N. 3 – Maggio 2004 – Lavori in corso – Contributi

 

 

FEDERALISMO E DEVOLUTION. ASPETTI ISTITUZIONALI(*)

 

Giuseppe Contini

Università di Cagliari

 

 

1. Le iniziative relative allo studio, all’approfondimento, ed alla puntualizzazione delle innumerevoli problematiche relative al federalismo sono state così numerose che se si traducessero, sia pure in percentuale infima, in realizzazioni, e quindi in linee di sviluppo e di crescita, i risultati potrebbero essere addirittura rivoluzionari. L’uso del condizionale marca la nostra distanza da questo risultato, e tale distanza dipende da molte cause, non ultima il fatto che anche l’Accademia e la ricerca scientifica hanno subito e subiscono le mode e le attrazioni fatali di una società di consumi che, quale novella sirena, distrae e attira in modo quasi ineluttabile con le sue non poche seduzioni. Tutti oggi, pressoché di continuo, subiamo un vero martellamento di slogan, tanto ridondanti quanto - fin troppo spesso - concettualmente vuoti. A termini il cui significato è ormai consolidato e puntuale, se ne sostituiscono di nuovi (spesso d’importazione), senza che questi servano a rendere più precisi i concetti, meno fumosa la politica, o più avanzata la società civile.

 

2. Quando, a partire dagli anni dell’Assemblea Costituente, da parte di uno sparuto gruppo di persone - che però guardava consapevolmente lontano - si cominciò a parlare di regionalismo e, conseguentemente, di Stato regionale, ed a porre le basi di quello che costituì il primitivo nucleo di ciò che sarebbe successivamente diventato il diritto regionale, coloro i quali si impegnavano in queste ricerche erano guardati dai più come alieni pericolosi. Infatti il regionalismo veniva percepito addirittura come un pericolo se non come un elemento di disgregazione per la stessa unità nazionale, in aperta contraddizione rispetto a quanto solennemente proclamato dal 1° comma dell’art. 5 della Carta repubblicana. Che la regionalizzazione dello Stato sia stata un’operazione che si è cercato di realizzare il più tardi possibile è dimostrato per tabulas non soltanto dal fatto che solo con l’inizio degli anni ’70 si è ritenuto di dare attuazione a quella non certo piccola né irrilevante parte della Costituzione riguardante la regionalizzazione dello Stato, ma anche dalla circostanza che, nello stesso periodo, dalle istituzioni ed in generale dall’apparato, non si può dire venissero riguardate in modo favorevole nemmeno le cinque Regioni che già avevano preso avvio, e cioè le Regioni ad autonomia speciale, le quali venivano quasi ritenute un male storicamente necessario e quindi inevitabile. Infatti, sono ormai note a tutti le particolari congiunture di diversa natura (sia interna sia internazionale) che avevano determinato (o addirittura imposto) la loro nascita. In taluni casi esse risalivano ad un momento anteriore alla stessa Carta repubblicana. Ciò trova riscontro non soltanto in genere negli atteggiamenti assunti in merito dai governi, ma anche dalla legislazione e addirittura dalla stessa giurisprudenza costituzionale. Si può dire che in quel periodo l’espressione “Repubblica una e indivisibile” nella sostanza significò “Stato accentrato” e non certo “Stato delle autonomie”. Si può dire che la sia pur lenta e ancora oggi non completata rivoluzione dell’apparato repubblicano abbia avuto inizio, nella sostanza, soltanto con la creazione di tutte le quindici Regioni ad autonomia ordinaria. Fu questo, in effetti, il detonatore che provocò l’esplodere del cambiamento ed una vera e propria inversione di tendenza che si volse allora non soltanto verso il decentramento ma soprattutto verso la realizzazione dello Stato delle autonomie. La cerniera di tale decentramento era infatti - ed è - data dalla struttura regionalistica oltreché dalle forme partecipative più estese con il rafforzamento anche dei poteri delle entità sub-regionali e, segnatamente, degli enti locali territoriali.

 

3. Attualmente - nel mondo accademico come in quello politico - si è diffusa l’idea che si debba “leggere” la Costituzione con lo spirito dei costituenti o (il che forse è anche peggio) che il problema di apportare eventuali modifiche al testo originario della Carta debba essere affrontato con lo stesso spirito dei costituenti del 1946-’48. Questi atteggiamenti spesso sono solo strumentali rispetto ad interessi di parte; ciò non li rende certo meno pericolosi e, comunque, sempre tecnicamente e storicamente sbagliati. Infatti, è noto a tutti che i tempi storici sono irripetibili: l’affermazione che ogni società esprime il proprio ordinamento è vera sia in senso sincronico sia in senso diacronico. La storia può essere “magistra vitae” in quanto essa offra non l’esempio da scimmiottare, ma quello dal quale si sia capaci di trarre la lezione che può e deve essere tenuta presente come esperienza compiuta. Non si può dunque partire dal principio che l’ordinamento è immutabile perché, al contrario, esso è mutevole come mutevole è la vita dell’uomo, e mutevoli sono gli interessi, e i fini stessi che si prefigge la società. Tra i numerosi esempi e spunti di riflessione basti ricordare in proposito quello che è forse il più eclatante, e cioè il testo dell’art. 11 della Costituzione. Il lettore odierno non può, e correttamente, non pensare che questa norma si riferisca all’Unione europea; tuttavia, d’Europa più o meno unita, non si trova traccia negli atti dell’Assemblea Costituente. In effetti tale articolo voleva far riferimento esclusivamente all’O.N.U., organizzazione alla quale allora si auspicava che l’Italia venisse ammessa al più presto. Oggi, com’è ormai a tutti ben noto, la portata della norma posta dall’articolo in questione è invece tale da consentire limitazioni di sovranità alla Repubblica sicuramente impensabili ai tempi della Costituente. Se su questo punto la posizione delle vestali della Costituente, alle quali si è fatto cenno sopra, fosse portata alle sue - diciamo pure estreme - conseguenze logiche, si arriverebbe a conclusioni a dir poco aberranti. Dunque, la corretta interpretazione della Costituzione, non può e non deve essere fatta in chiave “retro” e neppure, per converso, in chiave gratuitamente avveniristica: essa deve piuttosto seguire correttamente i canoni di quella che la dottrina, e non da oggi, ha definito interpretazione storico-evolutiva, la quale peraltro deve tenere presente nella sua applicazione la differenza tra i principi generali (derogabili) e quelli fondamentali (inderogabili) di una Costituzione riguardata in senso sostanziale e vivente; vale a dire «che i suoi contenuti possono, nel tempo, mutare senza che mutino le fonti da cui sono tratti» (Lavagna, Ist. dir. pubbl., VI ed., pag. 169) in base alla stessa sua elasticità ed al continuo evolversi del corpo sociale.

 

4. La vita della Carta repubblicana, a ben guardare, non è stata nella sostanza, cioè come costituzione vivente, del tutto lineare e semplice. Infatti, da taluno si è sostenuto e si continua a sostenere che la Costituzione, specialmente per quanto riguarda i primi 54 articoli, non sarebbe assolutamente modificabile, e che solo così facendo si salvaguarderebbero nientemeno che le stesse fondamenta della Repubblica. Una tale affermazione può anche, a prima vista, sembrare convincente, ma è erronea per diversi ordini di motivi. Il primo e più importante fra tali motivi è che principi generali e principi fondamentali sono enunciati, in modo esplicito o in modo implicito non soltanto nei primi 54 articoli, ma anche nei successivi, in quanto sono enucleabili dal contesto complessivo della Carta.

Va peraltro ricordato come non siano mancati interventi sulla Costituzione che, apparentemente ininfluenti sui principi, hanno invece provocato, o concorso a provocare, profondi mutamenti nel sistema. Si pensi ad esempio alle modifiche apportate dalla l.c. 09.02.1963, n. 2, all’art. 60 Cost. Con il portare a cinque anni la durata di entrambe le Assemblee parlamentari sembrò volersi completare la realizzazione del bicameralismo perfetto creando situazioni ottimali di “governance”. Infatti, votandosi contemporaneamente per entrambe le Camere, si pensava che si sarebbe ridotta al minimo la differenza della loro composizione rispetto alla rappresentanza delle diverse forze politiche, e che ciò avrebbe finito anche col riassorbire gli effetti eventualmente derivanti dai diversi sistemi elettorali e dalla sia pur parziale differenza nella composizione del corpo elettorale (art. 58 Cost.). Ma la prassi - se non addirittura la vera e propria convenzione costituzionale - di sciogliere contemporaneamente le due Camere - instauratasi successivamente - induceva ad adeguare il testo alla realtà sostanziale. A ben guardare, ciò andò in effetti a discapito della maggior dialettica e della diversità degli equilibri eventuali che si sarebbero avuti se i momenti elettorali non fossero coincisi; a discapito, quindi, in ultima analisi, dello stesso sistema di equilibri costituzionali ed istituzionali prefigurati originariamente. Dunque, quello che poté e può sembrare essere stato un mero adeguamento formale - se non addirittura un semplice “maquillage” del testo costituzionale - più correttamente sembra doversi ritenere abbia inciso, e forse non poco, sulla crescita democratica e sullo stesso divenire del sistema dei partiti politici; in ultima analisi, sul regime e quindi anche sul modo di essere dello Stato e del Governo.

 

5. Ed è proprio sul regime, sull’esistenza e su i rapporti tra le istituzioni repubblicane, che ha influito il “non facere” del Legislativo, soprattutto per quanto riguarda l’attuazione di quella parte dell’ordinamento costituzionale più sostanzialmente innovativa, se non addirittura rivoluzionaria rispetto all’“ancien regime”, che è rappresentata dal titolo V, parte II Cost.

E’ il caso di ricordare che la l. 10.02.1953, n. 62 (detta legge Scelba dal nome del ministro dell’interno, non a caso siciliano e discepolo di Sturzo, che fortemente la volle), sulla costituzione ed il funzionamento degli organi regionali, restò a lungo voce clamante nel deserto. Solo verso la fine degli anni ’60 avvenne il rilancio del regionalismo, visto forse più quale strumento per raggiungere altri fini ed interessi politici e partitici, che non quale doverosa attuazione, sia pur tardiva, del dettato costituzionale. Ciò portò finalmente all’attuazione degli enti Regione con le elezioni del 7-8 giugno del 1970.

 

6. Come si è accennato, nei primi quattro lustri di vita della Carta del ’48 non pochi né poco autorevoli sono stati gli studiosi i quali hanno negato che la Repubblica italiana potesse essere definita uno Stato regionale. Tali studiosi ritenevano infatti che, per tacer d’altro, ciò sarebbe stato in contrasto, anche con il disposto dell’art. 5 Cost. Oggi, dopo la realizzazione di tutte le Regioni, l’emanazione di tutta una serie di norme tendenti ad incastonarle nel sistema repubblicano nonché, dopo le modifiche apportate al titolo. V parte II della Costituzione dalla l.c. 18.10.2001, n. 3, si è andati in materia ben aldilà dell’originario disegno costituzionale perché si è cercato di prefigurare qualcosa di più avanzato, secondo certuni superando, o quasi, il disegno regionalistico per avviarsi verso schemi, quanto meno tendenzialmente, federalistici.

Orbene, si deve subito dire che se le novità del nuovo titolo V non sono poche, molte ne sono anche le pericolose ambiguità. S’impone dunque la necessità di dover effettuare una rilettura dello stesso art. 5 tale da adeguarla e, comunque, renderla armonica col sistema nel suo complesso.

Di seguito, ovviamente in modo sintetico (gli approfondimenti sugli specifici verranno dagli apporti specialistici previsti nel prosieguo dei lavori) si cercherà di attirare l’attenzione su talune problematiche di carattere istituzionale e funzionale.

 

7. Per quanto riguarda l’aspetto istituzionale si deve anzitutto rilevare che si è passati dalla solenne affermazione di mero principio sull’autonomia e sul decentramento contenuta negli artt. 114 e 115 del testo originario (che sanzionava anche la ripartizione territoriale della Repubblica in Regioni, Province e Comuni), all’attuale formulazione dell’art. 114 (in un certo qual modo anche riassuntivo del precedente art. 115 oggi abrogato) secondo cui la Repubblica è costituita ora anche dalle Città metropolitane (nuovo ente locale territoriale ancora da meglio definire) e dallo Stato. Parrebbe di intravedere, nel sottofondo di questa enunciazione quasi una matrice olivettiana, per quanto riguarda la teoria delle comunità sovrapposte e crescenti. Addirittura vi si potrebbero cogliere sfumature titoiste che sembrano guardare all’autogestione partecipativa. Comunque, il tutto però riecheggia pericolose forme di deriva del sistema democratico verso un, peraltro confuso, populismo di stampo sessantottesco. Una lettura benevola del I comma dell’art. 114 potrebbe far pensare, peraltro, ad una volontà di rafforzamento del sistema democratico, da un lato con un avvicinamento dei centri di potere al cittadino e, dall’altro, con la diffusione del potere che, se realizzata in modo eccessivo e senza la chiarezza e la precisione necessarie, può ritorcersi, in definitiva, proprio contro il cittadino vuoi per il pericolo del contenzioso che è potenzialmente capace di generare, vuoi perché suscettibile, quanto meno in prospettiva, anche di appannare la certezza del diritto. Comunque, qualunque sia l’interpretazione che se ne dia, non sembra che dalla nuova enunciazione si possano trarre elementi a favore di un cambiamento del sistema verso una qualche forma federalista, mentre pare piuttosto di poter cogliere il rafforzamento - o se si vuole una qualche forma di esaltazione - dei principi autonomistico, statutario (art. 114. 2), regolamentare (art. 117. 6) e finanziario (art.119) che, sia pure con diverse gradazioni, raggiunge il livello più alto per quanto riguarda le Regioni.

Pur con tutte le riserve che si possono fare sulla normativa introdotta dal titolo V novellato - e fino a quando questa non verrà a sua volta modificata - resta l’obbligo di attuazione della stessa. Siffatta situazione sembra essere di per sé sufficiente a spiegare i limiti ed addirittura le stesse possibili ma inevitabili illegittimità costituzionali che possono essere contenute nella l. n. 131/2003. Di tale testo normativo si deve quindi apprezzare - pur con le riserve di cui sopra - il corretto sforzo di realizzazione di quanto detta oggi la Costituzione.

Resta peraltro fermo il fatto che non giova sicuramente allo sviluppo del sistema il continuare a giocare sull’equivoco degli pseudo federalismi di settore (per tutti si può ricordare il d.lgs. 18. 02.2000, n. 56 sul c.d. federalismo fiscale) che contribuisce piuttosto ad aumentare la confusione piuttosto che a dare chiarezza e certezza.

 

8. A dire il vero, l’uso del termine federalismo, riferito all’attuale momento positivo costituzionale italiano, è quanto meno improprio, anzi, da un punto di vista tecnico-giuridico, addirittura erroneo. Infatti, l’avere nel I comma dell’art. 114 posto sullo stesso piano lo Stato e le Regioni, assieme con i Comuni, le Province e le Città metropolitane, non significa né aver elevato le Regioni al livello del primo né aver posto i Comuni, le Province e le Città metropolitane al livello delle Regioni. Ciò sembra abbastanza chiaro dal riscontro testuale con il II comma dello stesso art. 114 dove, per l’appunto, si precisa, in modo inequivocabile, che Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni “sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”. Si può aggiungere che in ciascuno di tali enti si può anche intravedere qualche elemento di statualità, ma ciò non significa che ad essi sia stata riconosciuta, per ora, una vera e propria, sia pur minima, parte di sovranità: il parlare di autonomie locali infatti, inequivocabilmente, significa riferirsi ad enti non sovrani (per tutti si può ricordare Mortati). La stessa attribuzione del potere statutario e regolamentare non sembra possa andare aldilà del riconoscimento di una forma di forte autonomia anche se la ripartizione delle materie oggi non poggia più soltanto sul criterio gerarchico ma anche su quello delle competenze in percentuali che, peraltro, è attualmente difficile determinare.

Altrettanto può dirsi per il nuovo riparto di materie tra Stato e Regioni per quanto attiene la competenza legislativa (art. 117). Su questo punto, anzi, deve dirsi che la nuova ripartizione sta creando, e vieppiù creerà, pericolosissimi e numerosissimi contenziosi davanti alla Corte costituzionale e non è da escludere, che ciò avvenga anche in sede di Unione europea. Il tutto è dovuto, in modo particolare, all’allargamento della c.d. competenza concorrente di cui all’art. 117.3. In effetti, il riparto delle competenze fatto in detto art. sembrava fin dall’inizio - ed ancora più chiaramente appare con il passare del tempo - essere stato fatto in modo affrettato, non del tutto ragionevole né funzionale rispetto al sistema. Per cui sembra indispensabile che siffatta ripartizione venga al più presto ripensata nella sua globalità, seguendo il criterio del limitare al massimo (se non di escludere) la competenza concorrente.  Tale risultato può essere raggiunto con l’attribuire le materie oggi incluse in questa categoria, in competenza esclusiva in parte allo Stato ed in parte alla Regione e, nel contempo, con il rivedere le stesse materie attualmente riservate allo Stato in quanto talune di queste potrebbero passare alla Regione mentre altre dovrebbero rientrare nella esclusiva competenza statale.

Sarebbe erroneo credere che tale esigenza sia soddisfatta dall’art.117 (tanto nel vecchio testo quanto nel nuovo al II comma dello stesso). E’ ben vero che la nuova formulazione ha capovolto la logica del riparto delle materie tra Stato e Regione: ma tale novità non pare possa essere letta in chiave federalista. Essa piuttosto, nel contesto italiano, sembra doversi interpretare come un mero fatto tecnico che niente ha a che fare con il federalismo se non in apparenza. La portata della norma del IV comma dell’art. 117, infatti, fa sì una riserva residuale di carattere generale alla competenza regionale, ma non esclude che con successive leggi costituzionali lo Stato, anche unilateralmente, possa attribuirsi, ovvero riservarsi, altre competenze, cosa questa impensabile e giuridicamente impossibile in un vero sistema federale.

Un altro elemento che non permette di far rientrare l’attuale sistema italiano nell’ambito del federalismo è dato dal complesso dell’art. 116 e dal suo ultimo comma in particolare. Orbene, questa normativa tende non soltanto a conservare le “forme e condizioni particolari di autonomia, secondo rispettivi statuti adottati con l.c.” (art. 116.1) al gruppo delle cinque Regioni storiche e delle Province di Trento e Bolzano (art. 116. 2), ma anche ad attribuire «ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali (è ovvio si debba intendere della stessa Regione!), nel rispetto dell’art 119» (art. 116 u.c.) «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia per determinate materie» (art. 117. comma 2 lettere f, n, s e comma 3). Ciò si stacca nettamente dal sistema federale che vede, in linea di principio, in posizione di eguaglianza tutte le strutture (statuali o comunque denominate) facenti parte della federazione, e quindi, conseguentemente, qualora siano apportate modifiche a tale principio, impone l’accordo tra tutti i componenti la federazione. Questa specie di tertium genus di autonomia regionale, che potrebbe definirsi ad autonomia variabile, sembra sia piuttosto, in qualche modo, da riportarsi più al sistema - di autonomia regionale per l’appunto - vigente in Spagna, che non ad un qualche schema federalistico. Infine, non sembrano in linea con i principi federalistici né quanto prevede il I comma dell’art. 118, né la stessa attuale struttura bicamerale dell’apparato parlamentare, così come previsto nel titolo I della parte II della Carta del ’48.

 

9. Può essere opportuno, a questo punto, spendere qualche parola su quello che si potrebbe chiamare (per stare alla pseudo classificazione fatta sopra) secundum genus regionale e cioè sulle cinque Regioni dotate di uno statuto speciale approvato con l.c. Queste rischiano oggi di vedersi sempre più discriminate in negativo rispetto a tutte le altre proprio a causa di quegli elementi, formali e sostanziali, di differenziazione che ne hanno, fin dal loro nascere, costituito la specialità la quale, peraltro, ha sicuramente perso molto del suo smalto iniziale. A ben vedere, una sempre più completa e diffusa realizzazione del regionalismo ha portato ad una progressiva e significativa riduzione delle differenze proprio riguardo alla ripartizione delle competenze. Queste, infatti, sono state via via attribuite, in sempre più larga misura, alle c.d. Regioni ad autonomia ordinaria in una deriva dovuta non soltanto al loro ben diverso peso politico ma anche alle modificazioni della realtà storica nelle sue diverse sfaccettature: economica, sociale, internazionale, e, dunque, anche istituzionale; nonché allo sviluppo delle stesse infrastrutture, il tutto doverosamente inquadrato nella stessa evoluzione del quadro europeo. Non è un caso che tutti questi elementi stanno portando una parte della dottrina e della politica a porre, più o meno sommessamente, il problema di una certa omogeneizzazione tra le diverse tipologie regionali fino ad oggi previste e realizzate. Significativo pare il fatto che la stessa normativa non ha potuto fare a meno di registrare tale situazione e, conseguentemente, prevedere l’applicabilità anche alle Regioni ad autonomia differenziata di tutte le norme che attribuiscono alle Regioni ad autonomia ordinaria competenze più ampie rispetto a quanto previsto negli statuti speciali. La stessa garanzia della l.c. prevista per l’approvazione degli statuti (che in definitiva sono delle carte concesse dalla Repubblica), può essere riguardata oggi come una pericolosa camicia di Nesso imposta alle Regioni a statuto speciale, poiché con essa viene negato il potere statuente riconosciuto invece a tutte le altre Regioni. Dubbi infine, non del tutto infondati, sussistono circa la compatibilità con la normativa comunitaria di certe norme statutarie speciali. Certo non possono creare illusioni quelli che sono da interpretare come dei meri maquillage costituzionali quale il ritocco apportato all’originario art. 116 dal II comma dello stesso articolo attuale dove la dizione originale «Trentino Alto Adige» è stata sostituita con «Trentino Alto Adige\Südtirol».

 

10. L’altro termine sul quale ci si deve, per ragioni di completezza, sia pur molto brevemente, soffermare è quello di “devolution”, vocabolo che nel linguaggio giuridico anglosassone viene usato per indicare il trasferimento di competenza da una persona (fisica o giuridica) ad altra o dal Parlamento ad altri. In effetti, per quanto riguarda l’Italia, tale termine viene usato oggi per indicare il trasferimento, ovvero il passaggio, di materie dalla competenza legislativa statale a quella regionale. In altre parole esso vorrebbe significare la realizzazione di quel lavoro di redistribuzione delle competenze tra Stato e Regioni di cui si è parlato sopra. Il misticismo e la magicità esoterica di cui è stata ammantata questa parola verrebbe quasi sicuramente meno se si usassero i termini che la lingua italiana mette a disposizione - e che sono sicuramente più precisi anche concettualmente oltreché tecnicamente - a seconda dei casi parlando di trasferimento, di passaggio, di cessione, di ripartizione, o anche di mero decentramento delle competenze. E’ forse ancora una volta opportuno sottolineare il fatto che, comunque lo si chiami (devolution o devoluzione), questo istituto è però estraneo al sistema federale classico.

 

11. Da quanto si è fin qui osservato non sembra, rebus sic stantibus, si possa quindi parlare oggi, riguardo alla Repubblica italiana - di Stato federale ma, piuttosto, di regionalismo avanzato che, nella specie, parrebbe potersi definire - come già si è accennato - a geometria variabile se non addirittura a velocità variabile: un regionalismo, cioè, fondato sui principi di democrazia, autonomia e decentramento nonché su quelli di sussidiarietà, leale collaborazione, differenziazione ed adeguatezza (art. 118).

Più che mai oggi diventa indispensabile rivedere l’intero testo costituzionale e non per una mera operazione di restyling. L’oltre mezzo secolo di vita e gli interventi che sul corpus costituzionale sono stati effettuati fino ad oggi (ed ancor più quelli che si preannunciano), non soltanto impongono che esso venga sottoposto a un vero e proprio check up ma suggeriscono anche, in via particolare, interventi atti a riequilibrarlo ed a riarmonizzarlo anche in funzione della scelta eventuale tra Stato regionale e Stato federale senza per questo che debba venir meno, in ogni caso, il principio dell’unitarietà. Se ciò non verrà fatto in tempi brevi c’è il rischio che, ancora una volta, le vere innovazioni al sistema finiscano per essere realizzate non dagli apparati legislativi ma piuttosto da quelli giudiziari, prima fra questi la Corte costituzionale che - in carenza dell’adeguata produzione normativa - potrà essere costretta a dover sciogliere tutta una serie di nodi interpretativi la soluzione dei quali potrà incidere non poco sullo stesso sviluppo costituzionale ed istituzionale del Paese.

 

 

Bibliografia

 

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* Il testo che segue è quello della relazione di apertura svolta al convegno “Federalismo e devolution” tenutosi presso la sede bolognese della Scuola superiore della pubblica amministrazione nei giorni 15 e 16 gennaio 2004. Esso sarà inserito negli atti di tale convegno, di prossima pubblicazione.