N. 3 – Maggio 2004 – Lavori in corso –
Contributi
IL valore ORGANIZZATIVO DEI criteri di
designazione DI CUI ALL’ART. 2371 C.C., LIMITI dell’autonomia statutaria E
RUOLO “FORTE” DEL PRESIDENTE
Università di Sassari
Si pubblica, con l’autorizzazione della Casa Editrice
GIUFFRE’, il capitolo IV della recentissima monografia di Fabiana Massa Felsani: Il ruolo del presidente nell’assemblea della
S.p.A., Milano 2004,
VIII-260. Di seguito anche l’Indice-sommario del volume: Capitolo
I: La funzione ed i poteri del presidente nelle interpretazioni della
dottrina e della giurisprudenza. – Capitolo II: Il ruolo del presidente tra
profili del procedimento assembleare ed istanze di democraticità. –
Capitolo III: Il rilievo normativo della funzione del presidente nella
verbalizzazione delle deliberazioni assembleari. – Capitolo IV: Il valore
organizzativo dei criteri di designazione di cui all’art. 2371 c.c., limiti
dell’autonomia statutaria e ruolo “forte” del presidente. – Capitolo V: La funzione presidenziale nelle diverse fasi del
procedimento assempleare.
Sommario: 1. Il valore sistematico delle indicazioni che
provengono dalla norma di cui all’art. 2371 c.c. ed i riferimenti suggeriti
dalle analisi delle deleghe interne al c.d.a. – 2. Indicazione statutaria e designazione
assembleare. La clausola che sottrae all’assemblea il potere di nomina del
presidente e le conseguenti modalità di revoca. – 3. Il rapporto presidente-assemblea nella
disciplina statutaria del procedimento assembleare. – 4. Il
ruolo “forte” del presidente e le conseguenze in ordine alla tutela dei soci e
delle società.
Ai sensi dell’art.
2371, 1° comma, c.c., “l’assemblea è presieduta dalla persona indicata nello
statuto o, in mancanza, da quella eletta con il voto della maggioranza dei
presenti”.
Premesso che la strada
più frequentemente seguita nella prassi è quella dell’indicazione statutaria[1],
si deve rilevare che i problemi sollevati dall’interpretazione di questa norma,
che nella precedente formulazione stabiliva che in assenza di indicazione dell’atto
costitutivo, l’assemblea dovesse essere presieduta dalla persona “designata
dagli intervenuti”, sono legati essenzialmente ad alcuni risvolti di pratica
applicazione concernenti per lo più le modalità attraverso le quali i soci
intervenuti possono procedere alla nomina del presidente ed all’individuazione
dei compiti connessi all’assunzione di una eventuale presidenza provvisoria. La
soluzione di tali problemi è quasi sempre prospettata, nelle costruzioni della
dottrina, nell’ottica del controllo della legittimazione degli intervenuti che
devono procedere alla nomina e pertanto di essi si darà conto nella sede più
opportuna, dovendosi per il momento rilevare che solo la presenza di specifiche
previsioni statutarie ha sollevato problemi di carattere interpretativo[2],
laddove l’indifferenza dei dati normativi nei confronti delle modalità che in
concreto consentono di addivenire alla nomina in sede assembleare è
generalmente rispecchiata nella pratica[3].
La giurisprudenza è
infatti pressocché concorde nell’ammettere che il presidente possa essere
designato anche tacitamente dagli intervenuti[4],
con ciò ridimensionando, come si vedrà, i toni di un dibattito che ha finito
con l’incidere sull’individuazione dei poteri presidenziali nella fase di
costituzione dell’assemblea. E se da un lato sembra potersi condividere
l’impressione che in realtà la determinazione delle modalità di nomina del
presidente dovrebbe essere “sottratta ai dubbi interpretativi caratterizzanti
la natura e le funzioni del presidente” dell’assemblea[5],
si deve dall’altro rilevare che proprio quelle modalità rappresentano un dato
rilevante ai fini del chiarimento, se non della soluzione, di molti di quei
dubbi.
Come si è accennato,
l’art. 2371 c.c. detta i criteri generali in base ai quali deve essere
effettuata la nomina del presidente, criteri che acquistano un senso più
definito ai fini della soluzione di problemi specifici, nel necessario
collegamento con la norma contenuta nell’art. 2375 c.c. ed anche, nel confronto
con le disposizioni di cui agli artt. 2367, 2° comma, e 2409, 6° comma, c.c.,
che prospettano soluzioni del tutto diverse per quanto concerne la designazione
di chi deve presiedere l’assemblea.
Quel confronto infatti,
seppur condotto nel presupposto di situazioni non omogenee rispetto a quella
fatta presente dall’art. 2371 c.c., in quanto occasionate dall’esigenza di
superare momenti patologici, o che rischiano di divenire tali, nella vita
societaria, sottolineano la scelta di valore compiuta dal legislatore
nell’affidare ai soci, in sede di costituzione della società e anche
successivamente, una decisione che si profila come espressione della loro
autonomia organizzativa[6].
In questa prospettiva sistematica anche il tenore letterale dell’art. 2371 c.c.
potrebbe dunque suggerire di ripercorrere il ragionamento sin qui seguito
nell’ottica di una valutazione tesa a sondare le concrete capacità di
adattamento dello schema del mandato al rapporto che lega il presidente
all’assemblea. È necessario tuttavia precisare che per quanto i criteri di
nomina indicati dall’art. 2371 c.c. potrebbero fornire adeguati spunti
argomentativi in tale direzione, tale strada deve essere percorsa con cautela,
e ciò per le considerazioni già in parte svolte circa la vocazione prevaricatoria
di ragionamenti volti a sondare soluzioni coerenti sul piano concettuale ma non
necessariamente aderenti alle specifiche indicazioni che provengono dalla
disciplina del procedimento assembleare.
Occorre pertanto
precisare che l’accostamento allo schema del mandato vuole avere, almeno per il
momento (e non potrebbe essere altrimenti), una funzione meramente indicativa,
tesa a sottolineare la sostanziale analogia strutturale di una fattispecie
normativa che, soprattutto nelle s.r.l., per quanto si è detto, sembrerebbe
essere ancora caratterizzata da un “agire per conto altrui”.
È d’altra parte noto,
come si era anticipato[7],
che in altre occasioni il legislatore sembra aver ricalcato quello schema,
almeno nei caratteri essenziali, e che tuttavia, per quel che concerne la
disciplina societaria, ed in particolare le cosiddette “deleghe interne”[8]
al consiglio di amministrazione, l’inquadramento delle stesse nell’ambito
di figure giuridiche già note non sempre ha contribuito a semplificare la
comprensione del fenomeno.
La difficoltà di
riportare interamente il rapporto di amministrazione delegata nell’alveo, pur
generoso, tracciato dagli artt. 1703 e ss. c.c., e la conseguente “resa”, non
soltanto terminologica, alla particolare configurazione che riveste in quel
caso la “delega” di funzioni[9],
hanno infatti messo in luce la scarsa utilità di costruzioni volte a perseguire
una istanza di semplificazione dommatica attraverso un processo di sussunzione
di fattispecie analoghe nell’ambito della disciplina del mandato appunto e,
viceversa, l’esigenza di tener conto delle peculiarità delle specifiche, seppur
limitrofe, fattispecie normative.
In questa prospettiva
il riferimento allo schema del mandato acquista pertanto il significato di un
richiamo ad un meccanismo legislativamente collaudato nella sua “minima unità
effettuale”, che è appunto quella “dell’agire per conto altrui”[10]
e allora anche quello di sottolineare il senso delle indicazioni che, se pure
ancora con un certo margine di approssimazione, possono essere tratte
dall’argomento letterale dell’art. 2371, comma 1, c.c., e dal valore
sistematico che può essere riconosciuto a tale previsione nel contesto
normativo che dà corpo ai poteri presidenziali. Quel richiamo, d’altra parte, e
dunque il ricorso alle norme sul mandato, in presenza di quella minima unità
effettuale, appare sempre possibile, posto che, com’è stato rilevato a
proposito delle deleghe interne al c.d.a., tali norme rappresentano “pur sempre
l’espressione di principi di carattere più generale” ai quali è sempre
possibile ed anzi doveroso far riferimento, “in assenza di specifiche
controindicazioni”[11].
A meno che, nel nostro caso, non si vogliano cogliere a priori tali controindicazioni sul riconoscimento normativo dei
poteri presidenziali e allora, forse necessariamente, in una presunta
esaustività della relativa disciplina. Ciò che in definitiva sembra essere
proprio l’ipotesi da dimostrare.
D’altra parte, proprio
i problemi sollevati in sede teorica nell’analisi delle deleghe in seno ai
consigli di amministrazione offrono in proposito più di uno spunto di
riflessione, suggerendo di non addentrarsi nei meandri di ricostruzioni
teoriche volte ad appagare le esigenze di schematizzazione e di sistemazione
dommatica fatte presenti da fattispecie che presentano elementi di analogia.
In questa prospettiva,
in realtà, non sembra neanche utile cercare di stabilire se il rapporto che
intercorre tra presidente e assemblea possa essere effettivamente etichettato
come mandato o se invece, com’è avvenuto per l’amministrazione delegata, sia
più opportuno “accontentarsi” di una definizione più generica, quale appunto
quella di “delega”, così come, allo stesso modo, non sembra utile discutere
sull’appropriatezza dell’uso del termine “organo” con riferimento al presidente
dell’assemblea, allorché si condivida l’idea che tale “sintetica abbreviazione”
non potrebbe giammai tracciare un’opzione di tipo ermeneutico, ma che essa
“altro non esprime se non la concreta e positiva disciplina delle rispettive
situazioni”[12]. Sembra
dunque per il momento sufficiente osservare che per quanto molte delle
obiezioni mosse alla ricostruzione delle deleghe amministrative in termini di
mandato non presentino uguale vigore con riferimento al presidente
dell’assemblea[13] e
per quanto non sembrino sussistere altri motivi di resistenza generalmente
segnalati in quella diversa sede[14],
il rapporto assemblea-presidente non potrebbe esaurirsi nell’esclusivo
riferimento a figure (come quelle del mandato e della rappresentanza appunto),
chiamate in causa anche nella ricostruzione dei fenomeni associativi al fine di
spiegarne i meccanismi di imputazione dell’attività. Com’è stato infatti da
tempo chiarito[15],
tale prospettiva, probabilmente obbligata allorché si continui a porre al
centro del fenomeno una figura soggettiva, e dunque il momento individualistico
dell’esperienza giuridica, appare invece riduttiva e comunque inidonea, se
isolatamente considerata, a consentire la comprensione di una vicenda nella
quale prende corpo un’istanza “meta-individuale” che si esprime attraverso
un’attività ed il cui valore giuridico è riconoscibile nell’organizzazione
dell’attività stessa e dunque nella forma giuridica che la modella[16].
Né il confronto con la
disciplina delle deleghe amministrative suggerisce di ripercorrere alcune
considerazioni legate all’eventualità di una possibile “limitazione
all’operatività del metodo collegiale”[17],
non autorizzata dai dati normativi e tuttavia suggerita da esigenze di facilità
deliberativa.
La “delega” presidenziale
appare infatti con tutta evidenza frutto di una necessità che si manifesta, ma
esplica anche i propri effetti esclusivamente
sul piano organizzativo, trattandosi di funzioni che l’assemblea è costretta ex lege a delegare per ragioni
strutturali che attengono allo stesso funzionamento dell’organo. In
conseguenza, diversamente da quanto avviene nei consigli di amministrazione[18],
in questo caso, un problema di deroga del principio di collegialità neanche si
pone, in quanto il valore della delega sarebbe qui riconoscibile soltanto sul
piano esecutivo, e cioè sul piano delle concrete modalità di esercizio
dell’attività collegiale in quanto essa non coinvolge giammai i profili
sostanziali della deliberazione.
Guardando alle
previsioni contenute nell’art. 2375 c.c., e continuando a ragionare in termini
di mandato, sarebbe possibile d’altra parte osservare, così com’è stato fatto
per l’organo amministrativo, che il potere del quale è investito “l’organo”
nominato dall’assemblea si “autonomizza” rispetto a quello dell’organo che
ha effettuato la nomina, nel senso che ad esso possono competere funzioni
rispetto alle quali deve essere esclusa qualsiasi possibilità di interferenze
da parte dell’assemblea[19].
Tale lettura, resa certamente ora più agevole dalla disciplina codicistica, ma
in qualche modo già avallata dal ruolo forte che la presidenza ha assunto nello
scenario normativo disegnato dal T.U.F., apre tuttavia una prospettiva
d’indagine che non sembra utile circoscrivere nei confini di un’alternativa che
investe la fonte (originaria o derivata che sia) dei poteri presidenziali,
trattandosi piuttosto in primo luogo di chiarire fino a che punto la necessità
del ruolo presidenziale, espressa normativamente, e l’autonomia decisionale che
sembra caratterizzarlo (quanto meno con riferimento alle competenze
assegnategli dall’art. 2375 c.c.), ridimensioni realmente le possibilità di
interferenze da parte dell’assemblea. Del resto anche allorché si è ammesso
che “i poteri del presidente sono a lui direttamente riconosciuti dall’art.
2371”, nuovo testo, e che quindi gli spettano “in via originaria, e non in
quanto attribuitigli (anche tacitamente) dall’assemblea”, non si è escluso il
potere dell’assemblea di modificare o di disattendere le decisioni “che
trovano fondamento non nella legge bensì nello statuto o nel regolamento
assembleare”[20].
Così come, più in generale, anche oggi la dottrina è portata ad ammettere che,
quantomeno “con riferimento ai poteri strettamente decisori, che devono
ritenersi solo delegati dai soci al presidente, si può affermare competa sempre
all’assemblea un potere di decisione vincolante per il presidente”[21].
Il riferimento, tuttora presente in dottrina, ad una delega, pur circoscritta,
di poteri mette in luce in definitiva il vizio di fondo del ragionamento lungo
il quale si è dipanato fino ad ieri il confronto delle diverse tesi della
dottrina e che sembra risiedere nel collegamento, quasi sempre operato in modo
implicito perché presupposto come dato scontato, tra la necessarietà della figura
del presidente e la natura “istituzionale” delle relative funzioni.
Collegamento che si è tradotto nell’esplicito sillogismo che vuole il
presidente investito di poteri di natura originaria (in quanto appunto
necessari) e che in conseguenza ne ha stigmatizzato le funzioni facendo appello
alla teoria del rapporto organico[22].
Senonché non sembra che
dal carattere di necessarietà della figura presidenziale possa essere dedotta
la natura giuridica e, in tal modo, anche l’ambito ed i limiti dei relativi poteri.
Tale metodo d’indagine non poteva essere considerato valido per il passato e
tanto meno potrebbe esserlo oggi che quei poteri sono normativamente
individuati. In realtà, dalla disciplina della verbalizzazione e dalla
previsione contenuta nell’art. 2371 c.c. emergeva, già prima della riforma,
soltanto che la presenza di un presidente è presupposta come normalmente
necessaria nello svolgimento dei lavori assembleari. Tale necessarietà discende
certamente da un “principio costante, appartenente allo ius naturale[23],
ma soprattutto era ed è confermata dal sistema normativo nel suo complesso, che
presuppone, sopratuttto nella s.p.a., l’espletamento di oneri formali che
difficilmente potrebbero essere assolti dal collegio nella sua interezza o
anche solo dalla sua maggioranza.
La necessità di
“sintesi” che il presidente esprime si manifesta, infatti, sotto un profilo
tecnico-organizzativo. Essa, d’altra parte, non è contraddetta dalla
circostanza che in casi specifici e principalmente, se non esclusivamente, nel
caso di esigue compagini sociali, i compiti di presidenza possono essere
assolti in concreto dagli stessi soci[24].
Perché è pur sempre l’organizzazione che implica la necessità di quella
figura, e normalmente la esprime, come evidentemente presuppone il legislatore,
anche in compagini sociali ristrette, come naturale esigenza di qualsiasi
organo collegiale, che per quanto “interno” necessita di una sintesi a
livello comunicativo, almeno nell’adempimento delle prescrizioni formali.
Dunque dal carattere di
necessarietà della figura del presidente non potrebbe essere dedotta né la
natura originaria né l’intensità dei relativi poteri, e ciò non tanto e non
soltanto perché, sul piano sostanziale, quella figura può risultare, in qualche
caso, non indispensabile, ma anche perché l’esigenza che essa è chiamata ad
assecondare è percepibile in modo non omogeneo a seconda delle dimensioni della
s.p.a. Essa è cioè diversamente graduata in conseguenza della complessità dell’organizzazione.
Ma il legislatore non ha operato distinzioni e quella “necessarietà” è dato
normativo costante ed univalente in tutti i modelli organizzativi delle società
di capitali. Sicché esso non potrebbe non essere inteso se non nel senso che i
poteri del presidente devono, necessariamente, rispondere alle esigenze fatte
presenti sotto quel profilo di valore nel quale le norme procedimentali
chiariscono e precisano il senso della prescrizione di conformità di cui all’art.
2377 c.c.[25] e
che pertanto, in una prospettiva funzionale, la presenza ed i compiti di chi è
chiamato a presiedere l’assemblea, per definizione, non potrebbero esprimere
un’esigenza diversa, né tanto meno superiore o, per avventura, contraria a
quella dell’organo assembleare.
Una diversa
interpretazione potrebbe forse essere autorizzata utilizzando una lettura
dell’art. 2371 c.c., che, facendo leva sul primo dei criteri di nomina ivi
indicati, ne traesse la conferma di un rapporto giuridico che si viene ad
instaurare non tra il presidente e l’assemblea, bensì tra il presidente e la
società[26],
con ciò autorizzando la conclusione dell’indipendenza della posizione del
presidente rispetto all’assemblea. Per quanto la norma suggerisca come
criterio prioritario l’indicazione statutaria, specificando che solo “in
mancanza” di essa l’assemblea è presieduta dalla persona designata dagli intervenuti,
non sembra tuttavia che tali diverse modalità di nomina rivelino una
discrepanza di ordine logico né che, in conseguenza, esprimano su quel piano un
criterio preferenziale idoneo ad indirizzare o a correggere le conseguenze che
possono esserne tratte dall’interpretazione.
Viceversa, com’è stato
sottolineato, “la norma assimila i due criteri di nomina: la precostituzione
del presidente, espressione di dirigismo, e la designazione assembleare,
espressione del decentramento dei poteri[27],
riconoscendo agli stessi una valenza omogenea. Il che non soltanto sconsiglia
di ripercorrere, in chiave problematica, le tappe di un ragionamento che si
snoda nell’alternativa di un rapporto presidenziale concepito talvolta con
riferimento ai singoli soci, altra volta con riferimento alla società[28],
ma, soprattutto, suggerisce di non svalutare il dato di sostanziale neutralità
che quei criteri porgono sotto il profilo della disciplina legale dei poteri
che possono essere riconosciuti al presidente.
E in verità la diversa
circostanza dalla quale traggono origine i poteri presidenziali, si tratti
dell’atto costitutivo oppure della designazione degli intervenuti, non sembrano
avere influenza alcuna sul ruolo e sull’ambito dei compiti che spettano al
presidente quanto meno per quegli aspetti rispetto ai quali l’art. 2371 c.c. ne
specifica la funzione.
Il problema dunque
sembra investire esclusivamente momenti del procedimento rispetto ai quali il
silenzio della disciplina legale, ed eventualmente anche regolamentare,
potrebbe suscitare il dubbio che la diversa fonte dell’investitura nel ruolo
presidenziale autorizzi una differente “lettura” del rapporto giuridico che
intercorre tra l’assemblea e chi la presiede ed allora anche dei poteri e dei
margini di controllo che competono alla stessa assemblea.
Si tratta, in altre
parole, di verificare se il presidente che sia stato indicato statutariamente
abbia poteri inattaccabili in sede assembleare e comunque più forti rispetto a
quelli che competono a chi è stato designato dall’assemblea dei soci. L’ipotesi
ovviamente fa riferimento al caso in cui lo statuto non contenga ulteriori
precisazioni circa i compiti della presidenza e si riporta al quesito,
prospettato in dottrina prima delle modifiche che hanno riguardato, in
particolare, il testo dell’art. 2375 c.c., relativo al valore che può essere
riconosciuto alla clausola statutaria che sottragga all’assemblea la nomina del
suo presidente, e all’eventualità che essa possa essere interpretata come
“manifestazione della scelta di attribuire al presidente un ruolo autonomo
rispetto all’assemblea”[29].
Come si è accennato,
non sembra che la soluzione a tale quesito possa essere rinvenuta nella
considerazione che nel caso di indicazione statutaria il rapporto giuridico
presidenziale si verrebbe ad instaurare con la società e non con l’assemblea
dei soci, così come invece sembrerebbe avvenire nel caso di designazione
assembleare. A parte la intuitiva possibilità di ridimensionare tale “dato” e
di metterne in dubbio, sul piano sostanziale, le effettive potenzialità
discriminatorie[30] deve
essere sottolineato che una distinzione delle conseguenze che si riconnettono
alle due diverse modalità di nomina potrebbe essere rintracciata in primo luogo
sul piano delle modalità che concernono l’esercizio del potere di revoca del
presidente da parte dell’assemblea[31].
E che tuttavia “l’argomento non può essere sopravvalutato”[32]
per un duplice ordine di considerazioni. Da un lato, infatti, appare doveroso
registrare il disagio che deriverebbe dal tentativo di dedurre dalle
restrizioni che concernono il potere di revoca dell’assemblea ulteriori
restrizioni che investirebbero non le modalità di esercizio di quel potere,
bensì il relativo contenuto[33].
Dall’altro, è anche
possibile sottolineare che in ogni caso proprio l’individuazione di tale
contenuto ed anzi, più precisamente, dell’ambito entro cui una revoca appare
ammissibile in considerazione dell’estensione dei poteri che possono essere
riconosciuti al presidente, non potrebbe non tener conto di previsioni
statutarie che esplicitamente definiscano ulteriormente (rispetto ai dati normativi)
le competenze della presidenza, e che, evidentemente, potrebbero essere
contenute anche in statuti che non provvedono all’indicazione del
presidente e che invece ne assegnano il relativo compito ai soci intervenuti.
Ulteriori
considerazioni, ma questa volta di carattere empirico, consigliano infine di
non legare al problema “revoca” la soluzione dei quesiti che investono il
grado di autonomia del presidente, posto che le stesse valutazioni di
opportunità che possono suggerire all’assemblea di ricorrervi, non essendo
ovviamente univoche, non consentono di operare distinzioni che si colleghino
alla fonte, statutaria o assembleare, della designazione. In ogni caso infatti
difficilmente esse avrebbero occasione di estendersi oltre i confini segnati da
un abuso evidente da parte del presidente posto che la designazione di un
soggetto al quale è affidato il compito di condurre i lavori assembleari
comporta l’affidamento di un incarico che, come si è già avuto modo di
precisare, presuppone inevitabilmente una certa dose di discrezionalità, ma pur
sempre in funzione della correttezza dello svolgimento dell’attività
assembleare. Se dunque si può ritenere che “l’assemblea non ha in linea di
principio ragione di interloquire” sulle decisioni del presidente “perché il
loro legittimo esercizio da parte del presidente garantisce il perseguimento
dell’interesse comune degli intervenuti all’attività deliberativa”[34],
è anche vero che la nuova formulazione dell’art. 2371 c.c. rende più difficile
ammettere che essa conservi il potere di sovrapporsi alle decisioni
presidenziali, e cioè di “proporre e votare, anche in disaccordo con le
indicazioni del presidente, norme procedurali per ciascuna delle fasi
(discussione, votazione scrutinio) in cui si articola la riunione”[35].
Il che riduce le occasioni e la stessa ragion d’essere di una revoca ai soli casi
in cui il presidente adotti, magari ripetutamente, delle decisioni palesemente
incoerenti rispetto alla propria funzione[36]
o, ancora, si trovi in una situazione di palese conflitto d’interessi rispetto
alle deliberazioni che il collegio deve adottare[37].
Ciò, peraltro, non
chiama in causa la distinzione tra poteri ordinatori e poteri decisori, e
dunque l’eventualità, in passato messa in conto, che il mandato presidenziale
possa essere “parzialmente sottratto alle direttive dell’assemblea ogni volta
che l’esercizio del potere di direzione implica il rispetto della legge e
dell’atto costitutivo”[38].
Si vuole invece ora sottolineare che le ragioni che possono essere rinvenute a
fondamento di una deliberazione di revoca del presidente, dovrebbero risultare
circoscritte a situazioni rispetto alle quali il “conflitto” o anche l’“abuso”
risultino del tutto evidenti e cioè immediatamente verificabili, ed impediscano
il corretto proseguimento dei lavori assembleari. Esigenza quest’ultima che
sottolinea la peculiarità rispetto alle ipotesi fatte presenti dall’art. 2373
c.c. della situazione di conflitto del presidente (considerato in quanto tale,
e non solo in quanto socio o amministratore), e che induce a sottolineare la
valenza ancora una volta organizzativa di un’eventuale sostituzione operata
dall’assemblea[39].
Diversamente, la revoca
motivata dal solo dissenso rispetto ad una scelta di tipo discrezionale o
rispetto ad una decisione che implica un problema di interpretazione della
legge o dello statuto, può rivelarsi soluzione arbitraria e potenzialmente
pericolosa, perché sanzionatoria di comportamenti evidentemente non graditi
alla maggioranza, a dispetto di una possibile e reale imparzialità di chi
conduce i lavori[40].
Proprio in tali casi e,
a maggior ragione, con riferimento alle decisioni presidenziali assunte in
violazione della legge e dell’atto costitutivo occorre allora chiedersi se il
discorso non abbia tuttora ragione di risolversi in termini di responsabilità,
oltre che in sede di impugnativa della deliberazione, posto che non ci si può
nascondere, ed anzi si condivide l’idea che sarebbe in ogni caso “illusorio
vedere nella possibilità di riappropriazione da parte dell’assemblea delle
funzioni che generalmente si ritengono di competenza del presidente un momento
garantistico per i soci di minoranza, anche perché una votazione assembleare
vanificherebbe forse ogni tentativo di rendere un soggetto responsabile
dell’atto in questione”[41].
Certo, si tratta di
rilievi che hanno più che altro carattere empirico e che come tali non
intaccano la valenza di considerazioni legate alle possibilità offerte dai dati
normativi e che non portano ad escludere che il presidente, nell’esigenza di
una corretta prosecuzione dei lavori assembleari, possa essere revocato
dall’assemblea. Quei rilievi suggeriscono tuttavia di non ingigantire le
conseguenze che potrebbero essere tratte in tema di revoca del presidente da
una differenza che, per quel che concerne la fonte della nomina, statutaria o
assembleare, si esprime esclusivamente ul piano organizzativo e, soprattutto,
suggeriscono di non trasporla sul piano dei contenuti dei poteri che possono
essere riconosciuti al presidente se di nomina statutaria o assembleare.
Se l’indicazione
statutaria del presidente dell’assemblea non sembra, da sola, rivestire una
rilevanza decisiva quanto all’individuazione del grado di autonomia che
può essere riconosciuto alle decisioni presidenziali rispetto alle possibili
interferenze dell’assemblea, è necessario non sottovalutare un ulteriore
dato fornito dall’osservazione delle possibilità consentite all’autonomia
statutaria. Tale dato costringe infatti a ripercorrere i dubbi che una
regolamentazione minuziosa dei poteri presidenziali necessariamente solleva
riguardo agli ambiti decisionali che all’assemblea risulterebbero tuttora
consentiti e/o preclusi.
Nonostante i nuovi dati
normativi assegnino al presidente il compito di direzione dello svolgimento di
tutte le fasi essenziali del procedimento assembleare, si potrebbe infatti
tornare a sondare una soluzione interpretativa certamente plausibile sotto il
vigore della precedente disciplina. E cioè l’ipotesi che, allorché lo statuto
ne regolamenta dettagliatamente i poteri, le decisioni del presidente risultano
inevitabilmente svincolate dalla volontà dell’organo collegiale e che,
viceversa, allorché lo statuto tace, i poteri del presidente, teoricamente
ampi, in realtà potrebbero essere in qualche frangente ancora soggetti all’eventualità
di un controllo e di una diversa volizione assembleare[42].
E ciò, inevitabilmente, potrebbe suggerire una lettura differenziata del ruolo
del presidente in quanto lo stesso rapporto presidente-assemblea sarebbe
plasmato dalla specificità delle disposizioni statutarie, che potrebbero,
secondo qualche punto di vista, anche farlo assurgere a figura “istituzionale”,
vero e proprio organo della società.
Specularmente, si
potrebbe pertanto ipotizzare che soltanto l’assenza o l’esiguità di previsioni
che regolamentino l’attività dell’organo assembleare potrebbero consentire di
riconoscere nell’attività del presidente l’espressione immediata
dell’assemblea, tanto più immediata se la stessa abbia provveduto anche alla
relativa designazione, e quindi conservi un potere immediato di revoca.
In quest’ottica, e cioè
sondando le capacità ma anche i limiti dell’autonomia statutaria, si
potrebbe allora cercare di verificare non soltanto la possibilità che nuovi
organi societari siano creati per previsione statutaria[43],
ma anche e soprattutto l’ambito entro il quale potrebbe essere ancora oggi
consentito all’assemblea contestare ed eventualmente sovrapporsi quantomeno ad
alcune decisioni del presidente.
Quanto alla prima
possibilità, sembra doveroso annotare la considerazione della scarsa rilevanza
di una soluzione formulata in astratto circa l’ammissibilità della creazione di
organi statutari, là dove, com’è stato già rilevato, il vero problema “è quello
di individuare quali poteri e quali compiti possano essere attribuiti agli
organi statutari, analisi questa da condurre alla luce dei caratteri peculiari
dei singoli tipi societari, in relazione a ciascuno dei quali la soluzione
potrebbe essere differente”[44].
Se, dunque, il quesito
rischia di attorcigliarsi su se stesso, si deve anche rilevare che esso, alla
luce delle modifiche recentemente introdotte per le società di capitali
acquista uno spessore senz’altro ridotto[45].
L’impressione, in effetti, è che la tendenza legislativa a ragionare non più
per “tipi” quanto piuttosto per “modelli societari”, prospettiva che implica
una correlativa maggiore attenzione per l’aspetto contrattuale[46]
sollecita piuttosto un altro tipo di riflessione volta a verificare in che modo
l’accresciuto ruolo dell’autonomia statutaria può conciliarsi con la
sopravvivenza delle funzioni tradizionalmente ascritte agli organi collegiali.
Ed è proprio in quest’ottica che la sollecitazione di una puntualizzazione
dei compiti presidenziali negli statuti societari è parsa necessaria[47],
anche perché una valorizzazione del ruolo del presidente nelle assemblee delle
società per azioni, già desumibile dalle incombenze procedurali introdotte dal
T.U. finanziario, sembra essere sottolineata proprio da quell’accentuata
dimensione formalistica dell’assemblea alla quale si è fatto più volte
riferimento. Ma se il ruolo del presidente può essere chiarito soltanto in
questa dimensione, com’è stato evidenziato soprattutto con riferimento alle
società quotate da un discorso che fa perno sulla crescente
procedimentalizzazione delle funzioni ascritte al metodo collegiale, è soltanto
in questa e non in altre direzioni che possono essere sondati sia gli eventuali
limiti che l’autonomia statutaria ancora incontra nell’attribuzione di
determinati poteri al presidente, sia l’ambito entro il quale l’assemblea
conserva in ogni caso una capacità decisionale.
Quanto al primo aspetto
e nella prospettiva indicata, sembra in realtà difficile circoscrivere il
potere di autoregolamentazione dei soci se non in vista di una considerazione
di indisponibilità degli interessi in gioco. Indisponibilità che, come si è
visto, già precedentemente alla riforma sembrava dover essere esclusa in base
alla considerazione che l’attribuzione statutaria di determinati poteri al
presidente non avrebbe potuto incidere su situazioni estranee allo stesso
potere della società, bensì, esclusivamente, su aspetti che attengono alla sola
regolamentazione dei lavori assembleari, come l’accertamento della
legittimazione all’intervento ed al voto, la regolamentazione della
discussione, la scelta del sistema di votazione, il rinvio dell’assemblea, la
proclamazione dei risultati. Competenze queste che già per il passato rendevano
evidente la neutralità del riconoscimento statutario sotto il profilo di valore
indicato dall’art. 2377 c.c., posta l’equivalenza delle conseguenze che,
sul piano patologico, possono scaturire dalle decisioni in parola, siano esse
prese dal presidente o adottate dall’assemblea[48].
Anche rispetto a tali
decisioni, tuttavia, non è sempre possibile escludere a priori uno sconfinamento dagli ambiti decisionali che competono
alla stessa società, sicché nell’ottica suggerita dalla recente riforma, una
disciplina statutaria dei compiti e dei doveri connessi alla funzione
presidenziale è ancora auspicabile (ed in tal senso, infatti, depone l’art.
2364, comma 1, n° 6), così come sarebbe stato forse opportuno affiancare alla
nuova disciplina dei vizi delle deliberazioni e all’adozione di strumenti di
tipo risarcitorio[49]
la precisazione, tuttora assente, della responsabilità, verso la società e
verso i soci, di chi presiede l’assemblea.
Il discorso finisce
allora per concentrarsi sul significato organizzativo delle previsioni
contenute nello statuto (o nei regolamenti assembleari) e sul valore che esse
custodiscono in quanto predefinizione dell’attività procedimentale dell’assemblea.
Ma è proprio questo il punto. Se la disciplina statutaria dei poteri presidenziali
non è altro che disciplina dell’attività dell’organo assembleare, se, in
altri termini, essa non specifica altro che le modalità ed i criteri di
funzionamento dell’assemblea, la circostanza che la legge assegni oggi al
presidente il ruolo di guida della procedura assegnandogli esplicitamente, tra
l’altro, il potere, di rilevanza centrale, di regolarne lo svolgimento.
Sembra ridurre
inevitabilmente il significato delle scelte consentite all’autonomia
statutaria, soprattutto se quel significato volesse essere colto sul piano
delle possibilità di “recupero” dei poteri da parte dell’assemblea e dunque
di sovrapposizione dell’assemblea alle decisioni del presidente, anche con
riferimento alle pieghe più silenziose dello statuto[50].
In effetti
l’eventualità e, come si è detto, l’auspicio di una regolamentazione
dettagliata dell’attività assembleare, rivela una propria ragion d’essere su
tutt’altro piano, che è quello di una predefinizione non tanto dei compiti
quanto delle modalità di esercizio degli stessi ed anche dei limiti entro i
quali il presidente può assumere decisioni, che sono altrimenti affidate
soltanto alla sua discrezionalità. Pre-regolamentazione che ha dunque la
funzione di sottrarre al presidente le incertezze occasionate da valutazioni
contingenti e di ridurre le possibilità di abusi, anche di carattere
involontario.
Viceversa, l’assenza di
specifiche previsioni statutarie riguardo ai criteri ai quali il presidente
dovrebbe uniformare la propria attività, non sembra poter recuperare alla
competenza assembleare gli spazi per un’autodeterminazione di carattere
procedimentale che le nuove norme hanno di fatto compreso. Considerazioni
eventualmente diverse rispetto a quelle che concernono le decisioni relative
alla nomina ed alla revoca del presidente (ma il discorso potrebbe riguardare
allo stesso modo anche la nomina del segretario e del notaio) la cui valenza
organizzativa appare logicamente prioritaria[51].
Ed in effetti l’ipotesi che l’assemblea non possa ad esempio provvedere alla
sostituzione del presidente di nomina statutaria venuto a mancare per un
qualsivoglia motivo, non soltanto sottrae, senza che se ne vedano le ragioni,
una possibilità di funzionamento all’organo assembleare[52],
ma evidenzia ancora una volta il piano sul quale devono essere rintracciate le
eventuali differenze che specifiche previsioni statutarie imprimono alle
dinamiche del procedimento assembleare. Differenze che evidentemente non si
appuntano sul rapporto presidente-assemblea, né sulle sue presunte “anomalie”,
quanto piuttosto, e più sommessamente, sull’articolazione concreta e dunque
sulla predefinizione dei criteri in base ai quali devono svolgersi i lavori
assembleari.
Se dunque il rapporto
tra presidente e assemblea non muta né in conseguenza dei diversi criteri di
designazione indicati dall’art. 2371 c.c., né in conseguenza di specifiche
clausole dello statuto che regolamentino le modalità di svolgimento dei compiti
della presidenza, il discorso sull’eventuale dipendenza o autonomia del relativo
ruolo perde evidentemente interesse, così come perde significato la necessità
di tracciare le linee che ne giustificherebbero un legame con la natura
(originaria o derivata) della fonte.
Le indicazioni
legislative ed anche il significato della regolamentazione statutaria
dell’attività assembleare sembrano piuttosto suggerire di guardare ai poteri
del presidente soltanto in termini di modalità del relativo esercizio e quindi
come manifestazione del grado di autonomia che la stessa assemblea possiede nel
regolamentare i propri lavori. Come conseguenza cioè della maggiore o minore
compiutezza dei criteri organizzativi normativamente predeterminati ed in
relazione ai quali un problema di compatibilità si pone in definitiva pur
sempre in relazione ai principi fondamentali che governano lo schema tipico
delle s.p.a.[53].
Prospettiva, quest’ultima, che certamente implica la considerazione di tutti
gli interessi coinvolti nel procedimento decisionale, ma che non sembra
chiamare in causa quei profili di valore recentemente messi in luce dagli
obiettivi, a carattere preminentemente patrimoniale, che appartengono alla
logica del “mercato”, se non nell’ottica dell’informazione da questo
attesa[54].
In questo caso infatti, la valutazione delle possibilità di definizione delle
regole di organizzazione interna che attengono al momento procedurale
dell’attività deliberativa, non sembra percorsa dai dubbi emersi allorché
l’attenzione è stata spostata sui soggetti, ed in particolare sulle diverse
modalità di reclutamento del capitale di rischio e di quello di credito[55].
Problematica certamente legata, nel confronto tra società chiuse e società
aperte, alla constatazione dei diversi modi in cui viene in considerazione,
nelle società aperte, il socio (azionista di minoranza)[56].
In una prospettiva di
mercato che è poi quella fatta presente dal T.U.F., la considerazione
dell’azionista in quanto risparmiatore (e più precisamente in quanto
speculatore disinteressato alla gestione della società), solleva infatti gli
inevitabili quesiti connessi alla tutela delle posizioni contrattuali più
deboli, che si definiscono sostanzialmente “per adesione” a programmi definiti
(e modificati) unilateralmente dall’emittente e che in conseguenza vengono
subiti (dal risparmiatore) senza reali possibilità di interferire[57].
Diversamente allorché
il riferimento soggettivo si puntualizzi sugli azionisti attivi, e cioè
considerati in quanto soci “che, possedendo titoli, non possono o non vogliono
negoziarli”[58]. In
questa prospettiva infatti, che è anche l’unica a presentare una valenza
omogenea, nelle società quotate così come in quelle non quotate[59],
il problema dei limiti entro i quali l’autonomia statutaria può definire i
compiti presidenziali, e dunque le modalità di svolgimento del processo decisionale,
prende corpo con riferimento ai casi in cui siano in dubbio gli stessi poteri
dell’assemblea o anche la possibilità di derogare a condizioni o termini che
sembrano delineare, nel sistema normativo, requisiti di validità della stessa
deliberazione. Così, ad esempio, nel caso in cui lo statuto attribuisca al
presidente il potere di escludere dall’assemblea il socio che disturbi lo
svolgimento delle operazioni, o di escludere dal voto il socio in conflitto di
interessi, o qualora gli si riconosca il potere di declinare la richiesta di
rinvio dell’assemblea (sulla base di una valutazione che concerna l’esistenza
dei requisiti richiesti dall’art. 2374 c.c.) o quello di sciogliere, senza
adeguata motivazione, la riunione assembleare. Ipotesi tutte che, in ogni caso,
devono essere valutate non soltanto sotto il profilo di legittimità a cui si è
ora fatto riferimento, ma anche nell’ottica della possibile incidenza dei
poteri presidenziali su una corretta dialettica assembleare, non soltanto nella
prospettiva, oggi più consueta, che presuppone la contrapposizione tra
maggioranza e minoranza, ma anche in quella che guarda al singolo socio e agli
interessi di cui è portatore; in una dimensione, quindi, attenta alle posizioni
sostanziali rispetto alle quali il problema della tutela non dovrebbe
presentarsi necessariamente legato ai dati numerici e formali attraverso i
quali si definisce l’appartenenza del socio alla “minoranza”[60],
e che tuttavia risente, o più risentire, dei limiti numerici posti dall’art.
2377 c.c., nuovo testo, per l’impugnazione della deliberazione da parte dei
soci.
È evidente che questa
non potrebbe essere l’occasione per ripercorrere i problemi e i dubbi che
negli anni la dottrina ha attraversato riguardo alle posizioni soggettive dell’azionista
ed in particolare alle difficoltà di adattamento che la stessa nozione di
diritto soggettivo tradisce nella trasposizione a fenomeni di tipo associativo[61].
È tuttavia altrettanto evidente che la riforma del diritto societario apre su
questo terreno prospettive nuove anche per quel che concerne i compiti di
direzione dell’assemblea; e ciò sia che ci si ponga dal punto di vista delle
situazioni soggettive, prime tra tutte quelle relative al diritto di intervento
e al diritto di voto, che potrebbero subire una lesione immediata dalle
decisioni adottate dal presidente, sia che ci si ponga nell’ottica delle
eventuali contraddizioni rispetto ai principi fondamentali che informano la
disciplina societaria[62].
L’attenzione ai singoli
momenti della disciplina societaria, potrà allora contribuire a chiarire il
senso che può nella sostanza acquisire il riconoscimento di determinati poteri
al presidente[63], ed
il peso che la relativa attribuzione statutaria riveste nel complesso delle
dinamiche procedimentali nelle quali interessi individualistici e di tipo
collettivo convergono in una sequenza che, com’è stato da tempo sottolineato,
non dovrebbe suggerire soluzioni di contrapposizione o di reciproca esclusione
bensì di necessaria compenetrazione[64].
Il punto è che proprio quest’ultimo profilo rappresenta uno dei momenti più
controversi della riforma. In particolare, come la dottrina ha ben
sottolineato, la disciplina dell’invalidità delle deliberazioni assembleari,
nell’assecondare quegli obiettivi di stabilità e di certezza dell’attività
sociale fatti presenti dalla legge delega (art. 4, co. 7, lett. b), restringe
sensibilmente gli spazi di tutela fino a ieri riconosciuti agli azionisti sul
piano reale[65] e li
sostituisce, con una tutela di tipo obbligatorio, sulla cui incisività
insistono non pochi dubbi[66].
Il discorso generalmente
affrontato nell’ottica della tutela delle minoranze e dunque dei rimedi che sul
piano sostanziale l’ordinamento ora porge, sollecita però dal nostro punto
di vista anche un altro tipo di lettura, che si riallaccia alle considerazioni
precedentemente svolte in ordine alla procedimentalizzazione delle funzioni
tradizionalmente ascritte al metodo assembleare.
Come si era già avuto
modo di rilevare[67],
l’accresciuta dimensione formalistica della vicenda assembleare sottolinea il
definitivo riconoscimento del valore organizzativo della deliberazione e con
essa una prospettiva di tipo oggettivo nella quale risultano assorbite ed
inevitabilmente ridimensionate le istanze di carattere individualistico. In
questo frangente della disciplina l’autonomia statutaria, della quale la
riforma ha fatto il proprio vessillo, non ha evidentemente spazi significativi.
E non potrebbe essere altrimenti, posto che è proprio nelle norme
procedimentali ed in quelle che ne salvaguardano la certezza applicativa che
poggia l’elemento di stabilità dell’attività sociale che il legislatore ha
dichiarato di voler proteggere.
La previsione di cui
all’art. 2371 c.c. sembra allora collocarsi perfettamente in tale contesto nel
quale viene a rappresentare, in vista del perseguimento delle medesime
finalità, un ulteriore elemento di rassicurazione. E ciò proprio perché la
sfera delle competenze presidenziali è tracciata ad ampio raggio e con
riferimento a tutte le fasi del procedimento assembleare, in modo da assegnare
all’autoregolamentazione dei soci un significato ridotto. Né sembra che
la scelta compiuta dal legislatore debba essere considerata come
necessariamente lesiva delle prerogative assembleari, perché al contrario, come
era già stato messo in luce precedentemente alla riforma[68],
il riconoscimento del ruolo forte del presidente può rispondere, ed in realtà
vuole rispondere, all’esigenza di un’esatta applicazione delle norme che
garantiscono gli interessi tutelati dal procedimento. Così almeno in teoria e
muovendo dal presupposto che quella funzione sia esercitata realmente super partes e al di fuori delle logiche
che governano i rapporti tra maggioranza e minoranza. Il punto è che al
riconoscimento di poteri ampi nel nuovo testo normativo non corrisponde
previsione alcuna in tema di responsabilità del presidente né sono previste
sanzioni diverse, idonee a fungere da deterrente a comportamenti abusivi[69],
come potrebbe essere, ad esempio, quella rappresentata dal divieto di ricoprire
cariche di carattere amministrativo nelle imprese.
E la mancata previsione
di una qualsiasi conseguenza di carattere sanzionatorio risulta particolarmente
“sentita” se si considera che la salvezza delle deliberazioni afflitte da vizi
procedurali concerne per lo più ipotesi nelle quali il vizio è dovuto
presumibilmente proprio ad errori di calcolo o di valutazione da parte del
presidente dell’assemblea (art. 2377, co. 4).
La constatazione che
sotto tale profilo la riforma del diritto societario (diversamente da quanto
era logico attendersi[70]),
ci riporta dunque alle considerazioni già svolge in passato dalla dottrina
circa la possibilità, ed anche la necessità, di rintracciare nei principi
generali del nostro ordinamento i criteri in base ai quali il presidente
dovrebbe rispondere del proprio operato.
Come si può brevemente
ricordare, il problema per il passato non si è appuntato tanto sulla
possibilità di riconoscere la responsabilità, in caso di abusi, di chi presiede
allo svolgimento dei lavori assembleari, posto che, “come per ogni altro comportamento
umano, può teoricamente porsi un problema di responsabilità ai sensi dell’art.
2043 c.c.”[71],
quanto sulla possibilità di configurare una responsabilità del presidente di
tipo contrattuale[72],
quanto meno nei confronti della società[73],
e allora di applicare i più severi parametri in base ai quali dovrebbe esserne
valutato il comportamento.
Prospettiva
quest’ultima che se da un lato ha indotto ad escludere che al presidente possa
essere imputata responsabilità alcuna per le decisioni di tipo discrezionale
che vengano, anche tacitamente, approvate dall’assemblea[74],
dall’altra ha suggerito un accostamento con la responsabilità degli
amministratori della società e allora anche al criterio di diligenza del
mandatario così come fatto presente (oggi con diversa formula) dalla norma di
cui all’art. 2392 c.c.[75].
Quanto al primo
aspetto, sembra ora necessario sottolineare l’eventualità che le occasioni, ma
anche i motivi in base ai quali era possibile fino a ieri circoscrivere o anche
escludere la responsabilità del presidente, appaiono nella nuova disciplina
poco evidenti quando non del tutto assenti. E ciò non solo perché, come si è
potuto osservare, l’eventualità che l’assemblea possa sovrapporsi alle
decisioni del presidente e pronunciare la parola finale in ordine alle
decisioni di carattere procedimentale sembrerebbe oggi ridotta ai minimi
termini[76],
ma anche perché la stessa distinzione tra poteri ordinatori e poteri
discrezionali sulla quale veniva fondata la giustificazione di possibili
limitazioni della responsabilità del presidente sembra aver smarrito, in base
al tenore del nuovo art. 2371, una reale ragion d’essere[77].
Considerazioni che
inducono a non “alleggerire” il tema della responsabilità, né con riferimento
al profilo di discrezionalità presente nelle diverse decisioni, né avendo
riguardo ai criteri in base ai quali dovrebbe essere valutato l’operato del
presidente. Se pertanto la possibilità che il presidente risponda nei confronti
della società in base al criterio della “diligenza richiesta dalla natura
dell’incarico” e della specificità delle relative competenze[78]
non sembra trovare nel sistema adeguati spunti per una smentita[79],
il problema di fondo, fatto presente soprattutto dalla giurisprudenza[80],
si appunta pur sempre sulla difficoltà di rintracciare in concreto il nesso che
deve ricorrere tra il danno causato alla società e/o ai soci dai vizi della
deliberazione e le decisioni adottate dal presidente. Problema aperto[81]
dunque, che in realtà – come risulta anche dalle più recenti analisi della dottrina
– si colloca a monte, e cioè nella difficoltà di ricondurre alle irregolarità
del procedimento assembleare un danno risarcibile in senso tecnico[82].
[1] Cfr. in arg. i dati forniti da S.
Zunarelli, L’organizzazione
dell’assemblea nella prassi statutaria, cit.,
223, e da U. Morera - G. Niccolini,
Spigolature da un Busarl, cit., 367. V. inoltre D. Cenni, Presidente di assemblea, cit.,
852.
[2] In una prospettiva inconsueta e rispetto alla quale non risultano
precedenti giurisprudenziali si colloca una recente sentenza della S.C. (Cass., 8 giugno 2001, n. 7770, in Notariato, 2003, n. 1, 48 ss. con Il Commento di Rossella Manfrè),
chiamata a pronunciarsi sulla validità di una deliberazione assembleare
adottata in una seduta nella quale i soci riuniti avevano designato come
presidente una persona presente in assemblea su delega di uno dei soci. Il
vizio procedurale lamentato dai ricorrenti si basava sul fatto che, nel caso di
specie, lo statuto della società prevedeva che l’assemblea dovesse essere
presieduta dall’organo amministrativo e, in mancanza, da un azionista nominato,
a maggioranza, dagli intervenuti. La Cassazione, muovendo dalla considerazione
che tale tipo di disposizione statutaria non è diretta ad ampliare i poteri
degli azionisti bensì “a limitare i poteri dell’assemblea stessa nella scelta
del presidente”, ha stabilito che “il mandato conferito ad altro soggetto, che
non rivesta tale qualità, di rappresentarlo in assemblea non è idoneo a
conferire a quest’ultimo anche la legittimazione a presiederla”. Sulla
decisione, che coinvolge valutazioni in ordine al significato che può essere
riconosciuto alla disposizione di cui all’art. 2371 c.c., si tornerà nel
prossimo capitolo.
[3] Ed in effetti si tratta di operazioni alle quali è generalmente
estraneo “qualunque rigore di forma”, pervenendosi alla nomina del presidente
sulla base della proposta di un nome generalmente avanzata da uno o più
presenti, e che gli intervenuti “convalidano per acclamazione, o (con riferimento
alla quale) si astengono da opposizioni: l’indicato presidente si ha allora per
validamente nominato”. Cfr. A. Morano,
Il presidente dell’assemblea, cit., 405; O. Paciotti, Osservazioni,
cit., ove anche l’appunto cui
poc’anzi si accennava nel testo circa l’eventualità “che codesti modi sommari
di provvedere a preliminari necessità di funzionamento possano implicare una
designazione eventualmente illegittima, nel senso che vi abbiano concorso
persone non legittimate”, ponendosi allora il problema, sul quale torneremo in
seguito, delle modalità attraverso le quali può essere esplicato il controllo,
nonché del momento in cui esso deve intervenire.
[4] Cfr. App. Milano, 18 ottobre 1968, in Foro it., 1969, I, c. 506 ss., nel senso che “non è necessaria la formale
nomina di presidente dell’assemblea quando gli intervenuti hanno di fatto
consentito l’esplicazione di funzioni presidenziali da parte di uno degli
intervenuti” (nella specie rappresentante comune degli obbligazionisti), ciò in
quanto “la designazione di cui parla l’art. 2371 cod. civ. ben può essere
ravvisata in un comportamento del genere di quello or ora posto in luce stante
il suo significato del tutto univoco di consenso all’assunzione ed
all’esercizio dell’ufficio dalla norma previsto”. Soluzione richiamata e
condivisa dal Trib. Milano, 11 aprile 1988, in Giur. it., 1988, I, 2, 305, con la precisazione che la designazione
tacita è rilevante ai sensi dell’art. 2371 c.c. in quanto non siano
intervenute opposizioni o contestazioni da parte dei soci presenti. Cfr. anche,
di recente, Trib. Milano, 16 marzo 1998, in Giur.
it., 1998, I, 2, 1426, che equipara ad una designazione tacita del
presidente anche l’assenza di contestazioni, in sede assembleare, alla
prosecuzione dell’incarico di presidenza da parte dell’amministratore unico
revocato dalla carica in seguito all’azione sociale di responsabilità approvata
da oltre un quinto del capitale sociale. In tal senso v. anche A. Morano, op. loc. ult. cit.; diversamente cfr. M. Marulli, Assemblea di
società per azioni, 3a puntata, cit.,
340.
Con riferimento a questa ipotesi specifica v. anche Trib. Napoli,
28 settembre 1988, in Giur. comm.,
1991, II, 327 ss., con nota di G.
Palmieri, Nomina dei nuovi
amministratori ex art. 23933 c.c., conflitto di interessi e “casting vote”,
che, pur ritenendo che “la mancata nomina di un nuovo presidente non sarebbe,
in sé, motivo di illegittimità della delibera”, è tuttavia pervenuta nel caso
specifico ad opposte conclusioni in quanto alla carica di presidente era stato
collegato l’effetto, previsto dallo statuto, “di attribuire, in caso di parità,
prevalenza al voto del soggetto che abbia svolto questa funzione in occasione
della delibera”, fattispecie giudicata analoga a quella dell’emissione di quote
a voto plurimo. In tal senso cfr. già D. Pettiti,
Note sul presidente, cit., 499.
[6] Risulta invece meno agevole conciliare il senso delle disposizioni
di cui agli artt. 2367, 2° comma, e 2409, 6° comma, c.c., con il “valore
sintomatico” della clausola statutaria che contenga l’indicazione del
presidente, se tale valore dovesse essere rintracciato nell’espressione di una
scelta (quella di affidare al presidente un ruolo autonomo rispetto
all’assemblea), che non è invece possibile cogliere nel caso in cui la nomina
del presidente resta affidata ai soci intervenuti in assemblea. Cfr. sul punto,
diversamente, R. Sacchi, Il presidente dell’assemblea, cit., 552 e 553, testo e nota 63. In
senso contrario si può notare che le disposizioni richiamate sottraggono ai
soci il potere di designare il presidente in ipotesi in cui, come sottolinea lo
stesso Sacchi, il rischio di abusi del gruppo di controllo appare accresciuto,
e ciò comporta l’attribuzione al presidente di un potere propositivo (v. art.
2409, 4° e 5° comma, c.c.) altrimenti sconosciuto perché motivato
esclusivamente dalla gravità del momento e cioè anche dalla prospettiva che il
rimedio possa essere quello della messa in liquidazione della società. In
questi frangenti dunque il potere decisorio che può essere esercitato da chi
presiede l’assemblea sembra piuttosto essere legittimato dalla stessa fonte
della nomina (il presidente del Tribunale o il Tribunale come collegio),
rivelandosi del tutto slegato, ed in ogni caso necessariamente estraneo al
valore che, eventualmente, potrebbe essere riconosciuto alla designazione
statutaria.
[8] Sulla confusione terminologica in argomento, dettata dalla scarsa
chiarezza dei concetti di fondo cfr. G.
Ferri, jr., Le deleghe interne,
cit., 167 ss.
[9] In realtà riconduce esplicitamente il rapporto di amministrazione
delegata alla figura del mandato soltanto il Brunetti,
Trattato del diritto delle società2,
II, Milano, 1948, 370, laddove le successive elaborazioni dottrinali hanno
avuto prevalentemente a cuore la necessità di sottolineare le peculiarità del
rapporto che si viene ad instaurare ex art. 2381 c.c. rispetto ad un vero e
proprio contratto di mandato. Per l’individuazione delle caratteristiche di tale
rapporto di “delega” in seno al c.d.a., cfr., da diverse angolazioni, A. Borgioli, L’amministrazione delegata, Firenze, 1982; Id., La
delega di attribuzioni amministrative, in Riv. soc., 1981, 17 ss.; O.
Cagnasso, Gli organi delegati
nella società per azioni, Torino, 1967; Id.,
L’amministrazione collegiale e la delega,
in Tratt. delle soc. per azioni diretto
da G.E. Colombo e G.B. Portale, vol. IV, Torino, 1991, 243 ss.; F. Bonelli, Gli amministratori di società per azioni, in Tratt. di diritto privato diretto da P. Rescigno, vol. 16, Torino,
1985, 427 ss.
[10] Quel richiamo appare possibile in quanto l’art. 1703 c.c., “nel
dare la nozione del mandato, menziona soltanto l’obbligazione del mandatario di
compiere l’attività gestoria”, sicché questa può essere considerata appunto “la
minima unità effettuale del mandato”, unità nella quale si esprimono le note
elementari della figura, le quali fanno emergere la funzione che la stessa
persegue come atto di autonomia privata”, laddove “tutti gli altri possibili effetti
che la legge ricollega al mandato appaiono perciò eventuali, non
indefettibili”. In tal senso cfr. A.
Luminoso, Mandato, Commissione,
Spedizione, in Tratt. di dir. civ. e
comm. diretto da A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1984, vol. XXXII, 43 ss.;
v. anche G. Bavetta, voce Mandato (dir. priv.), in Enc. dir., XXV, Milano, 1965, 322.
[11] Cfr. A. Borgioli, L’amministrazione delegata, cit., 146; O. Cagnasso, Gli
organi delegati, cit., 116.
[12] R. Weigmann, Responsabilità e potere legittimo degli
amministratori, Torino, 1974, 71 e, in senso analogo, A. Borgioli, La delega di attribuzioni amministrative, cit., 17 ss., 31, nonché Id.,
L’amministrazione delegata, cit., 24, ove la precisazione che il riferimento
al concetto di organo ha “una funzione essenzialmente ideologica, in quanto
serve a costruire la capacità di agire delle persone giuridiche, rendendole
idonee a volere e ad agire direttamente: quindi non tanto una funzione
normativa o comunque giuridica, ma, se mai, costruzionistica se non addirittura
mistificante” mentre, “per altro verso, esso ha una funzione descrittiva”.
Ragionando diversamente, si dovrebbe invece in ogni caso mettere in
conto che alla stessa teoria del rapporto organico potrebbe essere riconosciuta
o negata la capacità di “adattamento” al fenomeno delle deleghe in seno ai
consigli di amministrazione, ma anche, si deve ritenere, in seno all’assemblea,
in conseguenza della nozione di organo che si sia di volta in volta accolta.
Cfr. sul punto O. Cagnasso, L’amministrazione collegiale e la delega,
in Tratt. delle soc. per azioni diretto
da G.E. Colombo e G.B. Portale, vol. IV, Torino, 1991, 243 ss., 288, il quale
rileva che la tesi che respinge la teoria organica sottolinea l’assenza, negli
amministratori delegati, di una sfera di poteri autonoma e diversa rispetto a
quelli che competono al c.d.a., la cui competenza è invece concorrente. E ciò
in quanto tale costruzione presuppone appunto che all’organo debba essere
necessariamente attribuita una “sfera autonoma e diversa di poteri”, laddove,
viceversa, se “si accoglie una nozione di organo che faccia perno
sull’attribuzione di una sfera di competenze (e sulla correlativa
responsabilità), l’incompatibilità denunciata non pare sussistere”.
[13] In particolare, si potrebbe osservare che la delega di poteri al
presidente da parte dell’assemblea non è caratterizzata, a differenza di quanto
avviene nell’organo di amministrazione, “per l’ampiezza delle funzioni
delegabili”. Cfr. P. Abbadessa, La gestione dell’impresa nella s.p.a., cit., 103. In seno al c.d.a., infatti,
la delega attiene ad un potere decisionale che può concernere, e il più delle
volte concerne, le scelte di fondo della politica gestionale (al punto da
indurre la considerazione che la disciplina giuridica della delega di potere
amministrativo appare evidentemente inadeguata all’importanza che il sistema
delle deleghe ha assunto nella pratica delle società per azioni: v. G. Fanelli, La delega di potere amministrativo nella società per azioni,
Milano, 1952, 14 ss.). Il che consente di configurare il comitato esecutivo
quale comitato direttivo, rendendo perciò problematica la ricostruzione del
rapporto di “delega” in termini di mandato. Termini che invece implicherebbero
che i delegati assumano “l’esclusiva posizione di esecutori della volontà del
consiglio”: O. Cagnasso, L’amministrazione collegiale e la delega,
cit., 286-287.
Diversamente, per quanto concerne i poteri del presidente, con
riferimento ai quali l’ambito della delega sembrerebbe già normativamente
preindividuato, almeno nelle linee di fondo, e comunque non potrebbe essere
giammai idoneo ad incidere sulle scelte “strategiche” dell’organo assembleare.
[14] Contro la tesi che configura nei termini di un mandato il rapporto
tra amministratore delegato e c.d.a. è stato infatti rilevato che “tale
concezione rispecchia un modello di delega di potere amministrativo
storicamente superato, caratterizzato dalla natura di mero fatto interno al
consiglio, di strumento per ripartire i compiti con esclusiva rilevanza
interna”, laddove occorre tener conto delle diverse indicazioni che provengono
dai dati normativi e dunque principalmente dal fatto che “da un lato, la
responsabilità dei componenti gli organi delegati (e quindi i loro doveri)
sussistono nei confronti della società; dall’altro [che] la delega importa la
cessazione della responsabilità degli amministratori con riferimento alle
attribuzioni delegate ed il sostituirsi di una responsabilità indiretta per
omessa vigilanza attiva”. Cfr. O.
Cagnasso, Gli organi delegati
nelle società per azioni, cit.,
27 ss.
Senonché nessuna di tali “controindicazioni” normative sussiste nei
confronti del presidente dell’assemblea. Nel nostro caso, infatti, il dato
normativo tace, sicché sia la responsabilità del “delegato”, sia quella che fa
capo all’organo delegante dovranno essere desunte dalla logica del sistema con
l’ausilio, se necessario, dei principi di carattere generale che delineano i
tratti fondamentali di un’attività di tipo gestorio. Ed è proprio in
quest’ottica che il richiamo alle norme in tema di mandato risulta senz’altro
possibile, ed anzi doveroso. Per rilievi analoghi cfr. A. Borgioli, L’amministrazione
delegata, cit., 146; O. Cagnasso, Gli organi delegati, cit.,
116.
[16] Anche tale prospettiva, che implica la ricostruzione del fenomeno
associativo in termini “oggettivi”, non esclude tuttavia la possibilità del
riferimento alla rappresentanza. Tale possibilità, anzi, come rileva a
proposito degli amministratori della società P.
Ferro-Luzzi, op. ult. cit.,
287 testo e nota, affiora sul piano concreto, in quanto “agente è sempre una
persona” e sta ad indicare “il momento dell’atto, e in sua funzione una
caratterizzazione, non autonoma né esauriente, ma inerente invece alla più
ampia figura di produzione dell’intera azione”.
[17] Cfr. O. Cagnasso, L’amministrazione collegiale e la delega,
cit., 290, anche per la
considerazione che la soluzione a tale problema è da rinvenirsi nella
constatazione che “l’unità della gestione è garantita dalla competenza
concorrente del consiglio e dal potere di revocare in ogni momento la delega”
laddove la permanenza della responsabilità dei deleganti appare come l’unica ed
effettiva garanzia di unità della gestione.
[18] In relazione alla cui funzione “si possono idealmente separare due
aspetti”, il primo dei quali soltanto attiene alla fase decisoria dell’attività
dell’organo, mentre il secondo, che concerne la sola “fase esecutiva, o di
attuazione, momento essenziale della quale è la funzione rappresentativa”,
resta del tutto estraneo alla decisione collegiale. Cfr. A. Borgioli, L’amministrazione delegata, cit.,
77.
[19] Cfr. V. Buonocore, Legittimazione all’intervento, cit., in part. 1051, il quale,
riportandosi alle osservazioni di G.
Minervini, Gli amministratori di
società per azioni, Milano, 1956, 218 ss., a proposito della sfera di
autonomia e delle competenze di tipo esclusivo che spettano agli
amministratori, una volta eletti dall’assemblea, sottolinea il carattere
comune di un meccanismo che, in ultima analisi, non consente all’assemblea di
“interferire quando e come voglia sull’operato degli organi da lui emanati” e
che pertanto, anche con riferimento a chi presiede l’assemblea, concede ben
pochi spazi all’organo che ha effettuato la nomina al di fuori di quello
fondamentale, che concerne “il potere di revocare la fiducia accordata, nel
caso in cui si ritenga che l’investito abbia abusato di tale fiducia”.
[20] Così G.A. Rescio, Assemblea dei soci. Patti parasociali,
in Diritto delle società di capitali,
Milano, 2003, 112 e, analogamente, Associazione
Preite, Il nuovo diritto delle
società, cit., 126.
[22] È soltanto tale ultima “connessione logica” quella che normalmente
affiora negli orientamenti prospettati ed anche criticati dalla dottrina (cfr. retro, cap. I, § 1), laddove le premesse
dalle quali essa scaturisce non risultano mai analizzate, rappresentando la
“naturale” alternativa alla tesi prospettata dal Salanitro ed in particolare all’argomentazione di
carattere centrale secondo la quale “se si riconosce all’assemblea la
possibilità di funzionare efficacemente senza bisogno di essere presieduta da
alcuno, si può dedurre che al presidente non possano attribuirsi poteri
maggiori o diversi da quelli appartenenti (nel silenzio della legge)
originariamente alla stessa assemblea”. Cfr. Id.,
Il presidente dell’assemblea, cit., 976.
[23] “Quello per cui dove c’è una pluralità di persone che si
riuniscono là c’è naturalmente una persona che dirige la riunione”: cfr. V. Buonocore, Legittimazione all’intervento, cit., 1050.
[24] Ed infatti “anche nelle società di capitali ‘chiuse’ non deve
essere sottovalutata la necessità della presenza di un soggetto che provveda a
coordinare i lavori e ad assicurare la disciplina nel corso del dibattito
assembleare, dal momento che un numero ridotto di soci non esclude di per sé
intralci alla speditezza del processo”. A.
Morano, Il presidente, cit., 404.
[28] Cfr. sul punto D. Pettiti,
op. loc. ult. cit., che in questa
linea di pensiero giunge alla conclusione che il rapporto giuridico
presidenziale intercorre tra il presidente e la società. Qualora, infatti,
nonostante le previsioni di una nomina statutaria, si volesse affermare che il
rapporto intercorre direttamente con i singoli soci, secondo l’A., “delle due,
l’una: o costoro dovrebbero essere considerati uti socii, e allora si sarebbe in realtà di fronte ad un rapporto
di natura non individuale, ma sociale; oppure costoro dovrebbero essere
considerati uti singuli, e allora non
si spiegherebbe come mai la designazione assembleare possa avvenire… a
maggioranza e come pure a maggioranza possa aversi la revoca”. Cfr. infra, nota 309.
[30] Si potrebbe cioè sottolineare che nell’uno come nell’altro caso la
nomina del presidente proviene pur sempre dai soci e dunque dalla società, risultando,
sul piano sostanziale, del tutto irrilevante che essi vi siano pervenuti in
fase di redazione o di modifica dello statuto, o successivamente, in occasione
delle singole assemblee. In tal senso sarebbe pure possibile richiamare, una
volta in più, nella loro portata pratica le possibili implicazioni delle teorie
volte ad abbattere molti dei corollari del concetto di persona giuridica, ed in
realtà delle mistificazioni che l’esasperazione di quel concetto ha prodotto e
che in questa sede, in forza di una estrema esigenza di sintesi, ci piace
ricordare attraverso il ripetuto ammonimento di T.
Ascarelli nei confronti di letture che omettano di riportare il
“collettivo” a quell’“unità di ordine o relazione che pur sempre si
sostanzializza solo negli individui”, ed alla quale è dato chiarire la funzione
degli aspetti anche più puntigliosi della disciplina della società-persona
giuridica. Cfr. T. Ascarelli, In tema di società e personalità giuridica,
in Studi in onore di G. Valeri,
Milano, 1955, I, 19 ss., in part. 55 ss.; Id.,
Personalità giuridica e problemi delle
società, in Riv. soc., 1957, 981
ss.; F. Galgano, Struttura logica e contenuto normativo del
concetto di persona giuridica, in Riv.
dir. civ., 1965, I, 553 ss.; F.
D’Alessandro, Persone giuridiche e
analisi del linguaggio, in Studi in
memoria di T. Ascarelli, Milano,
1969, I, 243 ss. Si tratta di considerazioni tuttora valide e che anzi devono a
maggior ragione essere tenute presenti al cospetto di indicazioni legislative
che, in apparenza, sembrano evolvere nel senso opposto e cioè nel senso di una
riduzione dei fenomeni societari più progrediti ad una dimensione
prevalentemente formalistica e dunque in grado di oscurare la stessa ragion
d’essere della disciplina normativa. Cfr. retro,
cap. II, § 1.
[31] E difatti la dottrina tende per lo più ad ammettere che il
presidente di nomina statutaria possa essere revocato esclusivamente con il
procedimento previsto per le modificazioni statutarie. Cfr. O. Paciotti, Osservazioni intorno alla natura ed ai poteri del presidente, cit., 371; S. Scotti Camuzzi, I
poteri del presidente, cit., 895.
Diversamente, secondo Pettiti, op. ult. cit., 486, nota 10, “la
considerazione degli interessi in gioco e il pericolo che l’attività del
presidente possa essere diretta a fini extrasociali” potrebbero indurre a
propendere per la possibilità che anche l’assemblea ordinaria possa revocare il
presidente di nomina statutaria, con la precisazione che però la revoca, in tal
caso, non potrebbe che riguardare l’adunanza per cui è disposta, e non quelle
successive. Ma v. sul punto O. Paciotti,
op. loc. ult. cit., per
considerazioni “di opportunità” che inducono all’opposta conclusione, potendosi
rivelare “pericoloso” riconoscere “alla maggioranza volta a volta formantesi in
assemblea il potere di scegliersi il presidente più gradito ad essa, in
contravvenzione alla volontà espressa nell’atto costitutivo”.
[33] Cfr. R. Sacchi, op. ult. cit., 554, il quale sottolinea che
“un conto è desumere dalla nomina statutaria del presidente dell’assemblea
restrizioni alla possibilità dell’assemblea di revocarlo, altra cosa, che
richiede il compimento di un maggiore sforzo interpretativo (pur se nella
medesima direzione), è collegare alla nomina statutaria del presidente dell’assemblea
un’estensione dei poteri dello stesso rispetto a quelli che gli spettano in
base al modello legislativo del tipo societario”. Nello stesso senso cfr. O. Paciotti, op. loc. ult. cit.
[35] A. Serra, op. loc. ult. cit., e nello stesso senso
G. Cottino, Diritto commerciale, I, 2, cit.,
353 ss., pur con la precisazione che se ciò è vero “in thesi”, la somma dei poteri di cui il presidente può fruire “risulta
di fatto notevole”; e, più drasticamente, F.
Galgano, La società per azioni,
cit., 229, il quale sottolinea che
nel codice civile non vi è alcuna traccia di eventuali limiti al potere
deliberativo dell’assemblea: “ogni assemblea è, nel rispetto delle norme
legislative o regolamentari che ne disciplinano il funzionamento, libera di
determinare, con proprie deliberazioni, le modalità di svolgimento dei propri
lavori; è, sempre nei limiti posti dalla legge, sovrana nel pronunciarsi
sull’esistenza, in capo agli intervenuti, delle necessarie condizioni di
legittimazione; sovrana nel dichiarare la propria regolare costituzione. La
presenza di un presidente non vale a spogliare l’assemblea di queste
prerogative: essa vale solo ad evitare che per ogni questione ordinatoria o
procedurale, insorta nel corso dei lavori assembleari, si debba dare luogo ad
una discussione e ad una votazione”.
[36] Cfr. in tal senso, Cass.,
8 febbraio 1974, n. 368, in Rep. Foro it.,
1974, voce Mandato, n. 13.
[37] Cfr. O. Paciotti, Osservazioni, cit., 375. In proposito, ed in particolare con riferimento alla
possibilità di riconoscere nella situazione di conflitto d’interessi del
presidente dell’assemblea una giusta causa di revoca del mandato presidenziale,
sembra utile per il momento ricordare le considerazioni per lo più concordi
della dottrina circa l’ambito della nozione di giusta causa nella revoca del
mandato. Nozione che non andrebbe circoscritta, in base ai dati normativi, alle
sole ipotesi di “inadempimento” del mandatario, potendo ricollegarsi a tutti i
“fatti (gravemente) pregiudizievoli per il recedente, i quali non consentono la
prosecuzione neppure provvisoria del rapporto” e che dunque possono essere
anche “del tutto estranei alla condotta o alla sfera” del mandatario. Cfr. per
tutti A. Luminoso, Mandato, cit., in part. 458 ove anche ampi richiami bibliografici.
[39] Tali osservazioni naturalmente non escludono la possibilità, che
non sembra poter essere messa in discussione, che la disposizione di cui
all’art. 2373 c.c. trovi applicazione in tutti i casi in cui il presidente
rivesta la qualità di socio o di amministratore, situazione nella quale il
conflitto d’interessi di chi dirige l’assemblea si definisce pur sempre con
riferimento al momento dell’espressione del voto. Sembra piuttosto che proprio
l’attenzione, in precedenza richiamata, al caso in cui il presidente non
rivesta la qualità di socio o di amministratore, sottolinei la particolare
collocazione della figura presidenziale rispetto al contesto degli schemi entro
i quali abitualmente si definiscono sul piano giuridico i rapporti
endosocietari. E tale prospettiva induce a sottolineare che i problemi
sollevati da un’eventuale situazione di conflitto di interessi del presidente
ponendosi in definitiva nell’ottica di un’immediata esigenza di prosecuzione, o
meglio di una corretta prosecuzione dei lavori assembleari, evidentemente non
si incanalano precisamente nella fattispecie di cui all’art. 2373 c.c., né
trovano in questa norma una soluzione confacente all’esigenza segnalata. La
nuova formulazione della norma che concerne il conflitto d’interessi del socio
porge tuttavia una chiave di lettura che non potrebbe essere in alcun caso
messa da parte, e che certamente non suggerisce, come forse poteva avvenire
prima della riforma (cfr. infra, cap.
V), che una valutazione degli interessi in gioco si svolga in sede assembleare.
Avendo presenti le difficoltà che in concreto possono circondare l’accertamento
della giusta causa di revoca, sembrerebbe allora possibile, e anzi doveroso il
richiamo alla disposizione di cui all’art. 2391 c.c., quale possibile
soluzione, credibile, di una situazione che chiama ancora una volta in causa un
generale principio di correttezza. Principio che vuole sia lo stesso soggetto
deputato a compiere un’operazione della società a dare notizia della propria
posizione conflittuale, e ad astenersi dal compierla.
Al di là, tuttavia, di soluzioni estemporanee, lineari sotto il
profilo di una corretta prosecuzione della riunione e tuttavia non facilmente
percorribili praticamente resta la considerazione che il conflitto di interessi
del presidente non è normalmente risolvibile in sede di riunione e che la
relativa soluzione deve essere rinvenuta sul consueto piano oggettivo che
guarda alla validità della deliberazione ed all’eventuale danno che l’adozione
possa aver prodotto alla società ed ai soci in conseguenza di un abuso di
poteri esercitato nell’espletamento dei compiti di direzione.
[40] Il che consente di affermare che, in assenza di una giusta causa,
la revoca non dovrebbe produrre l’effetto di estinguere il rapporto
presidenziale. E ciò nonostante contro tale conclusione militino sia i principi
generali in materia di revoca del mandato (art. 1723 ss.) sia la revocabilità
degli amministratori ai sensi dell’art. 2383, comma 3, c.c., nonché dei
componenti del collegio di sorveglianza (art. 2409 duodecies) e del consiglio
di gestione (art. 2409 novies).
In un caso e
nell’altro, in effetti, come la dottrina non ha mancato di sottolineare, la
revoca del mandato si configura come un recesso ad nutum, in quanto il rilievo giuridico della giusta causa è
limitato alla definizione delle ipotesi che danno luogo ad obblighi risarcitori
o di preavviso, ma non si delinea sul piano degli effetti (estintivi)
dell’operatività della revoca, se non nel caso di mandato collettivo (art.
1726) e di mandato conferito anche nell’interesse del mandatario o di terzi
(art. 1723, comma 2, c.c.). Cfr. F.
Santoro Passarelli, voce Giusta
causa, in Noviss. Dig. it., VII,
Torino, 1961, 1109 ss.; E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni,
Milano, III, 2, IV, 132 ss.; A. Luminoso,
Mandato, cit., 452 ss.; Mancini, Prime osservazioni sul recesso straordinario,
in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960,
79 ss.
I rilievi
esposti nel testo possono dunque trovare un riscontro nella ragion d’essere che
può essere rinvenuta a fondamento della maggior cautela che circonda la revoca
del mandato collettivo (cfr., per la ricostruzione, in questi termini, del
rapporto presidenziale Brunetti,
op. loc. ult. cit.), nonché nel nuovo
testo dell’art. 2400 c.c., ai sensi del quale i sindaci possono essere revocati
solo per giusta causa. Quanto al mandato collettivo si deve tuttavia ricordare
che la regola secondo la quale la revoca ha effetto soltanto se “fatta da tutti
i mandanti, salvo che ricorra una giusta causa”, pone qualche difficoltà
riguardo alla possibilità di condizionare a tale criterio anche l’estinzione
del rapporto presidenziale. Tali difficoltà ovviamente discendono dalle regole
di diritto societario e in primo luogo dal principio maggioritario, in virtù
del quale la ricorrenza dell’ipotesi fatta presente dall’ultima parte
dell’art. 1726 c.c. dovrebbe essere per definizione esclusa, a meno che non si
voglia tener fermo il senso della distinzione ivi prospettata, facendo
coincidere la revoca per giusta causa con quella “deliberata” dalla minoranza.
Considerazioni
che possono essere tuttavia superate sotto il profilo sostanziale qualora si
condivida la pertinenza del richiamo al mandato collettivo. V. sul punto A. Morano, Il presidente, cit., 405,
secondo il quale tale richiamo implica naturalmente che la nomina del
presidente debba provenire dalla collettività dei mandatari, anche se operata
successivamente, attraverso la modifica dell’atto costitutivo. Il che,
“tuttavia, non significa che tale modifica statutaria debba essere attuata all’unanimità
dei soci e non a semplice maggioranza, in quanto la ‘parte mandante’, nell’ipotesi
in questione, è l’organo assembleare, il quale come unica ‘parte mandante’
attribuisce l’incarico al presidente dell’assemblea attraverso un contratto
di mandato a parte semplice”.
In ogni caso,
ma il discorso – si ripete – si muove sul piano di una valutazione di
opportunità, lo sfavore legislativo nei confronti di “ripensamenti” non
motivati, in qualche modo desumibile dalle norme ora richiamate, sottolinea la
necessità di un mutamento di prospettiva riguardo alle decisioni assunte dalla
presidenza che l’assemblea potrebbe, più o meno drasticamente “sanzionare”
con una revoca di poteri. Tali decisioni, infatti, contrariamente a quanto
generalmente affermato dalla dottrina, non potrebbero essere circoscritte
soltanto in ragione dei margini di discrezionalità entro i quali si muove la
decisione presidenziale.
[42] A titolo di esempio, si può fare riferimento alle conseguenze che possono
scaturire, sul piano indicato, dal nuovo testo dell’art. 2370 c.c. Se infatti
in base a tale disposizione si può oggi ritenere che l’intervento in assemblea
è funzionale all’espressione del diritto di voto, e se la norma deve essere
intesa come dispositiva (cfr. G.A. Rescio,
Assemblea dei soci. Patti parasociali,
cit., 106 ss.), il problema di
stabilire a chi competa la decisione circa l’intervento in assemblea di
soggetti non legittimati al voto evidentemente potrebbe porsi in termini non
dissimili dal passato.
E ciò quand’anche si condivida l’idea che spetti “all’autonomia
statutaria la scelta di consentire che anche i titolari di azioni
istituzionalmente prive di voto nell’adunanza in oggetto possono partecipare ai
lavori assembleari (con facoltà di intervenire nella discussione, fare
osservazioni, chiedere informazioni ecc.) senza diritto di esprimere un voto,
ovvero di permettere loro di assistere ad essi senza prendervi la parola”: cfr.
F. Olivero, L’autonomia statutaria nella nuova disciplina dell’assemblea della
società per azioni, in Riv. notariato,
2003, I, 847 ss., 873. Il problema infatti si pone per questa come per tutte le
decisioni che attengono a momenti del procedimento che non necessariamente
ricadono nell’orbita dei poteri che l’art. 2371 c.c. esplicitamente assegna al
presidente e rispetto ai quali si registri il silenzio dello statuto.
[45] Il che, ancora una volta, induce a ridimensionare le conseguenze
che potrebbero essere tratte da una sistemazione dommatica del rapporto
presidenziale, avvicinando tra loro le considerazioni di fondo che si
riallacciano tanto alla concezione “organica” quanto a quella “fiduciaria” dei
rapporti societari interni. Cfr. P. Ferro
Luzzi, I contratti associativi,
Milano, 1971, in part. 280 ss.; A.
Borgioli, L’amministrazione
delegata, cit., in part. 22.
[46] Cfr. in part. D. Corapi, Relazione al Seminario di studi, La
società non quotata in Europa: modelli e progetti di riforma a confronto,
svoltosi a Cassino il 24 marzo 2000; P.
Montalenti, La riforma del diritto
societario nel progetto della Commissione Mirone, in Giur. comm., 2000, I, 378 ss.
[47] In tal senso deve essere segnalata la previsione che era contenuta
nel Progetto di riforma delle società non
quotate presentato alla Camera il 27 gennaio 2000 a firma dell’on. W. Veltroni ed altri, che all’art. 6,
lett. h), includeva, tra i criteri ai
quali avrebbe dovuto essere ispirata la riforma per quanto concerne l’assemblea
della s.p.a., quello di “disciplinare la figura del presidente dell’assemblea
con riferimento all’adempimento dei doveri connessi alla sua funzione e alla
responsabilità verso la società e verso i singoli soci dei danni derivanti
dall’inosservanza di tali doveri”.
[48] Cfr. V. Buonocore, Legittimazione all’intervento, cit., 1066; R. Sacchi, L’intervento
e il voto, cit., 545.
[49] Cfr. art. 4, lett. b),
del Disegno di legge delega (Progetto Mirone), cit., e la relativa Relazione
illustrativa, che al punto 4.5 precisava che l’introduzione di tal tipo di
rimedi, “discussa e discutibile nel sistema vigente, ma indubbiamente coerente
con un’accentuazione del significato contrattuale della società” presenta
“l’ulteriore vantaggio sia di poter ripristinare in termini economici
l’interesse leso sia di impedire che l’eventuale pregiudizio di interessi anche
minimi possa, a seguito di una dichiarazione di invalidità, travolgere
un’intera operazione e con essa legittimi interessi anche di rilevantissima
portata”. Prospettiva, com’è noto, fatta propria dal legislatore della riforma
ed anzi perseguita in vari frangenti dalla nuova disciplina. Del resto nella
medesima linea si muovevano anche il precedente progetto di legge governativo
26 maggio 2000 n. 7123, presentato dall’on. Fassino, cit., sia la proposta di legge 10 febbraio 2000 n. 6751 a firma
dell’on. Veltroni, cit. Sui dubbi che
tuttavia tale impostazione ha generato in ordine ad un possibile arretramento
della tutela dei soci di minoranza cfr. infra.
[50] E ciò vale anche per quelle decisioni rispetto alle quali potrebbe
essere avanzato il sospetto che il presidente abbia male interpretato lo
statuto, dal momento che qualsiasi decisione può implicare una difficoltà
interpretativa sulla quale si può appuntare il dissenso degli intervenuti.
D’altra parte, avallare in tali casi una possibilità di interferenza dell’assemblea
implicherebbe un’apertura a soluzioni indefinitamente contraddittorie rispetto
al significato dell’attribuzione statutaria delle competenze presidenziali, e
contraddittorie anche rispetto ad elementari aspettative di tutela delle
minoranze.
[51] Come sembra trasparire dal carattere preparatorio o preliminare
allo svolgimento dell’assemblea, ad esse talvolta riconosciuto. Cfr. in part. G. Ferri, Le società, cit., 599; v. infra,
cap. V, § 1.
[52] Rilievo che sembra poter sopravvivere anche al cospetto di prospettive
esegetiche rese doverose dall’incardinamento nel sistema dell’istituto
del voto per corrispondenza e dalla conseguente difficoltà di rintracciare i
limiti al di là dei quali le “variazioni sul tema” degli argomenti posti
all’ordine del giorno non tradiscano la natura effimera delle aspettative
legate a tale istituto.
Prospettive
delle quali si darà conto nel prossimo capitolo, ed a proposito delle quali è
per il momento possibile osservare, con riferimento appunto all’ipotesi che il
presidente debba essere designato o sostituito dall’assemblea nel caso in cui
soltanto alcuni dei soci partecipino direttamente alla riunione, che il
carattere organizzativo di tale designazione, e dunque la strumentalità che
essa racchiude rispetto alle stesse capacità di funzionamento dell’organo,
sottraggono l’eventualità di una designazione ai sensi dell’art. 2371 c.c. ai
timori legati al rischio di una svalutazione dell’efficacia dell’istituto del
voto per corrispondenza ed al ruolo ridotto che esso svolge nel confronto con
la diretta partecipazione all’assemblea. I dubbi semmai permangono, e sono
stati di recente segnalati riguardo all’ipotesi di votazione a distanza da
parte di tutti i soci, ipotesi in cui la previsione statutaria di designazione
del presidente da parte dell’assemblea “potrebbe forse considerarsi
incompatibile con quella dell’ammissibilità del voto per corrispondenza”.
Cfr. P. Masi, sub. art. 127, Voto per
corrispondenza, in Commentario al Tuif a cura di G. Alpa e F.
Capriglione, cit., 1163 ss., 1170.
[54] V. infatti, con riferimento al principio di parità di trattamento,
P. Masi, Parità di trattamento, in Testo
Unico della Finanza, Commentario diretto da G.F. Campobasso, Torino, 2002, sub art. 92, 750 ss., 756, sulla
“circostanza che la posizione amministrativa del socio non è del resto
irrilevante per le valutazioni del mercato”. E in senso analogo P. Marchetti, In tema di funzionamento dell’assemblea: problemi e prospettive, in
Riv. soc., 2001, 118 ss., 128, con
riferimento all’opportunità dell’adozione di un regolamento assembleare.
Adozione che “in una prospettiva ‘contrattualista’, che vede anche nel modo di
governo della società un importante elemento di valutazione da parte del
mercato, dovrebbe poi comunque essere considerata fatto price sensitive, assoggettato alla relativa informativa al
mercato”.
[56] Cfr. V. Buonocore, La Riforma delle società quotate, in Aa.Vv., La Riforma delle società quotate, cit., 3 ss., 56 ss.; per il riscontro
concreto della diversa consistenza delle posizioni e degli interessi riferibili
al socio risparmiatore cfr. C. Angelici,
Note in tema di informazione societaria,
ivi, 249 ss., 264 ss.
[57] Cfr. in tal senso G. Ferri
jr., L’autonomia statutaria nel Testo
Unico delle disposizioni in materia di mercati finanziari (D.Lgs. 24 febbraio 1998,
n. 58): prime considerazioni, in Riv.
Notariato, 1999, I, 1111 ss., 1113, e nella medesima prospettiva, a seguito
della riforma, F. D’Alessandro, “La provincia del diritto societario
inderogabile (ri)determinata”, cit.,
37 ss.; G. Alpa, La riforma del diritto societario. Percorsi
di lettura, cit., 1 ss.
[60] Per l’evoluzione dello stesso concetto di “minoranza”, con
specifico riferimento alla tensione che ne ha connotato la dimensione
collettiva a scapito di quella prettamente individualistica cfr. in part. A. Cerrai – A. Mazzoni, La tutela del
socio, cit., 1 ss.; M. Cossu, Le “minoranze azionarie” nell’evoluzione legislativa: dalle origini al
Testo Unico sulla finanza, in Riv.
dir. priv., 2000, n. 4.
[61] Cfr. in part. V. Buonocore, Le situazioni soggettive dell’azionista,
Napoli, 1960, passim, 104 ss.; P. Ferro-Luzzi, I contratti associativi, cit.,
239 ss.; S. Pacchi Pesucci, Autotutela dell’azionista e interesse
dell’organizzazione, Milano, 1993, passim;
G.B. Portale, “Minoranze di blocco” e abuso del voto nell’esperienza europea: dalla
tutela risarcitoria al “government des juges”, in Europa e diritto privato, 1999, 153 ss., 171.
[62] Prospettiva quest’ultima, come si avrà modo di chiarire, nella
quale le decisioni del presidente devono essere lette soprattutto alla luce
della possibile lesione del principio di parità di trattamento degli azionisti,
anche se inteso nel significato impersonale che esso può assumere, ad es. con
riferimento agli stessi diritti di intervento e di voto o al criterio che deve
guidare la ripartizione degli interventi nella fase della discussione. In arg.
cfr. D. Preite, Abuso di maggioranza e conflitto di
interessi del socio nella società per azioni, in Trattato delle società per azioni diretto da G.E. Colombo e G.B.
Portale, vol. 3, t. 2, cit., 37
ss.
E ciò anche quando appaia difficile ammettere – come in passato è
avvenuto – che a quel principio possa essere riconosciuta autonoma rilevanza e
che esso debba essere piuttosto ricondotto ai più generali principi di
correttezza e buona fede. Dimensione nella quale ci si potrà avvalere del
principio di parità di trattamento “al fine di elaborare uno degli indici
sintomatici, non necessariamente l’unico e non necessariamente decisivo, per la
valutazione e repressione degli abusi
che si realizzino nell’autonomia statutaria”: C.
Angelici, Parità di trattamento
degli azionisti, in Riv. dir. comm.,
1987, I, 1 ss., 12; v. anche ed in part. G.
Oppo, Eguaglianza e contratto
nelle società per azioni, in Riv.
dir. civ., 1974, I, 629 ss.; F.
D’Alessandro, La seconda direttiva
e la parità di trattamento degli azionisti, in Riv. soc., 1987, 1, 1 ss.
[63] E v. infatti A. Gambino,
Il principio di correttezza
nell’ordinamento delle società per azioni, Milano, 1987, in part. 180 ss., 250 ss.; D. Preite, op. loc.
ult. cit.
[64] Cfr. in part. A. Cerrai – A. Mazzoni, La tutela del socio e delle
minoranze, cit., 1 ss., in part. 32, e recentemente, nella prospettiva
indicata, P. Jung, Individualschutz durch
Wirtschaftsgrundrechte im Gesellschaftsrecht, in Juristenzeitung, 2001-I, 1004 ss., in part. 1014 ss., in un discorso impostato in termini di libertà costituzionalmente
garantite. Sulla base dei principi costituzionali l’A. afferma una prevalenza
dell’interesse collettivo rispetto a quello individuale. In tal senso
deporrebbe innanzitutto l’art. 9, par. 1 GG., e conseguenza di tale
impostazione è l’esigenza segnalata di una tutela rafforzata del socio
imprenditore rispetto al socio investitore, in quanto è al socio imprenditore
che può essere in primo luogo riferita la particolare tutela della libertà di
associazione. Ed il rilievo si inserisce in un dibattito di ampio respiro che
ha ad oggetto un ripensamento che concerne più in generale il rapporto tra
interessi individualistici ed interessi della collettività, e che in ultima
analisi coinvolge la summa divisio
tra diritto privato e diritto pubblico. Per un riscontro dell’omogeneità dei
riferimenti culturali che caratterizzano l’evoluzione di tale dibattito, nella
prospettiva particolaristica che nel nostro caso concerne la s.p.a. ed in
quella di più ampio respiro messa a fuoco dalla dottrina civilistica, cfr. G. Alpa, La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, Bari,
2000, in part. 372 ss.; G. Oppo, Diritto privato e interessi pubblici, in
Riv. dir. civ., 1994, I, 25 ss.
[65] La compressione del ruolo dei
soci ed in particolare di quelli di minoranza è tuttavia analizzata dalla
dottrina in una prospettiva più ampia che non guarda soltanto alla nuova
disciplina dell’invalidità della deliberazione, ma anche all’accentramento di
poteri che si viene ora a realizzare in capo all’organo amministrativo, al
depotenziamento delle competenze assembleari (prospettiva nella quale si pone
ovviamente in rilievo l’attribuzione di determinate funzioni al consiglio
di sorveglianza), alla scarsa efficacia degli strumenti di reazione e di
controllo sull’organo gestorio, v. in part. G.
Rossi - A. Stabilini, Virtù del
mercato e scetticismo delle regole, cit.,
1 ss., anche nell’ottica di un confronto con l’attuale quadro normativo
internazionale; R. Weigmann, Luci ed ombre del nuovo diritto azionario,
in Le Società, 2003, n. 2 bis, 270
ss., in part. 278; Id., Dalla società per azioni alla società per
carati, in Il nuovo diritto
societario fra società aperte e società private, a cura di P. Benazzo, S.
Patriarca, G. Presti, cit., 169 ss.; G.D. Mosco, Nuovi modelli di amministrazione e controllo e ruolo dell’assemblea,
ivi, 121 ss.; M. Cassottana, La
tutela delle minoranze azionarie: prospettive di riforma, cit., 147 ss.; Risulta peraltro evidente
che l’abbassamento del livello di protezione della minoranza può essere
constatato in primo luogo tenendo presente proprio la “drammatica
limitazione della possibilità di invalidare le delibere assembleari (previsione
di un termine per l’azione di nullità e della sanabilità della deliberazione
nulla; introduzione di un limite di possesso azionario per l’esercizio
dell’impugnazione delle delibere annullabili; introduzione di termini dopo i
quali alcuni tipi di delibere, tra cui quella di approvazione del bilancio, non
possono più essere impugnate: artt. 2377 s.s. e 2434)”: G. Rossi - A. Stabilini, op.
cit., 5. Com’è stato sottolineato, si deve poi tener presente che le
limitazioni che concernono l’esercizio dell’azione di annullamento
riguarderanno anche deliberazioni afflitte da vizi procedurali gravi, che in
base alla precedente disciplina non sarebbero state considerate annullabili
bensì inesistenti. Infatti in base al nuovo art. 2379, comma 1, soltanto la
mancata convocazione e la mancanza del verbale costituiscono cause di nullità,
il che se da un lato dovrebbe “portare al tramonto della fortuna presso la
giurisprudenza della discussa categoria delle deliberazioni assembleari
inesistenti”, dall’altro implica che vizi come “la mancanza di votazione,
intesa pure come difetto, nei votanti, della legittimazione primaria al voto”,
potrebbero non ripercuotersi, in conseguenza delle limitazioni poste dall’art.
2377 c.c., sulla validità della delibera; cfr. R.
Sacchi, La tutela obbligatoria
degli azionisti nel nuovo art. 2377 c.c., in Il nuovo diritto societario fra società aperte e società private, cit., 155 ss.; v. anche D. Spagnuolo, Annullabilità delle deliberazioni, in La riforma delle società, a cura di M. Sandulli e V. Santoro, t. I,
cit., sub art. 2377, 343 ss.
[66] La Relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 6/03 (§ 5), precisa
che l’introduzione di strumenti di tutela diversi dall’invalidità, vuole
“contemperare fra loro l’esigenza di limitare la legittimazione a far valere
l’azione di annullamento e quella di tutelare i singoli soci danneggiati da deliberazioni
invalide” e si pone sulla falsariga della tecnica sanzionatoria già introdotta
nel nostro ordinamento dall’art. 2504 c.c. per l’atto di fusione. È noto che il
dibattito sull’efficacia di tali tecniche per ciò che concerne la tutela delle
minoranze in altri ordinamenti non è recente (secondo R. Sacchi, op. loc.
ult. cit., può essere fatto risalire al saggio di Calabresi-Melamed apparso in Harvard Law Review nel 1972). Per un panorama sintetico
di tipo comparatistico cfr. M. Lutter,
Die Funktion der Gerichte im Binnenstreit
von Kapitalgesellschaften – eine rechtsvergleichende Überblik, in ZGR, 1998, 188 ss. La valutazione della validità della tecnica
risarcitoria si incanala nel solco di problematiche di più vasta portata le
quali presuppongono la consapevolezza dei mutamenti di prospettiva intervenuti
a monte, soprattutto nella letteratura statunitense, e che comportano una
valutazione di interessi condotta essenzialmente in termini economici,
piuttosto che in termini “etici”, ed allora soprattutto in termini di
efficienza dell’impresa e dei relativi costi sociali e individuali. Il
riferimento è naturalmente alla dottrina della Law & Economics la cui
espressione più nota è rappresenta dal lavoro di F.H. Easterbrook - D.R. Fischel, The Economic Structure of Corporate Law, cit., 4 ss., passim; cfr.
in arg. C. Angelici, Soci e minoranze, cit., 33 ss. (ove anche ampi richiami bibliografici), per una
ricostruzione, nella prospettiva indicata, delle motivazioni che possono essere
rinvenute a fondamento della scelta ora operata dal legislatore, che in
definitiva muove nelle società chiuse da una valorizzazione di quella che è la
posizione reciproca dei soci e del potere negoziale che esse racchiudono, e
allora anche dall’esigenza che “tra essi una negoziazione effettivamente
avvenga, che si riconoscano loro posizioni giuridiche volte anche al significato globale dell’operazione
economica, non soltanto alle sue implicazioni per le economie individuali dei
soci” (Id., op. ult. cit., 47).
Per le perplessità che accompagnano sul piano
della disciplina positiva la scelta operata sul piano teorico cfr. in part. R. Weigmann, Dalla società per azioni alla società per carati, cit.; Id.,
Luci ed ombre del nuovo diritto societario,
cit., 278 ss.; R. Sacchi, La tutela obbligatoria degli azionisti, cit., 155 ss.; D. Spagnuolo,
Annullabilità delle deliberazioni, cit., 352 ss. Al di là della
condivisibilità degli obiettivi dichiarati nella legge delega, il rimedio
risarcitorio così come configurato dall’art. 2377 c.c. sembra in effetti
presentare alcuni “inconvenienti”. Com’è stato sottolineato, esso non è pensato
per tutti gli azionisti, ma solo per quelli che non possono impugnare la
deliberazione, e difatti la tutela risarcitoria sembra essere configurata come
strumento alternativo all’annullamento della deliberazione. Il che
sollecita dubbi sull’equivalenza dei rimedi approntati dal legislatore (R. Weigmann, Dalla società per azioni alla società per carati, cit., 174) anche in considerazione degli
stretti termini imposti per l’azione risarcitoria che di fatto potrebbero
risultare preclusivi all’esercizio dell’azione, soprattutto “nell’ipotesi
in cui il danno si determini in un momento successivo all’adozione della delibera,
magari quando sia già maturata la decadenza” (D.
Spagnuolo, up. ult. cit.,
352).
Ulteriori perplessità sono poi occasionate dal
fatto che ai sensi dell’art. 2377, comma 3, il danno risarcibile è quello subito
direttamente dal socio dalla non conformità della deliberazione alla legge o
allo statuto, circostanza che implica problemi non indifferenti sul piano
probatorio, posto che “difficilmente alla mera violazione delle regole del
procedimento assembleare può essere causalmente ricondotto un danno risarcibile
in senso tecnico”: R. Sacchi, op. ult. cit., 163, il quale sottolinea
anche che, in ogni caso competendo alla società la legittimazione passiva di
fronte alla pretesa risarcitoria dei soci, il risarcimento verrebbe ad
incombere anche sui soci danneggiati.
[69] Senso in cui si muovono la legislazione europea e quella statunitense
al fine di garantire l’indipendenza degli amministratori, e che potrebbe in
qualche modo indicare misure consone anche con riferimento al ruolo di
direzione dell’assemblea. Cfr. in arg. G. Rossi - A.
Stabilini, Virtù
del mercato e scetticismo delle regole, cit.,
18 ss.
[70] V. infatti il progetto di Riforma Veltroni, cit., nel quale la previsione circa la responsabilità del
presidente era concepita appunto come contrappeso al riconoscimento di ampi
poteri (art. 6).
[71] In tal senso R. Sacchi,
Il presidente dell’assemblea, cit., 532; la limitazione della
responsabilità alle ipotesi di dolo o colpa grave sembra essere affermata anche
da O. Paciotti, Osservazioni, cit., 402 ss., nonché da A.
Candian, Nullità e annullabilità
di delibere di assemblea, cit.,
che fa riferimento ad una responsabilità attenuata del tipo di quella prevista
dall’art. 2236 c.c. per le prestazioni d’opera intellettuali. In giurisprudenza
cfr. App. Milano, 11 luglio 1969, cit.;
Trib. Bologna, 19 novembre 1969, cit.,
379 ss., che con riferimento ad un caso di esclusione illegittima di un socio
dall’assemblea osserva che la responsabilità del presidente andrebbe limitata
ai casi in cui possa essere accertato il dolo o la colpa grave, in quanto
“nella specie ricorre una situazione analoga all’errore professionale, giacché
il presidente di un’assemblea si trova a dover piuttosto intuire la verità che
raggiungerla con un procedimento di constatazione obiettiva: anche egli si
trova a dover ricorrere a criteri opinabili, a procedimenti induttivi, a
valutazioni giuridiche, a dati di esperienza non sempre fissi e costanti...”.
[72] In tal senso cfr. F. Di
Sabato, Manuale, cit., 256, e in part. D. Pettiti, Note sul presidente, cit.,
505, il quale sottolinea che il presidente è legato alla società da un vincolo
contrattuale “sorto con l’accettazione della nomina statutaria o della
designazione (art. 2371 c.c.): egli quindi risponderà per inadempimento a tale
vincolo, ogni qualvolta nell’esercizio delle sue funzioni sia venuto meno alla
media diligenza (e la concreta determinazione dei fatti costituenti sarà, com’è
evidente, essenzialmente una questione di fatto), sia per il caso di delibere
che non sarebbero state adottate se il presidente avesse esercitato jure i propri poteri, sia, all’inverso,
per il caso di delibere che non sono venute in essere per l’esercizio
illegittimo dei poteri presidenziali, e salvo il coordinamento con l’azione di
impugnativa”. Per il rilievo che “in realtà, non si vedono ragioni sufficienti
per attenuare il regime di responsabilità del presidente” v. ora A. Morano, Il presidente dell’assemblea, cit.,
414.
[73] Nei confronti dei soci invece la responsabilità del presidente è
stata talvolta esclusa, ritenendosi che in virtù del rapporto organico che lega
questi alla società, soggetto passivo dell’eventuale azione del socio potrebbe
essere soltanto la società: O. Paciotti,
Osservazioni, cit., 403, e nello stesso senso Trib. Milano, 8 marzo 1971, in Banca, borsa e tit. cr., 1973, II, 274
ss; altra volta si è invece ritenuto che mancando in tal caso un rapporto
contrattuale diretto, non vi sarebbe altra possibilità che risalire ai principi
dell’illecito posti dagli artt. 2043 ss., la cui applicazione potrebbe essere
confermata dal riscontro analogico offerto dall’art. 2395 c.c.; cfr. D. Pettiti, op. loc. ult. cit.
[74] Per tali considerazioni, che rappresentano anche la necessaria
conseguenza della più tradizionale impostazione di tipo contrattualista,
presente non solo in dottrina ma anche, come si è visto, nella giurisprudenza
che si è avuto modo di richiamare, cfr. in part. A. Serra, L’assemblea:
procedimento, cit., 150, nota 56. In tale linea di pensiero
l’eventualità, fino a ieri non contraddetta dai dati normativi, che l’assemblea
potesse sovrapporsi al presidente in tutte le decisioni che concernono lo
svolgimento dell’assemblea, ha peraltro anche portato ad escludere del tutto,
come già accennato, la possibilità di configurare una responsabilità del
presidente. V. N. Salanitro, op. cit., 1004-5. Cfr. retro, Cap. 1.
[75] D. Pettiti, Note, cit., 505. Per tale accostamento v. anche R. Sacchi, Il presidente dell’assemblea, cit., 532, nota 17, tuttavia cauto per quel che concerne le norme sulla
responsabilità degli amministratori che potrebbero essere applicate al presidente.
[76] L’eventualità che “l’assemblea attribuisca al presidente poteri
ulteriori rispetto a quelli espressamente stabiliti dalla legge” e che in
conseguenza possa “riappropriarsi dei poteri stessi” è affacciata dalla
dottrina anche successivamente alla riforma: v. infatti Associazione Preite, Il
nuovo diritto delle società, cit.,
126; G.A. Rescio, Assemblea dei soci. Patti parasociali,
in Diritto delle società di capitali,
cit., 112. D.U. Santosuosso, La
riforma del diritto societario, cit.,
115.
Essa sembra tuttavia dover essere ridimensionata non soltanto per
l’aspetto di carattere più generale, che è poi quello fino ad ora tenuto
presente, che guarda agli spazi esigui lasciati all’autoregolamentazione dei
soci. Sotto l’aspetto pratico si può infatti osservare che se tali poteri
“nuovi” sono attribuiti al presidente per previsione statutaria o
regolamentare, è chiaro che occorrerà procedere alla modifica dello statuto o
del regolamento assembleare, sicché la possibilità di “riappropriazione” della
decisione presidenziale da parte dell’assemblea potrebbe rivelarsi di non
immediata attuazione in ordine alla situazione contingente. Una diversa
situazione potrebbe in realtà essere prospettata soltanto per il caso in cui i
poteri del presidente siano definiti in apertura di assemblea, o anche
concordati con lo stesso presidente. In tal caso, infatti, si potrebbe
ipotizzare che la stessa assemblea, in seconda battuta, modifichi quei poteri.
Ma torniamo qui al precedente ordine di considerazioni, che sono poi quelle che
accompagnano il problema di fondo fatto presente dalla nuova formulazione
dell’art. 2371 c.c. Ribaltando la prospettiva fino a questo momento seguita,
occorre infatti domandarsi quali siano i poteri di cui realmente l’assemblea
può ancora disporre, e cioè quali siano le decisioni che non rientrano nel
potere che la legge assegna al presidente, di “regolarne lo svolgimento”, e che
quindi non risultino assorbiti da tale definizione. Occorre inoltre chiedersi
se non è proprio l’incertezza interpretativa conseguente a tale impostazione
ciò che il legislatore ha voluto evitare, e se abbia un senso ammettere che il
potere di regolare lo svolgimento dell’assemblea possa essere sezionato
(ipotizzando che soltanto alcune regole possono essere fissate dalla
maggioranza in sede assembleare e poi dalla stessa rinnegate, indipendentemente
da una decisione del presidente), senza svuotare di significato l’intera
previsione normativa.
[77] Come si cercherà di mettere in luce nel prossimo capitolo,
l’esercizio dei poteri che ora costituiscono prerogativa dell’ufficio
presidenziale, anche quando ancorati a precise disposizioni di legge o di
statuto, difficilmente prescinde da una qualche forma di valutazione di tipo
discrezionale, constatazione che appare già intuitivamente del tutto ovvia con
riferimento ai casi in cui il potere di direzione si specifichi nel compito, di
carattere più indefinito, di regolare lo svolgimento dell’assemblea ma che
risulta non meno evidente allorché siano in questione le decisioni di carattere
più “tecnico” che concernono le fasi dei controlli da effettuare in vista della
regolarità della costituzione e delle operazioni di voto.
[78] Sul significato che può essere riconosciuto alla nuova
formulazione dell’art. 2392 c.c. cfr. la Relazione
di accompagnamento, ove è precisato (par. 6, III, 4) che essa non sta ad
indicare la necessità che gli amministratori debbano possedere una particolare
perizia “in contabilità, in materia finanziaria e in ogni settore della
gestione e dell’amministrazione dell’impresa sociale, ma significa che le loro
scelte devono essere informate e meditate, basate sulle rispettive conoscenze e
frutto di un rischio calcolato, e non di irresponsabile o negligente
improvvisazione”. Cfr. in arg. M. Sandulli, Responsabilità verso la società, in La riforma delle società, a cura di M.
Sandulli e V. Santoro, t. I, cit., sub art. 2392, 470 ss.; F. Galgano, Il nuovo diritto societario, in Tr.
di dir. comm. e dir. pubbl. dell’economia, vol. XXIX, cit., 277 ss., ove il rilievo che la diligenza oggi richiesta agli
amministratori è in definitiva la diligenza esigibile da chi ha assunto quel
determinato compito, così come la dottrina già precedentemente alla riforma
aveva precisato; cfr. G. Minervini,
Gli amministratori di società per azioni,
cit., 184; R. Weigmann, Responsabilità
e potere legittimo degli amministratori, cit., 357 ss.; V. Allegri,
Contributo allo studio della
responsabilità civile degli amministratori, Milano, 1979, 111 ss.; F. Bonelli, Gli amministratori di società per azioni, in Tratt. di diritto privato diretto da P. Rescigno, vol. 16, cit., 61 ss. È chiaro peraltro che
l’accostamento della figura del presidente a quella degli amministratori non
suggerisce ulteriori riferimenti analogici, e ciò per la già indicata differenza
che può essere colta tra i due ruoli sotto il profilo dell’interesse al quale
essi rispondono, e che nel caso della presidenza dell’assemblea risulta del
tutto estraneo a qualsiasi logica nella quale possa trovare spazio una
contrapposizione tra maggioranza e minoranza. Avendo presente questo aspetto, è
allora legittimo il dubbio (per il quale cfr. R.
Sacchi, op. loc. ult. cit.,
che tuttavia lascia il problema aperto) circa la possibilità che con
riferimento alla responsabilità del presidente possano essere richiamate
analogicamente le disposizioni di cui agli artt. 2393 e 2393 bis, in quanto le
azioni di responsabilità ivi previste, proprio perché configurate nel
presupposto di quella contrapposizione (cfr. retro, cap. II), mal si adattano alla presidenza dell’assemblea
(soprattutto se esercitate in sede assembleare), rispetto alla quale potrebbero
rappresentare uno strumento di pressione idoneo a minare l’imparzialità delle
decisioni.
[79] Cfr. A. Morano, op. loc. ult. cit.
[80] Cfr. App. Milano, 11 luglio 1969, cit.; Trib. Bologna, 29 novembre 1969, cit.; in dottrina v. in part. O.
Paciotti, Osservazioni, cit., 404; R. Sacchi, Il
presidente dell’assemblea, cit.,
532.
[81] Che si presenta anche con riferimento ai soci qualora si ammetta
che essi possano esercitare nei confronti del presidente un’azione diretta nei
termini indicati dal’art. 2395 c.c. Possibilità che non sembra poter essere
negata (cfr. D. Pettiti, op. loc. ult. cit.), soprattutto in
considerazione del fatto che quella norma non rappresenta altro che una
particolare espressione del principio di cui all’art. 2043 c.c. Cfr. in
proposito, in part. G. Minervini, Note in tema di responsabilità degli
amministratori di società per azioni, in Riv. dir. comm., 1954, I, 209 ss., ora in Scritti giuridici, Società,
1, Napoli, 1996, 263 ss.