N. 3 – Maggio 2004 – Lavori in corso –
Contributi
Il principio di
sussidiarietà e il sistema delle fonti*
1. Il principio di sussidiarietà è espressamente menzionato
dalla Costituzione in riferimento alle funzioni amministrative (art. 118) e
all’esercizio del potere sostitutivo statale (art. 120). Ha però una portata
molto più ampia di quanto appaia dalla lettera di tali disposizioni
costituzionali: riguarda, infatti, non solo la funzione amministrativa, ma
anche quella ‘normativa’, di carattere amministrativo e legislativo. Quindi
incide anche sul sistema delle fonti, più precisamente, sulla ripartizione della
potestà normativa tra le molteplici istituzioni che costituiscono la Repubblica
ai sensi dell’art. 114 della Costituzione.
2. L’art. 118, comma 2, della Costituzione dopo aver previsto che
le funzioni amministrative per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a
province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei principi di
sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, dispone che il conferimento avvenga con legge statale o regionale, «secondo
le rispettive competenze». Quindi spetta alla legge statale o regionale
‘spostare’ verso l’alto, al livello provinciale, regionale o statale, le
funzioni amministrative che lo stesso art. 118 attribuisce ai comuni. Il
riferimento alle «rispettive competenze» potrebbe essere inteso nel senso che
la legge statale può disporre per le funzioni riservate allo Stato e quella
regionale per le funzioni residue. Ma in questo modo soltanto le funzioni
comunali e provinciali appartenenti alle materie descritte dal secondo comma
dell’art. 117 potrebbero essere conferite allo Stato in via sussidiaria, mentre
quelle regionali non potrebbero mai essere allocate a livello statale. Insomma
il principio di sussidiarietà paradossalmente non sarebbe valido per le
funzioni amministrative che rientrano nella competenza residuale della regione,
nei confronti delle quali quindi mai potrebbero valere le esigenze di esercizio
unitario su tutto il territorio nazionale. La disposizione dell’art. 118
fondamentalmente individua le competenze legislative riguardo alle funzioni
amministrative che spettano sussidiariamente allo Stato e alla regione in base
non all’oggetto, ma al soggetto destinatario del conferimento: cioè, la legge
statale è competente a conferire funzioni amministrative allo Stato e quella
regionale alla regione[1].
Sicché la legge statale può prevedere che funzioni amministrative regionali,
oltre che comunali e provinciali, siano esercitate unitariamente dallo Stato.
La competenza della legge statale (come di quella regionale, che conferisca
alla provincia o alla regione funzioni comunali) dipende dal principio di
sussidiarietà. Sicché essa sussiste nella stessa misura in cui ci sono le
ragioni che giustificano l’esercizio unitario della funzione: la legge statale
è competente a stabilire l’esercizio unitario su tutto il territorio nazionale
e quella regionale su tutto il territorio regionale. In questo modo, il
principio di sussidiarietà determina la ripartizione delle attribuzioni
legislative tra lo Stato e la regione e non soltanto di quelle amministrative.
a) La portata del
principio di sussidiarietà è ancora più ampia: incide sulla ripartizione della
funzione legislativa stabilendo quale sia la legge abilitata non solo a
conferire in via sussidiaria le funzioni amministrative, ma anche a
disciplinare la stessa funzione conferita. In altri termini, il conferimento di
cui parla l’art. 118 della Costituzione sposta la funzione verso il soggetto
adeguato ad assicurarne l’esercizio e la disciplina unitari, cioè concentra la
funzione e la sua disciplina legislativa (o regolamentare, come si vedrà in
seguito). Infatti, se veramente sussistono le esigenze che lo giustificano, è
difficile comprendere come l’esercizio unitario della funzione possa
conciliarsi con la varietà della disciplina. Come può essere esercitata unitariamente
la funzione se la sua disciplina è differenziata? La necessità dell’esercizio
unitario implica o presuppone quindi l’unitarietà della disciplina.
L’accentramento corrisponde all’esigenza di uniformità dell’intervento, dettato
da ragioni di efficienza, di giustizia o di altro, che presuppone o implica un
analogo accentramento della sua disciplina. Sarebbe dunque palesemente
contraddittoria la legge statale che imponesse l’esercizio unitario da parte
dello Stato di funzioni che fossero assoggettate ad un trattamento diverso da
regione a regione. Lo sarebbe anche la legge regionale che accentrasse in capo
alla regione funzioni che essa stessa non disciplina in modo adeguatamente
unitario, cioè riducendo gli spazi della potestà regolamentare dei comuni e
delle province.
b) L’interpretazione
che qui si prospetta, secondo cui lo ‘spostamento’ della funzione
amministrativa trascina con sé quella legislativa (o regolamentare), poggia su
un altro elemento che si ricava chiaramente dagli artt. 114, 117 e 118 della
Costituzione: e cioè su quello che all’istituzione politica spettano i poteri
‘normativi’ adeguati all’esercizio autonomo delle funzioni ad essa attribuiti.
Insomma, il potere di disciplinare le funzioni esercitate è intrinseco
all’autonomia politica. Questo è particolarmente evidente nel caso degli enti
che non hanno potestà legislativa. Ma lo stesso ragionamento può essere
applicato allo Stato e alle regioni. I comuni, le province e le città
metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina
dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, in
virtù dell’art. 117, comma 6. Peraltro non c’è motivo alcuno per escludere una
analoga potestà regolamentare della provincia e della città metropolitana
rispetto alle funzioni ad esse conferite, oltre a quelle attribuite. Tale
potere normativo è intrinseco alla posizione costituzionale autonoma. Questa
contiene in sé il potere statutario (costitutivo) e di disciplina delle
funzioni esercitate, attribuite o conferite che siano (artt. 114 e 117), poiché
l’esercizio della funzione secondo regole altrui, dettate totalmente da un
altro soggetto, sarebbe la manifestazione di una condizione di dipendenza. Se
il soggetto che esercita la funzione amministrativa può dettare legge (come lo
Stato e le regioni), allora la disciplina può essere stabilita anche con legge.
La fonte competente a stabilire la disciplina potrebbe variare, infatti,
secondo le previsioni della Costituzione e dello Statuto regionale. Il potere
di dettare la disciplina è attribuita non alla legge o al regolamento, ma allo
Stato o alle regioni, che possono stabilire autonomamente la competenza
dell’una o dell’altro. In definitiva, il potere può essere più o meno ampio,
esercitato in forma legislativa o amministrativa, ma tutto ciò non modifica
l’essenziale condizione di autonomia organizzativa e funzionale che è propria
delle istituzioni costituzionali, costitutive della Repubblica. Pertanto, al
conferimento della funzione deve corrispondere il potere di regolarne l’esercizio[2],
con legge o con regolamento. In definitiva, nel sistema di ripartizione tra il
‘centro’ e la ‘periferia’ delineato dal nuovo Titolo V della Costituzione il
principio di sussidiarietà genera una sorta di parallelismo rovesciato.
Un discorso a parte merita il conferimento di funzioni alla
provincia. Questo non incide evidentemente sulla ripartizione delle
attribuzioni tra lo Stato e le regioni. Sicché la legge regionale può conferire
alla provincia sia le funzioni che non siano riservate allo Stato, sia quelle
che riguardano le materie di potestà concorrente, secondo la regola della
residualità.
3. Il collegamento tra la potestà regolamentare locale e il
principio di sussidiarietà è chiaramente stabilito dal combinato disposto del sesto
comma dell’art. 117 (I comuni, le province e le città metropolitane hanno
potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello
svolgimento delle funzioni loro attribuite) e del primo comma dell’art. 118 (Le funzioni amministrative
sono attribuite ai comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario,
siano conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base
dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza). Come si vede, le funzioni comunali e provinciali sono attribuite o conferite in
base al principio di sussidiarietà; la potestà regolamentare riguarda queste
stesse funzioni e quindi spetta secondo il principio di sussidiarietà. Fanno
eccezione le funzioni fondamentali dei comuni e delle province che sono
stabilite dallo stato in modo uniforme su tutto il territorio nazionale.
La potestà statutaria del comune, della provincia e della città
metropolitana apparentemente non è connessa con la sussidiarietà. Ma la sua
ampiezza, conforme al ruolo attribuito dall’art. 114 della Costituzione alle
istituzioni politiche locali, può essere definita soltanto ricorrendo al
principio di sussidiarietà.
Gli statuti dei comuni, delle province e delle città metropolitane
sono assimilati a quelli regionali dall’art. 114, comma 2, della Costituzione
(i comuni,
le province, le città metropolitane e le regioni sono enti autonomi con propri
statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione). La
potestà statutaria è dunque parte integrante della posizione costituzionale
delle istituzioni costitutive della Repubblica (secondo la previsione del primo
comma dello stesso art. 114) che assumono la forma dell’ente autonomo. Essa è la manifestazione dell’autonomia organizzativa che è
propria delle istituzioni politiche; insieme alle funzioni e ai poteri propri,
costituisce la dotazione strumentale essenziale di queste istituzioni di
governo[3].
Tuttavia, è riservata allo Stato la disciplina elettorale, degli organi di governo e
delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane (art. 117, comma 2, lett. p). Sicché, mentre la forma di governo
regionale è determinata dallo statuto regionale, quella comunale e provinciale
è stabilita dalla legge statale. Peraltro a questa compete soltanto la
legislazione elettorale e degli organi di governo. Il resto della disciplina
legislativa dell’ordinamento comunale e provinciale spetta alla regione, in
base al criterio di ripartizione prescritto dall’art. 117 Cost., che dispone la
potestà della legge regionale nelle materie non attribuite alla legislazione
statale. Sennonché tale potere della legge regionale va conciliato con la
competenza statutaria attribuita dalla Costituzione ai comuni, alle province e
alle città metropolitane (d’ora in poi solo comuni e province).
Poiché la potestà
statutaria dei comuni e delle province ora è fondata sulla Costituzione e non
sulla legge, essa può essere esercitata anche in assenza,
indipendentemente dalla legge. E’ un potere delimitato dalla legge, nel senso
che la previsione legislativa prevale su quella statutaria, quando vi sia.
Altrimenti lo statuto si rapporta direttamente con la Costituzione. Insomma,
l’esercizio del potere statutario non ha bisogno dell’intermediazione
legislativa. Sicché lo statuto può essere fonte primaria. Anzi, in qualche
misura deve esserlo, per assicurare l’autonomia organizzativa (e funzionale)
che spetta alle istituzioni politiche costitutive della Repubblica. Il potere
statutario comunale e provinciale si svolge in un ambito residuale: si
esercita, cioè, sugli oggetti non coperti dalla legge. Peraltro se questo
spazio fosse interamente nella piena disponibilità del legislatore regionale e
statale, sarebbe nella sostanza vanificata l’attribuzione costituzionale del
potere statutario. E’ evidente, dunque, che va definito l’ambito della potestà
statutaria comunale e provinciale da proteggere nei confronti del legislatore.
Questo risultato si può ottenere attribuendo in linea di principio allo statuto
comunale e provinciale la materia non riservata dalla Costituzione alla legge
statale. Sicché, ciò che residua dalla legislazione elettorale e da quella
sugli organi di governo compete preferibilmente allo statuto. La legge
regionale non è esclusa dalla disciplina dell’ordinamento comunale e provinciale.
Può intervenire se esibisce buone ragioni, cioè se fa valere esigenze unitarie
nei confronti dei comuni e delle province della regione. Sicché lo statuto ha
un oggetto residuale riservato in via di principio. In questo modo, il confine
tra la legge e lo statuto non è fisso, ma mobile, adeguato quindi alle
molteplici e mutevoli esigenze ordinamentali delle diverse regioni. Questo e
quella sono pertanto fungibili in larga misura. Tale interpretazione della
disciplina costituzionale relativa all’ordinamento comunale e provinciale, da
una parte, assegna un ruolo rilevante allo statuto del comune e della
provincia, dall’altra parte, rende permeabile la disciplina dello statuto alla
legislazione regionale ragionevole. Dunque si inserisce bene in un contesto di
molteplicità e differenziazione istituzionale, nel quale le istituzioni
politiche sono qualitativamente eguali, nonostante operino in spazi politici e
costituzionali di diversa ampiezza. Infatti, l’ordinamento comunale e
provinciale può essere diverso da regione a regione secondo le specifiche
esigenze di disciplina unitaria fatte valere ragionevolmente dalla legislazione
regionale in proposito. Può essere differente anche all’interno della stessa
regione, secondo le diverse discipline dello statuto comunale e provinciale.
Nella Costituzione non c’è una ripartizione delle competenze tra lo
statuto e il regolamento, né una forma e un valore peculiari dello statuto. Al
riguardo, dalla disciplina costituzionale si può ricavare solamente che il
regolamento riguarda l’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni, mentre
lo statuto attiene più specificamente all’organizzazione (alla forma di
governo, insomma) dell’ente[4].
Considerati dal punto di vista del rapporto con la legge (statale e regionale),
il regolamento e lo statuto sono uguali. Lo statuto è una specie di
regolamento, che si distingue solamente perché attiene alla costituzione
dell’ente, alla sua struttura, piuttosto che all’attività. Dalla Costituzione
si ricava quindi una eguale posizione dello statuto e del regolamento nei
confronti della legge: entrambi cioè si rapportano con la legge secondo il
principio di sussidiarietà. Pertanto, in linea di principio è preferita la
competenza dello statuto, con la conseguenza che la legge può intervenire sulla
struttura dell’ente, come del resto sulla disciplina dell’organizzazione e
dello svolgimento delle funzioni comunali e provinciali (attribuite o conferite
che siano) soltanto in via sussidiaria e, dunque, se sussistono esigenze
unitarie e nella misura strettamente necessaria a soddisfarle[5].
4. Va stabilito se la legge (statale) possa conferire allo Stato
l’esercizio unitario di funzioni ulteriori rispetto a quelle ad esso stesso
riservate espressamente dall’art. 117 della Costituzione. Se la risposta fosse
positiva, cioè se il conferimento allo Stato dell’esercizio e della disciplina
unitari potesse avere ad oggetto funzioni implicitamente statali, allora l’art.
118 costituirebbe «autonomo fondamento di poteri legislativi per così
dire “impliciti”»[6].
Le conclusioni sin qui esposte e riassunte nello schema precedente sono valide
in entrambe le ipotesi di poteri legislativi espliciti o impliciti. Peraltro in
pratica cambierebbe poco o nulla[7]. Allo
Stato sono riconosciute, infatti, funzioni trasversali così ampie che
dovrebbero essere sufficienti a soddisfare le esigenze unitarie[8].
Tuttavia, in teoria, l’idea che lo stato possieda un potere sussidiario
implicito, che si estende per ogni dove lo stesso stato ritenga vi siano
esigenze unitarie da tutelare, presuppone una posizione di supremazia statale,
incompatibile, in particolare, con la previsione dell’art. 114 della
Costituzione. Presuppone, infatti, che lo stato sia in quanto tale, in quanto
unità o totalità, il rappresentante dell’interesse nazionale e possieda,
perlomeno potenzialmente, tutte le funzioni e ricopra tutti i ruoli. Secondo
questa impostazione centralistica o verticistica, lo stato in potenza contiene
le regioni, le province, i comuni, ecc. Questi sono cioè sue articolazioni,
sono lo stato decentrato, nell’essenza sono una replica dello stato. Le
funzioni e i poteri statali sono perciò sovrapponibili completamente a quelli
regionali e locali. In questo modello dello stato sovrano, vale il principio
dell’uniformità piuttosto che quello della differenziazione dei ruoli e delle
funzioni, poiché potenzialmente lo stato può coprire qualsiasi ruolo ed
esercitare ogni funzione. Sicché, a fronte della devoluzione alla periferia
statale, opera una implicita riserva a favore dello stato. A questo stato
‘totale’, unico rappresentante dell’interesse nazionale, si contrappone il
sistema in cui le regioni, le province e i comuni sono non lo stato in
periferia, ma istituzioni costitutive della Repubblica, che si rapportano con
lo stato paritariamente. Qui le funzioni e i poteri sono differenziati. Anche
questo sistema conosce le esigenze unitarie, quindi funzioni e discipline
accentrate e uniformi su tutto il territorio nazionale. Ma qui l’uniformità e
la concentrazione sono compatibili con la differenziazione e la diffusione del
potere perché nessuna istituzione, può pretendere per sé tutte funzioni, ma
soltanto quelle che servono per soddisfare le esigenze unitarie. Ciascuna di
esse svolge il ruolo e le funzioni che le sono assegnati dalla Costituzione, senza
riserve implicite. Gli ambiti nei quali lo Stato esercita funzioni su tutto il
territorio nazionale sono quelli espressamente attribuiti. L’uniformità vale
nei settori riservati allo Stato, identificati con materie ‘trasversali’ che
consentano allo Stato l’intervento sussidiario negli ambiti che preferibilmente
sono affidati alla cura dei comuni delle province e delle regioni. In questo
modo l’uniformità e la differenziazione sono contemporaneamente presenti,
secondo le previsioni della Costituzione, senza che l’uno prevalga sull’altro.
Pertanto, il conferimento della funzione amministrativa (e del relativo potere
‘normativo’) allo Stato, secondo il principio sussidiairietà, può essere
disposto nelle ‘materie’ espressamente riservate allo Stato dall’art. 117 della
Costituzione. Ad esempio, la legge statale può conferire allo Stato funzioni
relative all’artigianato per tutelare non l’interesse nazionale, ma l’ambiente,
i beni culturali, la concorrenza, ecc.
In definitiva, il
principio di sussidiarietà, per quanto riguarda la ripartizione delle funzioni
tra lo Stato e le regioni, di per sé solo non è sufficiente a fondare la
competenza statale, perché gli interventi statali devono riguardare gli
specifici compiti attribuiti dalla Costituzione. In questo senso, è criterio di
esercizio della competenza legislativa o regolamentare[9].
Esso opera nelle ipotesi in cui lo Stato interferisce sulle attribuzioni della
regione allocando a livello statale funzioni comunali, provinciali o regionali.
Le materie riservate allo Stato comprendono funzioni alternative o
complementari rispetto a quelle regionali. Questa distinzione, propria di un
sistema integrato, è utile, fra l’altro, per capire i termini e la portata
dell’interferenza statale sulle funzioni della regione. Le funzioni alternative
escludono l’intervento regionale. La materia è la stessa, ma l’oggetto della
riserva è tale da consentire soltanto interventi statali (e non anche
regionali), come ad es. l’ordinamento penale, civile e processuale. Nonostante
queste siano materie ‘trasversali’, che evidentemente interferiscono con tutte,
o quasi, le attività regionali, tuttavia è escluso qualsiasi intervento
regionale in proposito. E’ diverso il caso delle funzioni il cui oggetto
coincide con quello spettante alla regione, cosicché su di esso insistono tanto
lo Stato quanto la regione. Ad es. l’ambiente, la cui tutela è prevista come
materia riservata alla Stato, è tuttavia un valore anche per la regione (come
del resto di tutte le istituzioni della Repubblica). Quindi anche l‘azione
della regione deve essere rivolta alla sua preservazione. Però lo Stato è
chiamato a svolgere un ruolo diverso da quello della regione, cioè quello di
assicurare la tutela minima uniforme su tutto il territorio nazionale. A questa
tutela statale si può aggiungere quella ulteriore della regione[10].
Lo schema tipico di questa differenziazione funzionale è costituito dalla determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che
devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, riservata allo Stato
dall’art. 117, comma 2, lett. m). Lo studio delle
materie e delle funzioni attribuite allo Stato dalla Costituzione potrà
rivelare altre funzioni complementari o alternative.
Chi aderisca all’idea
che i poteri sussidiari statali sussistono soltanto nei settori riservati
espressamente allo Stato, deve distinguere i conferimenti relativi alla potestà
riservata da quelli inerenti a quella concorrente. Infatti, nelle materie di
legislazione concorrente il potere normativo sussidiario consiste nella sola
determinazione dei principi fondamentali. Questa distinzione è irrilevante per
chi invece ritiene che esista un potere implicito di intervento sussidiario,
perché da tale punto di vista le esigenze unitarie giustificano sempre la
disciplina di dettaglio. Ma anche tale questione è praticamente di poco
momento. Infatti, anche i confini tra la potestà concorrente e quella riservata
allo Stato sono meno netti di quanto si creda comunemente. Oltre che in alcune
ipotesi specifiche (politica estera, governo del territorio, tutela dei beni
culturali) lo Stato può interferire sulla potestà concorrente della regione
ricorrendo alle clausole generali della tutela dei diritti, dell’ambiente,
della sicurezza e dell’ordine pubblico. Per l’esercizio unitario di queste
funzioni lo Stato può dettare principi e dettagli. Comunque, teoricamente va
contemplato il caso che il conferimento attenga a funzioni rientranti
(solamente) nella potestà concorrente, cosicché lo Stato può dettare
esclusivamente i principi fondamentali[11].
Secondo l’impostazione che qui si segue, la competenza legislativa
regionale in genere non è separata da quella statale, né è subordinata alla
legge statale. Entrambe sono relativamente fungibili, non si escludono a
vicenda sempre e comunque, ma secondo le circostanze prevale, si applica a
preferenza, l’una o l’altra: la legge statale è competente in via sussidiaria o
‘suppletiva’ se bisogna assicurare la disciplina unitaria su tutto il
territorio nazionale nelle ipotesi particolari espressamente previste dalla
Costituzione (o, in generale, quando vi siano esigenze unitarie da soddisfare,
secondo un punto di vista che qui non si condivide), oppure se e fintanto che
manchi la legislazione regionale.
La legge statale e quella regionale si applicano contemporaneamente
nelle ipotesi di legislazione concorrente. Sono dunque non alternative, ma
complementari. I principi della legislazione statale prevalgono sulle norme di
dettaglio della legge regionale e queste su quelle di dettaglio della legge
statale. La prevalenza neppure in questi casi è assoluta. E’ vero che il terzo
comma dell’art. 117 prevede che la determinazione dei principi fondamentali è «riservata»
alla legislazione dello Stato. Ma questa, a rigore, non è una
riserva vera e propria; è piuttosto un limite della potestà regionale, cosicché
il potere della legge statale di stabilire i principi va configurato come
preferenza (piuttosto che come riserva) di competenza[12].
Infatti, i dettagli della legislazione regionale prevalgono se ci sono,
altrimenti si applicano quelli posti dallo Stato; i principi limitano se siano
stati stabiliti; se mancano, la legislazione regionale non è preclusa, ma dovrà
rispettare quelli ricavabili dalla legislazione statale relativa alla materia
disciplinata[13].
Inoltre, la legge regionale (più precisamente la legge statutaria) può dettare
principi ulteriori non contrastanti con quelli posti o ricavabili dalla
legislazione statale, dato che la potestà concorrente della fonte statale si
configura come preferenza (e non come riserva) di competenza. Quindi i principi
possono essere posti anche da altre fonti e le disposizioni di queste
regrediscono se confliggono con i principi stabiliti dalla fonte competente.
Infine, i nuovi principi che dovessero sopraggiungere abrogherebbero le norme
regionali con essi incompatibili, secondo la costante giurisprudenza
costituzionale; e l’abrogazione presuppone l’interferenza tra norme poste da
fonti diverse, che è esclusa invece dalla riserva di competenza, la quale pone
le fonti su piani paralleli.
Da questo punto di vista, c’è poca differenza tra la potestà
concorrente e quella esclusiva statale relativa a materie ‘trasversali’, specie
quelle che comprendono funzioni complementari (come le lettere m) ed s)
dell’art. 117): in entrambi i casi la materia può esser disciplinata sia dalla
legge regionale, sia da quella statale; se queste sono incompatibili, prevale
quella competente. L’unica differenza consiste nel fatto che lo Stato
nell’ambito della potestà esclusiva può prevedere anche norme di dettaglio,
mentre in quella concorrente non può andare oltre i principi fondamentali,
salvo le ipotesi di intervento sussidiario, ‘suppletivo’, o sostitutivo[14].
Questa configurazione della legislazione statale come limite[15]
della competenza ‘preferita’ della legge regionale spiega anche perché la nuova
ripartizione delle attribuzioni legislative disposta dalla riforma del Titolo V
non determini l’abrogazione della legislazione vigente con essa incompatibile. Infatti,
soltanto l’effettivo esercizio della competenza può provocare gli effetti
abrogativi che portano a sostituire la disciplina regionale a quella statale.
La regione potrebbe esercitare le proprie funzioni nelle materie
non riservate allo Stato con legge o con regolamento. Infatti, come si è visto,
la legge statutaria, che è posta al vertice delle fonti regionali, potrebbe
ripartire la disciplina spettante alla regione tra le diverse fonti della
regione: leggi (ordinarie), regolamenti e forse atti con forza di legge[16].
Non si può sostenere che l’art. 117 della costituzione ha implicitamente
sottoposto a riserva di legge (regionale) la disciplina delle materie non
riservate allo Stato, cioè tutto o quasi; la conseguenza è così assurda che
induce a negare validità alla premessa. Né varrebbe ormai neppure opporre la
tesi, sostenuta da Crisafulli e largamente accettata, secondo cui le fonti
primarie costituiscono un numero chiuso, sono cioè soltanto quelle previste
dalla Costituzione. Sicché la legge regionale non potrebbe essere sostituita da
altre fonti del medesimo grado nella sostanza. Questa tesi si fonda sull’idea
che nessuna fonte può disporre di se stessa o di una fonte sovraordinata[17].
Ma la legge statutaria è fonte sovraordinata alla legge regionale (ordinaria) e
quindi può disporre di quest’ultima. Sicché la tesi del numero chiuso delle
fonti primarie andrebbe perlomeno aggiornata, tenendo conto della nuova fonte
paracostituzionale della regione. Neppure l’art. 127 della costituzione
costituisce un ostacolo ad un sistema di fonti regionali fondato sulla legge
statutaria. E’ vero, infatti, che vi si parla dell’impugnazione di leggi
regionali e non anche di atti con forza di legge. Ma è anche vero che l’art.
134 si riferisce espressamente ad atti con forza di legge dello Stato e delle
regioni. Pertanto, non vi sarebbe nessuna difficoltà ad impugnare in via
principale (e in via incidentale) leggi e atti con forza di legge della regione[18].
Peraltro, la posizione di primarietà che dovesse essere attribuita
al regolamento (o più verosimilmente soltanto a qualche specie di regolamento)
regionale non lo qualificherebbe come atto avente forza di legge ai sensi
dell’art. 134 della Costituzione, cioè come atto assoggettato al controllo di
costituzionalità della Corte costituzionale. Senza rimettere mano al problema
della forza (e del valore) di legge, che porterebbe a considerare il ruolo
della legge (e del parlamento), quindi molto lontano. Qui è sufficiente
discutere l’idea molto diffusa secondo cui la limitazione agli atti con forza
di legge del giudizio di legittimità costituzionale presuppone la
subordinazione gerarchica del regolamento alla legge, cosicché assicurando la
conformità di questa alla Costituzione si otterrebbe di conseguenza la
compatibilità di quello con la costituzione[19].
Questo ragionamento è inadeguato in un contesto nel quale sempre più il
regolamento si distacca dalla legge, perché è previsto da fonti sovraordinate
alla legge, dalla Costituzione o dalla legge regionale statutaria, e proviene da
organi che traggono la propria legittimazione direttamente dal corpo
elettorale. La limitazione della competenza della Corte costituzionale agli
atti con forza di legge è tuttavia ancora valida. Ma ha un diverso fondamento
da quello cui si pensa comunemente. La competenza della Corte costituzionale è
ristretta alla legge e agli atti equiparati perché il giudice è assoggettato a
questi atti, ai sensi dell’art. 101, comma 2, della Costituzione[20].
Quindi non può disapplicarli neppure quando essi siano in contrasto con la
Costituzione. Può invece prescindere dalle norme incostituzionali prodotte da
altre fonti. Sicché, secondo questo punto di vista, non sussiste la competenza
della Corte costituzionale in tutte quelle ipotesi nelle quali il giudice può
rimuovere la norma incostituzionale. Tra queste vi è il regolamento. Infatti,
il suo regime giuridico è quello dell’atto amministrativo, quindi i giudici
amministrativi o ordinari, secondo la rispettiva giurisdizione, possono
annullare o disapplicare i regolamenti illegittimi e tali sono quelli in
contrasto tanto con la legge (ordinaria e statutaria) quanto con la
costituzione. Nei confronti dei regolamenti è quindi possibile il sindacato di
costituzionalità diffuso[21].
E’ un po’ diverso il discorso rispetto alla potestà regolamentare
nelle materie di competenza esclusiva statale che può essere delegata alla
regione, in base alla previsione dell’art. 117, comma 6. E’ difficile stabilire
se la potestà regolamentare delegata abbia ad oggetto funzioni esercitate dallo
Stato oppure dalla stessa regione; in altri termini, è difficile stabilire se
la delegazione riguardi le funzioni amministrative e la loro disciplina
regolamentare, oppure la potestà regolamentare soltanto, che si eserciterebbe
quindi su funzioni spettanti ed esercitate dallo stato. Secondo il principio
del ‘parallelismo invertito’, di cui si è detto in precedenza, bisognerebbe
propendere per la prima ipotesi. Comunque, la regione non può scegliere la
fonte da utilizzare per dettare la disciplina di propria competenza e il
regolamento regionale delegato è subordinato alla legge statale.
5. La sussidiarietà è non una regola ma, appunto,
un principio della ripartizione delle competenze[22].
Secondo Alexy la norma-principio è un «precetto di ottimizzazione», che impone
non una regola da rispettare o da violare, ma la sua realizzazione «in misura
possibilmente elevata in relazione con le possibilità di fatto e di diritto»[23].
Il principio di sussidiarietà quindi fonda competenze ‘flessibili’ che possono
essere derogate ragionevolmente, per soddisfare esigenze unitarie. Le leggi che
conferiscono funzioni amministrative e quelle che impongono una disciplina
unitaria delle stesse funzioni sono sindacabili dalla Corte costituzionale
sotto il profilo della ragionevolezza. Questo controllo deve verificare la
sussistenza delle esigenze di esercizio e di disciplina unitari, l’adeguatezza
e l’idoneità dell’intervento sussidiario. Questo «è’ adeguato se è un mezzo
“idoneo” e “necessario” al conseguimento dell’obiettivo unitario che il livello
superiore si prefigge. Non basta che sia logicamente pertinente rispetto allo
scopo –cioè “idoneo”; occorre che sia pure non eccedente a quanto risulta
strettamente necessario al raggiungimento dello scopo –cioè “necessario”, “non
sproporzionato”». Insomma, «l’intervento sussidiario [va] contenuto nella misura strettamente indispensabile alla
realizzazione dell’obiettivo unitario»[24].
6. La sussidiarietà è un principio che incide profondamente sui
differenti ruoli delle molteplici istituzioni politiche costituite senza un
centro o un vertice, secondo la forma reticolare. A questa situazione
istituzionale in cui lo Stato non è l’unico centro della politica corrisponde
un sistema delle fonti complesso, non più soltanto statale, ma anche regionale e
locale; non più uniforme, ma differenziato perché ordinato da regole sulla
produzione poste dalle diverse istituzioni politiche. Insomma, il sistema delle
fonti della Repubblica si compone di molteplici sottosistemi[25]
o microsistemi[26]
delle fonti. Ciascun sottosistema non è la mera riproduzione in periferia del
sistema statale, ma è autonomo, quindi differente da tutti gli altri. La
Costituzione ripartisce dunque le competenze non tra le leggi, ma tra i diversi
microsistemi delle fonti che sono propri delle istituzioni costitutive della
Repubblica. Sicché le regioni possono disciplinare le funzioni ad esse
attribuite con la legge (statutaria e ordinaria) o col regolamento, secondo la
disciplina dei propri statuti e in conformità con le riserve di legge e di statuto.
I comuni e le province dispongono soltanto del regolamento e dello statuto (che
in definitiva è una specie di regolamento) per disciplinare le loro funzioni,
secondo le regole sulla produzione poste non solo dal proprio statuto, ma anche
dalla legge statale e regionale nel rispetto del principio di sussidiarietà. In
definitiva, la Costituzione ripartisce le funzioni e individua le fonti con cui
lo Stato, le regioni, i comuni e le province disciplinano, ma non stabilisce le
competenze di ciascuna fonte.
I criteri ordinatori delle fonti della Repubblica non sono
completamente uguali a quelli che valgono all’interno di ciascun microsistema
delle fonti. Bisogna distinguere quindi i criteri ordinatori intersistemici da
quelli infrasistemici, cioè i rapporti tra le fonti dei diversi sistemi
da quelli tra le fonti del medesimo sistema. Le relazioni tra le fonti
intersistemiche sono disciplinate dalla Costituzione come parte dei rapporti
fra le istituzioni costitutive della Repubblica. Non sono improntate ad un
criterio gerarchico, sicché la disciplina dettata dalla fonte statale non è
sovraordinata a quella regionale e locale e le previsioni della fonte regionale
non sono superiori alle norme regolamentari comunali e provinciali. Allo stesso
tempo, se si esclude il caso delle funzioni riservate allo Stato, rispetto alle
quali vale il criterio della riserva di competenza, i sottosistemi regionale e
locale sono non separati, ma sovrapposti. Questo fenomeno è evidente per quanto
concerne lo Stato e la regione da una parte e il comune e la provincia
dall’altra. E’ meno manifesto, ma altrettanto presente nelle relazioni tra il
sistema statale e quello regionale. Infatti, molte delle materie riservate allo
Stato contengono funzioni trasversali, cosicché i vari sistemi delle fonti
hanno lo stesso oggetto, ma diverse funzioni, sono specializzati
funzionalmente. I casi paradigmatici di questa trasversalità materiale sono la
tutela dell’ambiente e la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il
territorio nazionale. In queste ipotesi alla fonte statale
spetta stabilire quel minimo di disciplina uniforme che è necessario per
assicurare l’eguale trattamento dei cittadini della Repubblica. Ciò tuttavia
non impedisce ulteriori interventi della regione. La fonte regionale in
quest’ambito non è quindi esclusa: non solo può stare al posto della disciplina
statale se questa non c’è, ma la può anche integrare senza contraddirla,
prevedendo una maggiore tutela o maggiori prestazioni, cioè disporre qualcosa
di più dello standard minimo valido su tutto il territorio nazionale. In caso
di contrasto, prevale la fonte statale, come se fosse sovraordinata. Ma la
prevalenza è data non da una qualità superiore della fonte statale rispetto a
quella regionale, non dalla sua maggiore potenza perché statale, perché
proveniente dal soggetto sovrano che rappresenta l’interesse superiore
(nazionale); è determinata piuttosto dalle ragioni che esibisce, che attengono
alla sua funzione e alla sua struttura, ha cioè fondamento
funzional-strutturale. Infatti, la fonte statale si applica a preferenza di
quella regionale perché, in primo luogo, soddisfa una esigenza unitaria con un
mezzo necessario e proporzionato, quindi è conforme al principio di
sussidiarietà; in secondo luogo, è deliberata, con un procedimento coinvolgente
le molteplici istituzioni costitutive della Repubblica, da un organo
rappresentativo di queste stesse istituzioni. Essa è perciò capace di esprimere
l’integrazione tra i molteplici sistemi delle fonti[27].
In questo modo, la disciplina unitaria, valida in tutto il territorio
nazionale, è stabilita non dal centro ma al centro, cioè non dallo Stato, ma
dallo Stato col concorso delle regioni, dei comuni e delle province. Peraltro
l’attuale testo della Costituzione, pure dopo la riforma del Titolo V, prevede
istituzioni e procedimenti collaborativi inadeguati. Infatti, dispone non la
seconda camera rappresentativa delle regioni e delle autonomie locali, ma
soltanto che i regolamenti della Camera dei deputati e del Senato della
Repubblica possono prevedere la partecipazione di rappresentanti delle regioni,
delle province autonome e degli enti locali alla Commissione parlamentare per
le questioni regionali e che l’Assemblea delibera a maggioranza assoluta dei
suoi componenti quando un progetto di legge riguardante le materie di potestà
concorrente, la finanza regionale e locale contenga disposizioni sulle quali la
Commissione parlamentare per le questioni regionali integrata abbia espresso
parere contrario o parere favorevole condizionato all’introduzione di
modificazioni specificamente formulate.
Tuttavia, l’integrazione realizzata in forma collaborativa tra
istituzioni pariordinate costituisce una tendenza irreversibile del
costituzionalismo attuale[28]. In
conseguenza, le strutture e procedimenti cooperativi, come la Conferenza
Stato-regioni e quella Unificata Stato, regioni e autonomie locali, si
affermano al di là del testo della Costituzione. Le Conferenze, ancorché
istituite con legge ordinaria, stanno assumendo, infatti, un ruolo di rilievo
costituzionale sempre più crescente. Tra le tante iniziative ‘costituzionali’
che esse hanno intrapreso soprattutto nell’ultimo periodo[29],
qui va menzionato l’«Accordo recante intesa interistituzionale tra Stato,
Regioni ed Enti locali, ai sensi dell’art. 9, comma 2, lett. c) del decreto
legislativo 28 agosto 1997, n. 281» stipulata il 20 giugno del 2002. L’intesa
interistituzionale infatti contiene un accordo «fra soggetti pariordinati, i
quali concordano e definiscono obblighi e impegni reciproci nell’adempimento
dei rispettivi poteri e doveri costituzionali»[30].
Per quanto riguarda le relazioni delle fonti statali e regionali da
una parte e quelle locali (comunali e provinciali) dall’altra, evidentemente
valgono le considerazioni svolte poc’anzi. In proposito, c’è da chiarire che il
rapporto tra le leggi (statali e regionali), lo statuto e il regolamento locale
non va letto secondo lo schema tradizionale del principio di legalità, per il
quale il regolamento è subordinato alla legge. Questo modello appartiene
infatti ad un contesto in cui vi è un sistema delle fonti unico o uniforme che
rispecchia una forma di governo monista. Esso dunque è fuorviante, non consente
di comprendere che la relazione tra le leggi e i regolamenti locali è di un
genere diverso, che si inquadra cioè all’interno della ripartizione delle
funzioni tra microsistemi delle fonti. I sottosistemi sono diversi, ma
integrati fra loro secondo il principio di sussidiarietà. Perciò la gerarchia,
che presuppone la superiorità della legge, e la competenza, che presuppone la
separazione, sono poco utilizzabili. Come si è già detto, è la preferenza di
competenza o l’attribuzione in via di principio a favore della fonte locale che
regola i rapporti di questa con la legge. Quest’ultima prevale in caso di
contrasto, non in quanto legge, ma in quanto fonte del sistema regionale o
statale, che detta la disciplina unitaria che le compete. Sicché lo stesso
criterio può essere applicato al rapporto tra il regolamento locale e quello
statale o regionale[31].
L’ordinamento delle fonti infrasistemico è dato dalla Costituzione,
dallo Statuto regionale, dalla legge statale e regionale, dallo statuto locale
fondamentalmente come parte della definizione della forma di governo. Lo
statuto e la legge regionale contribuiscono anche alla definizione delle
relazioni tra la regione, i comuni e le province, quindi pure alla
configurazione della forma di regione. In conseguenza il rapporto tra la legge
e il regolamento regionali potrebbe non corrispondere a quello esistente a
livello statale ed essere diverso da regione a regione. Su tale
differenziazione della posizione reciproca della legge e del regolamento
influisce quindi la forma governo e quella di regione. Per quanto riguarda il
primo aspetto (la forma di governo), le forme orientate al dualismo, o, più
genericamente, all’elezione diretta del presidente della regione come
meccanismo per istituire un organo di governo avente la stessa legittimazione
del consiglio, tenderanno a configurare il regolamento come lo strumento
normativo del presidente (o della sua giunta) più o meno svincolato dalla
legge; invece le forme moniste tenderanno a subordinare il regolamento alla
legge. Per quel che concerne il secondo profilo (la forma di regione), la
regione orientata a rappresentare in modo ‘federativo’ la comunità regionale,
quindi ad instaurare rapporti di stretta collaborazione con comuni e province,
tenderà ad utilizzare il consiglio e la legge come strumenti federativi, mentre
affiderà al ‘governo’ e al regolamento il compito di realizzare la linea
politica della maggioranza. In quest’ultimo caso, la forma di governo più o
meno dualista è quasi una conseguenza necessaria.
L’ordine intersistemico delle fonti interseca in molti punti quello
infrasistemico, poiché hanno in comune alcune regole che sono uguali per tutti
i sottosistemi: l’individuazione delle fonti proprie dei sottosistemi (le leggi
e i regolamenti statali, gli statuti, le leggi e i regolamenti regionali, lo
statuto e i regolamenti comunali e provinciali) è stabilita dalla Costituzione,
che, in più, determina riserve a favore di qualcuna di esse (riserve di legge e
di statuto regionale); la legge statale (per quanto attiene alla forma di
governo e alle funzioni fondamentali del comune e della provincia) o regionale
(per la parte residua dell’ordinamento degli enti locali) può stabilire oggetti
riservati allo statuto comunale e provinciale; lo Stato, secondo la previsione
dell’art. 117 della Costituzione, non ha potere regolamentare, ma soltanto
legislativo di principio, nelle materie di potestà concorrente; la regione, per
delega, esercita la competenza regolamentare nelle materie riservate allo
Stato.
Il quadro che
ne emerge è assai complesso. Le fonti disposte secondo l’ordine verticale e
orizzontale si incrociano in molteplici e diversi punti non predeterminabili,
disegnando un fitto reticolo che grosso modo rispecchia quello istituzionale.
Pertanto, avviene che il diritto sia sempre meno prodotto esclusivamente da un
soggetto (da un legislatore) e da un unico procedimento
(legislativo-parlamentare). Non è dunque più valida l’equazione fondamentale
dello stato di diritto borghese: diritto uguale legge; sempre più spesso il
diritto è piuttosto il risultato di un processo complesso nel quale
intervengono molteplici soggetti secondo vari procedimenti decisionali. Questi
sono sempre più difficilmente collocabili in serie, secondo una gerarchia, o in
parallelo, secondo la diversa competenza. Infatti, per quanto riguarda la
gerarchia, l’organizzazione costituzionale (ma spesso anche amministrativa) ha
perso la forma piramidale e centralistica, cosicché la prevalenza della fonte
di grado superiore è perlomeno molto attenuata, perché deve essere giustificata
in modo funzionale e strutturale. Infatti, nessuna fonte sembra
autosufficiente, indipendente dalle altre. La fonte di grado inferiore è
deputata non soltanto all’esecuzione, ma all’integrazione, secondo autonome
determinazioni.
Le fonti prodotte dai diversi processi politici sono in qualche
misura parallele, cioè intervengono nei diversi ambiti che sono lasciati alle
autonome determinazioni dei circuiti decisionali cui esse appartengono. Però
ciascuno di questi processi si colloca in un complesso sistema ispirato ai
principi non di separazione e di indipendenza reciproca (secondo un certo modo
di intendere la divisione dei poteri) ma di partecipazione e interdipendenza[32].
Pertanto, le statuizioni dettate da fonti con diversa competenza finiscono per
interferire in qualche punto. In definitiva, il diritto è prodotto da
molteplici fonti interdipendenti. Sicché la regola di un fatto è stabilita non
sempre da una fonte piuttosto che da un’altra (superiore o competente), ma più
spesso dalle previsioni di molte fonti, pure di diverso grado e competenza,
integrate fra loro[33].
[1] Cfr CHESSA, La
sussidiarietà verticale come “precetto di ottimizzazione” e come criterio ordinatore, in Riv. dir pubbl.
comp. eur, 2002, 1442 ss. Pure CECCHETTI, L’ambiente tra fonti statali e
fonti regionali alla luce della riforma costituzionale del Titolo V, in Osservatorio
delle fonti 2001, a cura di De Siervo, Torino 2002, ritiene che la formula
costituzionale «secondo le rispettive competenze» non debba «necessariamente interpretarsi come riferimento
rigido alla competenza legislativa così come ripartita nell’art. 117». Peraltro
l’interpretazione che egli propone, specificamente riferita all’ambiente, è
diversa da quella qui sostenuta.
[2] Cfr. MERLONI, Il destino dell’ordinamento degli enti
locali (e del relativo Testo unico) nel nuovo Titolo V della Costituzione,
in Le Regioni, 2002, 417: «La
Costituzione fa coincidere in modo chiaro potere regolamentare e potere
amministrativo. A tutti i livelli di governo, chi ha poteri di amministrazione
ha anche il potere di disciplinarne l’organizzazione e lo svolgimento
dell’attività».
[3] Cfr. CORPACI, Gli organi di governo e l’autonomia organizzativa
degli enti locali. Il rilievo della fonte statutaria, in Le Regioni,
2002, 1016 ss., il quale peraltro perviene a conclusioni abbastanza differenti
a quelle che qui si propongono.
[4] CORPACI, Gli organi, cit., sostiene invece che
allo statuto comunale e provinciale vada applicato analogicamente il regime
previsto dall’art. 123 della Costituzione.
[5] Cfr. TOSI, Sui rapporti tra fonti regionali e fonti
locali, in Le Regioni, 2002, 967 ss., la quale peraltro riprende
un’idea di BIN, La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V della
Costituzione, in Le Regioni, 2002, 369; FALCON, Considerazioni
finali, ivi, 1039.
[6] FALCON, Funzioni amministrative ed enti locali nei
nuovi artt. 118 e 117 della Costituzione, in Le regioni, 2002, 384.
Il corsivo è testuale.
[7] FALCON, Funzioni, cit., 385, pur
escludendo che la sussidiarietà possa costituire autonomo fondamento di poteri
statali impliciti, tuttavia ammette che l’esercizio dei poteri statali
espressamente enumerati potrebbe avere effetti pressoché eguali a quelli
determinati da interventi genericamente fondati sulla sussidiarietà. Più
precisamente egli scrive: «In termini
applicativi, ad esempio, un livello di amministrazione statale in materia di turismo,
o di agricoltura, non potrà fondarsi su una “diretta” interpretazione
dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza da parte del
legislatore statale, e neppure su principi legislativi di “materia”, dato che
in tali materie non esiste una potestà legislativa statale. Ciò tuttavia non
significa che esso sia in assoluto escluso, dato che potrà trovare fondamento,
in ipotesi, nei compiti propri o concorrenti dello Stato relativi ai rapporti
internazionali e con l’unione europea, al commercio con l’estero, alla ricerca
scientifica e tecnologica, alla tutela della salute, all’alimentazione».
Infatti, a questo elenco proposto da Falcon si potrebbe aggiungere fra le
competenze riservate allo stato: la tutela della concorrenza, l’ordinamento
civile, la determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono
essere garantiti su tutto il territorio nazionale, la previdenza sociale, la
tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, l’ordine pubblico e
la sicurezza, ecc., insomma quasi tutte le ‘materie’ enumerate nel secondo
comma; fra le materie di
potestà concorrente tutela e sicurezza
del lavoro; professioni; protezione civile; governo del territorio; previdenza
complementare e integrativa; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e
promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse
rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e
agrario a carattere regionale, ecc.
[8] V. comunque TORCHIA, La potestà legislativa residuale
delle regioni, in Le Regioni, 2002, 354, secondo cui «le clausole generali di attribuzione della potestà
legislativa esclusiva statale sono specifiche e non possono essere né
surrettiziamente moltiplicate, mediante il riferimento a indeterminati poteri
impliciti, né estese oltre il loro già ampi confini, manipolando il significato
delle parole, ad esempio “scoprendo” nella determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni il vecchio limite delle riforme economico-sociali
o attraendo nel concetto di “livello essenziale” anche l’individuazione degli
assetti organizzativi e degli strumenti amministrativi per l’erogazione delle
prestazioni».
[9] Anche in proposito cfr. FALCON, Le funzioni,
cit., 385.
[10] Cfr. Corte cost., 407/2002.
[11] Sulla distinzione tra potestà residuale e concorrente
cfr. TORCHIA, La potestà legislativa residuale delle Regioni, in Le
Regioni, 2002, 352 ss.
[12] Sulla distinzione tra la riserva e la preferenza di
competenza, per tutti, cfr. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, Bologna
1996, 431.
[13] Cfr. Corte cost., 282/2002: «La nuova formulazione dell’art. 117, terzo comma, rispetto a
quella previgente dell’art. 117, primo comma, esprime l’intento di una più
netta distinzione fra la competenza regionale a legiferare in queste materie e
la competenza statale, limitata alla determinazione dei principi fondamentali
della disciplina. Ciò non significa però che i principi possano trarsi solo da
leggi statali nuove, espressamente rivolte a tale scopo. Specie nella fase
della transizione dal vecchio al nuovo sistema di riparto delle competenze, la
legislazione regionale concorrente dovrà svolgersi nel rispetto dei principi
fondamentali comunque risultanti dalla legislazione statale già in vigore».
[14] Art.
120, comma 2, della Costituzione: «Il Governo
può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle
province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati
internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per
l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela
dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali,
prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. La legge definisce le
procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel
rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale
collaborazione».
[15] Cfr. ancora CECCHETTI, L’ambiente, cit., 276,
che, per quanto riguarda specificamente l’ambiente, sostiene l’interpretazione
secondo cui «le regioni potranno e dovranno
“integrare” le esigenze di tutela dell’ambiente nell’esercizio della loro potestà legislativa in tutte le materie
di loro competenza (e in questo contesto la legislazione esclusiva dello Stato
per la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema sarà in grado di imporsi al
legislatore regionale non tanto come limite puntuale di conformità quanto come
limite generale di non contraddizione)».
[16] Cfr. ZANON, Decreti-legge, governo e regioni dopo la
revisione del titolo V della Costituzione, in www.associazioneitalianadeicostituzionalisti.it/dibattiti/riforma,
4 luglio 2002.
[17] CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale. Le fonti
normative, Padova 1978, 110: «il sistema
legale delle fonti a livello costituzionale e a livello primario è rigidamente
“chiuso” di guisa che la legge ordinaria non potrebbe istituire – senza esservi
costituzionalmente autorizzata – fonti “concorrenziali” rispetto a sé medesima,
vale a dire dotate della medesima forza, ovvero in grado di escluderla del
tutto da certe materie».
Secondo
ZAGREBELSKY, Il sistema costituzionale delle fonti del diritto, Torino
1984, 5, «nessuna fonte può creare altre fonti aventi
efficacia maggiore o anche eguale a quella propria, ma solo fonti dotate di
efficacia minore. Questa regola discende, per la parte relativa al divieto di
fonti più forti, dal principio che nessuno (in questo caso nessuna fonte) può
attribuire ad altri una forza di cui esso stesso non dispone; per la parte
relativa al divieto di efficacia eguale, dal principio del numerus clausus delle
fonti dotate di un certo grado di efficacia. Perciò, nuove fonti possono essere
continuamente create, ma solo a condizione che l’efficacia di cui siano dotate
sia minore di quella propria della fonte che le ha istituite. Detto in altri
termini, con riguardo ai processi politici di cui le fonti sono la
manifestazione, è ammissibile che un processo politico intenda prolungarsi un
altro. Ma i risultati normativi cui questo secondo può pervenire non possono
contraddire o sostituire quelli raggiunti nel primo».
[18] Così ZANON, Decreti-legge, cit. Da qui non deriva
necessariamente l’ammissibilità di decreti-legge o di decreti legislativi
regionali, come sostenuto dallo stesso Zanon. Questi atti con forza di legge
regionale sono di problematica ammissibilità perché tra le norme costituzionali
inderogabili dalla legge statutaria vi è quella che attribuisce al Consiglio
regionale l’esercizio delle potestà legislative attribuite alla regione (art.
121, secondo comma). In proposito, Corte cost., 32/1961 e 51/1962, per quanto
riguarda i decreti-legge, 50/1959, per quel che concerne i decreti legislativi.
Ma, di fronte all’odierna evoluzione del sistema delle fonti che fa traballare
l’idea gradualistica secondo cui le fonti primarie sono soltanto quelle
indicate dalla Costituzione, forse può essere perlomeno mitigato il divieto di
atti regionali con forza di legge. Inoltre, per escludere l’ammissibilità dei
decreti-legge e dei decreti legislativi regionali vale ormai poco l’argomento
(utilizzato dalla Corte costituzionale e pressoché pacifico in dottrina – ma in
proposito adesso incomincia a serpeggiare il dubbio: cfr. CARLI, L’autonomia
statutaria, in CARLI, FUSARO, Elezione, cit., 176 ss.) secondo cui
la disposizioni degli artt. 76 e 77 della Costituzione costituiscono una
eccezione, che quindi non sono applicabili fuori dei casi espressamente
previsti. Infatti, se è vero, come si sostiene nel testo, che il sistema delle
fonti regionali si fonda sullo statuto, la trasposizione alla regione di norme
costituzionali che si riferiscono al sistema statale non è scontata, anzi va
argomentata in modo specifico e realizzata con la massima prudenza.
[19] Cfr. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale,
Bologna 1977, 101 ss.
[20] Per considerazioni più ampie sul punto cfr. PINNA, Il
costituzionalismo del Secondo dopoguerra e la crisi del controllo di
costituzionalità accentrato, in Il giudizio sulle leggi e la sua
“diffusione”, a cura di Malfatti, Romboli, Rossi, Torino 2002, 489 ss.
[21] Cfr. PAJNO, Brevi considerazioni in tema di
delegificazione e controllo diffuso di costituzionalità, in Il giudizio,
a cura di Malfatti, Romboli, Rossi, cit., 474 ss.
[22] Cfr.
CHESSA, La sussidiarietà verticale nel nuovo Titolo V, in Alla
ricerca dell’Italia federale, a cura di VOLPE, Pisa 2003, 173 ss.
[23] ALEXY, Collisione
e valutazione (comparativa) quale problema di base della dogmatica sul diritto
fondamentale, in. La ragionevolezza
nel diritto (a cura di M. La Torre e A. Spadaro), Torino 2002, 37.
[24] CHESSA, La sussidiarietà, cit., 174.
[25] Il concetto sottosistema proviene dalla teoria sistemica di LUHMANN, del quale v. da
ultimo tradotto in italiano I diritti fondamentali come istituzione,
Bari 2002.
[26] Cfr RUGGERI, Le fonti, cit., 103.
[27] In questo quadro il parlamento e il suo atto tipico,
cioè la legge, sono chiamati ad un nuovo ruolo. In proposito, cfr. MANZELLA, Il
parlamento federatore, in Quaderni cost., 2002, 35 ss.
La
funzione integrativa di cui si parla nel testo sembra assai diversa dai «compiti di sintesi e di rappresentatività
unitaria», che ZANON, La funzione unitaria del Parlamento e la revisione del
titolo V, in Giur. cost., 2002, 884, attribuisce al Parlamento.
[28] ANZON, I poteri delle
regioni dopo la riforma costituzionale, Torino 2002, 208 ss., è convinta
invece che “il nuovo disegno è ispirato ad una impostazione fortemente
caratterizzata nel senso della separazione/contrapposizione tra centro e periferia”.
[29] Su cui v. PIZZETTI, L’evoluzione del sistema italiano
fra “prove tecniche di governance” e nuovi elementi unificanti. Le
interconnessioni con la riforma dell’unione europea, in Le Regioni, 2002,
658 ss.
[30] PIZZETTI, L’evoluzione, cit., 660.
[31] Cfr.
CHESSA, La sussidiarietà, cit., 178, secondo cui «il rapporto tra legge regionale e
disciplina locale si costruisce sulla falsariga del rapporto che corre tra
fonte statale e fonte regionale nelle materie di competenza residuale della
Regione, cioè in base al canone di sussidiarietà. Un rapporto che evidentemente
non può assimilarsi a quello tra legge e regolamento […]. Infatti, mentre il
rapporto tra legge e regolamento regionali riflette le dinamiche della forma di
governo, il rapporto tra legge regionale e autonomia normativa locale deve
rispecchiare le dinamiche che intercorrono tra diversi livelli istituzionali di
governo, ciascuno dei quali provvisto di un’autonoma legittimazione
democratica: deve cioè essere coerente con la logica del pluralismo
istituzionale “paritario” E quindi con il canone di sussidiarietà».
[32] Cfr. RUGGERI, La ricomposizione delle fonti in
sistema, nella Repubblica delle autonomie, e le nuove frontiere della
normazione, in Le Regioni, 2002, 704, per il quale «I “microsistemi” si sono dimostrati non già
reciprocamente incomunicabili o impermeabili – come si sarebbe voluto – bensì
aperti e disponibili a far passare “materiali” da una parte all’altra che,
integrandosi a vicenda, hanno finito con l’assumere sembianze irriconoscibili
in rapporto alle loro immagini consegnateci dal Costituente (o, meglio, da
quelle che, per questa dottrina, erano le immagini stesse)».
[33] Cfr. CHESSA, La sussidiarietà, cit., 179;
SPADARO, Sui principi di continuità
dell’ordinamento, di sussidiarietà e di cooperazione fra Comunità/Unione
europea, Stato e Regioni, in Riv.
trim. dir. pubbl., 1994, 1067.