N. 3 – Maggio 2004 – Lavori in corso – Contributi

 

 

Il principio di sussidiarietà e il sistema delle fonti*

 

Pietro Pinna

Università di Sassari

 

 

1. Il principio di sussidiarietà è espressamente menzionato dalla Costituzione in riferimento alle funzioni amministrative (art. 118) e all’esercizio del potere sostitutivo statale (art. 120). Ha però una portata molto più ampia di quanto appaia dalla lettera di tali disposizioni costituzionali: riguarda, infatti, non solo la funzione amministrativa, ma anche quella ‘normativa’, di carattere amministrativo e legislativo. Quindi incide anche sul sistema delle fonti, più precisamente, sulla ripartizione della potestà normativa tra le molteplici istituzioni che costituiscono la Repubblica ai sensi dell’art. 114 della Costituzione.

 

2. L’art. 118, comma 2, della Costituzione dopo aver previsto che le funzioni amministrative per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, dispone che il conferimento avvenga con legge statale o regionale, «secondo le rispettive competenze». Quindi spetta alla legge statale o regionale ‘spostare’ verso l’alto, al livello provinciale, regionale o statale, le funzioni amministrative che lo stesso art. 118 attribuisce ai comuni. Il riferimento alle «rispettive competenze» potrebbe essere inteso nel senso che la legge statale può disporre per le funzioni riservate allo Stato e quella regionale per le funzioni residue. Ma in questo modo soltanto le funzioni comunali e provinciali appartenenti alle materie descritte dal secondo comma dell’art. 117 potrebbero essere conferite allo Stato in via sussidiaria, mentre quelle regionali non potrebbero mai essere allocate a livello statale. Insomma il principio di sussidiarietà paradossalmente non sarebbe valido per le funzioni amministrative che rientrano nella competenza residuale della regione, nei confronti delle quali quindi mai potrebbero valere le esigenze di esercizio unitario su tutto il territorio nazionale. La disposizione dell’art. 118 fondamentalmente individua le competenze legislative riguardo alle funzioni amministrative che spettano sussidiariamente allo Stato e alla regione in base non all’oggetto, ma al soggetto destinatario del conferimento: cioè, la legge statale è competente a conferire funzioni amministrative allo Stato e quella regionale alla regione[1]. Sicché la legge statale può prevedere che funzioni amministrative regionali, oltre che comunali e provinciali, siano esercitate unitariamente dallo Stato. La competenza della legge statale (come di quella regionale, che conferisca alla provincia o alla regione funzioni comunali) dipende dal principio di sussidiarietà. Sicché essa sussiste nella stessa misura in cui ci sono le ragioni che giustificano l’esercizio unitario della funzione: la legge statale è competente a stabilire l’esercizio unitario su tutto il territorio nazionale e quella regionale su tutto il territorio regionale. In questo modo, il principio di sussidiarietà determina la ripartizione delle attribuzioni legislative tra lo Stato e la regione e non soltanto di quelle amministrative.

a) La portata del principio di sussidiarietà è ancora più ampia: incide sulla ripartizione della funzione legislativa stabilendo quale sia la legge abilitata non solo a conferire in via sussidiaria le funzioni amministrative, ma anche a disciplinare la stessa funzione conferita. In altri termini, il conferimento di cui parla l’art. 118 della Costituzione sposta la funzione verso il soggetto adeguato ad assicurarne l’esercizio e la disciplina unitari, cioè concentra la funzione e la sua disciplina legislativa (o regolamentare, come si vedrà in seguito). Infatti, se veramente sussistono le esigenze che lo giustificano, è difficile comprendere come l’esercizio unitario della funzione possa conciliarsi con la varietà della disciplina. Come può essere esercitata unitariamente la funzione se la sua disciplina è differenziata? La necessità dell’esercizio unitario implica o presuppone quindi l’unitarietà della disciplina. L’accentramento corrisponde all’esigenza di uniformità dell’intervento, dettato da ragioni di efficienza, di giustizia o di altro, che presuppone o implica un analogo accentramento della sua disciplina. Sarebbe dunque palesemente contraddittoria la legge statale che imponesse l’esercizio unitario da parte dello Stato di funzioni che fossero assoggettate ad un trattamento diverso da regione a regione. Lo sarebbe anche la legge regionale che accentrasse in capo alla regione funzioni che essa stessa non disciplina in modo adeguatamente unitario, cioè riducendo gli spazi della potestà regolamentare dei comuni e delle province.

b) L’interpretazione che qui si prospetta, secondo cui lo ‘spostamento’ della funzione amministrativa trascina con sé quella legislativa (o regolamentare), poggia su un altro elemento che si ricava chiaramente dagli artt. 114, 117 e 118 della Costituzione: e cioè su quello che all’istituzione politica spettano i poteri ‘normativi’ adeguati all’esercizio autonomo delle funzioni ad essa attribuiti. Insomma, il potere di disciplinare le funzioni esercitate è intrinseco all’autonomia politica. Questo è particolarmente evidente nel caso degli enti che non hanno potestà legislativa. Ma lo stesso ragionamento può essere applicato allo Stato e alle regioni. I comuni, le province e le città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, in virtù dell’art. 117, comma 6. Peraltro non c’è motivo alcuno per escludere una analoga potestà regolamentare della provincia e della città metropolitana rispetto alle funzioni ad esse conferite, oltre a quelle attribuite. Tale potere normativo è intrinseco alla posizione costituzionale autonoma. Questa contiene in sé il potere statutario (costitutivo) e di disciplina delle funzioni esercitate, attribuite o conferite che siano (artt. 114 e 117), poiché l’esercizio della funzione secondo regole altrui, dettate totalmente da un altro soggetto, sarebbe la manifestazione di una condizione di dipendenza. Se il soggetto che esercita la funzione amministrativa può dettare legge (come lo Stato e le regioni), allora la disciplina può essere stabilita anche con legge. La fonte competente a stabilire la disciplina potrebbe variare, infatti, secondo le previsioni della Costituzione e dello Statuto regionale. Il potere di dettare la disciplina è attribuita non alla legge o al regolamento, ma allo Stato o alle regioni, che possono stabilire autonomamente la competenza dell’una o dell’altro. In definitiva, il potere può essere più o meno ampio, esercitato in forma legislativa o amministrativa, ma tutto ciò non modifica l’essenziale condizione di autonomia organizzativa e funzionale che è propria delle istituzioni costituzionali, costitutive della Repubblica. Pertanto, al conferimento della funzione deve corrispondere il potere di regolarne l’esercizio[2], con legge o con regolamento. In definitiva, nel sistema di ripartizione tra il ‘centro’ e la ‘periferia’ delineato dal nuovo Titolo V della Costituzione il principio di sussidiarietà genera una sorta di parallelismo rovesciato.

Un discorso a parte merita il conferimento di funzioni alla provincia. Questo non incide evidentemente sulla ripartizione delle attribuzioni tra lo Stato e le regioni. Sicché la legge regionale può conferire alla provincia sia le funzioni che non siano riservate allo Stato, sia quelle che riguardano le materie di potestà concorrente, secondo la regola della residualità.

 

3. Il collegamento tra la potestà regolamentare locale e il principio di sussidiarietà è chiaramente stabilito dal combinato disposto del sesto comma dell’art. 117 (I comuni, le province e le città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite) e del primo comma dell’art. 118 (Le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza). Come si vede, le funzioni comunali e provinciali sono attribuite o conferite in base al principio di sussidiarietà; la potestà regolamentare riguarda queste stesse funzioni e quindi spetta secondo il principio di sussidiarietà. Fanno eccezione le funzioni fondamentali dei comuni e delle province che sono stabilite dallo stato in modo uniforme su tutto il territorio nazionale.

La potestà statutaria del comune, della provincia e della città metropolitana apparentemente non è connessa con la sussidiarietà. Ma la sua ampiezza, conforme al ruolo attribuito dall’art. 114 della Costituzione alle istituzioni politiche locali, può essere definita soltanto ricorrendo al principio di sussidiarietà.

Gli statuti dei comuni, delle province e delle città metropolitane sono assimilati a quelli regionali dall’art. 114, comma 2, della Costituzione (i comuni, le province, le città metropolitane e le regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione). La potestà statutaria è dunque parte integrante della posizione costituzionale delle istituzioni costitutive della Repubblica (secondo la previsione del primo comma dello stesso art. 114) che assumono la forma dell’ente autonomo. Essa è la manifestazione dell’autonomia organizzativa che è propria delle istituzioni politiche; insieme alle funzioni e ai poteri propri, costituisce la dotazione strumentale essenziale di queste istituzioni di governo[3]. Tuttavia, è riservata allo Stato la disciplina elettorale, degli organi di governo e delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane (art. 117, comma 2, lett. p). Sicché, mentre la forma di governo regionale è determinata dallo statuto regionale, quella comunale e provinciale è stabilita dalla legge statale. Peraltro a questa compete soltanto la legislazione elettorale e degli organi di governo. Il resto della disciplina legislativa dell’ordinamento comunale e provinciale spetta alla regione, in base al criterio di ripartizione prescritto dall’art. 117 Cost., che dispone la potestà della legge regionale nelle materie non attribuite alla legislazione statale. Sennonché tale potere della legge regionale va conciliato con la competenza statutaria attribuita dalla Costituzione ai comuni, alle province e alle città metropolitane (d’ora in poi solo comuni e province).

Poiché la potestà statutaria dei comuni e delle province ora è fondata sulla Costituzione e non sulla legge, essa può essere esercitata anche in assenza, indipendentemente dalla legge. E’ un potere delimitato dalla legge, nel senso che la previsione legislativa prevale su quella statutaria, quando vi sia. Altrimenti lo statuto si rapporta direttamente con la Costituzione. Insomma, l’esercizio del potere statutario non ha bisogno dell’intermediazione legislativa. Sicché lo statuto può essere fonte primaria. Anzi, in qualche misura deve esserlo, per assicurare l’autonomia organizzativa (e funzionale) che spetta alle istituzioni politiche costitutive della Repubblica. Il potere statutario comunale e provinciale si svolge in un ambito residuale: si esercita, cioè, sugli oggetti non coperti dalla legge. Peraltro se questo spazio fosse interamente nella piena disponibilità del legislatore regionale e statale, sarebbe nella sostanza vanificata l’attribuzione costituzionale del potere statutario. E’ evidente, dunque, che va definito l’ambito della potestà statutaria comunale e provinciale da proteggere nei confronti del legislatore. Questo risultato si può ottenere attribuendo in linea di principio allo statuto comunale e provinciale la materia non riservata dalla Costituzione alla legge statale. Sicché, ciò che residua dalla legislazione elettorale e da quella sugli organi di governo compete preferibilmente allo statuto. La legge regionale non è esclusa dalla disciplina dell’ordinamento comunale e provinciale. Può intervenire se esibisce buone ragioni, cioè se fa valere esigenze unitarie nei confronti dei comuni e delle province della regione. Sicché lo statuto ha un oggetto residuale riservato in via di principio. In questo modo, il confine tra la legge e lo statuto non è fisso, ma mobile, adeguato quindi alle molteplici e mutevoli esigenze ordinamentali delle diverse regioni. Questo e quella sono pertanto fungibili in larga misura. Tale interpretazione della disciplina costituzionale relativa all’ordinamento comunale e provinciale, da una parte, assegna un ruolo rilevante allo statuto del comune e della provincia, dall’altra parte, rende permeabile la disciplina dello statuto alla legislazione regionale ragionevole. Dunque si inserisce bene in un contesto di molteplicità e differenziazione istituzionale, nel quale le istituzioni politiche sono qualitativamente eguali, nonostante operino in spazi politici e costituzionali di diversa ampiezza. Infatti, l’ordinamento comunale e provinciale può essere diverso da regione a regione secondo le specifiche esigenze di disciplina unitaria fatte valere ragionevolmente dalla legislazione regionale in proposito. Può essere differente anche all’interno della stessa regione, secondo le diverse discipline dello statuto comunale e provinciale.

Nella Costituzione non c’è una ripartizione delle competenze tra lo statuto e il regolamento, né una forma e un valore peculiari dello statuto. Al riguardo, dalla disciplina costituzionale si può ricavare solamente che il regolamento riguarda l’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni, mentre lo statuto attiene più specificamente all’organizzazione (alla forma di governo, insomma) dell’ente[4]. Considerati dal punto di vista del rapporto con la legge (statale e regionale), il regolamento e lo statuto sono uguali. Lo statuto è una specie di regolamento, che si distingue solamente perché attiene alla costituzione dell’ente, alla sua struttura, piuttosto che all’attività. Dalla Costituzione si ricava quindi una eguale posizione dello statuto e del regolamento nei confronti della legge: entrambi cioè si rapportano con la legge secondo il principio di sussidiarietà. Pertanto, in linea di principio è preferita la competenza dello statuto, con la conseguenza che la legge può intervenire sulla struttura dell’ente, come del resto sulla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni comunali e provinciali (attribuite o conferite che siano) soltanto in via sussidiaria e, dunque, se sussistono esigenze unitarie e nella misura strettamente necessaria a soddisfarle[5].

 

4. Va stabilito se la legge (statale) possa conferire allo Stato l’esercizio unitario di funzioni ulteriori rispetto a quelle ad esso stesso riservate espressamente dall’art. 117 della Costituzione. Se la risposta fosse positiva, cioè se il conferimento allo Stato dell’esercizio e della disciplina unitari potesse avere ad oggetto funzioni implicitamente statali, allora l’art. 118 costituirebbe «autonomo fondamento di poteri legislativi per così dire “impliciti”»[6]. Le conclusioni sin qui esposte e riassunte nello schema precedente sono valide in entrambe le ipotesi di poteri legislativi espliciti o impliciti. Peraltro in pratica cambierebbe poco o nulla[7]. Allo Stato sono riconosciute, infatti, funzioni trasversali così ampie che dovrebbero essere sufficienti a soddisfare le esigenze unitarie[8]. Tuttavia, in teoria, l’idea che lo stato possieda un potere sussidiario implicito, che si estende per ogni dove lo stesso stato ritenga vi siano esigenze unitarie da tutelare, presuppone una posizione di supremazia statale, incompatibile, in particolare, con la previsione dell’art. 114 della Costituzione. Presuppone, infatti, che lo stato sia in quanto tale, in quanto unità o totalità, il rappresentante dell’interesse nazionale e possieda, perlomeno potenzialmente, tutte le funzioni e ricopra tutti i ruoli. Secondo questa impostazione centralistica o verticistica, lo stato in potenza contiene le regioni, le province, i comuni, ecc. Questi sono cioè sue articolazioni, sono lo stato decentrato, nell’essenza sono una replica dello stato. Le funzioni e i poteri statali sono perciò sovrapponibili completamente a quelli regionali e locali. In questo modello dello stato sovrano, vale il principio dell’uniformità piuttosto che quello della differenziazione dei ruoli e delle funzioni, poiché potenzialmente lo stato può coprire qualsiasi ruolo ed esercitare ogni funzione. Sicché, a fronte della devoluzione alla periferia statale, opera una implicita riserva a favore dello stato. A questo stato ‘totale’, unico rappresentante dell’interesse nazionale, si contrappone il sistema in cui le regioni, le province e i comuni sono non lo stato in periferia, ma istituzioni costitutive della Repubblica, che si rapportano con lo stato paritariamente. Qui le funzioni e i poteri sono differenziati. Anche questo sistema conosce le esigenze unitarie, quindi funzioni e discipline accentrate e uniformi su tutto il territorio nazionale. Ma qui l’uniformità e la concentrazione sono compatibili con la differenziazione e la diffusione del potere perché nessuna istituzione, può pretendere per sé tutte funzioni, ma soltanto quelle che servono per soddisfare le esigenze unitarie. Ciascuna di esse svolge il ruolo e le funzioni che le sono assegnati dalla Costituzione, senza riserve implicite. Gli ambiti nei quali lo Stato esercita funzioni su tutto il territorio nazionale sono quelli espressamente attribuiti. L’uniformità vale nei settori riservati allo Stato, identificati con materie ‘trasversali’ che consentano allo Stato l’intervento sussidiario negli ambiti che preferibilmente sono affidati alla cura dei comuni delle province e delle regioni. In questo modo l’uniformità e la differenziazione sono contemporaneamente presenti, secondo le previsioni della Costituzione, senza che l’uno prevalga sull’altro. Pertanto, il conferimento della funzione amministrativa (e del relativo potere ‘normativo’) allo Stato, secondo il principio sussidiairietà, può essere disposto nelle ‘materie’ espressamente riservate allo Stato dall’art. 117 della Costituzione. Ad esempio, la legge statale può conferire allo Stato funzioni relative all’artigianato per tutelare non l’interesse nazionale, ma l’ambiente, i beni culturali, la concorrenza, ecc.

In definitiva, il principio di sussidiarietà, per quanto riguarda la ripartizione delle funzioni tra lo Stato e le regioni, di per sé solo non è sufficiente a fondare la competenza statale, perché gli interventi statali devono riguardare gli specifici compiti attribuiti dalla Costituzione. In questo senso, è criterio di esercizio della competenza legislativa o regolamentare[9]. Esso opera nelle ipotesi in cui lo Stato interferisce sulle attribuzioni della regione allocando a livello statale funzioni comunali, provinciali o regionali.

Le materie riservate allo Stato comprendono funzioni alternative o complementari rispetto a quelle regionali. Questa distinzione, propria di un sistema integrato, è utile, fra l’altro, per capire i termini e la portata dell’interferenza statale sulle funzioni della regione. Le funzioni alternative escludono l’intervento regionale. La materia è la stessa, ma l’oggetto della riserva è tale da consentire soltanto interventi statali (e non anche regionali), come ad es. l’ordinamento penale, civile e processuale. Nonostante queste siano materie ‘trasversali’, che evidentemente interferiscono con tutte, o quasi, le attività regionali, tuttavia è escluso qualsiasi intervento regionale in proposito. E’ diverso il caso delle funzioni il cui oggetto coincide con quello spettante alla regione, cosicché su di esso insistono tanto lo Stato quanto la regione. Ad es. l’ambiente, la cui tutela è prevista come materia riservata alla Stato, è tuttavia un valore anche per la regione (come del resto di tutte le istituzioni della Repubblica). Quindi anche l‘azione della regione deve essere rivolta alla sua preservazione. Però lo Stato è chiamato a svolgere un ruolo diverso da quello della regione, cioè quello di assicurare la tutela minima uniforme su tutto il territorio nazionale. A questa tutela statale si può aggiungere quella ulteriore della regione[10]. Lo schema tipico di questa differenziazione funzionale è costituito dalla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, riservata allo Stato dall’art. 117, comma 2, lett. m). Lo studio delle materie e delle funzioni attribuite allo Stato dalla Costituzione potrà rivelare altre funzioni complementari o alternative.

Chi aderisca all’idea che i poteri sussidiari statali sussistono soltanto nei settori riservati espressamente allo Stato, deve distinguere i conferimenti relativi alla potestà riservata da quelli inerenti a quella concorrente. Infatti, nelle materie di legislazione concorrente il potere normativo sussidiario consiste nella sola determinazione dei principi fondamentali. Questa distinzione è irrilevante per chi invece ritiene che esista un potere implicito di intervento sussidiario, perché da tale punto di vista le esigenze unitarie giustificano sempre la disciplina di dettaglio. Ma anche tale questione è praticamente di poco momento. Infatti, anche i confini tra la potestà concorrente e quella riservata allo Stato sono meno netti di quanto si creda comunemente. Oltre che in alcune ipotesi specifiche (politica estera, governo del territorio, tutela dei beni culturali) lo Stato può interferire sulla potestà concorrente della regione ricorrendo alle clausole generali della tutela dei diritti, dell’ambiente, della sicurezza e dell’ordine pubblico. Per l’esercizio unitario di queste funzioni lo Stato può dettare principi e dettagli. Comunque, teoricamente va contemplato il caso che il conferimento attenga a funzioni rientranti (solamente) nella potestà concorrente, cosicché lo Stato può dettare esclusivamente i principi fondamentali[11].

Secondo l’impostazione che qui si segue, la competenza legislativa regionale in genere non è separata da quella statale, né è subordinata alla legge statale. Entrambe sono relativamente fungibili, non si escludono a vicenda sempre e comunque, ma secondo le circostanze prevale, si applica a preferenza, l’una o l’altra: la legge statale è competente in via sussidiaria o ‘suppletiva’ se bisogna assicurare la disciplina unitaria su tutto il territorio nazionale nelle ipotesi particolari espressamente previste dalla Costituzione (o, in generale, quando vi siano esigenze unitarie da soddisfare, secondo un punto di vista che qui non si condivide), oppure se e fintanto che manchi la legislazione regionale.

La legge statale e quella regionale si applicano contemporaneamente nelle ipotesi di legislazione concorrente. Sono dunque non alternative, ma complementari. I principi della legislazione statale prevalgono sulle norme di dettaglio della legge regionale e queste su quelle di dettaglio della legge statale. La prevalenza neppure in questi casi è assoluta. E’ vero che il terzo comma dell’art. 117 prevede che la determinazione dei principi fondamentali è «riservata» alla legislazione dello Stato. Ma questa, a rigore, non è una riserva vera e propria; è piuttosto un limite della potestà regionale, cosicché il potere della legge statale di stabilire i principi va configurato come preferenza (piuttosto che come riserva) di competenza[12]. Infatti, i dettagli della legislazione regionale prevalgono se ci sono, altrimenti si applicano quelli posti dallo Stato; i principi limitano se siano stati stabiliti; se mancano, la legislazione regionale non è preclusa, ma dovrà rispettare quelli ricavabili dalla legislazione statale relativa alla materia disciplinata[13]. Inoltre, la legge regionale (più precisamente la legge statutaria) può dettare principi ulteriori non contrastanti con quelli posti o ricavabili dalla legislazione statale, dato che la potestà concorrente della fonte statale si configura come preferenza (e non come riserva) di competenza. Quindi i principi possono essere posti anche da altre fonti e le disposizioni di queste regrediscono se confliggono con i principi stabiliti dalla fonte competente. Infine, i nuovi principi che dovessero sopraggiungere abrogherebbero le norme regionali con essi incompatibili, secondo la costante giurisprudenza costituzionale; e l’abrogazione presuppone l’interferenza tra norme poste da fonti diverse, che è esclusa invece dalla riserva di competenza, la quale pone le fonti su piani paralleli.

Da questo punto di vista, c’è poca differenza tra la potestà concorrente e quella esclusiva statale relativa a materie ‘trasversali’, specie quelle che comprendono funzioni complementari (come le lettere m) ed s) dell’art. 117): in entrambi i casi la materia può esser disciplinata sia dalla legge regionale, sia da quella statale; se queste sono incompatibili, prevale quella competente. L’unica differenza consiste nel fatto che lo Stato nell’ambito della potestà esclusiva può prevedere anche norme di dettaglio, mentre in quella concorrente non può andare oltre i principi fondamentali, salvo le ipotesi di intervento sussidiario, ‘suppletivo’, o sostitutivo[14]. Questa configurazione della legislazione statale come limite[15] della competenza ‘preferita’ della legge regionale spiega anche perché la nuova ripartizione delle attribuzioni legislative disposta dalla riforma del Titolo V non determini l’abrogazione della legislazione vigente con essa incompatibile. Infatti, soltanto l’effettivo esercizio della competenza può provocare gli effetti abrogativi che portano a sostituire la disciplina regionale a quella statale.

La regione potrebbe esercitare le proprie funzioni nelle materie non riservate allo Stato con legge o con regolamento. Infatti, come si è visto, la legge statutaria, che è posta al vertice delle fonti regionali, potrebbe ripartire la disciplina spettante alla regione tra le diverse fonti della regione: leggi (ordinarie), regolamenti e forse atti con forza di legge[16]. Non si può sostenere che l’art. 117 della costituzione ha implicitamente sottoposto a riserva di legge (regionale) la disciplina delle materie non riservate allo Stato, cioè tutto o quasi; la conseguenza è così assurda che induce a negare validità alla premessa. Né varrebbe ormai neppure opporre la tesi, sostenuta da Crisafulli e largamente accettata, secondo cui le fonti primarie costituiscono un numero chiuso, sono cioè soltanto quelle previste dalla Costituzione. Sicché la legge regionale non potrebbe essere sostituita da altre fonti del medesimo grado nella sostanza. Questa tesi si fonda sull’idea che nessuna fonte può disporre di se stessa o di una fonte sovraordinata[17]. Ma la legge statutaria è fonte sovraordinata alla legge regionale (ordinaria) e quindi può disporre di quest’ultima. Sicché la tesi del numero chiuso delle fonti primarie andrebbe perlomeno aggiornata, tenendo conto della nuova fonte paracostituzionale della regione. Neppure l’art. 127 della costituzione costituisce un ostacolo ad un sistema di fonti regionali fondato sulla legge statutaria. E’ vero, infatti, che vi si parla dell’impugnazione di leggi regionali e non anche di atti con forza di legge. Ma è anche vero che l’art. 134 si riferisce espressamente ad atti con forza di legge dello Stato e delle regioni. Pertanto, non vi sarebbe nessuna difficoltà ad impugnare in via principale (e in via incidentale) leggi e atti con forza di legge della regione[18].

Peraltro, la posizione di primarietà che dovesse essere attribuita al regolamento (o più verosimilmente soltanto a qualche specie di regolamento) regionale non lo qualificherebbe come atto avente forza di legge ai sensi dell’art. 134 della Costituzione, cioè come atto assoggettato al controllo di costituzionalità della Corte costituzionale. Senza rimettere mano al problema della forza (e del valore) di legge, che porterebbe a considerare il ruolo della legge (e del parlamento), quindi molto lontano. Qui è sufficiente discutere l’idea molto diffusa secondo cui la limitazione agli atti con forza di legge del giudizio di legittimità costituzionale presuppone la subordinazione gerarchica del regolamento alla legge, cosicché assicurando la conformità di questa alla Costituzione si otterrebbe di conseguenza la compatibilità di quello con la costituzione[19]. Questo ragionamento è inadeguato in un contesto nel quale sempre più il regolamento si distacca dalla legge, perché è previsto da fonti sovraordinate alla legge, dalla Costituzione o dalla legge regionale statutaria, e proviene da organi che traggono la propria legittimazione direttamente dal corpo elettorale. La limitazione della competenza della Corte costituzionale agli atti con forza di legge è tuttavia ancora valida. Ma ha un diverso fondamento da quello cui si pensa comunemente. La competenza della Corte costituzionale è ristretta alla legge e agli atti equiparati perché il giudice è assoggettato a questi atti, ai sensi dell’art. 101, comma 2, della Costituzione[20]. Quindi non può disapplicarli neppure quando essi siano in contrasto con la Costituzione. Può invece prescindere dalle norme incostituzionali prodotte da altre fonti. Sicché, secondo questo punto di vista, non sussiste la competenza della Corte costituzionale in tutte quelle ipotesi nelle quali il giudice può rimuovere la norma incostituzionale. Tra queste vi è il regolamento. Infatti, il suo regime giuridico è quello dell’atto amministrativo, quindi i giudici amministrativi o ordinari, secondo la rispettiva giurisdizione, possono annullare o disapplicare i regolamenti illegittimi e tali sono quelli in contrasto tanto con la legge (ordinaria e statutaria) quanto con la costituzione. Nei confronti dei regolamenti è quindi possibile il sindacato di costituzionalità diffuso[21].

E’ un po’ diverso il discorso rispetto alla potestà regolamentare nelle materie di competenza esclusiva statale che può essere delegata alla regione, in base alla previsione dell’art. 117, comma 6. E’ difficile stabilire se la potestà regolamentare delegata abbia ad oggetto funzioni esercitate dallo Stato oppure dalla stessa regione; in altri termini, è difficile stabilire se la delegazione riguardi le funzioni amministrative e la loro disciplina regolamentare, oppure la potestà regolamentare soltanto, che si eserciterebbe quindi su funzioni spettanti ed esercitate dallo stato. Secondo il principio del ‘parallelismo invertito’, di cui si è detto in precedenza, bisognerebbe propendere per la prima ipotesi. Comunque, la regione non può scegliere la fonte da utilizzare per dettare la disciplina di propria competenza e il regolamento regionale delegato è subordinato alla legge statale.

 

5. La sussidiarietà è non una regola ma, appunto, un principio della ripartizione delle competenze[22]. Secondo Alexy la norma-principio è un «precetto di ottimizzazione», che impone non una regola da rispettare o da violare, ma la sua realizzazione «in misura possibilmente elevata in relazione con le possibilità di fatto e di diritto»[23]. Il principio di sussidiarietà quindi fonda competenze ‘flessibili’ che possono essere derogate ragionevolmente, per soddisfare esigenze unitarie. Le leggi che conferiscono funzioni amministrative e quelle che impongono una disciplina unitaria delle stesse funzioni sono sindacabili dalla Corte costituzionale sotto il profilo della ragionevolezza. Questo controllo deve verificare la sussistenza delle esigenze di esercizio e di disciplina unitari, l’adeguatezza e l’idoneità dell’intervento sussidiario. Questo «è’ adeguato se è un mezzo “idoneo” e “necessario” al conseguimento dell’obiettivo unitario che il livello superiore si prefigge. Non basta che sia logicamente pertinente rispetto allo scopo –cioè “idoneo”; occorre che sia pure non eccedente a quanto risulta strettamente necessario al raggiungimento dello scopo –cioè “necessario”, “non sproporzionato”». Insomma, «l’intervento sussidiario [va] contenuto nella misura strettamente indispensabile alla realizzazione dell’obiettivo unitario»[24].

 

6. La sussidiarietà è un principio che incide profondamente sui differenti ruoli delle molteplici istituzioni politiche costituite senza un centro o un vertice, secondo la forma reticolare. A questa situazione istituzionale in cui lo Stato non è l’unico centro della politica corrisponde un sistema delle fonti complesso, non più soltanto statale, ma anche regionale e locale; non più uniforme, ma differenziato perché ordinato da regole sulla produzione poste dalle diverse istituzioni politiche. Insomma, il sistema delle fonti della Repubblica si compone di molteplici sottosistemi[25] o microsistemi[26] delle fonti. Ciascun sottosistema non è la mera riproduzione in periferia del sistema statale, ma è autonomo, quindi differente da tutti gli altri. La Costituzione ripartisce dunque le competenze non tra le leggi, ma tra i diversi microsistemi delle fonti che sono propri delle istituzioni costitutive della Repubblica. Sicché le regioni possono disciplinare le funzioni ad esse attribuite con la legge (statutaria e ordinaria) o col regolamento, secondo la disciplina dei propri statuti e in conformità con le riserve di legge e di statuto. I comuni e le province dispongono soltanto del regolamento e dello statuto (che in definitiva è una specie di regolamento) per disciplinare le loro funzioni, secondo le regole sulla produzione poste non solo dal proprio statuto, ma anche dalla legge statale e regionale nel rispetto del principio di sussidiarietà. In definitiva, la Costituzione ripartisce le funzioni e individua le fonti con cui lo Stato, le regioni, i comuni e le province disciplinano, ma non stabilisce le competenze di ciascuna fonte.

I criteri ordinatori delle fonti della Repubblica non sono completamente uguali a quelli che valgono all’interno di ciascun microsistema delle fonti. Bisogna distinguere quindi i criteri ordinatori intersistemici da quelli infrasistemici, cioè i rapporti tra le fonti dei diversi sistemi da quelli tra le fonti del medesimo sistema. Le relazioni tra le fonti intersistemiche sono disciplinate dalla Costituzione come parte dei rapporti fra le istituzioni costitutive della Repubblica. Non sono improntate ad un criterio gerarchico, sicché la disciplina dettata dalla fonte statale non è sovraordinata a quella regionale e locale e le previsioni della fonte regionale non sono superiori alle norme regolamentari comunali e provinciali. Allo stesso tempo, se si esclude il caso delle funzioni riservate allo Stato, rispetto alle quali vale il criterio della riserva di competenza, i sottosistemi regionale e locale sono non separati, ma sovrapposti. Questo fenomeno è evidente per quanto concerne lo Stato e la regione da una parte e il comune e la provincia dall’altra. E’ meno manifesto, ma altrettanto presente nelle relazioni tra il sistema statale e quello regionale. Infatti, molte delle materie riservate allo Stato contengono funzioni trasversali, cosicché i vari sistemi delle fonti hanno lo stesso oggetto, ma diverse funzioni, sono specializzati funzionalmente. I casi paradigmatici di questa trasversalità materiale sono la tutela dell’ambiente e la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. In queste ipotesi alla fonte statale spetta stabilire quel minimo di disciplina uniforme che è necessario per assicurare l’eguale trattamento dei cittadini della Repubblica. Ciò tuttavia non impedisce ulteriori interventi della regione. La fonte regionale in quest’ambito non è quindi esclusa: non solo può stare al posto della disciplina statale se questa non c’è, ma la può anche integrare senza contraddirla, prevedendo una maggiore tutela o maggiori prestazioni, cioè disporre qualcosa di più dello standard minimo valido su tutto il territorio nazionale. In caso di contrasto, prevale la fonte statale, come se fosse sovraordinata. Ma la prevalenza è data non da una qualità superiore della fonte statale rispetto a quella regionale, non dalla sua maggiore potenza perché statale, perché proveniente dal soggetto sovrano che rappresenta l’interesse superiore (nazionale); è determinata piuttosto dalle ragioni che esibisce, che attengono alla sua funzione e alla sua struttura, ha cioè fondamento funzional-strutturale. Infatti, la fonte statale si applica a preferenza di quella regionale perché, in primo luogo, soddisfa una esigenza unitaria con un mezzo necessario e proporzionato, quindi è conforme al principio di sussidiarietà; in secondo luogo, è deliberata, con un procedimento coinvolgente le molteplici istituzioni costitutive della Repubblica, da un organo rappresentativo di queste stesse istituzioni. Essa è perciò capace di esprimere l’integrazione tra i molteplici sistemi delle fonti[27]. In questo modo, la disciplina unitaria, valida in tutto il territorio nazionale, è stabilita non dal centro ma al centro, cioè non dallo Stato, ma dallo Stato col concorso delle regioni, dei comuni e delle province. Peraltro l’attuale testo della Costituzione, pure dopo la riforma del Titolo V, prevede istituzioni e procedimenti collaborativi inadeguati. Infatti, dispone non la seconda camera rappresentativa delle regioni e delle autonomie locali, ma soltanto che i regolamenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono prevedere la partecipazione di rappresentanti delle regioni, delle province autonome e degli enti locali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali e che l’Assemblea delibera a maggioranza assoluta dei suoi componenti quando un progetto di legge riguardante le materie di potestà concorrente, la finanza regionale e locale contenga disposizioni sulle quali la Commissione parlamentare per le questioni regionali integrata abbia espresso parere contrario o parere favorevole condizionato all’introduzione di modificazioni specificamente formulate.

Tuttavia, l’integrazione realizzata in forma collaborativa tra istituzioni pariordinate costituisce una tendenza irreversibile del costituzionalismo attuale[28]. In conseguenza, le strutture e procedimenti cooperativi, come la Conferenza Stato-regioni e quella Unificata Stato, regioni e autonomie locali, si affermano al di là del testo della Costituzione. Le Conferenze, ancorché istituite con legge ordinaria, stanno assumendo, infatti, un ruolo di rilievo costituzionale sempre più crescente. Tra le tante iniziative ‘costituzionali’ che esse hanno intrapreso soprattutto nell’ultimo periodo[29], qui va menzionato l’«Accordo recante intesa interistituzionale tra Stato, Regioni ed Enti locali, ai sensi dell’art. 9, comma 2, lett. c) del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281» stipulata il 20 giugno del 2002. L’intesa interistituzionale infatti contiene un accordo «fra soggetti pariordinati, i quali concordano e definiscono obblighi e impegni reciproci nell’adempimento dei rispettivi poteri e doveri costituzionali»[30].

Per quanto riguarda le relazioni delle fonti statali e regionali da una parte e quelle locali (comunali e provinciali) dall’altra, evidentemente valgono le considerazioni svolte poc’anzi. In proposito, c’è da chiarire che il rapporto tra le leggi (statali e regionali), lo statuto e il regolamento locale non va letto secondo lo schema tradizionale del principio di legalità, per il quale il regolamento è subordinato alla legge. Questo modello appartiene infatti ad un contesto in cui vi è un sistema delle fonti unico o uniforme che rispecchia una forma di governo monista. Esso dunque è fuorviante, non consente di comprendere che la relazione tra le leggi e i regolamenti locali è di un genere diverso, che si inquadra cioè all’interno della ripartizione delle funzioni tra microsistemi delle fonti. I sottosistemi sono diversi, ma integrati fra loro secondo il principio di sussidiarietà. Perciò la gerarchia, che presuppone la superiorità della legge, e la competenza, che presuppone la separazione, sono poco utilizzabili. Come si è già detto, è la preferenza di competenza o l’attribuzione in via di principio a favore della fonte locale che regola i rapporti di questa con la legge. Quest’ultima prevale in caso di contrasto, non in quanto legge, ma in quanto fonte del sistema regionale o statale, che detta la disciplina unitaria che le compete. Sicché lo stesso criterio può essere applicato al rapporto tra il regolamento locale e quello statale o regionale[31].

L’ordinamento delle fonti infrasistemico è dato dalla Costituzione, dallo Statuto regionale, dalla legge statale e regionale, dallo statuto locale fondamentalmente come parte della definizione della forma di governo. Lo statuto e la legge regionale contribuiscono anche alla definizione delle relazioni tra la regione, i comuni e le province, quindi pure alla configurazione della forma di regione. In conseguenza il rapporto tra la legge e il regolamento regionali potrebbe non corrispondere a quello esistente a livello statale ed essere diverso da regione a regione. Su tale differenziazione della posizione reciproca della legge e del regolamento influisce quindi la forma governo e quella di regione. Per quanto riguarda il primo aspetto (la forma di governo), le forme orientate al dualismo, o, più genericamente, all’elezione diretta del presidente della regione come meccanismo per istituire un organo di governo avente la stessa legittimazione del consiglio, tenderanno a configurare il regolamento come lo strumento normativo del presidente (o della sua giunta) più o meno svincolato dalla legge; invece le forme moniste tenderanno a subordinare il regolamento alla legge. Per quel che concerne il secondo profilo (la forma di regione), la regione orientata a rappresentare in modo ‘federativo’ la comunità regionale, quindi ad instaurare rapporti di stretta collaborazione con comuni e province, tenderà ad utilizzare il consiglio e la legge come strumenti federativi, mentre affiderà al ‘governo’ e al regolamento il compito di realizzare la linea politica della maggioranza. In quest’ultimo caso, la forma di governo più o meno dualista è quasi una conseguenza necessaria.

L’ordine intersistemico delle fonti interseca in molti punti quello infrasistemico, poiché hanno in comune alcune regole che sono uguali per tutti i sottosistemi: l’individuazione delle fonti proprie dei sottosistemi (le leggi e i regolamenti statali, gli statuti, le leggi e i regolamenti regionali, lo statuto e i regolamenti comunali e provinciali) è stabilita dalla Costituzione, che, in più, determina riserve a favore di qualcuna di esse (riserve di legge e di statuto regionale); la legge statale (per quanto attiene alla forma di governo e alle funzioni fondamentali del comune e della provincia) o regionale (per la parte residua dell’ordinamento degli enti locali) può stabilire oggetti riservati allo statuto comunale e provinciale; lo Stato, secondo la previsione dell’art. 117 della Costituzione, non ha potere regolamentare, ma soltanto legislativo di principio, nelle materie di potestà concorrente; la regione, per delega, esercita la competenza regolamentare nelle materie riservate allo Stato.

Il quadro che ne emerge è assai complesso. Le fonti disposte secondo l’ordine verticale e orizzontale si incrociano in molteplici e diversi punti non predeterminabili, disegnando un fitto reticolo che grosso modo rispecchia quello istituzionale. Pertanto, avviene che il diritto sia sempre meno prodotto esclusivamente da un soggetto (da un legislatore) e da un unico procedimento (legislativo-parlamentare). Non è dunque più valida l’equazione fondamentale dello stato di diritto borghese: diritto uguale legge; sempre più spesso il diritto è piuttosto il risultato di un processo complesso nel quale intervengono molteplici soggetti secondo vari procedimenti decisionali. Questi sono sempre più difficilmente collocabili in serie, secondo una gerarchia, o in parallelo, secondo la diversa competenza. Infatti, per quanto riguarda la gerarchia, l’organizzazione costituzionale (ma spesso anche amministrativa) ha perso la forma piramidale e centralistica, cosicché la prevalenza della fonte di grado superiore è perlomeno molto attenuata, perché deve essere giustificata in modo funzionale e strutturale. Infatti, nessuna fonte sembra autosufficiente, indipendente dalle altre. La fonte di grado inferiore è deputata non soltanto all’esecuzione, ma all’integrazione, secondo autonome determinazioni.

Le fonti prodotte dai diversi processi politici sono in qualche misura parallele, cioè intervengono nei diversi ambiti che sono lasciati alle autonome determinazioni dei circuiti decisionali cui esse appartengono. Però ciascuno di questi processi si colloca in un complesso sistema ispirato ai principi non di separazione e di indipendenza reciproca (secondo un certo modo di intendere la divisione dei poteri) ma di partecipazione e interdipendenza[32]. Pertanto, le statuizioni dettate da fonti con diversa competenza finiscono per interferire in qualche punto. In definitiva, il diritto è prodotto da molteplici fonti interdipendenti. Sicché la regola di un fatto è stabilita non sempre da una fonte piuttosto che da un’altra (superiore o competente), ma più spesso dalle previsioni di molte fonti, pure di diverso grado e competenza, integrate fra loro[33].

 

 

 

 



 

* Saggio è destinato alla pubblicazione negli scritti in memoria di Livio Paladin.

 

[1] Cfr CHESSA, La sussidiarietà verticale come “precetto di ottimizzazione” e come criterio ordinatore, in Riv. dir pubbl. comp. eur, 2002, 1442 ss. Pure CECCHETTI, L’ambiente tra fonti statali e fonti regionali alla luce della riforma costituzionale del Titolo V, in Osservatorio delle fonti 2001, a cura di De Siervo, Torino 2002, ritiene che la formula costituzionale «secondo le rispettive competenze» non debba «necessariamente interpretarsi come riferimento rigido alla competenza legislativa così come ripartita nell’art. 117». Peraltro l’interpretazione che egli propone, specificamente riferita all’ambiente, è diversa da quella qui sostenuta.

 

[2] Cfr. MERLONI, Il destino dell’ordinamento degli enti locali (e del relativo Testo unico) nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2002, 417: «La Costituzione fa coincidere in modo chiaro potere regolamentare e potere amministrativo. A tutti i livelli di governo, chi ha poteri di amministrazione ha anche il potere di disciplinarne l’organizzazione e lo svolgimento dell’attività».

 

[3] Cfr. CORPACI, Gli organi di governo e l’autonomia organizzativa degli enti locali. Il rilievo della fonte statutaria, in Le Regioni, 2002, 1016 ss., il quale peraltro perviene a conclusioni abbastanza differenti a quelle che qui si propongono.

 

[4] CORPACI, Gli organi, cit., sostiene invece che allo statuto comunale e provinciale vada applicato analogicamente il regime previsto dall’art. 123 della Costituzione.

 

[5] Cfr. TOSI, Sui rapporti tra fonti regionali e fonti locali, in Le Regioni, 2002, 967 ss., la quale peraltro riprende un’idea di BIN, La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2002, 369; FALCON, Considerazioni finali, ivi, 1039.

 

[6] FALCON, Funzioni amministrative ed enti locali nei nuovi artt. 118 e 117 della Costituzione, in Le regioni, 2002, 384. Il corsivo è testuale.

 

[7] FALCON, Funzioni, cit., 385, pur escludendo che la sussidiarietà possa costituire autonomo fondamento di poteri statali impliciti, tuttavia ammette che l’esercizio dei poteri statali espressamente enumerati potrebbe avere effetti pressoché eguali a quelli determinati da interventi genericamente fondati sulla sussidiarietà. Più precisamente egli scrive: «In termini applicativi, ad esempio, un livello di amministrazione statale in materia di turismo, o di agricoltura, non potrà fondarsi su una “diretta” interpretazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza da parte del legislatore statale, e neppure su principi legislativi di “materia”, dato che in tali materie non esiste una potestà legislativa statale. Ciò tuttavia non significa che esso sia in assoluto escluso, dato che potrà trovare fondamento, in ipotesi, nei compiti propri o concorrenti dello Stato relativi ai rapporti internazionali e con l’unione europea, al commercio con l’estero, alla ricerca scientifica e tecnologica, alla tutela della salute, all’alimentazione». Infatti, a questo elenco proposto da Falcon si potrebbe aggiungere fra le competenze riservate allo stato: la tutela della concorrenza, l’ordinamento civile, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, la previdenza sociale, la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, l’ordine pubblico e la sicurezza, ecc., insomma quasi tutte le ‘materie’ enumerate nel secondo comma; fra le materie di potestà concorrente tutela e sicurezza del lavoro; professioni; protezione civile; governo del territorio; previdenza complementare e integrativa; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale, ecc.

 

[8] V. comunque TORCHIA, La potestà legislativa residuale delle regioni, in Le Regioni, 2002, 354, secondo cui «le clausole generali di attribuzione della potestà legislativa esclusiva statale sono specifiche e non possono essere né surrettiziamente moltiplicate, mediante il riferimento a indeterminati poteri impliciti, né estese oltre il loro già ampi confini, manipolando il significato delle parole, ad esempio “scoprendo” nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni il vecchio limite delle riforme economico-sociali o attraendo nel concetto di “livello essenziale” anche l’individuazione degli assetti organizzativi e degli strumenti amministrativi per l’erogazione delle prestazioni».

 

[9] Anche in proposito cfr. FALCON, Le funzioni, cit., 385.

 

[10] Cfr. Corte cost., 407/2002.

 

[11] Sulla distinzione tra potestà residuale e concorrente cfr. TORCHIA, La potestà legislativa residuale delle Regioni, in Le Regioni, 2002, 352 ss.

 

[12] Sulla distinzione tra la riserva e la preferenza di competenza, per tutti, cfr. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, Bologna 1996, 431.

 

[13] Cfr. Corte cost., 282/2002: «La nuova formulazione dell’art. 117, terzo comma, rispetto a quella previgente dell’art. 117, primo comma, esprime l’intento di una più netta distinzione fra la competenza regionale a legiferare in queste materie e la competenza statale, limitata alla determinazione dei principi fondamentali della disciplina. Ciò non significa però che i principi possano trarsi solo da leggi statali nuove, espressamente rivolte a tale scopo. Specie nella fase della transizione dal vecchio al nuovo sistema di riparto delle competenze, la legislazione regionale concorrente dovrà svolgersi nel rispetto dei principi fondamentali comunque risultanti dalla legislazione statale già in vigore».

 

[14] Art. 120, comma 2, della Costituzione: «Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione».

 

[15] Cfr. ancora CECCHETTI, L’ambiente, cit., 276, che, per quanto riguarda specificamente l’ambiente, sostiene l’interpretazione secondo cui «le regioni potranno e dovranno “integrare” le esigenze di tutela dell’ambiente nell’esercizio della loro potestà legislativa in tutte le materie di loro competenza (e in questo contesto la legislazione esclusiva dello Stato per la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema sarà in grado di imporsi al legislatore regionale non tanto come limite puntuale di conformità quanto come limite generale di non contraddizione)».

 

[16] Cfr. ZANON, Decreti-legge, governo e regioni dopo la revisione del titolo V della Costituzione, in www.associazioneitalianadeicostituzionalisti.it/dibattiti/riforma, 4 luglio 2002.

 

[17] CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale. Le fonti normative, Padova 1978, 110: «il sistema legale delle fonti a livello costituzionale e a livello primario è rigidamente “chiuso” di guisa che la legge ordinaria non potrebbe istituire – senza esservi costituzionalmente autorizzata – fonti “concorrenziali” rispetto a sé medesima, vale a dire dotate della medesima forza, ovvero in grado di escluderla del tutto da certe materie».

Secondo ZAGREBELSKY, Il sistema costituzionale delle fonti del diritto, Torino 1984, 5, «nessuna fonte può creare altre fonti aventi efficacia maggiore o anche eguale a quella propria, ma solo fonti dotate di efficacia minore. Questa regola discende, per la parte relativa al divieto di fonti più forti, dal principio che nessuno (in questo caso nessuna fonte) può attribuire ad altri una forza di cui esso stesso non dispone; per la parte relativa al divieto di efficacia eguale, dal principio del numerus clausus delle fonti dotate di un certo grado di efficacia. Perciò, nuove fonti possono essere continuamente create, ma solo a condizione che l’efficacia di cui siano dotate sia minore di quella propria della fonte che le ha istituite. Detto in altri termini, con riguardo ai processi politici di cui le fonti sono la manifestazione, è ammissibile che un processo politico intenda prolungarsi un altro. Ma i risultati normativi cui questo secondo può pervenire non possono contraddire o sostituire quelli raggiunti nel primo».

 

[18] Così ZANON, Decreti-legge, cit. Da qui non deriva necessariamente l’ammissibilità di decreti-legge o di decreti legislativi regionali, come sostenuto dallo stesso Zanon. Questi atti con forza di legge regionale sono di problematica ammissibilità perché tra le norme costituzionali inderogabili dalla legge statutaria vi è quella che attribuisce al Consiglio regionale l’esercizio delle potestà legislative attribuite alla regione (art. 121, secondo comma). In proposito, Corte cost., 32/1961 e 51/1962, per quanto riguarda i decreti-legge, 50/1959, per quel che concerne i decreti legislativi. Ma, di fronte all’odierna evoluzione del sistema delle fonti che fa traballare l’idea gradualistica secondo cui le fonti primarie sono soltanto quelle indicate dalla Costituzione, forse può essere perlomeno mitigato il divieto di atti regionali con forza di legge. Inoltre, per escludere l’ammissibilità dei decreti-legge e dei decreti legislativi regionali vale ormai poco l’argomento (utilizzato dalla Corte costituzionale e pressoché pacifico in dottrina – ma in proposito adesso incomincia a serpeggiare il dubbio: cfr. CARLI, L’autonomia statutaria, in CARLI, FUSARO, Elezione, cit., 176 ss.) secondo cui la disposizioni degli artt. 76 e 77 della Costituzione costituiscono una eccezione, che quindi non sono applicabili fuori dei casi espressamente previsti. Infatti, se è vero, come si sostiene nel testo, che il sistema delle fonti regionali si fonda sullo statuto, la trasposizione alla regione di norme costituzionali che si riferiscono al sistema statale non è scontata, anzi va argomentata in modo specifico e realizzata con la massima prudenza.

 

[19] Cfr. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna 1977, 101 ss.

 

[20] Per considerazioni più ampie sul punto cfr. PINNA, Il costituzionalismo del Secondo dopoguerra e la crisi del controllo di costituzionalità accentrato, in Il giudizio sulle leggi e la sua “diffusione”, a cura di Malfatti, Romboli, Rossi, Torino 2002, 489 ss.

 

[21] Cfr. PAJNO, Brevi considerazioni in tema di delegificazione e controllo diffuso di costituzionalità, in Il giudizio, a cura di Malfatti, Romboli, Rossi, cit., 474 ss.

 

[22] Cfr. CHESSA, La sussidiarietà verticale nel nuovo Titolo V, in Alla ricerca dell’Italia federale, a cura di VOLPE, Pisa 2003, 173 ss.

 

[23] ALEXY, Collisione e valutazione (comparativa) quale problema di base della dogmatica sul diritto fondamentale, in. La ragionevolezza nel diritto (a cura di M. La Torre e A. Spadaro), Torino 2002, 37.

 

[24] CHESSA, La sussidiarietà, cit., 174.

 

[25] Il concetto sottosistema proviene dalla teoria sistemica di LUHMANN, del quale v. da ultimo tradotto in italiano I diritti fondamentali come istituzione, Bari 2002.

 

[26] Cfr RUGGERI, Le fonti, cit., 103.

 

[27] In questo quadro il parlamento e il suo atto tipico, cioè la legge, sono chiamati ad un nuovo ruolo. In proposito, cfr. MANZELLA, Il parlamento federatore, in Quaderni cost., 2002, 35 ss.

La funzione integrativa di cui si parla nel testo sembra assai diversa dai «compiti di sintesi e di rappresentatività unitaria», che ZANON, La funzione unitaria del Parlamento e la revisione del titolo V, in Giur. cost., 2002, 884, attribuisce al Parlamento.

 

[28] ANZON, I poteri delle regioni dopo la riforma costituzionale, Torino 2002, 208 ss., è convinta invece che “il nuovo disegno è ispirato ad una impostazione fortemente caratterizzata nel senso della separazione/contrapposizione tra centro e periferia”.

 

[29] Su cui v. PIZZETTI, L’evoluzione del sistema italiano fra “prove tecniche di governance” e nuovi elementi unificanti. Le interconnessioni con la riforma dell’unione europea, in Le Regioni, 2002, 658 ss.

 

[30] PIZZETTI, L’evoluzione, cit., 660.

 

[31] Cfr. CHESSA, La sussidiarietà, cit., 178, secondo cui «il rapporto tra legge regionale e disciplina locale si costruisce sulla falsariga del rapporto che corre tra fonte statale e fonte regionale nelle materie di competenza residuale della Regione, cioè in base al canone di sussidiarietà. Un rapporto che evidentemente non può assimilarsi a quello tra legge e regolamento […]. Infatti, mentre il rapporto tra legge e regolamento regionali riflette le dinamiche della forma di governo, il rapporto tra legge regionale e autonomia normativa locale deve rispecchiare le dinamiche che intercorrono tra diversi livelli istituzionali di governo, ciascuno dei quali provvisto di un’autonoma legittimazione democratica: deve cioè essere coerente con la logica del pluralismo istituzionale “paritario” E quindi con il canone di sussidiarietà».

 

[32] Cfr. RUGGERI, La ricomposizione delle fonti in sistema, nella Repubblica delle autonomie, e le nuove frontiere della normazione, in Le Regioni, 2002, 704, per il quale «I “microsistemi” si sono dimostrati non già reciprocamente incomunicabili o impermeabili – come si sarebbe voluto – bensì aperti e disponibili a far passare “materiali” da una parte all’altra che, integrandosi a vicenda, hanno finito con l’assumere sembianze irriconoscibili in rapporto alle loro immagini consegnateci dal Costituente (o, meglio, da quelle che, per questa dottrina, erano le immagini stesse)».

 

[33] Cfr. CHESSA, La sussidiarietà, cit., 179; SPADARO, Sui principi di continuità dell’ordinamento, di sussidiarietà e di cooperazione fra Comunità/Unione europea, Stato e Regioni, in Riv. trim. dir. pubbl., 1994, 1067.