N. 3 – Maggio 2004 – Lavori in corso –
Contributi
l'oggettività della buona fede nellA ESECUZIONE del contrattO
Si pubblica il
capitolo I della monografia di Giovanni
Maria Uda: La buona fede nell’esecuzione del contratto, in corso
di stampa nella collana "Studi di diritto privato" curata da F.D.
Busnelli, V. Scalisi, S. Patti, P. Zatti, edita da G. Giappichelli Editore-Torino.
Di seguito anche l’Indice-sommario del volume: Capitolo I: l'oggettività della buona fede nella
esecuzione del contratto. – Capitolo II: Il processo di oggettivazione della
buona fede. – Capitolo III: La buona fede come fonte di integrazione del contratto.
– Capitolo IV: L'obbligo giuridico di buona fede. – Capitolo V: La violazione
dell'obbligo di buona fede. – Capitolo VI: Il controllo giudiziale della
clausola di buona fede
Sommario: 1. La figura generale di buona fede. – 2. Natura descrittiva della buona fede soggettiva: la
fattispecie di buona fede. – 3. Caratteri identificativi
della buona fede soggettiva. – 4. Buona fede soggettiva
come fatto impeditivo: esclusione. – 5. Caratteri
distintivi tra buona fede soggettiva e buona fede oggettiva. – 6. Etica come dato comune tra buona fede soggettiva e buona
fede oggettiva: esclusione. – 7. Correttezza
come dato unificante tra buona fede soggettiva e buona fede oggettiva:
esclusione.
La locuzione «buona
fede» è richiamata frequentemente nel codice civile con riferimento a
differenti fenomeni giuridici[1].
Uno dei problemi
principali, onde si possa procedere all'esame della buona fede nell'esecuzione
del contratto (art. 1375 c.c.), consiste pertanto nel verificare se la «buona
fede», così come indistintamente richiamata nel codice civile, costituisce una
figura giuridica unica e generale, la quale comprenda in sé tutte le diverse
ipotesi presenti nella normativa codicistica. In altri termini, si tratta di
stabilire se, pur in presenza di evidenti differenze normative e disciplinari
che emergono a seconda del fenomeno giuridico in cui la buona fede è chiamata
ad operare, essa mantenga un carattere unico e sviluppi un unico modello
funzionale, o, al contrario, se si debbano distinguere più figure giuridiche
che vanno sotto il nome di «buona
fede»[2].
Nell'esame della
buona fede nell'esecuzione del contratto - che costituisce oggetto della
presente indagine - l'accertamento della unicità o meno del concetto di buona
fede, assume un rilievo primario. In caso positivo, infatti, la buona fede ex art. 1375 c.c., presentandosi quale species di un più ampio genus, dovrebbe ricadere nell'ambito
della figura generale, rifacendosi ad essa sia sotto il profilo strutturale che
funzionale.
In caso negativo,
al contrario, la buona fede in executivis
assumerebbe una propria autonomia giuridica, sia nell'enucleazione del concetto
giuridico in sé che nell'individuazione delle sue capacità funzionali.
La questione sulla
unicità concettuale della buona fede, pertanto, si pone in termini
pregiudiziali rispetto all'esame delle singole ipotesi previste da specifiche
norme di legge, giacché in relazione alla soluzione di tale problema si
svilupperà differentemente l'esame delle singole figure previste nella
normativa codicistica.
Una prima risposta
al quesito è data pacificamente dalla dottrina e dalla giurisprudenza, le quali
operano una fondamentale bipartizione nell'ambito della buona fede,
distinguendo tra buona fede soggettiva
e buona fede oggettiva[3].
Queste due
categorie, secondo tale visione, non costituiscono due sottospecie di una
medesima categoria giuridica, bensì due distinti concetti, aventi un differente
ambito di applicazione e rispondenti a modelli operativi diversi.
Pur se indicate
con un'unica espressione semantica, quindi, la buona fede soggettiva e la buona
fede oggettiva si pongono e operano su diversi piani. Nell'ambito di questa
bipartizione la buona fede nell'esecuzione contrattuale, prevista nell'art.
1375 c.c., si qualifica come buona fede oggettiva.
Come si è visto,
si tende generalmente ad escludere l'unicità concettuale della buona fede come
categoria ricomprendente tutte le ipotesi legislativamente previste[4].
Al contrario, è pacificamente accolta la bipartizione tra buona fede soggettiva
e buona fede oggettiva. Questi due concetti, come si è detto, esprimono figure
giuridiche ontologicamente differenti, aventi altresì una diversa funzionalità
giuridica.
Dall'esame delle
due figure emergono una molteplicità di elementi distintivi che si riducono, in
sostanza, alla differente natura e al differente modus operandi delle stesse.
La buona fede
soggettiva indica uno stato intellettivo del soggetto[5]
identificato talvolta nell'ignoranza e talvolta nell'errore[6].
Con riguardo a
quest'ultimo, la buona fede soggettiva si prospetta come un erroneo
convincimento di comportarsi secondo il diritto[7],
ovvero di non ledere le altrui posizioni giuridiche soggettive[8].
Lo stato intellettivo di ignoranza,
invece, si concretizza nell'ignoranza, per l'appunto, di ledere l'altrui
diritto soggettivo, o comunque l'altrui posizione giuridica tutelata[9].
La buona fede
soggettiva è richiamata espressamente più volte nel codice civile[10].
Si devono però fare rientrare nel novero delle fattispecie ove rileva la buona
fede soggettiva, anche le norme che fanno riferimento - pur senza utilizzare il
sintagma « buona fede » - a stati di ignoranza, conoscenza e
mala fede[11], facendo
altresì dipendere da questi stati intellettivi dei precisi effetti giuridici[12].
Da quanto sopra
esposto si può giungere a due conclusioni di fondo, una attinente alla figura
della buona fede soggettiva in sé e per sé, cioè alla sua intrinsecità
giuridica; una seconda che riguarda, invece, l'operatività della stessa.
Considerando il
primo argomento, si può ritenere che la buona fede soggettiva intesa come
categoria legislativa, abbia una intrinseca natura «descrittiva»,
nel senso che descrive nell'ambito della fattispecie legale uno stato
intellettivo o, più precisamente, «gnoseologico»
del soggetto, attinente alla sfera della conoscenza del singolo individuo. In
altri termini, l'espressione «buona
fede» esprime uno stato intellettivo che costituisce parte integrante di una
fattispecie prevista e disciplinata dalla legge.
Da questa
conclusione emerge l'operatività della buona fede soggettiva, si manifestano
così le sue linee funzionali. Infatti, sulla scorta di quanto detto, qualora
essa venisse intesa quale fenomeno giuridico isolato, avulsa dalla fattispecie
determinata nell'ambito della quale è richiamata, sarebbe destinata a rimanere
priva di efficacia, mentre proprio la sua natura descrittiva ne denuncia la
funzione, che è quella di concorrere a determinare una fattispecie
(normativamente prevista), ponendosi quale elemento costitutivo della medesima,
e consentendo così la produzione di specifici effetti giuridici[13].
Non è la buona
fede soggettiva in sé, quindi, a produrre degli effetti giuridici, bensì è la
legge che, soddisfatti nel caso concreto gli estremi della fattispecie legale -
e quindi anche la presenza di uno stato intellettivo corrispondente alla buona
fede soggettiva - ne fa conseguire specifici effetti giuridici.
Si può quindi
concludere, in prima approssimazione, che la buona fede soggettiva svolge la
sua funzione nel concorso alla determinazione della fattispecie astratta,
conferendo rilevanza, rispetto alla fattispecie concreta, allo stato
intellettivo del soggetto. È la legge stessa a far discendere dall'intera
fattispecie, e non solo dalla buona fede, degli effetti giuridici.
La buona fede
soggettiva, in ultima analisi, descrive in termini astratti lo stato intellettivo,
riconducendolo nel novero degli elementi costitutivi della fattispecie
astratta. Con riguardo al caso concreto, pertanto, lo stato gnoseologico di
ignoranza di lesione dell'altrui diritto, sostanziandosi nel concetto di buona
fede legalmente previsto, consente la sussunzione dello stesso nella
fattispecie astratta.
L'effetto
giuridico conseguente, che viene talora indicato come effetto della buona fede,
è un effetto legale.
La particolarità
della buona fede soggettiva consiste nel fatto che essa svolge la sua funzione
descrittiva di uno stato intellettivo, e costitutiva della fattispecie,
nell'ottica di un modello antinomico, in quanto essa funge da elemento
discriminante tra fattispecie per il resto identiche.
Infatti, dalla
presenza o dalla mancanza della buona fede soggettiva la norma di legge
individua due distinte fattispecie, produttrici di effetti giuridici differenti[14].
Tramite la buona
fede soggettiva, quindi, lo stato di conoscenza, di ignoranza e di errore[15]
assumono rilevanza giuridica nell'ambito di una norma di legge a fattispecie
determinata. Tale fattispecie, però, varia a seconda di quale stato gnoseologico
e intellettivo sussista, cioè se sussista o meno lo stato di buona fede[16].
In ultima analisi,
si può ritenere che, esaminata sotto il profilo della fattispecie, la buona
fede soggettiva non appare idonea di per sé ad identificarsi in una fattispecie,
non è, cioè, idonea a soddisfare il requisito di completezza « normativa
» di una fattispecie legale.
Al contrario,
essa, da un lato è elemento costitutivo che concorre alla formazione di una
fattispecie legale, e dall'altro lato, dato discriminante tra due distinte
fattispecie di legge, identiche in ogni altro elemento costitutivo, e
differenziatesi esclusivamente in ordine alla sussistenza o meno della buona
fede[17].
Se alla buona fede
soggettiva si può imputare una funzione « costitutiva » della
fattispecie, diretta a concorrere alla costruzione della medesima, essa assume uno
specifico rilievo anche sotto il profilo degli effetti. È infatti la buona fede
che, costituendo il dato scriminante tra più fattispecie per il resto
identiche, e con ciò distinguendole sotto il profilo strutturale, determina la
produzione di specifici effetti.
La buona fede
soggettiva, quindi, gioca un ruolo determinante oltre che sotto il profilo
della fattispecie, anche sotto quello degli effetti. Anche in tal caso, però,
essa non agisce isolatamente, ma sempre all'interno di un più vasto fenomeno giuridico
e normativo che peraltro, come si è detto, contribuisce a creare.
Si può così
affermare che la buona fede soggettiva, esaminata sia con riguardo alla
fattispecie, sia con riguardo agli effetti, non si pone come figura giuridica
strutturalmente e funzionalmente autonoma, operando, al contrario, nell'ambito
di un fenomeno giuridico, anche normativamente individuato, nel quale essa assume
una sua precisa connotazione astratta[18],
dato che concorre alla determinazione della stessa fattispecie normativa e assume,
all'interno di questa, una specifica funzione.
La buona fede
soggettiva, quindi, agisce nell'ambito della fattispecie, così come in quello
degli effetti. Con riguardo alla fattispecie, essa ne costituisce un elemento « strutturale
»; con riguardo agli effetti, come già si è detto, caratterizza l'efficacia
della stessa fattispecie[19]
conformemente al diffuso intendimento del concetto di fattispecie quale «
insieme di tutti gli elementi necessari e
sufficienti al prodursi di un determinato effetto giuridico »[20].
Di conseguenza la
fattispecie di buona fede e di mala fede possono essere qualificate come fattispecie complesse, cioè fattispecie
che si determinano mediante il concorso di più fatti giuridici; lo stato
intellettivo, relativo a un fenomeno socialmente ed economicamente rilevante, e
che sempre relativamente a questo assume una connotazione non meramente interna
al soggetto, è qualificabile come fatto giuridico che concorre alla determinazione
della fattispecie complessa[21].
Pur partendo dal
presupposto della inidoneità della buona fede soggettiva a produrre effetti
giuridici isolatamente e della necessità che essa operi nell'ambito di un più
vasto fenomeno giuridico, si possono trarre, da quanto sopra esposto, i suoi
caratteri identificativi.
La buona fede
soggettiva assume una natura « descrittiva », essa svolge,
in termini normativi, la funzione di conferire ad uno stato psicologico, inteso
come evento fenomenico e storicamente individuabile[22],
una rilevanza giuridica. La buona fede soggettiva, in altre parole, descrive
uno stato psicologico nella sua esplicazione storico-oggettiva, nella
prospettiva della produzione di specifici effetti giuridici, diretti a
realizzare il disegno che il legislatore, conferendo rilevanza alla buona fede,
si era proposto[23].
Essa pertanto
postula un « giudizio descrittivo » avente ad oggetto, con riferimento
al caso concreto, un fatto storico verificatosi.
La buona fede
soggettiva richiede, nel procedimento logico che le consente di esplicare la
propria efficacia giuridica, un momento « ricognitivo », cioè di esame
del dato storico, al fine di ricondurlo, secondo il sistema della sussunzione,
alla previsione generale, normativamente posta[24].
Su un piano
strettamente dogmatico, la buona fede soggettiva si può considerare come una
categoria che esprime descrittivamente uno stato intellettivo il quale è di per
sé privo di un'autonoma rilevanza giuridica.
Sul piano applicativo,
invece, la buona fede soggettiva, descrivendo una situazione storica, concorre
alla determinazione della fattispecie astratta produttiva di specifici effetti
giuridici. La particolarità di questa previsione normativa, d'altro canto, sta
proprio nella presenza della buona fede. Questa agisce come dato scriminante
tra due fattispecie - talvolta previste nella stessa norma di legge[25]
- che, per il resto identiche strutturalmente, si differenziano per la presenza
o meno della buona fede soggettiva.
La differenza tra
queste due fattispecie va oltre il dato strettamente strutturale, interessando
anche la sfera degli effetti. È la buona fede, infatti, che, distinguendo le
fattispecie in virtù della sua presenza o della sua assenza, conduce tali
fattispecie alla produzione di effetti giuridici tra loro diversi e antitetici.
Non è quindi la
buona fede soggettiva in sé considerata - giova precisare - a produrre gli
effetti giuridici, bensì la più ampia fattispecie della quale la buona fede è
solo uno degli elementi costitutivi.
Alla differenza
strutturale tra la fattispecie di buona fede e quella di mala fede (che così
denominiamo almeno per comodità espositiva), si accompagna quindi una dicotomia
«effettuale», ossia una contrapposizione delle conseguenze giuridiche
discendenti dalle diverse fattispecie.
Da una prima
scorsa al rapporto dicotomico tra le fattispecie di buona fede e di mala fede
si può ritenere che, sotto il profilo dell’efficacia, la fattispecie di buona
fede sia produttiva talvolta di effetti costitutivi (contrariamente alla
fattispecie di mala fede, che sarebbe priva di una siffatta efficacia), e
talaltra di effetti impeditivi (giacché «impedirebbe» la produzione
degli effetti propri della fattispecie di mala fede).
Ora, se ci sembra
esatto affermare che la fattispecie di buona fede possa produrre effetti costitutivi, non altrettanto
può dirsi con riguardo agli effetti
impeditivi; questi ultimi sono da intendersi in senso atecnico, posto
che - come meglio vedremo entro breve[26]
- la fattispecie di buona fede non è qualificabile come fatto impeditivo.
Si tratta a questo
punto di stabilire in cosa consista il rapporto dicotomico, sul piano degli
effetti, tra le fattispecie di buona fede e di mala fede.
Si prendano in
considerazione, anzitutto gli effetti costituivi della fattispecie di buona
fede. Questi effetti caratterizzano la fattispecie di buona fede, distinguendola,
sotto il profilo degli effetti, da quella di mala fede, nel senso che, a fronte
della sussistenza di determinati elementi di fatto, concorrendo lo stato di
buona fede soggettiva, la fattispecie così determinata costituisce, per
l’appunto, delle situazioni giuridiche soggettive, le quali non sono viceversa
costituite dalla fattispecie di mala fede[27],
che eventualmente ne produrrà di diverse[28].
Con riguardo agli «effetti
impeditivi», emerge con maggior chiarezza l'antiteticità tra gli effetti delle
due fattispecie. La buona fede, infatti, impedisce la produzione degli effetti
propri dell'altra fattispecie[29],
sicché la fattispecie di buona fede si caratterizza per la mancata produzione
di tali effetti.
Possiamo quindi
affermare che le due fattispecie legali parallele, che si distinguono per la
presenza o la mancanza della buona fede soggettiva, sono parzialmente
sovrapposte per quanto attiene alla struttura, mentre rispondono ad un sistema
dicotomico con riguardo agli effetti.
La necessaria
sussistenza di due fattispecie opposte rispetto alle quali la buona fede funge da
elemento di discriminazione, è un problema di ordine strettamente dogmatico
che, data l'economia del presente lavoro, non è possibile trattare
compiutamente.
Ci si limita al
proposito a mettere in evidenza come la buona fede intesa quale «fatto
impeditivo» non sembra attagliarsi alla tesi della duplice fattispecie
contrapposta.
Il «fatto
impeditivo» in senso proprio, infatti, è efficace quale fatto autonomo. Esso si
pone, cioè, come un fatto giuridico strutturalmente e funzionalmente autonomo,
produttivo di effetti impeditivi, ossia idoneo a impedire la produzione degli
effetti di una distinta fattispecie giuridica. Ad opera del fatto impeditivo,
in altri termini, viene inibita la produzione di effetti giuridici di una
differente fattispecie[30].
Esso quindi agisce come un dato incidente sulle conseguenze giuridiche della
fattispecie esistente, impedendone l'efficacia.
Il fatto
impeditivo è quindi esterno alla
fattispecie giuridica produttiva (cioè del fatto
costitutivo), la quale, dal canto suo, è perfetta senza l'intervento (o la
presenza) del fatto impeditivo. Il rapporto tra fatto costitutivo e fatto
impeditivo si caratterizza per la concorrenza
delle fattispecie[31]. Entrambe, infatti, si perfezionano
e coesistono.
Sotto il profilo
degli effetti, il fatto impeditivo produce l'unico effetto di impedire, per
l'appunto, la produzione degli effetti propri del fatto costitutivo. Non è invece
deputato alla produzione di effetti costitutivi[32].
Diversa la
posizione della buona fede soggettiva. Essa contribuisce a perfezionare la
fattispecie legale di buona fede[33],
la quale si contrappone alla fattispecie « di mala fede ». Queste
fattispecie, per loro natura, non possono coesistere, e il loro rapporto è
caratterizzato dalla alternatività dell'una rispetto all'altra[34].
Per quanto attiene
agli effetti, infine, entrambe le fattispecie - di buona e di mala fede - sono
produttive di effetti[35],
assumendo entrambe la qualità di fatto costitutivo.
Il rapporto tra
fatto costitutivo e fatto impeditivo, pertanto, non è assimilabile al rapporto
tra la fattispecie di buona fede e quella di mala fede. Mentre il primo si
fonda sul principio di concorrenza
tra il fatto costitutivo e quello impeditivo, il secondo si fonda su un
principio di alternatività tra
fattispecie di buona fede e fattispecie di mala fede; mentre il primo rapporto
postula la necessaria coesistenza tra fattispecie costituiva e impeditiva, il
secondo postula l'assoluta incompatibilità tra fattispecie di buona fede e mala
fede.
Quanto esposto
appare chiaramente dal seguente esempio: l'art. 2033 c.c. disciplina l'ipotesi
dell'indebito oggettivo, in cui un soggetto, ritenendosi erroneamente debitore
nei confronti di altri, effettua il pagamento. La norma di legge prevede in tal
caso la nascita di un'obbligazione restitutoria in capo al falso creditore,
ponendo però una distinzione: se l'accipiens
era in buona fede[36],
l'obbligazione restitutoria è limitata alla prestazione indebitamente pagata[37];
qualora invece il falso creditore fosse in mala fede, l'obbligazione avrà ad oggetto
anche il pagamento degli interessi e la corresponsione dei frutti[38].
Potrebbe apparire,
a prima vista, che la buona fede operi come fatto impeditivo dell'obbligazione
di pagamento dei frutti e degli interessi o, meglio, che il fatto impeditivo
sia costituito dalla fattispecie di buona fede nella sua interezza.
Ora, volendo
qualificare la buona fede come fatto
impeditivo dell'obbligazione al pagamento degli interessi e dei frutti,
dovremmo ammettere che la tale obbligazione sia comunque sorta, cioè si sia
perfezionato il fatto costitutivo. Ma il fatto costitutivo altro non è se non
la fattispecie di mala fede, cioè quella fattispecie che la mala fede concorre
a perfezionare e che si pone in termini di assoluta contrapposizione
strutturale con la fattispecie di buona fede.
Seguendo le linee
funzionali del rapporto tra fatto costitutivo e fatto impeditivo si dovrebbe
ammettere la concorrenza della fattispecie di buona fede con quella di mala
fede, la qual cosa appare immediatamente nella sua palese assurdità.
La fattispecie di
buona fede, pertanto, non sembra configurabile come fatto impeditivo, né a
maggior ragione la buona fede soggettiva in sé, che della fattispecie ne è solo
elemento costitutivo, seppur caratterizzante.
Il rapporto tra
fattispecie di buona fede e fattispecie di mala fede si regge quindi su un
principio di alternatività (o se
vogliamo, di incompatibilità), per cui è da escludere la qualificabilità della
prima come fatto impeditivo nel senso
proprio dell'espressione.
In altre parole,
il fatto impeditivo, avendo una propria autonomia strutturale rispetto al fatto
costitutivo, coesiste con questo[39],
operando con riferimento ai suoi soli effetti, senza modificare la struttura
della stessa fattispecie e, soprattutto, senza richiedere la inesistenza dello
stesso fatto costitutivo. Anzi, in mancanza del fatto costitutivo, il fatto
impeditivo non avrebbe alcuna ragione di esistere, né alcuna efficacia.
La fattispecie
quale fatto costitutivo, pertanto, non viene ad essere minimamente modificata
nella propria struttura, né ne viene richiesta l'insussistenza; essa viene
semplicemente privata della propria efficacia[40].
Quindi, se la
buona fede soggettiva fosse qualificabile quale fatto impeditivo in senso stretto, essa agirebbe puramente e
semplicemente sugli effetti della fattispecie «di mala fede»,
inibendoli. La fattispecie di mala fede, però, intesa quale «fatto costitutivo», sarebbe esistente, dovendosi
ritenere perfezionate congiuntamente sia la fattispecie di mala fede che quella
di buona fede, la qual cosa è evidentemente inammissibile.
La buona fede
soggettiva, di conseguenza, non ci sembra rispondere alle caratteristiche
proprie del «fatto impeditivo» in senso stretto. Essa,
infatti, si pone quale alternativa ad un diverso stato intellettivo, definibile
di mala fede, o quanto meno di «conoscenza»[41],
ed è diretta non tanto a impedire la produzione di effetti propri della
fattispecie caratterizzata dallo stato intellettivo contrario, quanto a determinare
una (parzialmente) diversa fattispecie avente effetti antinomici rispetto a
quella[42].
Lo stato
gnoseologico di buona fede, cioè, caratterizza la fattispecie, contrapponendola
a quella di mala fede (ove sussiste uno stato psicologico o gnoseologico
contrario), di modo che si crea una situazione di incompatibilità tra le due
fattispecie. Sotto il profilo degli effetti, la sussistenza dell'una
fattispecie piuttosto che dell'altra - in base all'uno o all'altro stato
intellettivo - si traduce nella produzione di effetti tra loro differenti[43].
La fattispecie di
buona fede, in definitiva, non appare diretta a privare di effetti quella di
mala fede, ma a distinguere da essa un'altra situazione di fatto, facendo ad
essa discendere effetti differenti, con caratteristiche opposte a quegli effetti
propri dell'altra fattispecie avente, anch'essa, caratteri opposti a quella di
buona fede.
La fattispecie di
buona fede, essendo produttiva di effetti pur differenti da quelli prodotti
dalla fattispecie di mala fede, è essa stessa fatto costitutivo e non fatto
impeditivo. Il rapporto con la fattispecie di mala fede consiste nel verificare
se in un determinato caso sussista lo stato intellettivo di buona fede o di
mala fede. In base alla sussistenza dell'uno o dell'altro stato intellettivo,
sorgerà l'una o l'altra fattispecie, cioè l'uno o l'altro fatto costitutivo.
In conclusione,
possiamo affermare che la buona fede soggettiva, ben lungi dal costituire una
categoria giuridica fornita di una propria autonomia funzionale, ovverosia di
un proprio ambito di applicazione generale, è al contrario legata a più
fattispecie legali, delle quali essa stessa entra a far parte concorrendo a
determinarle e influenzandone in senso decisivo gli effetti.
Sotto il profilo
strutturale la buona fede soggettiva opera nell'ambito della fattispecie come
un elemento costitutivo della stessa. Essa ne costituisce un estremo in certo
senso «qualificante», giacché funge da elemento
distintivo con la fattispecie di mala fede, per il resto identica alla prima.
La presenza o meno
dello stato intellettivo di buona fede comporta il ricadere di un fatto
concreto nell'una o nell'altra ipotesi legale, aventi una differente (e per
certi versi antinomica) efficacia.
La buona fede
soggettiva, quindi, produce i propri effetti nell'ambito di una specifica fattispecie
legale, partecipando alla sua stessa strutturazione e con riferimento al
fenomeno giuridico disciplinato. Effetti che sono idonei a dare una risposta
giuridica ad un fatto storico-sociale caratterizzato dal diverso stato
intellettivo del soggetto agente. Il legislatore, in considerazione della
differente valenza sociale dello stato intellettivo di buona fede e di quello
di mala fede, ha voluto conferire a questi un rilevo di ordine normativo,
prevedendo detti stati intellettivi quali estremi di distinte fattispecie
legali, produttivi di specifici effetti giuridici. Conformemente si è privata
la buona fede di una rilevanza generale[44],
sia in quanto, sotto il profilo della fattispecie astratta essa è, come si è
più volte detto, un estremo della stessa, sia perché, con riguardo al caso
concreto lo stato di buona fede si risolve in una situazione storica, seppur di
carattere soggettivo[45],
meritevole di esame specifico e comunque legata ad un dato concreto.
In tal senso la
buona fede soggettiva è da considerare come una figura giuridica avente una
natura « descrittiva »[46],
mirante cioè alla descrizione di un fatto storico (lo stato intellettivo di
errore o ignoranza), diretta a disciplinare situazioni sociali differenti,
ritenute meritevoli di un diverso trattamento normativo, ma pur sempre
riconducibile ad un medesimo fenomeno giuridico.
Differenti sono i
caratteri propri della buona fede oggettiva, la quale, come si vedrà più precisamente
in seguito, opera in un ambito e con modalità completamente diversi da quelli
propri della buona fede soggettiva.
È differente,
d'altro canto, anche la natura, così come la funzione. Da un lato la buona fede
soggettiva fa riferimento ad uno stato intellettivo, cioè ad una situazione
storica, conferendole rilevanza ex post,
ossia successivamente al suo verificarsi fenomenico, svolgendo una funzione
descrittiva dello stato intellettivo medesimo. Di conseguenza viene richiesta
all'interprete un'attività ricognitiva per verificare la corrispondenza dello
stato intellettivo del soggetto nel caso concreto, con la buona fede soggettiva
prevista nella norma di legge.
Dall'altro lato,
la buona fede oggettiva fa riferimento ad un «modello sociale di
comportamento», ricavabile da valutazioni di ordine giuridico[47],
economico e sociale, al quale il soggetto si deve attenere.
La funzione della
buona fede oggettiva, quindi, è di ordine «precettivo», ponendo un obbligo di buona fede, cioè un obbligo
di comportarsi secondo buona fede[48]. La buona fede oggettiva, in
quest'ottica, si concretizza in uno specifico obbligo giuridico mediante un
processo di oggettivazione.
Si può quindi
affermare, con riguardo alla distinzione tra buona fede soggettiva e oggettiva,
che la buona fede soggettiva ha una natura «descrittiva» di una
situazione storica, mentre la buona fede oggettiva presenta una natura «precettiva», ponendo l'obbligo di comportarsi
secondo un modello socialmente apprezzabile.
La buona fede
soggettiva, pertanto, è uno strumento giuridico diretto all'esame di un dato di
fatto storicamente esistente, cioè di un «fatto» storicamente identificabile.
La buona fede oggettiva, viceversa, si fonda su un «dovere» giuridicamente identificabile,
configurandosi quale obbligo giuridico, atto dovuto, comportamento
giuridicamente obbligatorio, diretto al perseguimento di specifici effetti.
Mentre la buona
fede soggettiva ha come proprio referente una situazione storica preesistente,
la buona fede oggettiva ha come referente un modello di condotta socialmente
apprezzabile, che essa stessa mira a far rispettare conferendogli un carattere
obbligatorio.
Se da un lato,
cioè, la buona fede soggettiva postula un'attività ricognitiva del proprio
referente, il modello di comportamento costituisce il contenuto dell'obbligo di
buona fede oggettiva, determinandone altresì la concretizzazione[49].
Sotto il profilo
strutturale, mentre la buona fede soggettiva agisce nell'ordinamento giuridico
in quanto parte integrante di una fattispecie normativa, e all'interno della
medesima, la buona fede oggettiva si pone quale vera e propria clausola generale[50],
cioè come dato normativo fondante un dovere giuridico di natura generale[51]
ma idoneo a concretizzarsi in relazione al caso concreto in cui si pone.
Gli iniziali accenni
alle caratteristiche giuridiche della buona fede oggettiva, hanno messo in
evidenza la fondamentale differenza che sussiste tra questa e la buona fede
soggettiva.
Le due figure
hanno una diversa natura giuridica, operano in un ambito giuridico diverso,
riguardando altresì differenti fenomeni giuridici e producendo diversi effetti.
Emerge, in sostanza, una totale differenza tra le due figure che mantengono un «contatto»
solo di tipo terminologico[52].
L'identità del
nome ha comunque spinto la dottrina a verificare la sussistenza o meno di
elementi comuni tra le due categorie, al fine di stabilire se la buona fede
soggettiva ed oggettiva abbiano una comune matrice.
Se sotto il
profilo storico esse sembrano svilupparsi autonomamente[53],
ciò che maggiormente rileva ai fini della presente ricerca è la eventuale
identità, o connessione, di elementi propri dell'una e dell'altra figura, tali
da influire sulla loro struttura ed efficacia.
Un primo problema
sull'eventuale identità o «vicinanza» delle due figure di buona fede nasce
con riferimento alla rilevanza dell'etica.
Si è sostenuto più
volte che la buona fede, sia nella sua accezione oggettiva che in quella soggettiva,
abbia un fondamento etico[54].
L'argomento non è di poco conto se, in considerazione di ciò, si voglia
individuare una generale figura di buona fede all'interno della quale si
muovono le due (eventuali) sottocategorie della buona fede soggettiva e buona
fede oggettiva[55].
Si tratta, quindi,
di verificare non tanto se il dato etico possa avere influito sulle origini
dell'uno o dell'altro tipo di buona fede o di entrambi, bensì se l'etica agisca
come elemento necessario nella struttura o nel sistema funzionale delle due
figure di buona fede.
In altri termini,
l'indagine sulla rilevanza dell'etica nella buona fede, sia oggettiva che
soggettiva, non deve riguardare l'eventuale influenza che essa ha avuto
nell'origine di queste figure, quanto la rilevanza che essa ha nella struttura
e nel funzionamento delle stesse.
Si consideri, a
questo punto, la buona fede soggettiva. Come si è detto essa configura uno
stato intellettivo, ossia uno stato gnoseologico di mancata conoscenza della
lesione del diritto altrui, al quale il legislatore ha ritenuto di conferire
rilevanza ai fini della produzione di determinati effetti giuridici.
Non v'è dubbio che
nella «scelta» del legislatore vi sia stata una
valutazione anche del sentire comune e dei principi sociali[56],
non ci sembrano però estranee a queste disposizioni legislative esigenze di
ordine strettamente economico, di tutela di circolazione dei beni[57]
e delle ricchezze[58];
attribuendo rilevanza giuridica alla buona fede soggettiva si tende in genere a
non paralizzare l'attività economica a seguito del timore dell'eventuale
illiceità del comportamento.
La ratio della buona fede soggettiva, in
tutte le sue esplicazioni normative, pertanto, consiste generalmente nella ricerca
di un adeguato assetto di interessi, conferendo rilevanza anche a quei
comportamenti sociali influenzati dalla normale fallibilità umana, ma che
mantengono una propria utilità di ordine socio-economico, tali da essere
meritevoli di tutela giuridica[59].
Non sussiste, quindi, in termini effettivi, una partecipazione dell'etica in
quanto tale, né alla struttura né al funzionamento della buona fede soggettiva.
La ratio della buona fede soggettiva
consiste, quindi, proprio nella ricerca di un assetto di interessi sociali che
consideri anche quelli sottesi a comportamenti i quali, seppure di per sé non
immediatamente rispondenti al diritto, non siano diretti alla violazione
dell'ordinamento e, producendo una propria utilità, sono meritevoli di
riconoscimento e di tutela giuridica.
Vi è altresì da
rilevare come sia improprio, a nostro avviso, parlare di una ratio (unica) della buona fede
soggettiva. Infatti, come si è visto, la buona fede soggettiva, intesa quale
stato intellettivo o gnoseologico, assume una propria rilevanza giuridica in
quanto richiamata nell'ambito di precise norme di diritto positivo le quali,
dal canto loro, sono dirette a disciplinare uno o più specifici fenomeni sociali
e giuridici. All'interno di questo fenomeno si inserisce una situazione ove
rileva lo stato intellettivo di buona fede del soggetto, tale da determinare
specifici effetti giuridici[60].
Ciò significa che
a fianco a una ratio di ordine
generale, che fa riferimento alla figura della buona fede soggettiva, diretta -
come più volte sostenuto - a riconoscere una tutela giuridica a comportamenti
influenzati da uno stato di errore, e agli interessi connessi, sussistono anche
più rationes delle diverse norme di
buona fede. Rationes certamente
legate più strettamente ai fenomeni giuridici specifici che esse disciplinano,
e che trovano negli interessi collegati a detti fenomeni la propria ragione[61].
Ci pare, a questo
punto, come emerga la posizione più che marginale dell'etica rispetto alla
buona fede soggettiva; una posizione tutto sommato «esterna»
sia allo stesso concetto che ai fenomeni in cui essa si pone, priva di una
rilevanza operativa e costruttiva[62].
Un ultimo punto ci
sembra meritevole di essere trattato al fine di confutare la rilevanza
dell'etica con riguardo alla buona fede soggettiva. S'è detto più volte che
questa costituisce un elemento costitutivo di una più ampia fattispecie legale.
Si è detto altresì che tale fattispecie è da considerare come «fattispecie
determinata»[63] ove la
buona fede - che, per l'appunto, ne è un elemento costitutivo - assume una
funzione di ordine descrittivo, nel senso che descrive una situazione fenomenica,
di ordine soggettivo (lo stato intellettivo del soggetto), necessaria per il
perfezionarsi del meccanismo di sussunzione.
La buona fede
soggettiva quindi, sul piano applicativo, si risolve essenzialmente in un giudizio descrittivo sullo stato
intellettivo di errore o ignoranza del soggetto agente, onde si renda
applicabile al caso concreto, secondo il metodo della sussunzione[64],
la norma di legge.
Al contrario,
l'etica richiama un giudizio di valore[65], cioè un fenomeno valutativo
socialmente reiterato, e quindi rilevante nell'ambito dell'organizzazione sociale[66].
Quest'ultimo punto
introduce un'ulteriore osservazione. L'etica, data la sua generalità è inidonea
ad essere ricondotta nell'ambito di una o più norme di legge a fattispecie
determinata. Essa, qualora le si voglia riconoscere una efficacia giuridica,
trova una (eventuale) adeguata rispondenza sotto il profilo sistematico nella
figura del principio generale o,
eventualmente, della clausola generale.
Ciò non significa, si badi bene, che l'etica assuma la natura e la funzione di
principio generale o di clausola generale, si vuole semplicemente porre in
risalto come, pur nell'ipotesi di una eventuale rilevanza ed efficacia diretta
dell'etica nel mondo giuridico, essa assumerebbe, data la sua natura e
struttura, la figura di principio generale piuttosto che quella di norma a
fattispecie determinata o di elemento costitutivo di questa.
In conclusione, ci
sembra di poter affermare come non sussista rapporto alcuno, sotto il profilo
giuridico, tra la buona fede soggettiva e l'etica, categorie concettuali che,
al contrario, operano in ambiti, e secondo criteri, completamente diversi. La
prima riguarda strettamente la realtà giuridica, agisce nell'ambito di fenomeni
giuridici che contribuisce a determinare, e vi svolge una determinata funzione.
La seconda opera
in una sfera diversa, di ordine metagiuridico, non assumendo, almeno con
riferimento all'argomento in esame, alcuna funzione di natura giuridica.
La diversa natura
e funzionalità delle due figure sul piano ontologico consentono di ribadire che
mentre la buona fede soggettiva richiama un giudizio descrittivo (pur in
funzione prescrittiva), l'etica si sostanzia in un giudizio di valore, giuridicamente
irrilevante.
Ritornando così al
problema di fondo se l'etica possa costituire un dato accomunante la buona fede
soggettiva e la buona fede oggettiva, ci sembra inevitabile una risposta
negativa al quesito: l’etica, secondo quanto sostenuto, completamente avulsa
dal fenomeno e dalla categoria della buona fede soggettiva, si pone al di fuori
della problematica della ricerca di identità tra le due figure di buona fede[67].
La concezione
unitaria della buona fede è stata sostenuta in dottrina, individuando come
elemento unificante tra le figure di buona fede soggettiva e buona fede
oggettiva, l’agire leale e onesto. Nel senso che, sia il soggetto che agisce secondo buona fede (cioè conformemente
ad un modello di comportamento sociale apprezzabile), sia quello che agisce in buona fede (cioè ritenendo di
comportarsi secondo i dettami del diritto, o ignorando di ledere i medesimi),
manifestano un comportamento improntato ai dettami della lealtà e dell’onestà[68].
Questa tesi, che
sembra richiamare come dato unitario il concetto di correttezza[69],
non ha trovato accoglimento nel nostro ordinamento né in giurisprudenza, ove la
distinzione tra buona fede soggettiva e buona fede oggettiva non appare posta
in discussione[70], né nella
dottrina che, per lo più, si è indirizzata verso una netta distinzione tra le
due figure[71].
Il rilievo secondo
cui la buona fede soggettiva e la buona fede oggettiva abbiano un carattere di
unicità con riferimento alla correttezza - quale espressione giuridica della
lealtà e dell’onestà - richiederebbe una specifica trattazione su quest'ultima
categoria giuridica. Possiamo comunque rilevare che se questa figura richiama
l'« onesto e il leale agire », essa non sembra attagliarsi alla buona fede
soggettiva, ove il dato giuridicamente rilevante non consiste nella valutazione
del comportamento onesto e leale, bensì nella individuazione dello stato intellettivo
dell'agente, inteso come fatto fenomenico giuridicamente rilevante. La buona
fede soggettiva - in altri termini - non sostanziandosi in un criterio di
valutazione sociale o giuridica del comportamento del consociato, bensì in uno
stato intellettivo di ignoranza o di erroneo convincimento, richiamato da
apposite norme di diritto positivo e dal quale si fanno dipendere specifici
effetti giuridici[72],
è estranea a un giudizio di correttezza dell’agire che si riconduce a un dovere
- e alla relativa vicenda dinamica del dovere[73]
- e non all’essere, qual è la buona fede soggettiva come fatto
fenomenico di tipo gnoseologico.
La differenza tra
buona fede soggettiva e la correttezza che nell'ottica della tesi prospettata
dovrebbe fungere da tramite con la buona fede oggettiva, non si discosta quindi
dalla differenza tra buona fede soggettiva ed oggettiva esaminata nel paragrafo
precedente. Questa sostanziale identità dei criteri di distinzione è, d'altro
canto, indice di una vicinanza concettuale tra buona fede oggettiva e correttezza.
La mancanza di un
fondamento comune tra buona fede soggettiva e correttezza, emerge anche da ciò:
come è stato più volte ripetuto, la buona fede soggettiva si presenta nel
nostro ordinamento come un fatto storico, che in tanto è giuridicamente
rilevante in quanto è enunciato in termini di diritto positivo, quale elemento
costitutivo di fattispecie astratte legalmente previste. Ora, se la buona fede
soggettiva costituisce uno degli estremi di una fattispecie astratta, non
altrettanto può dirsi per la correttezza.
In primo luogo la
correttezza è qualificabile - come anche la buona fede oggettiva - come clausola generale[74],
quindi non adatta ad essere ricondotta nell'ambito di norme a fattispecie
determinata. Tant'è vero che nessuna disposizione di legge richiama la
correttezza come elemento costitutivo di una fattispecie determinata, idonea ad
essere oggetto di un enunciato descrittivo, a livello di fattispecie astratta,
e di un giudizio cognitivo relativamente alla fattispecie concreta, così come
una siffatta idoneità difetta al concetto di correttezza isolatamente
considerata.
In secondo luogo
v'è da aggiungere come la correttezza, parimenti alla buona fede oggettiva, prescinda
da una valutazione dello stato psicologico del soggetto, e incentri la propria
attenzione sulla corrispondenza o meno della condotta del singolo ad un modello
socialmente e giuridicamente apprezzabile, facendone discendere la liceità o la
illiceità di tale condotta.
Si vede, quindi,
come la correttezza, differisce in termini pressoché assoluti dalla buona fede
soggettiva[75], mentre
manifesta una notevole affinità con la buona fede oggettiva[76].
Non sembra quindi possibile sotto il profilo logico, secondo la presente
ricostruzione, che essa correttezza assuma una funzione di collegamento tra le
due figure di buona fede.
[1] In epoca non più recente,
rilevava Salv. Romano,
voce Buona fede, in Enc. dir., V, Milano, 1959, 677, che la buona
fede, unitamente alla mala fede, era richiamata nel codice civile per circa
settanta volte; oggi si hanno settantacinque richiami alla sola buona fede, e
altri venti alla mala fede.
[2] Una prima distinzione circa la
diversa struttura e funzione è prospettata da Salv.
Romano, voce Buona fede, cit., 677 s.
[3] Per questa bipartizione,
riconoscendo il carattere oggettivo della buona fede nell'esecuzione del
contratto, Sacco, La buona fede nella teoria dei fatti
giuridici di diritto privato, Torino, 1949, 6 ss., espressamente l’A. pone
in evidenza come in alcuni casi «la buona fede non è addirittura riducibile a
fatto giuridico psichico: soprattutto nei casi degli art. 1337, 13492, 1358,
1366, 1375, 14602, c.c.» (14), sino a giungere alla conclusione che «nelle
nostre leggi si parla di buona e mala fede come fatti giuridici psicologici,
oppure come criteri di comportamento, o come criteri relativi ai nessi tra i
fatti giuridici e le loro conseguenze» (17); Id.,
Cos'è la buona fede oggettiva?, in Il principio di buona fede (Atti della
giornata di studio, Pisa 14 giugno 1985), Milano, 1987, 46; Giampiccolo, La buona fede in senso soggettivo nel sistema del diritto privato,
in Riv. dir. comm., 1965, I, 335 ss.,
spec. 340 s., ora in Studi sulla buona
fede, Milano, 1975, 77 s., spec. 79; Salv.
Romano, voce Buona fede, cit., 678 s.; Natoli,
L'attuazione del rapporto obbligatorio,
I, in Tratt. dir. civ. comm. diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1974,
35 ss.; Carusi, voce Correttezza (Obblighi di), in Enc. dir., X, Milano, 1962, 709 ss.; Cataudella, Sul contenuto del contratto, Milano, 1966, 254 e nota 57; Di Majo, L'esecuzione del contratto, Milano, 1967, 365 ss.; Id., Delle obbligazioni in generale, in Comm. cod. civ. Scialoja e Branca, a cura di Galgano, Bologna - Roma,
1988, 290 ss.; Breccia, Diligenza e buona fede nell'attuazione del
rapporto obbligatorio, Milano, 1968, 3 ss.; Rodotà, Le fonti di
integrazione del contratto, Milano, 1969, 132 ss.; Corradini, Il criterio della
buona fede e la scienza del diritto privato, Milano, 1970, 137 ss., 274,
470 ss.; Alpa, Pretese del creditore e normativa di
correttezza, in Riv. dir. comm.,
1971, II, 286; Busnelli, Buona fede in senso soggettivo e
responsabilità per fatto "ingiusto", ora in Studi sulla buona fede, Milano, 1975, 569, 572; Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale,
in Riv. dir. civ., 1983, I, 205; Fornaciari, Il controllo in cassazione della clausola di buona fede, in Il principio di buona fede, loc. cit., 466; Lenzi, La buona fede
soggettiva in diritto internazionale privato (spunti per un superamento del
principio "ignorantia legis non excusat"), ivi, 192 ss.; Bessone -
D'Angelo, voce Buona fede, in Enc. giur. Treccani, V, Roma, 1988, 1; Id., La tipizzazione
giurisprudenziale della buona fede contrattuale, in Contr. e impr., 1990, 702 s.; Galgano,
Diritto civile e commerciale, II, 1,
Padova, 1999, 547 s.; Maiorca, Il contratto, Torino, 1996, 311;
recentemente Talamanca, La bona
fides nei giuristi romani: «Leerformeln» e valori dell’ordinamento, in
Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e
contemporanea (Atti del Convegno internazionale di studi in onore di
Alberto Burdese, Padova-Venezia-Treviso, 14-15-16 giugno 2001), IV, Padova,
2003, 7 ss.
Più articolata la distinzione di Betti, Teoria generale delle
obbligazioni, I, Prolegomeni: funzione economico-sociale dei
rapporti d’obbligazione, Milano, 1953, 65 ss., che opera una quadripartizione
all’interno della figura della buona fede (69 ss., 72 ss., 80 ss., 89 ss.),
isolando comunque una delle categorie concettuali risultanti dalla
quadripartizione, rispetto alle altre tre, e più precisamente «il profilo della
buona fede, tanto come criterio ermeneutico alla stregua del quale deve essere
interpretato il contratto, quanto come criterio di condotta, alla stregua del
quale debbono essere adempiute le obbligazioni poste in essere».
In un'ottica storicistica cfr. Talamanca, op. loc. cit., spec.
16 s., il quale pone in rilievo come la distinzione tra la bona fides in
senso soggettivo e oggettivo fosse già presente nel diritto romano, e che in
taluni casi «il sintagma bona fides viene… adoperato, nel medesimo
passo, con riferimento sia a quella che sarebbe ‘operatività della buona fede
in senso soggettivo sia a quella che ne sarebbe, invece, la valenza oggettiva»;
v. inoltre Senn, voce Buona fede nel diritto romano, in Dig. civ., II, Torino, 1988, 130 s.; Massetto, voce Buona fede nel diritto medievale e moderno, in Dig. civ., II, Torino, 1988, 135 ss., secondo il quale, mentre la
buona fede soggettiva è da intendere come attitudine
intellettiva (spec. 138 ss.), la buona fede oggettiva è invece una attitudine attiva (spec. 147 ss.).
Individua una «dimensione comune» Bigliazzi Geri, La buona fede nel diritto privato (spunti ricostruttivi), in Il principio di buona fede, loc. cit., 54 s., 58, 62 s., pur
nell'ottica di una distinzione ontologica e funzionale (Id., voce Buona fede
nel diritto civile, in Dig. civ.,
II, Torino, 1988 , 159, 188).
Per una sostanziale unicità del concetto di
buona fede cfr. Montel, voce Buona fede, in Noviss. dig. it., II, Torino, 1958, 600 .
[4] Bigliazzi
Geri, voce Buona fede nel diritto civile,
cit., 157 ss., 188 ss., nega l'esistenza di una categoria di buona fede
onnicomprensiva. V. anche gli autori di cui alla nota precedente.
[5] O, meglio, uno stato gnoseologico: Sacco, La presunzione
di buona fede, in Riv. dir. civ.,
1959, 9. Secondo Bigliazzi Geri,
voce Buona fede nel diritto civile, cit., 159, si tratterebbe di uno «stato
intellettivo, non volitivo: agire in buona fede non significa voler far bene,
ma essere convinti della bontà della propria condotta»; afferma Natoli, Il possesso, Milano, 1992, 130, con specifico riguardo alla buona
fede nel possesso, di cui all'art. 1147 c.c., che «la buona fede appare così
quale espressione di uno stato di ignoranza della effettiva condizione
giuridica del bene oggetto del possesso e, conseguentemente, della convinzione
- più o meno affiorata a livello di coscienza - di agire secundum legem e di non fare con la propria attività alcun danno ad
altri». Relativamente al possesso v., specificamente, Busnelli-Vallini, La buona fede nel possesso (alla luce
della giurisprudenza), Pisa, 1971. Per un’ampia casistica
giurisprudenziale della buona fede nel possesso v. Scioli, Il possesso, Torino, 2003, 63 ss.
[6] Per uno specifico esame della
assimilazione della buona fede all'errore o all'ignoranza, o eventualmente ad
altri stati gnoseologici cfr. Sacco,
La presunzione di buona fede, cit., 9 ss.; Bigliazzi
Geri, voce Buona fede nel diritto civile, cit., 162 rileva la
«sostanziale coincidenza tra convinzione implicita (dipendente da ignoranza) e
convinzione esplicita (dipendente da errore) di comportarsi secondo diritto»;
l'A. peraltro, conformemente al disposto dell'art. 1147, 2° comma, c.c., limita
la buona fede soggettiva alle ipotesi di errore inescusabile. Infatti, se si
dovesse identificare indiscriminatamente la buona fede soggettiva con la figura
dell'errore, o con lo stato di errore in cui versa il soggetto, si dovrebbe
ritenere sussistente la buona fede anche nell'ipotesi di errore colpevole. In tal modo, però, la stessa colpa, essendo a
fondamento dell'errore, e quindi dello stato di buona fede, determinerebbe un
vantaggio del soggetto a cui è imputabile la condotta colposa, rispetto a chi
si è comportato in maniera più diligente. Sull’evoluzione del concetto di buona
fede soggettiva nel possesso dei beni mobili, sino al suo recepimento nel
vigente art. 1147 c.c., cfr. Argiroffi, Del
possesso di buona fede di beni mobili, in Comm. cod. civ. diretto
da Schlesinger, Milano, 1988, 80 ss., spec. 84 s.
Sulla scusabilità dell'errore v. anche Natoli, Il possesso, cit., 130 s., il quale rileva come la giurisprudenza
intenda il limite della scusabilità nella eccessiva trascuratezza o persino nel
non intelligere quod omnes intelligunt,
sino a giungere ai confini del dolo e quindi della mala fede.
[7] Cioè nella «positiva
convinzione di comportarsi jure» (ancora Bigliazzi
Geri, voce Buona fede nel diritto civile, cit., 159); ritiene
qualificarsi come buona fede «l’intenzione conforme al diritto, nonostante
l’evento contrario», Gentile, Il
possesso nel diritto civile, Napoli, 1956, p 217.
[8] Può essere considerata come la
proiezione del convincimento di comportarsi iure
ex art. 1147 c.c., l'erroneo
convincimento di non ledere l'interesse di altri (del possessore). Di fondo, infatti,
sembra sussistere un'unica falsa rappresentazione della realtà, che abbraccia
sia lo stato dei fatti che gli effetti giuridici. In tal senso sembra
esprimersi Natoli, Il possesso, cit., 130.
Sotto l’egida le codice civile del 1865, e sulla scorta del testo
letterale dell’art. 701, si riteneva che la buona fede dovesse «poggiare sopra
un titolo, perché senza titolo non è possibile possesso di buona fede, ma
devono ad un tempo essere ignorati del titolo i vizi, poiché chi li conosce non
potrebbe legittimamente credere che il suo acquisto non sia lesivo del dritto
altrui»: De Ruggiero, Diritto
civile, II, Messina - Milano, 1934, 463; per ulteriori chiarimenti
sul punto cfr. Lomonaco, Della
distinzione dei beni e del possesso, in Il diritto civile
italiano a cura di Fiore, Napoli - Torino, 1914, 513 ss.
Rilevano Sacco - Caterina, Possesso,
in Tratt. dir. civ. comm. già diretto da Cicu e Messineo, continuato
da Mengoni, Milano, 2000, 453, che secondo il disposto dell’art. 1147 c.c., difformemente
dalla disciplina codicistica previgente, lo stato psicologico di buona fede non
deve appoggiarsi a un titolo, ponendo in evidenza che il «titolo di cui si
conclama la superfluità è… il titolo di proprietà», rimanendo salva la
necessità di «un titolo di possesso (consegna, occupazione di cosa non
posseduta da altri)» giacché «fuori di un possesso fondato su una consegna o
un’occupazione, possiamo trovare solo un possesso fondato sullo spoglio. Ed
esso non potrà essere, in via di principio, possesso di buona fede».
Sulla sussistenza del possesso di buona fede, anche quando lo stato
intellettivo sia disgiunto dal titolo abile a trasferire il dominio, v.
espressamente Montel, Acquisto
«a domino» e possesso di buona fede, ora in Nuovi scritti in
materia di possesso, Torino, 1958, 73 ss., ove si dà atto delle
passate oscillazioni giurisprudenziali in materia, pur sotto la vigenza del
codice civile del 1942.
[9] Il problema si pone in termini
parzialmente identici a quanto riportato nella nota precedente: se l'erroneo
convincimento di comportarsi iure
determini l'ignoranza di ledere l'altrui diritto.
Viene fatto rilevare da Sacco, La presunzione di buona fede,
cit., 9, come il legislatore usi promiscuamente i termini «errore» e
«ignoranza».
[11] Così Sacco, La presunzione
di buona fede, cit., 18 s.; di
conseguenza v., tra gli altri, gli artt. 1150, 1161, 1338, 1394, 2036, 2038,
2210 c.c.
[12] Gli effetti giuridici
dipendenti dalla sussistenza dello stato intellettivo di buona fede sono
molteplici. Più precisamente, gli effetti giuridici in questione vengono
prodotti non dalla buona fede soggettiva isolatamente considerata - la quale di
per sé è inidonea a produrre effetti giuridici - ma da una più vasta
fattispecie, la quale, mantenendo fermi gli altri propri elementi costitutivi,
può assumere due distinte connotazioni a seconda che ad essa partecipi o meno
la buona fede soggettiva (questi altri elementi sono stati definiti fatti concomitanti da Sacco, La presunzione di buona fede,
cit., 12, in quanto concorrenti con la buona o mala fede a costituire una
fattispecie).
Si tratterebbe, in buona sostanza, di due
distinte fattispecie, parzialmente coincidenti che fanno riferimento a un'unica
norma di legge a cui si riferiscono, e che trovano il loro elemento distintivo,
come di è detto, nella buona o mala fede.
La distinzione tra le fattispecie giustifica
la produzione di effetti differenti e talvolta «contrastanti» (v. ad esempio l'effetto
produttivo dell'obbligazione restitutoria degli interessi e delle spese nel
caso di indebito ex art. 2033 c.c.).
Con riferimento al possesso, il riferimento
alla mala fede porta a dedurre un trattamento a contrario del possessore di mala fede rispetto a quello di buona
fede (Natoli, Il possesso, cit., 131 s.).
[13]
Così Mengoni, Gli acquisti «a
non domino», Milano, 1968, 303 ss. relativamente alla fattispecie di
acquisto a non domino.
[14] La fattispecie di buona fede,
pertanto, non è da qualificare come fatto
impeditivo, né la norma che la prevede, come norma impeditiva: in tal senso Sacco,
La presunzione di buona fede, cit., 3 ss.
[15] Sembra rimanere al di fuori
della categoria della buona fede soggettiva l'ipotesi del «dubbio», rilevandosi
al proposito delle difficoltà di ordine sostanziale e metodologico
nell'inserire questo stato intellettivo nel modello operativo della buona fede:
in argomento cfr. Sacco, La presunzione di buona fede, cit., 9; Giampiccolo,
La buona fede in senso soggettivo nel sistema
del diritto privato, cit., 353
ss.; Bigliazzi Geri, voce Buona fede nel diritto civile, cit., 160.
[16] Generalmente, come è già
emerso dal testo, si tende a identificare la buona fede come stato di ignoranza
o errore e la mala fede come quello di conoscenza. Cfr. anche supra, nota 12.
[17] Si prenda ad esempio l'art.
1147 c.c., il quale prevede una fattispecie di fondo unica. Essa però è
incompleta senza il concorso dell'elemento soggettivo della buona fede o della
mala fede, per cui non è idonea ad essere produttiva di effetti giuridici. In
questo caso la fattispecie diviene «completa» ed efficace nel momento in cui al
possesso (fatto «concomitante», secondo l'espressione di Sacco, La presunzione di buona fede,
cit., 13 s.) si aggiunga la buona fede o, eventualmente, la mala fede,
divenendo in tal modo produttiva di diversi effetti a seconda che ci si riferisca
a un possesso di buona fede o a un possesso di mala fede.
Sul concetto di fattispecie, con riguardo
agli effetti, v. Cataudella, Note sul concetto di fattispecie giuridica,
ora in Scritti giuridici, Padova,
1991, 3 ss.; Id., Fattispecie, ivi, 33 ss.; Id.,
voce Fattispecie, in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 926 ss.; Monateri, voce Fattispecie, in Dig. civ.,
VIII, Torino, 1992, 223 ss.; in termini più generali, e con particolare
riguardo alla differenza tra «fatto» e «fattispecie» v. recentemente G. Levi, Fatto e diritto, Milano, 20002, 34 ss.
[18] La buona fede soggettiva
intesa semplicemente come stato di ignoranza o di errore è giuridicamente
irrilevante, limitandosi a descrivere uno stato intellettivo che di per sé solo
non costituisce ipotesi fenomenica e sociale in cui si manifestino e prendano
corpo interessi rilevanti nella sfera patrimoniale o personale del singolo
soggetto. Vista in quest'ottica, pertanto, la buona fede risulterebbe
irrilevante anche sotto il profilo normativo e precettivo, stante la carenza di
giuridicità del fatto (stato intellettivo) ad esso riconducibile, nel senso che
non sarebbe qualificabile come fatto giuridico in quanto ad essa non è
collegato alcun effetto giuridico, o comunque non ha rilevanza per
l'ordinamento giuridico; pone in evidenza Maiorca,
voce Fatto giuridico - Fattispecie, in Noviss. Dig. it., VII, Torino, 1961, 112, come «nella sua accezione
originaria più generale il fatto giuridico è qualunque circostanza a cui
l'ordinamento riconnette conseguenze giuridiche». Per il concetto di fatto
giuridico nelle sue diverse accezioni, oltre l'A. sopra citato, v. la
trattazione di Falzea, voce Fatto giuridico, in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 941 ss.
[20] Monateri, voce Fattispecie,
cit., 224). Sul rapporto tra i concetti di fattispecie e effetti v. ancora Cataudella, Fattispecie, cit., spec. 35 ss.
[21]
Cfr. Sacco, La buona fede nella teoria dei
fatti giuridici di diritto privato, cit., 12 ss., il quale qualifica la buona fede come fatto
giuridico. Carcaterra, Intorno
ai bonae fidei iudicia, Napoli, 1964, 210 ss, distinguendo tra buona
fede presupposta e buona fede imposta (che lo stesso A. nega,
comunque, possano essere omologate, rispettivamente, alla buona fede soggettiva
e oggettiva: 215), e riferendosi alla prima figura, ritiene che «il
concetto di buona fede non si identifica con nessuno degli elementi della
fattispecie (azione, illecito, errore)» bensì «solo con l’insieme degli
elementi sopra indicati ed è un “modo di essere” di una condotta…, cioè,
appunto, una condotta, presupposta, però, come mero fatto… che il diritto, in
talune esplicite ipotesi, configura come un atto illecito-dannoso compiuto per
errore».
[22] Il dato psicologico, e quindi
definito come «soggettivo» in relazione alla riferibilità ad un preciso
soggetto, in tanto assume una propria rilevanza giuridica in quanto rilevi
nella realtà sociale. Lo stato psicologico in sé, pertanto, deve manifestarsi
socialmente tramite l'oggettivazione degli elementi che lo manifestano.
[23] La buona fede soggettiva funge
da elemento discriminante tra situazioni «oggettivamente» identiche, nelle
quali lo stato soggettivo di ignoranza o errore da parte di un soggetto interessato
al fenomeno, amplia la sfera del comportamento socialmente meritevole di
tutela.
[24] La «ricognizione» è quindi
azione strumentale all'applicazione della buona fede soggettiva nel caso
concreto. La ricognizione del fatto storico, d'altro canto, attiene al comune
modo di operare del giudice il quale, dapprima ricostruisce (cioè accerta) il
fatto storico e quindi vi applica il diritto.
Come si vedrà nel proseguo del lavoro, il
fenomeno «ricognitivo» non è di per sé da considerare come elemento
discriminante tra buona fede soggettiva e buona fede oggettiva, in quanto anche
in quest'ultimo caso è necessaria una attività di cognizione del fatto storico.
La differenza sta, invece, nell'oggetto della ricognizione: con riferimento
alla buona fede soggettiva l'oggetto consiste in un dato storico che sostanzia
la buona fede (lo stato intellettivo); nella buona fede oggettiva, invece, in
una serie di dati storici necessari al fine di stabilire criteri e limiti necessari
per individuare il relativo obbligo (cioè gli elementi identificanti il
rapporto economico sottostante al contratto).
La ricognizione dei fatti rientra, più
precisamente, a livello processuale nel concetto di «cognizione», ovvero di
quella attività svolta dal giudice mediante la quale questo, accertata la
fattispecie concreta, trae delle regole concrete di diritto sostanziale:
sull'argomento v. per tutti la fondamentale impostazione del Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Roma, 1935, 15; più
recentemente, in termini differenti, Montesano,
La tutela giurisdizionale dei diritti,
in Tratt. dir. civ. diretto da
Vassalli, XIV, 4, Torino, 1994, 3, in generale sul processo di cognizione 101
ss.
[25] Cfr. ad esempio L'art. 2033
c.c. Le due fattispecie non si distinguono per una espressa duplice previsione
legislativa - cioè su un piano strettamente formale - che come si è visto può anche
mancare, ma per la loro duplice potenziale effettività giuridica. La stessa
norma, in altri termini, crea due distinti sistemi giuridici alternativi,
produttivi di effetti giuridici difformi. La produzione degli uni effetti,
piuttosto che degli altri, con riferimento al caso concreto dipende dalla
rispondenza del caso di specie all'una o all'altra fattispecie astratta, le
quali fattispecie, dal canto loro, data la presenza (o l'assenza) della buona
fede soggettiva, sono tra di loro differenti sotto il profilo strutturale e
antinomiche sotto quello degli effetti.
[27] La fattispecie di buona fede, in altre parole, è
produttiva di posizioni giuridiche estranee alla fattispecie di mala fede: ad
esempio, il diritto di percepire i frutti è un effetto della fattispecie di
buona fede (possesso di buona fede) ma non di quella di mala fede (possesso di
mala fede), secondo il disposto di cui agli artt. 1147 e 1148 c.c.).
[28] Riprendendo l’esempio
della nota precedente, se il possessore di buona fede ha recato dei
miglioramenti alla cosa, una tale fattispecie di buona fede (strutturalmente
composta dal possesso, dalla buona fede soggettiva e dalla esecuzione dei
miglioramenti) è produttiva di
effetti costitutivi, in quanto costituisce in favore dello stesso possessore di
buona fede un credito indennitario pari al «valore conseguito dalla cosa per
effetto dei miglioramenti» (art. 1150, comma 3, c.c.).
Se gli stessi miglioramenti sono stati
apportati dal possessore di mala fede, questa fattispecie - che differisce
dalla prima per il solo stato gnoselogico - è produttiva di un’obbligazione indennitaria
oggettivamente diversa, poiché la prestazione è commisurata alla «minor somma
tra l’importo della spesa e l’aumento di valore» (v. ancora art. 1150, comma 3,
c.c.).
[29] Ad esempio, nel caso di indebito
oggettivo (art. 2033 c.c.) l'obbligazione di restituzione dei frutti (per il
carattere restitutorio di tale tutela, cfr. Di
Majo, La tutela civile dei diritti,
Milano, 2003, 322, secondo il quale, qualora «il rimedio sia relativo a
spostamenti patrimoniali ingiustificati, esso potrà avere per oggetto non solo
la restituzione di quello specifico
bene… ma anche il valore di esso») e di pagamento degli interessi, unitamente
al capitale, è prodotta solo dalla fattispecie di mala fede, e non anche da quella
di buona fede, che produce un’obbligazione avente ad oggetto solo la
prestazione di restituzione del capitale.
Ben si vede, come si è anticipato nel testo,
che l’affermazione secondo cui la buona fede «impedisce» l’insorgenza
dell'obbligazione di corresponsione degli interessi e dei frutti relativi al
pagamento indebito può avere una valenza esclusivamente descrittiva,
configurando la fattispecie di buona fede, anche in questo caso, un fatto
costituivo e non un fatto impeditivo.
[30] Sulla definizione del fatto impeditivo v. per tutti G. A. Micheli, L’onere della prova,
(ristampa) Padova, 1966, 321 ss.; recentemente Mandrioli, Diritto processuale civile, II,
Torino, 2002, 132 ss. e, in precedenza, Senofonte, Il fatto impeditivo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1978, 1525
ss.
[31]
Ma v. quanto riportato infra, alla nota 35, riguardo alla
condizione sospensiva, riconducibile, sotto il profilo della struttura del
fatto, alla unitarietà della dichiarazione negoziale.
Senza
entrare nel merito di un argomento di particolare ampiezza, e anche partendo
dal presupposto (comunque non incontestabile) che la previsione contrattuale
dell’evento condizionante sia un fatto impeditivo, si può rilevare che
l’unitarietà è data dalla natura stessa della fonte (negoziale) delle
conseguenza giuridiche tra loro alternative, la cui alternatività discende
dalla previsione di un’operazione economica unica, che non può non tradursi, su
piano della manifestazione, se non in un’unica dichiarazione.
Il
fatto impeditivo quale previsto dalla legge, si configura, invece, in un fatto
autonomo che, a fronte di un fatto già di per sé potenzialmente produttivo di
effetti, la legge stessa ritiene giustifichi la mancata produzione. Così, ad
esempio, assumendo come fatto impeditivo il dolo ex art. 1439 c.c. (sui
vizi della volontà come fatto impeditivo cfr. Proto Pisani, Lezioni di Diritto Processale civile, Napoli, 1999, 472; in tal caso,
trattandosi di annullabilità, l’impedimento dell’effetto segue lo schema della
retroattività dell’annullamento): il fatto decettivo, considerato nei suoi
estremi soggettivi ed oggettivi, è fatto autonomo e distinto dalla
dichiarazione negoziale.
A
ciò si aggiunga, che il fatto impeditivo ha quale unico effetto quello di
impedire, per l’appunto, la produzione di effetti ad opera di un fatto
potenzialmente idoneo a produrli (infra, ancora nota 35), mentre
la mancanza di buona fede soggettiva, almeno in alcune sue esplicazioni (quali
quelle previste dagli artt. 1148 c.c. e 2033 c.c.), conduce pur sempre, quale
effetto finale, alla costituzione di obbligazioni, benché diverse da quelle che
sarebbero sorte in presenza della buona fede, e non solo a impedire gli effetti
di questa.
[32] Ad esempio, la condizione
sospensiva che impedisce la produzione degli effetti contrattuali non è
produttiva di effetti propri e differenti da quello impeditivo.
[33]
Con riguardo al possesso di buona fede v. Pugliese,
La prescrizione acquisitiva, Torino, 1924, 649, nota 1,
che qualifica la buona fede (soggettiva) come elemento costitutivo della
fattispecie; in questo senso anche D’Avanzo,
Il possesso, Milano, 1939, 58 ss.
[34]
Diversamente Montel, Il
possesso di buona fede, Padova, 1935, 42, il quale critica la tesi secondo
cui la buona fede sarebbe un elemento costituivo della fattispecie, affermando
che detta tesi «parte dalla premessa erronea che gli elementi costitutivi
esauriscano la categoria degli elementi essenziali e che quelli impeditivi non
ne facciano quindi parte. In realtà, invece, gli elementi impeditivi presi
positivamente sono elementi essenziali della fattispecie al pari degli elementi
costitutivi», in questa linea sembra anche Bignardi,
Brevi considerazioni sulla funzione della buona fede nell’usucapio,
in particolare nel pensiero di Paolo, in Il ruolo della buona fede oggettiva
nell’esperienza giuridica storica e contemporanea (Atti del Convegno internazionale di studi in
onore di Alberto Burdese, Padova-Venezia-Treviso, 14-15-16 giugno 2001), I, Padova,
2003, 215.
Sul
punto ci sembra si possa osservare che se è vero che la figura giuridica spesso
richiamata quale esempio di fatto impeditivo, cioè la condizione sospensiva, è
strutturalmente riconducibile all’interno della medesima fattispecie (contrattuale),
ci sembra altrettanto vero che in tal caso la efficacia giuridica dell’evento
condizionante rimane all’interno della sfera degli effetti propri della
fattispecie, determinando l’efficacia o l’inefficacia di quest’ultima, ma non è
idonea a produrre effetti giuridici autonomi (questa ci sembra l’idea seguita
da Falzea, La condizione e gli
elementi dell’atto giuridico, Milano, 1941, spec. 219 s.; della
quale già si trovano tracce in Chironi -
Abello, Trattato di diritto civile italiano, I, Torino,
1904, 432 s.: «Chi costituisce un negozio condizionato non fa una doppia
dichiarazione, l’una pura e semplice e l’altra condizionata, ma una sola ed
unica in cui è inclusa pure la condizione, che n’è parte essenziale… il
dichiarante tenne presente quell’avvenimento futuro ed incerto che come
condizione ha fatto accedere alla dichiarazione», dal che gli AA. ricavano il
carattere di indivisibilità della dichiarazione, precisando che «la…
caratteristica speciale [della dichiarazione] è di affievolire l’intensità, la
forza che altrimenti la volontà avrebbe avuto, e che ha efficacia solo pel
concorso della determinata circostanza ch’essa comprende; ond’è, che il nesso
di tal modalità o determinazione con la dichiarazione principale di volontà è
un nesso organico così da potersi considerare come consostanziale alla
dichiarazione stessa», sugli effetti della condizione sospensiva v. 444 ss.;
recentemente, sulla valenza della condizione con riguardo agli effetti
piuttosto che alla fattispecie, Ugas, Il
negozio giuridico come fonte di qualificazione e disciplina di fatti, Torino,
2002, 235 ss.) come invece avviene per la fattispecie di buona fede, che pure
produce delle obbligazioni restitutorie, benché diverse per contenuto alle
obbligazioni prodotte dalla fattispecie di mala fede (cfr. note 26 e 29).
[35] O quantomeno idonee alla
produzione di effetti. Ad esempio, il possesso di un bene, sia di buona fede
che di mala fede, qualora non vi siano stati percepimento di frutti, spese,
riparazioni ecc., non è produttivo di effetti, pur essendo potenzialmente
idoneo.
[36]
Sulla buona fede dell’accipiens correlato alla conoscenza del vizio
dell’atto negoziale in esecuzione del quale è posto in essere il pagamento,
distinguendo le ipotesi in cui il difetto della causa debendi è originario, da quelle in cui è
sopravvento, v. Breccia, La ripetizione dell’indebito, Milano, 1974, 262 ss.
[37] Fatto salvo il pagamento degli
interessi e la corresponsione dei frutti dal momento della domanda; per ulteriori
conseguenze dello stato di buona fede v. Sacco,
La buona fede nella teoria dei
fatti giuridici di diritto privato, cit., 143. Sull’argomento Nicolussi, Appunti sulla buona fede
soggettiva con particolare riferimento all'indebito, in Riv.
crit. dir. priv., 1995, 265 ss.
[38] In argomento v. Breccia, La buona fede nel pagamento
dell’indebito, in Studi sulla buona fede, Milano,
1975, 461 ss.; Id., Il
pagamento dell'indebito, in Tratt. dir. priv. diretto da
Rescigno, IX, Torino, 1986, 755 ss.; Moscati,
Del pagamento dell'indebito, in Comm. cod. civ. a
cura di Scialoja e Branca, Bologna - Roma, 1981, 61 ss.
[39] L'onere della prova, infatti,
grava su chi allega il fatto: in argomento S.
Patti, Prove - Disposizioni
generali, in Comm. cod. civ. a cura
di Scialoja e Branca, Bologna - Roma, 1987, 5 ss.
[41] L'alternativa tra buona fede e
mala fede, posto che tali stati intellettivi concorrono al perfezionamento delle
relative fattispecie unitamente agli altri elementi costitutivi (supra nota 38) si traduce nell'alternatività tra le due fattispecie
[42] Nel già citato esempio
dell'indebito oggettivo, previsto dall'art. 2033 c.c., l'obbligazione di
pagamento degli interessi e restituzione dei frutti è prodotta in base alla
sussistenza di tutti gli estremi del fatto costitutivo, ivi compresa la mala
fede dell'accipiens.
[43] Con riferimento all'esempio
riportato nella nota precedente, vediamo che il rapporto obbligatorio previsto
nell'ipotesi di buona fede è diverso da quello previsto per l'ipotesi di mala fede,
in quanto nel primo non è prevista la corresponsione dei frutti e il pagamento
degli interessi.
In tal senso gli effetti possono essere
definiti antinomici in quanto
contrastanti (sul trattamento giuridico a
contrario, con riguardo al possesso, si è detto supra, nota 12).
[44] Nel senso che la buona fede
soggettiva non configura una clausola generale, la quale - come si vedrà con
riferimento alla buona fede oggettiva - pur non riconducendosi a una
fattispecie determinata, assume una rilevanza normativa autonoma. Essa rimane,
come più volte si è detto, un elemento costitutivo di una specifica
fattispecie.
[45] Lo stato intellettivo,
infatti, nonostante la sua natura soggettiva, rileva per l'ordinamento
giuridico nel momento in cui si oggettivizza, cioè si manifesta verso l'esterno
(ponendosi nell'ambito di una fattispecie) non rimane uno stato psicologico
interiore.
[46] Difatti nei confronti dello
stato intellettivo o gnoseologico di buona o mala fede viene svolto un giudizio
ricognitivo diretto a verificare la sussistenza nel caso concreto di tale stato
psicologico, quale descritto nella norma di legge.
[47] Ci si riferisce al rapporto
funzionale tra principi generali e clausola generale di buona fede.
[49] L'obbligo di buona fede,
discendente dall'art. 1375 c.c., si concretizza nell'ambito del contratto, partecipando
alla vicenda contrattuale. Il problema della concretizzazione dell'obbligo di
buona fede assomma in sé la problematica della oggettivazione della clausola
generale di buona fede e della determinazione dell'oggetto dell'obbligo.
[50] Sulla qualificazione della
buona fede oggettiva come clausola generale cfr. Bianca, La nozione di
buona fede quale regola di comportamento contrattuale, cit., 206; Cattaneo, Buona fede obiettiva e abuso del diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1977, 616; Rescigno, L'abuso del
diritto, in Riv. dir. civ., 1965,
232.
[51] La clausola generale è diretta a operare nell'ambito di un singolo
settore dell'ordinamento, caratterizzato da interessi, per così dire, «tipici»;
ed è proprio per questo motivo che la buona
fede oggettiva, operando nell'ambito delle vicende contrattuali ove gli
interessi tutelati sono quelli riconducibili al contratto, è da qualificare
come clausola generale e non come principio generale il quale, invece, è
diretto a operare nell'ambito dell'intero ordinamento giuridico, non solo nel
settore privatistico e non solo, a maggior ragione, con riguardo alla figura
contrattuale.
[52] Sullo sviluppo storico della
categoria di buona fede cfr. Senn,
voce Buona fede nel diritto romano,
cit., 133, il quale rileva come non si sia ancora giunti alla conoscenza del
motivo per cui due categorie così diverse, come la buona fede oggettiva e
quella soggettiva, abbiano mantenuto (o siano pervenute) all'identità del nome.
[53] V. ancora Senn, voce Buona fede nel diritto romano,
cit., 130 ss.; tale sviluppo autonomo si ebbe altresì nel diritto intermedio: Massetto, voce Buona fede nel diritto
medievale e moderno, cit., 136, 138 ss., 147 ss.
[54] Cfr. espressamente sul punto Bigliazzi Geri, voce Buona fede nel diritto civile, cit., 157 ss.
Rilievo, seppur non decisivo, all'elemento
etico e morale nell'individuazione della categoria di buona fede è dato, tra
gli altri, da Trabucchi, Il nuovo diritto onorario, in Riv. dir. civ., 1959, I, 499; Stolfi, Il principio di buona fede, in Riv.
dir. comm., 1964, I, 171; Cattaneo,
Buona fede obiettiva e abuso del diritto, cit., affianca alla morale anche la
tutela delle esigenze dei traffici commerciali; così anche Di Majo, L'esecuzione del contratto, cit., 411; con particolare riferimento
alla buona fede oggettiva, ma con un ragionamento estensibile anche alla buona
fede soggettiva, viene fatto notare da Bianca,
Diritto civile, I, la norma giuridica - le persone, Milano,
2002, 15, come la buona fede attiene a una norma giuridica (avente il carattere
di eteronomia) distinguendosi quindi dalla norma morale; per Breccia, Diligenza e buona fede
nell'attuazione del rapporto obbligatorio, cit., 6, la nozione di buona
fede «implica certamente una valutazione di natura etico-sociale, anche se non
sarebbe esatto affermare che si risolva in essa».
[55]
Decisamente contrario a questa tesi è Mengoni,
Gli acquisti «a non domino», cit., , 306 ss., il quale
chiarisce, rispetto alla buona fede soggettiva, che «la c.d. concezione
psicologica non nega la componente etica, ma ne esaurisce la portata sul piano
metagiuridico del processo di motivazione della norma che alla buona fede,
intesa come fatto psicologico, conferisce rilevanza giuridica»
[56] Senza voler entrare specificamente
in argomento dobbiamo evidenziare come l'etica - almeno secondo un orientamento
- è lo strumento di analisi razionale dei concetti valutativi, diretti a
distinguere, generalmente, ciò che è bene e ciò che non lo è. È di tutta
evidenza come le norme giuridiche che prevedono e disciplinano la buona fede
soggettiva, considerino come meritevoli di tutela giuridica anche quei
comportamenti sociali influenzati dalla normale fallibilità dell'uomo, ma che
comunque trovano una loro giustificazione e ragione di ordine socio-economico.
Comportamenti, questi, che già nella fase metagiuridica (e comunque
prelegislativa) vengono socialmente considerati accettabili e giustificabili, e
quindi non come un «male».
Contrasta l’idea che la buona fede (intesa
nel suo significato oggettivo) trovi la propria origine, o comunque abbia un
fondamento nell’etica, Carcaterra, Intorno ai bonae
fidei iudicia, cit., 158 ss.,
per una particolare osservazione, che sgancia - anche sotto il profilo applicativo
- la buona fede dall’etica, v. 216.
[57] Tra questi si pone chiaramente
l'art. 1551 diretto a garantire un pacifico possesso dei beni, salvo
accertamento giudiziale di un diverso e altrui diritto, eliminando eventuali
inibizioni e timori da parte dei consociati di vedersi sanzionati per un atto
socialmente utile e non riprovevole, suscettibili di avere una efficacia
«frenante» per l'economia. In questo stesso senso opera anche l'art. 1153 c.c.
[58] L'art.
2033 c.c. sul pagamento
dell'indebito ha la funzione, almeno sotto questo profilo, di non rendere
eccessivamente macchinoso l'adempimento dell'obbligazione ricorrendo ad accertamenti
e formalismi.
[59] Non va sottovalutato il
pericolo che, in tal modo, vengano ad essere qualificati come legittimi una serie
di atti i quali di per sé portano alla violazione di interessi altrui, facendo
sì che comportamenti determinati sì da ignoranza o errore, ma accompagnati da
negligenza, siano appaganti; mentre la scarsa ponderatezza, la negligenza, o
comunque l'imputabilità dell'ignoranza o del dolo (cioè la buona fede colpevole) dovrebbero essere sanzionati dall'ordinamento
giuridico. Sul problema cfr. Bigliazzi
Geri, voce Buona fede nel diritto civile, cit., 162 e supra, nota 7.
[60] Ciò in base al fatto che la
buona fede soggettiva è elemento costitutivo di una più vasta fattispecie
normativa idonea a produrre determinati effetti, difformi dagli effetti
eventualmente prodotti dalla medesima fattispecie integrata non dalla buona ma
dalla mala fede (v. ancora supra, nota
12).
[62] V. A. Costanzo, L’argomentazione giuridica, Milano,
2003, 63: «un valore etico veicolato da norme giuridiche – e accompagnato dalla
forza coercitiva che è loro propria – è una entità diversa da quella originaria
». Una approfondita ricerca sui rapporti tra l’etica e il diritto privato è
svolta da Palazzo, Interessi
permanenti nel diritto privato ed etica antica e moderna, in Palazzo-Ferranti, Etica del diritto
privato, I, Padova, 2002, 1 ss., il quale rileva altresì
l’originario rapporto tra la fides e fides bona con l’etica (15,
ove ulteriore bibliografia).
[63] La «norma a fattispecie
determinata» è da intendersi come un precetto legislativo strutturantesi nella
previsione specifica di un dato fenomeno. Sotto il profilo applicativo essa richiede
la sussistenza di una fattispecie concreta conforme, tale che tutti gli
elementi costitutivi di quest'ultima si sovrappongano a quelli della fattispecie
astratta. L'applicazione della norma in esame, pertanto, avviene quando la
fattispecie astratta trova un omologo nella realtà fenomenica.
Gli elementi della fattispecie astratta,
quindi, svolgono una funzione eminentemente descrittiva. Tra questi la buona
fede soggettiva, la quale, come viene esplicato nel testo, descrive uno stato
intellettivo di errore o ignoranza che deve poi sussistere nel caso concreto.
[65] Nonostante non vi sia nella dottrina
filosofica una identità di vedute sul concetto di «giudizio di valore»,
possiamo ritenere che, almeno sotto il profilo giuridico-privatistico, per «giudizio
di valore» si debba intendere una valutazione secondo il comune sentire, al di
là di qualsiasi previsione normativa. Se la nozione di buona fede soggettiva
non involge un giudizio di valore, altrettanto si può dire, secondo la nostra
ricostruzione, per la buona fede oggettiva.
[66] Talune figure regolamentatrici
del vivere comune possono avere un'origine etica (cfr. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I,
Prolegomeni: funzione economico-sociale dei rapporti d’obbligazione, cit.,
66 s.), tra queste possiamo annoverare i modelli comportamentali riconducibili
alla buona fede oggettiva. Anche questi, comunque, non si identificano
nell'etica, determinandosi - come vedremo diffusamente nel capitolo seguente -
secondo altri indici più strettamente giuridici e collegati alla singola
fattispecie contrattuale.
[67] Come si vedrà oltre, anche la
buona fede oggettiva, oltre quella soggettiva, non presenta una relazione
giuridicamente rilevante con l'etica.
[68] Montel, voce Buona
fede, cit., 601, che, criticando la contrapposizione tra la concezione
etica e la concezione morale della buona fede, afferma: «agisce in buona fede,
secondo i comuni apprezzamenti, chi dice il vero, chi tiene la parola data, chi
esegue le prestazioni pattuite, chi non trae altri in inganno…, in genere chi
non lede scientemente e volontariamente il diritto altrui», se da tale concetto
generico di buona fede si vuole giungere al «contenuto specifico… non [si] può
prescindere dall’oggetto al quale nelle varie ipotesi si riferisce», con la
conseguenza che «poiché il galantuomo non lede coscientemente il diritto
altrui, è chiaro che…, per quanto concerne l’acquisto del possesso, la buona
fede deve di necessità implicare che il soggetto ignori di porre in essere con
la adprehensio una lesione», dal che la conclusione per cui «la buona
fede implica necessariamente uno stato psicologico del soggetto»; per una
espressa critica a questa impostazione Giampiccolo,
La buona fede in senso soggettivo nel
sistema del diritto privato,
cit., 337 s.
L' «intersecazione» della buona fede
oggettiva con la buona fede soggettiva, ossia del loro ambito operativo, non appare una particolarità dell'esperienza
giuridica italiana, v. ad esempio l'opera di De
Los Mozos, El principio de la buena fe, Barcelona, 1965, passim,
spec. 125, 186 ss.
[69] Il Montel, op.
cit., 603, si richiama, infatti, alla citata quadripartizione del
Betti (supra, nota 3) il quale vede la buona fede soggettiva
collegata all’obbligo dell’agente di comportarsi secondo correttezza, benché
quest’ultimo A. distingua gli obblighi discendenti dalla correttezza con quelli
discendenti dalla buona fede (Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, Prolegomeni: funzione
economico-sociale dei rapporti d’obbligazione, cit., 68, 71).
[70] A livello giurisprudenziale,
in realtà, tale distinzione è data per scontata tanto che non si ravvisano,
almeno negli ultimi decenni, sentenze in cui tale distinzione sia emersa, con
finalità sillogistiche, nella motivazione.
[71] V. gli autori riportati nella
nota 3.
[72] Giampiccolo, La buona
fede in senso soggettivo nel sistema del diritto privato, cit., 337 s.
Sempre in considerazione, comunque, del fatto che la buona fede (o la
mala fede) concorre a perfezionare una più ampia fattispecie la quale è essa
stessa fatto costitutivo.
[74] Difatti si tende ad
identificare la buona fede oggettiva con la correttezza: Sacco, La buona fede nella teoria
dei fatti giuridici di diritto privato, cit., 14, nota 15; Mengoni, Obbligazioni "di risultato" e obbligazioni "di
mezzi", in Riv. dir. comm.,
1954, I, 368, 393, 396; Moscati, Osservazioni in tema di buona fede oggettiva
nel diritto privato italiano, in Gli
allievi romani in memoria di Francesco Calasso, Roma, 1967, 255; Montel, voce Buona fede, cit., 603; Natoli,
Note preliminari ad una teoria dell'abuso
del diritto nell'ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
1958, 28 s.; Id., L'attuazione del rapporto obbligatorio, cit., 6 ss.; Salv. Romano, voce Buona fede, cit., 877; Stolfi,
Il principio di buona fede, cit., 169 ss.; Di
Majo, L'esecuzione del contratto,
cit., 371 s.; Id., Delle obbligazioni in generale cit., 284
ss.; Rodotà, Le fonti di integrazione del
contratto, cit., 137 ss.; Breccia,
Diligenza e buona fede nell'attuazione del rapporto obbligatorio, cit., 42
s.; Dell'Aquila, La correttezza nel diritto privato,
Milano, 1980, 2, nota 4 e 11, nota 26; Bianca,
Diritto civile, III, il contratto, Milano, 2000, 500; Criscuoli, Buona fede e ragionevolezza, in Riv.
dir. civ., 1984, I, 709 ss.; Id.,
Il contratto, Padova, 1992, 477.
[75] V. per tutti Giampiccolo, La buona fede in senso soggettivo nel sistema del diritto privato, cit., 337.
[76] Uno dei problemi di fondo sta
nel verificare quali effetti vengono prodotti dalla buona fede oggettiva e, pur
con le dovute differenze di natura operativa, dalla correttezza. In particolar
modo viene da chiedersi se esse siano produttive di effetti obbligatori in
senso stretto, cioè produttiva di obbligazioni o, diversamente, di obblighi giuridici.