N. 3 – Maggio 2004 – Lavori in corso –
Contributi
FEDERALISMO
E DEVOLUTION. ASPETTI ISTITUZIONALI(*)
1. Le iniziative relative
allo studio, all’approfondimento, ed alla puntualizzazione delle innumerevoli
problematiche relative al federalismo sono state così numerose che se si
traducessero, sia pure in percentuale infima, in realizzazioni, e quindi in
linee di sviluppo e di crescita, i risultati potrebbero essere addirittura
rivoluzionari. L’uso del condizionale marca la nostra distanza da questo
risultato, e tale distanza dipende da molte cause, non ultima il fatto che
anche l’Accademia e la ricerca scientifica hanno subito e subiscono le mode e
le attrazioni fatali di una società di consumi che, quale novella sirena,
distrae e attira in modo quasi ineluttabile con le sue non poche seduzioni.
Tutti oggi, pressoché di continuo, subiamo un vero martellamento di slogan, tanto ridondanti quanto - fin
troppo spesso - concettualmente vuoti. A termini il cui significato è ormai
consolidato e puntuale, se ne sostituiscono di nuovi (spesso d’importazione),
senza che questi servano a rendere più precisi i concetti, meno fumosa la politica,
o più avanzata la società civile.
2. Quando, a partire
dagli anni dell’Assemblea Costituente, da parte di uno sparuto gruppo di
persone - che però guardava consapevolmente lontano - si cominciò a parlare di
regionalismo e, conseguentemente, di Stato regionale, ed a porre le basi di
quello che costituì il primitivo nucleo di ciò che sarebbe successivamente
diventato il diritto regionale, coloro i quali si impegnavano in queste
ricerche erano guardati dai più come alieni pericolosi. Infatti il regionalismo
veniva percepito addirittura come un pericolo se non come un elemento di
disgregazione per la stessa unità nazionale, in aperta contraddizione rispetto
a quanto solennemente proclamato dal 1° comma dell’art. 5 della Carta
repubblicana. Che la regionalizzazione dello Stato sia stata un’operazione che
si è cercato di realizzare il più tardi possibile è dimostrato per tabulas non soltanto dal fatto che
solo con l’inizio degli anni ’70 si è ritenuto di dare attuazione a quella non
certo piccola né irrilevante parte della Costituzione riguardante la
regionalizzazione dello Stato, ma anche dalla circostanza che, nello stesso
periodo, dalle istituzioni ed in generale dall’apparato, non si può dire
venissero riguardate in modo favorevole nemmeno le cinque Regioni che già
avevano preso avvio, e cioè le Regioni ad autonomia speciale, le quali venivano
quasi ritenute un male storicamente necessario e quindi inevitabile. Infatti,
sono ormai note a tutti le particolari congiunture di diversa natura (sia
interna sia internazionale) che avevano determinato (o addirittura imposto) la
loro nascita. In taluni casi esse risalivano ad un momento anteriore alla
stessa Carta repubblicana. Ciò trova riscontro non soltanto in genere negli
atteggiamenti assunti in merito dai governi, ma anche dalla legislazione e
addirittura dalla stessa giurisprudenza costituzionale. Si può dire che in quel
periodo l’espressione “Repubblica una e indivisibile” nella sostanza significò
“Stato accentrato” e non certo “Stato delle autonomie”. Si può dire che la sia
pur lenta e ancora oggi non completata rivoluzione dell’apparato repubblicano
abbia avuto inizio, nella sostanza, soltanto con la creazione di tutte le
quindici Regioni ad autonomia ordinaria. Fu questo, in effetti, il detonatore
che provocò l’esplodere del cambiamento ed una vera e propria inversione di
tendenza che si volse allora non soltanto verso il decentramento ma soprattutto
verso la realizzazione dello Stato delle autonomie. La cerniera di tale
decentramento era infatti - ed è - data dalla struttura regionalistica oltreché
dalle forme partecipative più estese con il rafforzamento anche dei poteri
delle entità sub-regionali e, segnatamente, degli enti locali territoriali.
3. Attualmente - nel
mondo accademico come in quello politico - si è diffusa l’idea che si debba
“leggere” la Costituzione con lo spirito dei costituenti o (il che forse è
anche peggio) che il problema di apportare eventuali modifiche al testo
originario della Carta debba essere affrontato con lo stesso spirito dei
costituenti del 1946-’48. Questi atteggiamenti spesso sono solo strumentali
rispetto ad interessi di parte; ciò non li rende certo meno pericolosi e,
comunque, sempre tecnicamente e storicamente sbagliati. Infatti, è noto a tutti
che i tempi storici sono irripetibili: l’affermazione che ogni società esprime
il proprio ordinamento è vera sia in senso sincronico sia in senso diacronico.
La storia può essere “magistra vitae”
in quanto essa offra non l’esempio da scimmiottare, ma quello dal quale si sia
capaci di trarre la lezione che può e deve essere tenuta presente come
esperienza compiuta. Non si può dunque partire dal principio che l’ordinamento
è immutabile perché, al contrario, esso è mutevole come mutevole è la vita
dell’uomo, e mutevoli sono gli interessi, e i fini stessi che si prefigge la
società. Tra i numerosi esempi e spunti di riflessione basti ricordare in
proposito quello che è forse il più eclatante, e cioè il testo dell’art. 11
della Costituzione. Il lettore odierno non può, e correttamente, non pensare
che questa norma si riferisca all’Unione europea; tuttavia, d’Europa più o meno
unita, non si trova traccia negli atti dell’Assemblea Costituente. In effetti
tale articolo voleva far riferimento esclusivamente all’O.N.U., organizzazione
alla quale allora si auspicava che l’Italia venisse ammessa al più presto.
Oggi, com’è ormai a tutti ben noto, la portata della norma posta dall’articolo
in questione è invece tale da consentire limitazioni di sovranità alla
Repubblica sicuramente impensabili ai tempi della Costituente. Se su questo
punto la posizione delle vestali della Costituente, alle quali si è fatto cenno
sopra, fosse portata alle sue - diciamo pure estreme - conseguenze logiche, si
arriverebbe a conclusioni a dir poco aberranti. Dunque, la corretta
interpretazione della Costituzione, non può e non deve essere fatta in chiave “retro” e neppure, per converso, in
chiave gratuitamente avveniristica: essa deve piuttosto seguire correttamente i
canoni di quella che la dottrina, e non da oggi, ha definito interpretazione
storico-evolutiva, la quale peraltro deve tenere presente nella sua
applicazione la differenza tra i principi generali (derogabili) e quelli
fondamentali (inderogabili) di una Costituzione riguardata in senso sostanziale
e vivente; vale a dire «che i suoi contenuti possono, nel tempo, mutare senza
che mutino le fonti da cui sono tratti» (Lavagna,
Ist. dir. pubbl., VI ed., pag. 169) in base alla stessa sua elasticità ed al
continuo evolversi del corpo sociale.
4. La vita della Carta
repubblicana, a ben guardare, non è stata nella sostanza, cioè come
costituzione vivente, del tutto lineare e semplice. Infatti, da taluno si è
sostenuto e si continua a sostenere che la Costituzione, specialmente per
quanto riguarda i primi 54 articoli, non sarebbe assolutamente modificabile, e
che solo così facendo si salvaguarderebbero nientemeno che le stesse fondamenta
della Repubblica. Una tale affermazione può anche, a prima vista, sembrare
convincente, ma è erronea per diversi ordini di motivi. Il primo e più
importante fra tali motivi è che principi generali e principi fondamentali sono
enunciati, in modo esplicito o in modo implicito non soltanto nei primi 54
articoli, ma anche nei successivi, in quanto sono enucleabili dal contesto
complessivo della Carta.
Va peraltro ricordato
come non siano mancati interventi sulla Costituzione che, apparentemente
ininfluenti sui principi, hanno invece provocato, o concorso a provocare,
profondi mutamenti nel sistema. Si pensi ad esempio alle modifiche apportate dalla
l.c. 09.02.1963, n. 2, all’art. 60 Cost. Con il portare a cinque anni la durata
di entrambe le Assemblee parlamentari sembrò volersi completare la
realizzazione del bicameralismo perfetto creando situazioni ottimali di “governance”. Infatti, votandosi
contemporaneamente per entrambe le Camere, si pensava che si sarebbe ridotta al
minimo la differenza della loro composizione rispetto alla rappresentanza delle
diverse forze politiche, e che ciò avrebbe finito anche col riassorbire gli
effetti eventualmente derivanti dai diversi sistemi elettorali e dalla sia pur
parziale differenza nella composizione del corpo elettorale (art. 58 Cost.). Ma
la prassi - se non addirittura la vera e propria convenzione costituzionale -
di sciogliere contemporaneamente le due Camere - instauratasi successivamente -
induceva ad adeguare il testo alla realtà sostanziale. A ben guardare, ciò andò
in effetti a discapito della maggior dialettica e della diversità degli
equilibri eventuali che si sarebbero avuti se i momenti elettorali non fossero
coincisi; a discapito, quindi, in ultima analisi, dello stesso sistema di
equilibri costituzionali ed istituzionali prefigurati originariamente. Dunque,
quello che poté e può sembrare essere stato un mero adeguamento formale - se
non addirittura un semplice “maquillage”
del testo costituzionale - più correttamente sembra doversi ritenere abbia
inciso, e forse non poco, sulla crescita democratica e sullo stesso divenire
del sistema dei partiti politici; in ultima analisi, sul regime e quindi anche
sul modo di essere dello Stato e del Governo.
5. Ed è proprio sul
regime, sull’esistenza e su i rapporti tra le istituzioni repubblicane, che ha
influito il “non facere” del
Legislativo, soprattutto per quanto riguarda l’attuazione di quella parte dell’ordinamento
costituzionale più sostanzialmente innovativa, se non addirittura
rivoluzionaria rispetto all’“ancien
regime”, che è rappresentata dal titolo V, parte II Cost.
E’ il caso di ricordare
che la l. 10.02.1953, n. 62 (detta legge Scelba dal nome del ministro
dell’interno, non a caso siciliano e discepolo di Sturzo, che fortemente la
volle), sulla costituzione ed il funzionamento degli organi regionali, restò a
lungo voce clamante nel deserto. Solo verso la fine degli anni ’60 avvenne il
rilancio del regionalismo, visto forse più quale strumento per raggiungere
altri fini ed interessi politici e partitici, che non quale doverosa
attuazione, sia pur tardiva, del dettato costituzionale. Ciò portò finalmente
all’attuazione degli enti Regione con le elezioni del 7-8 giugno del 1970.
6. Come si è accennato,
nei primi quattro lustri di vita della Carta del ’48 non pochi né poco
autorevoli sono stati gli studiosi i quali hanno negato che la Repubblica
italiana potesse essere definita uno Stato regionale. Tali studiosi ritenevano
infatti che, per tacer d’altro, ciò sarebbe stato in contrasto, anche con il
disposto dell’art. 5 Cost. Oggi, dopo la realizzazione di tutte le Regioni,
l’emanazione di tutta una serie di norme tendenti ad incastonarle nel sistema
repubblicano nonché, dopo le modifiche apportate al titolo. V parte II della
Costituzione dalla l.c. 18.10.2001, n. 3, si è andati in materia ben aldilà
dell’originario disegno costituzionale perché si è cercato di prefigurare
qualcosa di più avanzato, secondo certuni superando, o quasi, il disegno
regionalistico per avviarsi verso schemi, quanto meno tendenzialmente,
federalistici.
Orbene, si deve subito
dire che se le novità del nuovo titolo V non sono poche, molte ne sono anche le
pericolose ambiguità. S’impone dunque la necessità di dover effettuare una
rilettura dello stesso art. 5 tale da adeguarla e, comunque, renderla armonica
col sistema nel suo complesso.
Di seguito, ovviamente
in modo sintetico (gli approfondimenti sugli specifici verranno dagli apporti
specialistici previsti nel prosieguo dei lavori) si cercherà di attirare
l’attenzione su talune problematiche di carattere istituzionale e funzionale.
7. Per quanto riguarda
l’aspetto istituzionale si deve anzitutto rilevare che si è passati dalla
solenne affermazione di mero principio sull’autonomia e sul decentramento
contenuta negli artt. 114 e 115 del testo originario (che sanzionava anche la
ripartizione territoriale della Repubblica in Regioni, Province e Comuni),
all’attuale formulazione dell’art. 114 (in un certo qual modo anche riassuntivo
del precedente art. 115 oggi abrogato) secondo cui la Repubblica è costituita
ora anche dalle Città metropolitane (nuovo ente locale territoriale ancora da
meglio definire) e dallo Stato. Parrebbe di intravedere, nel sottofondo di
questa enunciazione quasi una matrice olivettiana, per quanto riguarda la
teoria delle comunità sovrapposte e crescenti. Addirittura vi si potrebbero
cogliere sfumature titoiste che sembrano guardare all’autogestione partecipativa.
Comunque, il tutto però riecheggia pericolose forme di deriva del sistema
democratico verso un, peraltro confuso, populismo di stampo sessantottesco. Una
lettura benevola del I comma dell’art. 114 potrebbe far pensare, peraltro, ad
una volontà di rafforzamento del sistema democratico, da un lato con un
avvicinamento dei centri di potere al cittadino e, dall’altro, con la
diffusione del potere che, se realizzata in modo eccessivo e senza la chiarezza
e la precisione necessarie, può ritorcersi, in definitiva, proprio contro il
cittadino vuoi per il pericolo del contenzioso che è potenzialmente capace di
generare, vuoi perché suscettibile, quanto meno in prospettiva, anche di
appannare la certezza del diritto. Comunque, qualunque sia l’interpretazione
che se ne dia, non sembra che dalla nuova enunciazione si possano trarre
elementi a favore di un cambiamento del sistema verso una qualche forma
federalista, mentre pare piuttosto di poter cogliere il rafforzamento - o se si
vuole una qualche forma di esaltazione - dei principi autonomistico, statutario
(art. 114. 2), regolamentare (art. 117. 6) e finanziario (art.119) che, sia
pure con diverse gradazioni, raggiunge il livello più alto per quanto riguarda
le Regioni.
Pur con tutte le
riserve che si possono fare sulla normativa introdotta dal titolo V novellato -
e fino a quando questa non verrà a sua volta modificata - resta l’obbligo di
attuazione della stessa. Siffatta situazione sembra essere di per sé
sufficiente a spiegare i limiti ed addirittura le stesse possibili ma
inevitabili illegittimità costituzionali che possono essere contenute nella l.
n. 131/2003. Di tale testo normativo si deve quindi apprezzare - pur con le
riserve di cui sopra - il corretto sforzo di realizzazione di quanto detta oggi
la Costituzione.
Resta peraltro fermo il
fatto che non giova sicuramente allo sviluppo del sistema il continuare a
giocare sull’equivoco degli pseudo federalismi di settore (per tutti si può
ricordare il d.lgs. 18. 02.2000, n. 56 sul c.d. federalismo fiscale) che contribuisce
piuttosto ad aumentare la confusione piuttosto che a dare chiarezza e certezza.
8. A dire il vero,
l’uso del termine federalismo, riferito all’attuale momento positivo
costituzionale italiano, è quanto meno improprio, anzi, da un punto di vista
tecnico-giuridico, addirittura erroneo. Infatti, l’avere nel I comma dell’art.
114 posto sullo stesso piano lo Stato e le Regioni, assieme con i Comuni, le
Province e le Città metropolitane, non significa né aver elevato le Regioni al
livello del primo né aver posto i Comuni, le Province e le Città metropolitane
al livello delle Regioni. Ciò sembra abbastanza chiaro dal riscontro testuale
con il II comma dello stesso art. 114 dove, per l’appunto, si precisa, in modo
inequivocabile, che Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni “sono enti
autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla
Costituzione”. Si può aggiungere che in ciascuno di tali enti si può anche
intravedere qualche elemento di statualità, ma ciò non significa che ad essi
sia stata riconosciuta, per ora, una vera e propria, sia pur minima, parte di
sovranità: il parlare di autonomie locali infatti, inequivocabilmente,
significa riferirsi ad enti non sovrani (per tutti si può ricordare Mortati).
La stessa attribuzione del potere statutario e regolamentare non sembra possa
andare aldilà del riconoscimento di una forma di forte autonomia anche se la
ripartizione delle materie oggi non poggia più soltanto sul criterio gerarchico
ma anche su quello delle competenze in percentuali che, peraltro, è attualmente
difficile determinare.
Altrettanto può dirsi
per il nuovo riparto di materie tra Stato e Regioni per quanto attiene la
competenza legislativa (art. 117). Su questo punto, anzi, deve dirsi che la
nuova ripartizione sta creando, e vieppiù creerà, pericolosissimi e
numerosissimi contenziosi davanti alla Corte costituzionale e non è da
escludere, che ciò avvenga anche in sede di Unione europea. Il tutto è dovuto,
in modo particolare, all’allargamento della c.d. competenza concorrente di cui
all’art. 117.3. In effetti, il riparto delle competenze fatto in detto art.
sembrava fin dall’inizio - ed ancora più chiaramente appare con il passare del
tempo - essere stato fatto in modo affrettato, non del tutto ragionevole né funzionale
rispetto al sistema. Per cui sembra indispensabile che siffatta ripartizione
venga al più presto ripensata nella sua globalità, seguendo il criterio del
limitare al massimo (se non di escludere) la competenza concorrente. Tale risultato può essere raggiunto con
l’attribuire le materie oggi incluse in questa categoria, in competenza
esclusiva in parte allo Stato ed in parte alla Regione e, nel contempo, con il
rivedere le stesse materie attualmente riservate allo Stato in quanto talune di
queste potrebbero passare alla Regione mentre altre dovrebbero rientrare nella
esclusiva competenza statale.
Sarebbe erroneo credere
che tale esigenza sia soddisfatta dall’art.117 (tanto nel vecchio testo quanto
nel nuovo al II comma dello stesso). E’ ben vero che la nuova formulazione ha
capovolto la logica del riparto delle materie tra Stato e Regione: ma tale
novità non pare possa essere letta in chiave federalista. Essa piuttosto, nel
contesto italiano, sembra doversi interpretare come un mero fatto tecnico che
niente ha a che fare con il federalismo se non in apparenza. La portata della
norma del IV comma dell’art. 117, infatti, fa sì una riserva residuale di
carattere generale alla competenza regionale, ma non esclude che con successive
leggi costituzionali lo Stato, anche unilateralmente, possa attribuirsi, ovvero
riservarsi, altre competenze, cosa questa impensabile e giuridicamente
impossibile in un vero sistema federale.
Un altro elemento che
non permette di far rientrare l’attuale sistema italiano nell’ambito del
federalismo è dato dal complesso dell’art. 116 e dal suo ultimo comma in
particolare. Orbene, questa normativa tende non soltanto a conservare le “forme
e condizioni particolari di autonomia, secondo rispettivi statuti adottati con
l.c.” (art. 116.1) al gruppo delle cinque Regioni storiche e delle Province di
Trento e Bolzano (art. 116. 2), ma anche ad attribuire «ad altre Regioni, con
legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti
locali (è ovvio si debba intendere della stessa Regione!), nel rispetto
dell’art 119» (art. 116 u.c.) «ulteriori forme e condizioni particolari di
autonomia per determinate materie» (art. 117. comma 2 lettere f, n,
s e comma 3). Ciò si stacca
nettamente dal sistema federale che vede, in linea di principio, in posizione
di eguaglianza tutte le strutture (statuali o comunque denominate) facenti
parte della federazione, e quindi, conseguentemente, qualora siano apportate
modifiche a tale principio, impone l’accordo tra tutti i componenti la federazione.
Questa specie di tertium genus di
autonomia regionale, che potrebbe definirsi ad autonomia variabile, sembra sia
piuttosto, in qualche modo, da riportarsi più al sistema - di autonomia
regionale per l’appunto - vigente in Spagna, che non ad un qualche schema
federalistico. Infine, non sembrano in linea con i principi federalistici né
quanto prevede il I comma dell’art. 118, né la stessa attuale struttura
bicamerale dell’apparato parlamentare, così come previsto nel titolo I della
parte II della Carta del ’48.
9. Può essere
opportuno, a questo punto, spendere qualche parola su quello che si potrebbe
chiamare (per stare alla pseudo classificazione fatta sopra) secundum genus regionale e cioè sulle
cinque Regioni dotate di uno statuto speciale approvato con l.c. Queste
rischiano oggi di vedersi sempre più discriminate in negativo rispetto a tutte
le altre proprio a causa di quegli elementi, formali e sostanziali, di
differenziazione che ne hanno, fin dal loro nascere, costituito la specialità
la quale, peraltro, ha sicuramente perso molto del suo smalto iniziale. A ben
vedere, una sempre più completa e diffusa realizzazione del regionalismo ha
portato ad una progressiva e significativa riduzione delle differenze proprio
riguardo alla ripartizione delle competenze. Queste, infatti, sono state via
via attribuite, in sempre più larga misura, alle c.d. Regioni ad autonomia
ordinaria in una deriva dovuta non soltanto al loro ben diverso peso politico
ma anche alle modificazioni della realtà storica nelle sue diverse
sfaccettature: economica, sociale, internazionale, e, dunque, anche
istituzionale; nonché allo sviluppo delle stesse infrastrutture, il tutto
doverosamente inquadrato nella stessa evoluzione del quadro europeo. Non è un
caso che tutti questi elementi stanno portando una parte della dottrina e della
politica a porre, più o meno sommessamente, il problema di una certa
omogeneizzazione tra le diverse tipologie regionali fino ad oggi previste e
realizzate. Significativo pare il fatto che la stessa normativa non ha potuto
fare a meno di registrare tale situazione e, conseguentemente, prevedere
l’applicabilità anche alle Regioni ad autonomia differenziata di tutte le norme
che attribuiscono alle Regioni ad autonomia ordinaria competenze più ampie
rispetto a quanto previsto negli statuti speciali. La stessa garanzia della
l.c. prevista per l’approvazione degli statuti (che in definitiva sono delle
carte concesse dalla Repubblica), può essere riguardata oggi come una
pericolosa camicia di Nesso imposta alle Regioni a statuto speciale, poiché con
essa viene negato il potere statuente riconosciuto invece a tutte le altre
Regioni. Dubbi infine, non del tutto infondati, sussistono circa la
compatibilità con la normativa comunitaria di certe norme statutarie speciali.
Certo non possono creare illusioni quelli che sono da interpretare come dei
meri maquillage costituzionali quale
il ritocco apportato all’originario art. 116 dal II comma dello stesso articolo
attuale dove la dizione originale «Trentino Alto Adige» è stata sostituita con
«Trentino Alto Adige\Südtirol».
10. L’altro termine sul
quale ci si deve, per ragioni di completezza, sia pur molto brevemente,
soffermare è quello di “devolution”,
vocabolo che nel linguaggio giuridico anglosassone viene usato per indicare il
trasferimento di competenza da una persona (fisica o giuridica) ad altra o dal
Parlamento ad altri. In effetti, per quanto riguarda l’Italia, tale termine
viene usato oggi per indicare il trasferimento, ovvero il passaggio, di materie
dalla competenza legislativa statale a quella regionale. In altre parole esso
vorrebbe significare la realizzazione di quel lavoro di redistribuzione delle
competenze tra Stato e Regioni di cui si è parlato sopra. Il misticismo e la
magicità esoterica di cui è stata ammantata questa parola verrebbe quasi
sicuramente meno se si usassero i termini che la lingua italiana mette a
disposizione - e che sono sicuramente più precisi anche concettualmente
oltreché tecnicamente - a seconda dei casi parlando di trasferimento, di
passaggio, di cessione, di ripartizione, o anche di mero decentramento delle
competenze. E’ forse ancora una volta opportuno sottolineare il fatto che,
comunque lo si chiami (devolution o
devoluzione), questo istituto è però estraneo al sistema federale classico.
11. Da quanto si è fin
qui osservato non sembra, rebus sic
stantibus, si possa quindi parlare oggi, riguardo alla Repubblica italiana
- di Stato federale ma, piuttosto, di regionalismo avanzato che, nella specie,
parrebbe potersi definire - come già si è accennato - a geometria variabile se
non addirittura a velocità variabile: un regionalismo, cioè, fondato sui
principi di democrazia, autonomia e decentramento nonché su quelli di sussidiarietà,
leale collaborazione, differenziazione ed adeguatezza (art. 118).
Più che mai oggi
diventa indispensabile rivedere l’intero testo costituzionale e non per una
mera operazione di restyling. L’oltre
mezzo secolo di vita e gli interventi che sul corpus costituzionale sono stati effettuati fino ad oggi (ed ancor
più quelli che si preannunciano), non soltanto impongono che esso venga
sottoposto a un vero e proprio check up
ma suggeriscono anche, in via particolare, interventi atti a riequilibrarlo ed
a riarmonizzarlo anche in funzione della scelta eventuale tra Stato regionale e
Stato federale senza per questo che debba venir meno, in ogni caso, il
principio dell’unitarietà. Se ciò non verrà fatto in tempi brevi c’è il rischio
che, ancora una volta, le vere innovazioni al sistema finiscano per essere
realizzate non dagli apparati legislativi ma piuttosto da quelli giudiziari,
prima fra questi la Corte costituzionale che - in carenza dell’adeguata
produzione normativa - potrà essere costretta a dover sciogliere tutta una
serie di nodi interpretativi la soluzione dei quali potrà incidere non poco
sullo stesso sviluppo costituzionale ed istituzionale del Paese.
Aa.Vv.,
Regionalismo, federalismo, Welfare State, Milano 1997; Aa.Vv., Regioni e riforma istituzionale, Napoli 1985; Aa.Vv., Self-Management - The Yugolslav Road To Socialism, Belgrado 1982; Aa.Vv., Federalismo, regionalismo ed autonomie differenziate, Palermo 1991; ALBERTINI, Il federalismo e lo Stato federale : antologia e definizione, Milano
1963; ID., Il federalismo. Antologia e
definizione, Bologna 1973; AMBROSINI, Decentramento,
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Pubblico, 1956; MORTATI, Le forme di
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