò ancora una volta del
suo sangue ma molto più di quello del nemico secolare.
Meraviglia?
prodigio? - Nò, per chi conosce il saldo organamento delle stirpi della
montagna albanese, la meravigliosa disciplina che le regge in caso di
emergenza, lo spirito eroico di cui è informata la psicologia di quella gente.
Tale organamento, tale disciplina, tale
spirito eroico, con tutti i principi che ne sono come i canoni, con tutte le norme pratiche che ne
determinano le attuazioni, nel laconico linguaggio albanese si comprendono in
un solo termine: il Kanun, la legge tradizionale.
La commovente
ospitalità del montanaro albanese, vero tipo del gentiluomo povero, che
priverebbe sè, le sue donne, i suoi bambini, dell'ultimo tozzo di pane per imbandirlo “col sale e col cuore” all'ospite, e
patirebbe di veder la sua famiglia
spenta a fucilate, e le rovine della sua casa coperte di rovi dalla soglia al
focolare piuttosto che lasciar l'ospite indifeso - non è che un canone di questa legge.
Da esso è ispirata
la tradizionale fedeltà dei “Kawas” albanesi noti in tutto il Levante; da esso
la vigorosa e potente eloquenza dei vecchiardi e dei capi raccolti in giro a consiglio
lasciando le armi nei fasci; da esso il minuzioso poetico cerimoniale degli
sposalizi, impregnato di reconditi sensi.
Tutta la vita del
montanaro albanese, la sua mentalità, la sua prontezza al sacrificio della vita
senza esitazione per l'onore e per il dovere, le sue relazioni famigliari, i
suoi contratti, le sue, contese, le sue rappresaglie, la sua partecipazione
alla politica interna ed estera - è regolato da questa legge; tutto è Kanun,
ereditato dai padri, più incancellabile che se fosse fuso in dodici tavole di
bronzo: nessuno l'ha scritto ma nessuno lo cancellerà mai dall'animo albanese
finchè un popolo schipetaro ci sarà, come ci fu da trenta secoli sull'altra
sponda dell'Adriatico.
L'alta concezione morale e civica, lo spirito
eroico che è l’anima di questa legge tradizionale, l'unica sopravvissuta in
Europa, ci richiama spontaneamente i ricordi dell'antichità classica, e sopratutto quelli,
degli “antiqui mores” romani e delle leggi che ne vennero ispirate, e ci invita
a studiare quali relazioni e quali legami di dipendenza possono intercorrere
fra essi.
Quando il potere di Roma, definitivamente
esteso alla costa orientale adriatica, dovette organizzare le varie popolazioni Illiriche che
vi costituivano individue collettività, - determinate piuttosto come gruppi
etnici a sede non del tutto costante che come provincie a confini precisi, -vi adottò; col solito
sapiente intuito pratico, un sistema amministrativo quale richiedeva la natura
della nazione ormai unita alle sorti dell'Impero.
C'era un Prefetto
per l'Illirico, c'erano colonie romane o castelli di cittadini romani, c'erano
legioni, coorti, ali, con proprie sedi, ma l'organizzazione che noi oggi chiameremmo
municipale e giudiziaria, fu quella che la sapienza ed equità romana aveva
escogitata già almeno dai primi tempi della Repubblica per le provincie della
Sicilia, dell'Africa, della Spagna, della Gallia, con la migliore possibilità
di collaborazione fra le autorità proconsolari e .quelle locali nel comune
interesse, per la più solida garanzia per il buon diritto degli indigeni.
Ogni regione che avesse suo centro commerciale
nel capoluogo principale o secondario,
era organizzata in “conventus iuridicus”, costituito dai nobili, notabili e
giudici della regione, e nelle colonie o quasi colonie dove l'elemento romano
si era in gran parte sostituito al precedente, “in conventus civium romanorum”.
Il Prefetto
metodicamente perlustrava la regione e, trattenendosi per ispezione nei vari
capoluoghi, vi convocava il “conventus” col quale prendeva in esame le cause,
specialmente di diritto civile, secondo norme che egli aveva predefinito con un
“edictum” ma che si basavano sul diritto romano, su concetti locali e sullo “ius gentium”; in particolare per la procedura,
vigeva ampiamente, se non forse
esclusivamente, l'istituto della “recuperatio”: ogni
cittadino locale che venisse chiamato in giudizio “in ius”) da un romano.o viceversa, come pure il membro di
una comunità che venisse chiamato in giudizio dal membro di un'altra, aveva il
diritto di scegliersi una specie di giuria di “recuperatores” che curavano il giusto scioglimento
del processo nell'interesse dell'accusato.
In seguito, cioè dal
periodo degl'Imperatori Illirici in poi, e specialmente dal tempo di
Costantino, il “conventus” andò acquistando sempre maggiore importanza tanto da
venire a somigliare ad una specie di parlamento provinciale con diritto di
presentare lagnanze e proporre migliorièal governo imperiale.
Di tali “conventus”
storicamente ne conosciamo tre di giuridici (Salona, Narona, Scardona) e uno
“civium romanorum” (Lissus, l'odierna Alessio), ma è supponibile che altri ancora
ne esistessero in altri centri.
La decadenza
dell'Impero romano bizantino portò veramente con sè un regime che andava
facendosi sempre più di tipo feudale, naturalmente però soltanto nei centri, mentre
la popolazione illirica ancora organata in tribù (fis), è presumibile andasse acquistando sempre
maggiore autonomia fino a reggersi a sè secondo le tradizioni etniche, forse in
parte modificate dalle consuetudini impiantate dai romani.
La parola tribù
suona male all'orecchio e non rende bene il significato di fis che è un aggruppamento di famiglie di comune origine. Il “fis” corrisponde perfettamente alla “gens” dei romani, come ben
dimostra il prof. Carlo Tagliavini nella sua pregevole opera “L'Albanese di
Dalmazia” (Firenze, OIski, 1937.). Siamo costretti qui all'uso della parola tribù
per seguire l'abitudine ormai invalsa negli albanologi.
Le invasioni
barbariche specialmente slave, d'altra parte fecero scomparire le popolazioni
illiriche dalle pianure, dalle valli e dalle coste, dal nord fin sotto le
Bocche di Cattaro, ed influenzarono la costituzione delle tribù illiriche immettendovi,
com'è molto probabile, qualche cosa della loro costituzione che aveva già
qualche affinità con essa, ma non è affatto da escludersi che anche le
costituzioni slave abbiano risentito una forte influenza di quella illirica e,
per mezzo suo, forse dei concetti giuridici romani.
Venezia,
stabilendosi nelle regioni della costa da Cattaro a Vonizza, vi trovò le città
prevalentemente latinizzate, più o meno come quelle di Dalmazia, e alcune città
albanesi nell'interno, e alcuni castelli con le regioni dipendenti reggentisi a
regime feudale (Bizantino, Slavo, Napoletano), sotto signori albanizzati del
tutto o quasi, o addiritura albanesi.
Soltanto qui e là,
nella documentazione di quest'epoca e della immediatamente precedente,
affiorano vaghe notizie di tribù pastorali e guerriere che si reggono per conto
proprio allo stesso modo che le compagnie di ventura della stessa epoca che in
Italia costituivano vere comunità indipendenti e ambulanti le quali entravano
liberamente al servizio dell'uno o dell'altro signore; così anche tali tribù,
transumanti per necessità di sostentamento, sfuggivano ad ogni dominio
governativo, e, avvezze ad una vita aspra e combattiva di liberi pastori,
offrivano il proprio aiuto militare all'uno o all'altro governo.
Nulla ne sappiamo di
preciso dal punto di vista costituzionale e giuridico, ma è molto probabile che
si reggessero con uno statuto e un codice tradizionale non scritto, ancora conforme,
da una parte, alla psicologia della razza, e dall'altra alla costituzione già
consentita da Roma ai “conventus”.
Tali erano le tribù degli Hoti, dei Kastrati,
dei Kurbini (una delle anti che di cui si ha memoria fin da epoca illirica e
romana), dei Redoni.
Scomparse con l'invasione turca le
cittadinanze latino-albanesi, nonchè le signorie locali, l'impervia regione
montagnosa rimase presso che indipendente retaggio di tali tribù, che anzi si
estesero a regioni prima appartenenti a dinastie feudali come quelle dei signori di Pulati, degli Spani,
dei Dushmani, dei Dukagjini e dei Kastriota.
Si venne-così a
formare una vasta provincia sotto l'alto dominio della Porta, quasi ufficialmente
esente dal Kanun di Solimano il Magnifico, e reggentesi invece con un suo
proprio Kanun tradizionale, conosciuto sotto il nome, ormai celebre, di “Kanun di Lek Dukagjini”. Sarebbe però molto più opportuno chiamarlo Kanun delle montagne albanesi.
In quello che esso
ha di comune nelle varie tribù, tale Kanun consta specialmente di un sistema .di principi di morale civile e di diritto
costituzionale, enunciati in
forma più stringata ancora che non lo fossero le laconiche leggi delle XII tavole, e talmente vividi nella loro trasparente forma metaforica, da poter,
gareggiare, all'effetto mnemonico, con le leggi metriche d'altri paesi.
Esso non solo potè
sopravvivere ai vari tentativi di unificazione amministrativa e legale
dell'Impero turco nel suo ultimo secolo di vita, per effetto
dell'interessamento delle potenze europee che vi vedevano un mezzo per fomentare
l'automia locale, e soprattutto per la sua corrispondenza alla psicologia del
popolo; ma, anche costituitosi lo stato albanese e dotatosi di codici e di
leggi, le tribù della montagna seguitarono praticamente a reggersi secondo le
norme del Kanun, e, dove non era possibile, a pensare e agire secondo lo spirito
del Kanun in contrasto con le leggi.
Purtroppo gli studiosi soltanto dalla fine del
secolo scorso cominciarono ad interessarsene con qualche metodo, e perciò
poche notizie abbiamo che vengano a colmare le lacune di secoli interi intorno
alla storia del Kanun. Una compilazione poi è ben dubbio se abbia avuto luogo
ufficialmente a modo di codificazione all'epoca di Lek Dukagjini, come alcuni
pensano, fidandosi del nome corrente di Kanun di Lek Dukagjini; compilazioni di
privati raccoglitori se ne ebbero varie, però tutte naturalmente incomplete,
non esclusa quella, più ampia di tutte, del Padre Gjecov.
Naturalmente, quando
ci si trova di fronte ad una analogia fra il Kanun della montagna albanese e il diritto di un popolo ,che ebbe dei
contatti con essa, sarà “sempre da dubitare se si tratti di un'analogia
indipendentemente prodottasi nei due
ambienti per consimile stato di cose, da consimile stadio” di cultura, in
consimile forma di vita. E spesso non sarà possibile sciogliere il dubbio.
Rimane però sempre
interessante studiare non solo quelle che sono certamente delle
interdipendenze, ma anche quelle che sono affinità psicologiche; anzi forse, a
certi effetti spirituali, queste sono più interessanti e importanti di quelle.
***
La giurisprudenza del Kanun è basata su una
concezione morale tutta propria d'una stirpe, a quanto appare, nobile e altera,
gelosa della propria personale dignità, indipendenza e onore - prerogative però
che vengono intese non meno nel
loro significato appariscente ed esterno che nel loro con tenuto sostanziale come vere e proprie virtù.
E' sorprendente
l'affinità di sentire che trova con la psicologia ereditata dai padri, il giovane albanese che si ponga a studiare tra gli
elaboratissimi scritti di quel più
nobile portavoce dell'onestà romana che fu Cicerone, per esempio il trattato
“De Officis” dove nel libro primo troviamo un bel quadro nel quale si concentra, l'ideale delle antiche virtù romane.
Cicerone dice tra
l'altro che non “si possono dare, intorno ai doveri, precetti saldi,
immutabili, conformi alle norme naturali se non da coloro che insegnano
l'onestà sola doversi ricercare”. “A questo
desiderio di saper la verità va congiunta
un'intensa brama d'indipendenza, di modo che un animo ben dotato dalla natura
non vuol essere sottomesso ad alcuno se non a chi dà precetti o a chi è
investito di giusta .e legittima autorità: “aut docenti aut utilitatis causa
iuste et legitime imperanti”. “La ragione naturale ritiene che molto maggiormente
si deve osservare la bellezza, l'ordine nei detti e nei fatti, e non si debbano
commettere atti indecorosi ed effeminati; che inoltre in ogni pensiero e azione
nulla si deve fare e pensare obbedendo al capriccio: tum in omnibus et
opinionibus et factis ne quid libidinose aut faciat aut cogitet”.
Si confronti ora
questo concetto dell'onestà romana col sentimento dell'onore così vivo
nell'animo d'ogni montanaro albanese, anche del più povero e del più ignoto.
Certamente, per lui l'onore consiste nella considerazione e nei debiti riguardi
che egli pretende secondo quanto per consuetudine gli spetta, e saprà difendere
questo suo diritto sacrificandogli i beni, la famiglia e la vita. Ma se si ricerca
qual sia concretamente il vero onore nel suo concetto, domandando gli chi egli
reputi onorevole, senza dubbio con breve riflessione saprà rispondere ch'è
degna d'onore, non meno del valoroso il cui fucile è temuto da tutti, la
persona saggia e prudente, quella che non calpesta il diritto altrui, che ritiene
inviolabili le promesse fatte, i patti, le tregue, la ospitalità, la protezione
una volta accordata; colui che è sempre pronto a tutti i doveri verso la
comunità sia nella sede del consiglio che sul campo di battaglia; colui che
senza fasto inopportuno, senza stranezze e inuguaglianze di umore, mostra l'equilibrio
di chi è padrone di sè stesso, ed è perciò degno di quella piena dignità e
indipendenza che compete all'uomo (burrit, viro); mentre colui che vien meno a
tali doveri è riputato “i shburrnuem”, direi quasi evirato, degno di portare la
gonnella e di aggirarsi fra le conocchie e gli arcolai.
All'albanese, per
invitarlo a qualsiasi maggiore atto di valore, a qualsiasi maggior sacrificio e
rinuncia, per qualunque dei grandi valori che nella sua mentalità costituiscono
l'onestà e l'onore, basterà domandare a jé burrë? es ne vir nec ne?
Quindi alla base di
tutta l'etica propria del Kanun noi troviamo la Burrnija che comprende quanto sorpassa l'apparenza e la condotta
puramente esterna, nonchè le disposizioni di stretta giustizia per entrare nel
regno dello spirito e dell'animo illuminato.
Due virtù
fondamentali troviamo fuse nella burrnija, nella concezioné virile della vita, cioè la urtija, che è l'equilibrio
mentale, il sapersi comportare con prudenza, con garbo, con misura nei rapporti
tra uomo e uomo e la trimnija, il coraggio, il valore ben distinto dalla temerità.
In una società
sprovvista di vero governo, nelle necessità più elementari delle umane
relazioni, un'importanza affatto sociale rivendica la parola data (fjala e dhânun), la
promessa. Kah del shpirti del fiala -
dond'esce l'anima esce la parola.
Quindi nel mondo albanese la istituzione basilare della Besa che è insieme promessa, parola data, fede giurata,
dove si aggiunge il concetto dell'assicurazione sull'onore e spesso anche della
tregua e dell'alleanza.
Non espresso e quasi
sprovvisto di proprio vocabolo (come concetto affatto elementare) è rimasto il
sentimento della libertà personale secondo varie gradazioni (della donna, del
giovane, dell'uomo sposato, del pater familias) ma sempre in modo tale da escludere ogni idea
di schiavitù (ossia di vincolamento di un uomo al puro vantaggio di un altro
senza reciprocità). Povero o ricco, servitore, garzone, pastore, operaio,
padrone di casa, ogni albanese è anzitutto un uomo libero al pari di un altro
albanese.
Questo
perfezionamento di elevate, generose virtù civili, che come una specie di atmosfera
cavalleresca s'è conservata nei rifugi della nostra montagna, forma tutto
l'ideale della burrnija albanese. Così la santità della parola data, della besa albanese, istintivamente riveste ai nostri
occhi quei rudi montanari della stessa aureola dei Regoli di Roma.
Per il confronto più minuto, ricorderemo come
i romani, oltre allo spiccato sentimento
del diritto e della giustizia, osservando che “summum ius summa iniuria”,
grande importanza nella vita sociale davano alla “aequitas”, che comprendeva
tutto ciò che è virtù umana all'infuori e al disopra dello stretto diritto.
Una speciale
manifestazione della fedeltà, congiunta ad una certa grandezza d'animo, è la
protezione che ogni albanese, povero o ricco, debole o potente, si sente
onorato di accordare a chiunque gli gridi: “in mano tua” (ndore tande).
I romani ne avevano fatto una specie di istituzione, la clientela
secondo la quale il patrono doveva al cliente
protezione, appoggio, consiglio.
E' interessante osservare il limite entro cui si contiene tale
dovere, esattamente uguale nel diritto romano e nel diritto tradizionale
albanese: il rapporto tra patrono e cliente romani era sacro e andava innanzi
al vincolo che stringe i parenti, i consanguinei veri e propri nonché a quello
che lega gli amici; cedeva solo all'obbligo della protezione verso il pupillo e
gli ospiti. Così nel Kanun l'uccisione del padre, del fratello e perfino lo
sterminio di un'intera famiglia di cugini, caso gravissimo, può venir
perdonata, mentre l'uccisione dell'ospite non si perdona mai.
Il concetto della fortezza romana comprendeva
come è noto “et agere et pati fortia”; e
tale è pure quello degli Albanesi che onorano non meno il forte ucciso che il
forte uccisore; basterebbe sentire le esaltate espressioni dei compianti sul
cadavere dell'ucciso “che è morto come i valorosi”.
La “gravitas” dei Quiriti che così vivamente
contrastava con la “levitas” dei
Greci, la venerazione per l'eredità del passato, la “constantia” che resiste
alle correnti innovatrici, il culto per gli “antiqui mores”; per gli “instituta”
degli avi, assumono un rilievo troppo netto nella letteratura romana e si
manifestano con troppa evidenza in una serie di episodi per negare l'esistenza
anche in Roma di una tendenza tenacemente conservatrice. E così tale fortissima
tendenza delle vecchie tribù albanesi che si concreta nelle espressioni
sacramentali con cui ogni questione si tronca “come ce ne lasciarono legge i
nostri vecchi” e “a paese vecchio uso nuovo non si addice”, consentì di
conservare fino ad oggi in Albania un solido diritto tradizionale, l'unico
ancora esistente in Europa.
Nel primo libro
della Repubblica Cicerone affermava, per bocca di Scipione, che delle tre forme
di governo - monarchia, aristocrazia e democrazia - nessuna gli pareva buona
per sè stessa, e che preferibile a tutte era una quarta forma costituita col
moderato temperamento di tutte e tre. Questa quarta forma egli trovava appunto
nell'ordinamento della repubblica romana.
E' per lo meno
singolare come queste tre forme di governo si contemperino nel reggimento
politico della tribù albanese, poichè troviamo il potere monarchico nel bajraktár, il potere
oligarchico nel Consiglio degli anziani (pleq) e quello democratico nella “vogjlija”
popolo minuto).
Re la tribù non
conosce. Il bajraktar è una specie di console, ereditario e a vita, non però fornito di
autorità maggiore di quella del console, nè di molte esenzioni come non ne
aveva nemmeno il magistrato romano. D'altra parte, anche il capo della vogjlija, il tribuno della plebe, è ereditario
senza però diventare un autocrate.
Mentre nelle città
latine medioevali d'Albania possiamo riscontrare tre classi sociali (cives, proniarii, nobiles) corrispondenti alle
tre classi dei plebei, dei cavalieri e dei senatori in Roma, nell'organamento
della comunità montanara abbiamo la più semplice distinzione in due categorie
di senatori e di plebei: la direzione degli affari e dei giudizi della tribù è
affidata al consiglio degli anziani, e solo straordinariamente all'assemblea generale di
tutte le famiglie. Ciò importa dunque che il senato sia un consiglio di
ottimati: membri del senato sono di per sè soltanto i capi di certe famiglie
che ciò hanno per diritto ereditario: le altre formano la cosidetta vogjlija (popolo minuto), a cui già
accennammo.
Però oltre ai pleq (senatori) che sono oxhakut (di famiglia nobile)
si possono chiamare altri per urti ossia per le loro personali doti di prudenza. I
senatori, dice il Kanun, sono o i primi delle stirpi o i capi delle tribù. Senatori si chiamano
anche uomini rinomati per prudenza e esperti in affari giudiziari e politici.
Interessante
confrontare tutto ciò con la primitiva costituzione del Senato Romano che aveva le due note categorie di “Patres” o padri di famiglie patrizie e
“conscripti” o, secondo il Mommsen, plebei aggiunti.
I senatori, e nei
casi di maggiore importanza, tutti i capi di famiglia formano il massimo organo
del governo delle tribù, quello che, conservatosi mirabilmente dopo tanti secoli il
termine giuridico romano, a somiglianza e in continuazione del “Conventus Juridicus”
romano si chiamò il Convento, “Kuvênd”.
Alla presidenza di
tale consiglio degli anziani albanesi sta come abbiamo detto un capo ereditario,
(Duca,
Giudice, Casnesio, Bano, Conte, Vojvoda, o più recentemente Bajraktár o Alfiere) con autorità non più
ampia di quella che avesse il Console nella Repubblica Romana: egli ha
l'autorità di convocare il Consiglio quando occorre e quando qualcuno lo
richIeda, così come tale autorità aveva il magistrato romano. La convocazione,
come presso i romani avveniva per mezzo d'un araldo di porta in porta in caso
d'urgenza così l'araldo albanese di porta in porta nei casi più importanti deve
eseguire la convocazione. Del resto come in pieno regime repubblicano romano il
capo albanese ha soltanto la presidenza del consiglio, l'esecuzione .di quanto
gli viene affidato, e non altro potere che quello
d'un “primus inter pares”.
Naturalmente, come
in Roma, così anche nelle tribù albanesi il fatto della distinzione fra senato
e plebe non poteva mancare di, produrre una qualche diversità di interessi, o
rivalità, o almeno una necessità di difesa e di controllo: e come a Roma ci
furono i tribuni della plebe, così nella tribù albanese, e specialmente colà
dove si esercita più ordinariamente l'autorità del senato cioè nei giudizi,
oltre ai senatori possono intervenire i cosidetti estrasenatori (sterpleq); inoltre in qualche tribù, come per esempio in
Shala, la plebe rappresentata dai suoi elementi più capaci di farsi ascoltare,
cioè coloro che ordinariamente portano le armi in guerra, si è costituita in un
corpo bene organizzato avente riconosciuti diritti di intercessione, di
sequestro, di decisione “brevi manu”, delle questioni che gli anziani vogliono
lasciar trascinarsi indefinitamente; non si può non ricordare la plebe romana
che richiedeva parità di trattamento in nome dei suoi oneri e dei suoi meriti
militari.
L'uguaglianza di
diritti personali nell'ambito delle classi sociali in Roma, almeno in sostanza,
esistette sempre, e i romani ci tenevano; l'uguaglianza fra le classi fu
l'aspirazione perpetua fino a che la plebe potè aspirare al senato e al
consolato.
Gli Albanesi, tutti
si considerano uguali, benchè una qualche leggera differenza ci sia fra coloro
che sono rodit o fisit (di buona stirpe) e quelli che non lo sono.
L'aspirazione della vogjlija o plebe a pareggiare la pleqnija o senato è andata lentamente generalizzandosi.
Nella società civile
della tribù albanese, a differenza della società romana, almeno tardiva, non
esiste la classe sociale degli schiavi: tutti sono uomini liberi,
inalienabilmente liberi, anche se reputino opportuno di prestare i propri
servizi col lavoro o colle armi ad altra persona.
Fatta tale
eccezione, non poche sono le analogie fra i due diritti per quanto riguarda la
libertà e dignità personale; pure nel sentimento di disciplina che è
caratteristico del popolo romano, questi aveva vivissimo il sentimento della
libertà, quella della patria soprattutto, ma anche quella individuale, come lo
dimostrano le leggi che tutelavano i diritti del cittadino romano; ricordare
per esempio le Verrine di Cicerone, e il diritto penale secondo il quale le
condanne ammesse erano la multa, l'esilio, la morte, ma non le battiture, e
solo raramente la prigione; la stessa morte poteva essere quasi sempre evitata
andando in esilio. Il romano aveva in orrore l'autorità autocratica.
L'albanese è certo
individualista, ma sa attribuire valore alla gerarchia, specialmente se fondata
nell'eredità e nell'urtija; ma sopratutto vuole
la libertà dei suoi monti, e la libertà individuale: “krye në vedi” capo per conto suo,
dice egli: il suo diritto penale conosce la gioba o multa e il risarcimento
dei danni, o anche l'esilio e la confisca, ma non una vera pena personale,
fatta eccezione della fucilazione per certi casi disonorevoli che lo privano
d'ogni dignità umana.
L'amministrazione
della giustizia nella montagna albanese, conforme a principi di equità in
materia civile e criminale e a norme di procedura abbastanza minutamente determinate
nel Kanun, è affidata generalmente
al consiglio degli anziani.
Ma qui ap.punto ci
colpisce maggiormente la conservazione mirabile, dovuta allo spirito di fedeltà
alle tradizioni, tutto proprio della razza, dello statuto elargito già da Roma:
la “recuperatio”.
Di fatto colui che
nella montagna viene citato dal suo avversario al giudizio degli anziani ha il
diritto, secondo l'importanza della causa e secondo la sua qualità, di presentare
una parota o corpo di garanti e
testi a difesa, che avranno influenza capitale nella soluzione della vertenza.
Vero è che comunemente tale termine tecnico viene messo in relazione col
parallelo “porota” vigente nel vecchio diritto tradizionale slavo; ma non è improbabile,
come è stato detto prima da altri studiosi, che da “recuperatio”, attraverso a
una semplificazione “paratio”, siano derivati entrambi i termini, sia
l'albanese che lo slavo.
Scendendo ora ai
particolari, quanto ai testimoni, nel diritto romano antico come consiglio, e
nel diritto costantiniano come disposizione imperativa, vigeva il principio che
“testis unus testis nullus”; analogamente la parota o corpo dei testi del diritto albanese richiede appunto una
pluralità di testi, il più delle volte fino a 12 o 24, perchè, spiega il Kanun,
di tutta quella gente, se non il primo, almeno il secondo e il terzo saprà qualche
cosa e non vorrà vendere l'anima sua con un giuramento falso.
Altra analogia
troviamo nel deferire il giuramento: all'epoca delle “legis actiones” l'una
parte poteva, in prova dei fatti da essa allegati, rimettersi alla coscienza
dell'altra parte, deferendole il giuramento sulla verità di quei fatti:
soccombeva l'avversario se ricusava di prestare il giuramento deferitogli; così
pure secondo il Kanun, se l'accusato non confessa, il padrone della cosa rubata
o la parte civile, ha diritto di costringerlo al giuramento: o giurare che non
se ne sa nulla, o restituire quanto si deve, o presentare il colpevole.
Venendo ora alla
descrizione della famiglia e dei vari diritti di essa sia in casa che fuori, ricorderemo che nella famiglia romana il “Pater familias” era il solo supremo regolatore,
il solo giudice delle colpe commesse dai sotto 23 posti alla “patria
potestas”; aveva un illimitato diritto di correggere e punire i figli (ius
vitae et necis). Ciò fino allo scorcio del governo consolare.
Come il padre era
l'assoluto signore della famiglia, così egli era l'unico ed assoluto padrone
del patrimonio famigliare. Tutto quello che il figlio, posto sotto la patria
potestà, acquistava, sia per incarico del padre, sia a sua insaputa,
apparteneva al capo della famiglia; il figlio non poteva, meno in casi
eccezionali, agire in giudizio in proprio nome.
Analogamente,
secondo il Kanun, il padre ha diritto sulla vita dei figli; egli batte, lega,
imprigiona e uccide suo figlio e sua figlia, il Kanun non gliene domanda
ragione; ha diritto di mandare il figlio a servizio quando vuole; può castigare
quelli di famiglia lasciandoli a digiuno, togliendo loro le armi per una o due
settimane, legandoli o imprigionandoli in casa, o cacciandoli; egli ha diritto
sui guadagni di quei di casa, siano paghe o regali; ha diritto di acquistare, alienare,
permutare qualsiasi parte del patrimonio, mentre quei di casa non possono
vendere, comprare, permutare cosa alcuna.
Solo chi era “pater familias”
godeva in Roma i pieni diritti civili e politici. E nel Kanun spetta al padrone
o anziano di casa prendere parte alla vita della tribù; egli vi rappresenta la
famiglia con tutti i diritti e i doveri.
Il giovinetto non
ancora in grado di portare le armi, il giovane; diremmo così, armato cavaliere
con la consegna del fucile, l'uomo già sposato ma ancora convivente in seno alla
famiglia patriarcale sotto l'autorità del nonno, del padre o del fratello
maggiore, hanno dei diritti civili minutamente determinati e partecipano
secondo una certa gradazione alla vita politica. Però colui solo ha la pienezza
dei diritti civili e sopratutto politici che è vero “pater familias” secondo il
concetto romano, come pure secondo il concetto romano non l'individuo ma la
famiglia è la cellula della società politica..
La donna in Roma non
poteva aver mai la “patria potestas” ed era quindi esclusa nel diritto più
antico dell'esercizio di tutti i pubblici uffici. Così pure nel Kanun la donna
non è ammessa come senatore, accusatore, testimone, membro dell'assemblea
generale, erede.
Oltre alla moglie e ai figli sotto l’autorità del “pater familias” romano c'erano anche gli
“agnati”, cioè i discendenti in linea maschile (e gli adottati) dal comune
padre o nonno. La costituzione della famiglia patriarcale albanese col vecchio
padrone della casa si estende analogamente a tutti coloro che come membri della
famiglia convivono ancora intorno a un solo focolare.
Alla morte del
titolare d'un patrimonio famigliare romano, tutto il patrimonio permaneva e
passava in blocco a una o più persone che si dicevano eredi. Morendo il capo
della famiglia, nella società primitiva, il gruppo della famiglia forse non si
scioglieva ma restava unito sotto un altro capo che era il più immediato
discendente del “pater” o una persona diversa ma designata da lui. Così pure
nella famiglia montanara albanese ordinariamente alla morte del padre o avo,
continua la convivenza e il patrimonio rimane uno; al primogenito spetta il
governo della casa dopo la morte del padre, e deve essere interrogato in ogni
questione in casa e fuori.
All'erede romano
passava non solo l'attivo ma anche il passivo. E secondo il Kanun, se colui che
muore senza figli, lascia dei debiti, questi vanno pagati detraendone la somma
dalle sue eventuali disposizioni testamentarie, e ciò a cura dei cugini (agnati).
Dall'eredità in Roma
erano esclusi i discendenti in linea femminile; così pure il Kanun albanese
vuole che l'eredità spetti al nipote del tronco ossia del sangue e non al nipote del latte ossia per via di figliuole.
Presso i Romani in mancanza di agnati (parenti
per linea maschile) erano chiamati alla
eredità legittima i gentili ossia quella della stessa “gens” o fis, benchè tale disposizione sia presto caduta in
disuso. Nella montagna albanese se la casa rimane senza discendenti maschi, il
cugino più prossimo prende il dominio del patrimonio. Se il patrimonio vacante
non ha cugini in cui ricadere, la stirpe e la tribù, anche solo per ragioni di
parentela nel centesimo grado, ha diritto sul terreno e altri fondi del patrimonio.
Queste sono le interdipendenze o meglio le
analogie brevemente accennate fra il codice delle montagne albanesi e il
diritto romano. Certo esiste una affinità nella concezione generale dei diritti
e dei doveri, ed è stata questa affinità che ha spinto gli Albanesi a legarsi
fraternamente a Roma.
[1] La nascita dello Stato autonomo di Albania deve farsi risalire
alla proclamazione di indipendenza sotto la spinta di Ismail Kemal Bey a Vlorë,
il quale, dopo lotte sanguinose aveva ottenuto l’accoglimento delle richieste
albanesi da parte della Turchia il 4 settembre del 1912. Di modo che il 28
novembre dello stesso anno 83 delegati delle componenti cristiane e musulmane
poterono dichiarare la nascita della repubblica indipendente di Albania, dopo
500 anni di dominio turco.
[2] V. ernesto koliqi, Il diritto albanese del kanun e il
diritto romano - Lezione tenuta presso il
Reale Istituto di Studi Romani in Roma il 27 marzo 1942, in Studime e Tekste
– Studi e testi, Dega I – Serie I,
Juridike, N. 1 – Giuridica N. 1, pubbl. dell’ Istituti I Studimevet Shqiptare,
1943, pp. 1-27. Data la particolarità del testo e le indicazioni in esso
contenute, di là dalla retorica fascista e dalla polica antiserba, mi è parso
opportuno riprodurlo nella sua integrità, in calce dedicandogli un’apposita appendice.
[3] Vorrei ricordare che il Sud dell’Albania ed in particolare
l’Epiro hanno subito una forte influenza del diritto bizantino e che esso si è
diffuso attraverso la forse modesta ma certamente diffusa sintesi fatta da
Costantin Harménopoulos nell’ Hexabiblos.
[5] Sembrerebbe di scorgervi la proiezione del
pensiero dei giuristi romani i quali a piú riprese affermarono che il
matrimonio precoce avrebbe conseguito il riconoscimento giuridico solo dopo la
pubertà: cfr. D. 36.2.30: Lab. 3 post.
a Iav. epit: quod pupillae legatum est
“quandoque nupserit”, si ea minor quam
viripotens nupserit, non ante ei legatum debebitur, quam viripotens esse
coeperit, quia non potest videri nupta, quae virum pati non potest. D. 23,
2, 4: Pomp. 3 ad Sab.: Minorem annis duodecim nuptam tunc
legitimam uxorem fore, cum apud virum explesset duodecim annos. IJ. 1.10
pr.: Iustas autem nuptias inter se cives romani contrahunt, qui secundum
praecepta legum coeunt, masculi quidem puberes, feminae autem viripotentes…
[6] Le fonti principali di questo codice erano i codici dell’Europa
continentale, tra i quali assumevano rilievo particolare il Code Civil di Napoleone, il Codice
civile italiano del 1865 ed il Codice svizzero.