Desidero esprimere la mia più viva gratitudine al Magnifico Rettore, prof. Giovanni Palmieri, e a voi tutti Colleghi dell'Università di Sassari, per aver voluto onorarmi del titolo di dottore in Scienze Politiche, e per le affettuose accoglienze, vostre e degli studenti, che mi hanno profondamente commosso. In particolare, ringrazio il Preside della Facoltà di Scienze Politiche, prof. Virgilio Mura, per la dotta e appassionata presentazione, in cui ha passato in rassegna gli eventi principali della mia vita e la successione delle mie opere con tale ampiezza di informazione e con tale generosità nel riconoscimento dei miei meriti da lasciarmi davanti a voi non so se più inorgoglito o intimidito.
Tra
le lauree ad honorem che ho ricevuto in questi anni in varie università, la
vostra mi è particolarmente gradita perché è la prima, ed è facile prevedere
che sarà anche l'ultima, in Scienze Politiche. Le lauree precedenti mi hanno
conferito un titolo o in giurisprudenza o in filosofia che avevo già sin dagli
anni lontani della mia giovinezza, essendomi laureato in giurisprudenza nel
1931, in filosofia nel 1933. Una laurea in Scienze Politiche non l'avevo mai
conseguita. Questa, se pur un po' tardiva, data la mia età che mi ha suggerito
fra l'altro l'argomento della mia lezione, è davvero la prima. Ma è anche
giusto che sia arrivata ultima: come avrete ascoltato dal discorso del prof.
Mura, ho insegnato per quasi 40 anni Filosofia del Diritto in facoltà
giuridiche, e solo negli ultimi 12 anni, dal 1972 al 1984, Filosofia Politica
nella Facoltà di Scienze Politiche, allora istituita, dell'Università di
Torino.
Tanto più grato mi è questo riconoscimento sassarese in quanto
nel curriculum, attraverso cui avete or ora seguito le tappe principali delle
mie opere, la vostra città è stata presente in tre occasioni diverse. E sono
tutte e tre occasioni in cui mi si è offerta la possibilità di discutere temi
particolarmente importanti nel corso della mia vita. La prima volta fui qui da
voi nel maggio 1978 per partecipare, insieme con l'amico Alessandro Passerin
d'Entrèves, al convegno, Autonomia
e diritto di resistenza, promosso da Pierangelo Catalano. Vi presentai una
relazione intitolata, La resistenza all'oppressione, oggi, che si
può considerare uno dei miei primi scritti su un tema su cui sono tornato più
volte, i diritti dell'uomo, uno scritto che ho infatti inserito nel volume, L'età
dei diritti, apparso nel 1989, ristampato nel 1992. Sono tornato
nella vostra città molti anni dopo, in occasione del convegno su Il
trattato segreto, promosso dal prof. Paolo Fois, svoltosi nel marzo 1988. Vi
tenni, come forse alcuni di voi ricorderanno, la relazione introduttiva su Democrazia
e segreto, che ho concepito come una ripresa e insieme una integrazione del
capitolo sulla democrazia e il potere invisibile del volumetto, Il futuro
della democrazia, uscito nel 1984. Non ho bisogno di aggiungere che
il problema del potere occulto come residuo insidioso e, pare, ineliminabile
degli arcana imperii nelle democrazie moderne, e con particolare drammaticità
nella nostra democrazia, è un problema su cui i buoni democratici non
dovrebbero mai allentare la propria attenzione. Da ultimo, tre anni dopo, ho
partecipato al convegno, organizzato dal prof. Mura, ad Alghero nell'aprile
1991, sul tema: Liberalsocialismo: ossimoro o sintesi? Vi ho presentato
anche in questo caso la relazione introduttiva, Tradizione ed eredità del
Liberalsocialismo, di imminente pubblicazione negli atti del convegno, che
sarà intitolato I dilemmi del Liberalsocialismo, a cura di
Michelangelo Bovero, Virgilio Mura, Franco Sbarberi. Se i primi due temi
menzionati sono, come ho detto, importanti nel corso dei miei studi,
quest'ultimo, non occorre dirlo, occupa un posto centrale in una storia ideale
della mia vita.
Quella
di oggi è dunque la quarta volta che mi trovo fra voi. Dalla storia ideale alla
storia reale. E' la storia reale che mi ha suggerito l'idea di dedicare la
lezione magistrale al tema: De senectute.
Come
vi avevo preannunziato, ho scelto per la lectio brevis dopo la laurea un tema
non accademico. Sono un vecchio professore. Permettetemi di parlare, questa
volta, non da professore ma da vecchio. Come professore ho parlato tante volte
da correre il rischio di ripetermi, rischio tanto più grave perché, come è
noto, i vecchi professori sono tanto innamorati delle proprie idee da essere
tentati di tornarci su con insistenza. Mi sto accorgendo io stesso che molte
cose che scrivo in questi ultimi anni sono spesso variazioni sullo stesso tema.
Delle
mie esperienze di vecchio non ho mai parlato in pubblico, se non per accenni,
mentre mi sto osservando da tempo. Da quando? La soglia della vecchiaia in
questi ultimi anni si è spostata di circa un ventennio. Coloro che hanno scritto
opere sulla vecchiaia, a cominciare da Cicerone, erano sulla sessantina. Oggi
il sessantenne è vecchio solo in senso burocratico, perché è giunto all'età in
cui generalmente ha diritto a una pensione. L'ottantenne, salvo eccezioni, era
considerato un vecchio decrepito, di cui non valeva la pena occuparsi. Oggi,
invece, la vecchiaia, non burocratica ma fisiologica, comincia quando ci si
approssima agli ottanta, che è poi l'età media della vita, anche nel nostro
paese, un po' meno per i maschi, un po' più per le donne. Lo spostamento è stato tale che il corso
della vita umana, tradizionalmente diviso in tre età, ormai anche nelle opere
sul tema dell'invecchiamento e nei documenti ufficiali, si è prolungato nella
cosiddetta "quarta età".
Nulla prova però la novità del fenomeno meglio che il constatare la
mancanza di una parola per designarlo: anche nei documenti ufficiali agli agés
seguono i très agés. Chi vi parla è un non meglio definito très
agé.
Sapete
benissimo che accanto alla vecchiaia anagrafica o cronologica e a quella
biologica e a quella burocratica, c'è anche la vecchiaia psicologica o
soggettiva. Biologicamente, io faccio cominciare la mia vecchiaia alle soglie
degli ottant'anni. Ma psicologicamente mi sono sempre considerato un po' vecchio,
anche quando ero giovane. Sono stato un giovane da vecchio e da vecchio mi sono
considerato ancora giovane sino a pochi anni fa. Adesso credo proprio di essere
un vecchio-vecchio. Su questi stati d'animo hanno un'importanza determinante
anche le circostanze storiche, quello che accade intorno a te, tanto nella vita
privata (ad esempio, la morte di una persona cara) quanto nella vita pubblica.
Non vi nascondo che negli anni della contestazione, quando sorse una
generazione ribelle ai padri, mi sentii improvvisamente invecchiato (ero sulla
sessantina). Dalle crisi di vecchiaia psicologica ci si può riprendere. Più
difficile, dall'invecchiamento biologico, anche se oggi la medicina e la
chirurgia fanno miracoli. La seconda crisi storica, ben più grave, è quella
avvenuta nel mondo, con conseguenze gravi anche in Italia, in questi ultimi
anni, quasi a dar ragione a coloro che interpretano il corso della storia
secondo il passaggio da una generazione all'altra. Da questa seconda crisi sono
uscito, come molti miei coetanei, tramortito, molto più che dalla prima, tanto
da avere talora la sensazione di sopravvivere a me stesso.
Quando
ho scelto il tema, che rimuginavo tra me e me da tempo, non avrei mai
immaginato che sarebbe diventato anche attuale, se pure di una attualità
effimera. E' di questi giorni, dopo le elezioni e il rinnovamento in gran parte
generazionale della nostra classe dirigente, l'improvviso riaccendersi
dell'antica e sempre nuova querelle dei giovani contro i vecchi. Ho vissuto in
prima persona questa vicenda, che ha avuto anche qualche aspetto grottesco,
quando parve che i pochi senatori a vita, di cui la maggior parte sono, come
me, ultraottantenni, pur essendo soltanto una minoranza trascurabile e
abitualmente trascurata, facessero vincere con il loro voto il candidato
dell'opposizione. Quelli che un tempo si sarebbero chiamati con una solennità,
lo ammetto, che appare oggi un po' ridicola, vegliardi, furono chiamati senza
tanti complimenti, "quei vecchioni". Ci fu anche chi, un grande
regista, che ha il gusto della maldicenza, commentò: "Bello era vedere la
triste sfilata dei senatori a vita, uno più cadaverico dell'altro, una vecchia
Italia che non vogliamo più e che si è seppellita da sola". Come accade
ormai sempre più in tempi di inflazione di carta stampata, il tema ebbe qualche
giorno di gloria, tanto che un giornale, riassumendo il dibattito, lo pose
sotto il titolo "Giovinezza, giovinezza".
Intendiamoci,
l'emarginazione dei vecchi in un'età in cui il corso storico è sempre più
accelerato, è un dato di fatto, che è impossibile ignorare. Nelle società
tradizionali statiche che si evolvono lentamente, il vecchio racchiude in se
stesso il patrimonio culturale della comunità, in modo eminente rispetto a
tutti gli altri membri di essa. Il vecchio sa per esperienza quello che gli
altri non sanno ancora, e hanno bisogno di imparare da lui, sia nella sfera
etica, sia in quella del costume, sia in quella delle tecniche di
sopravvivenza. Non solo non cambiano le regole fondamentali che reggono la vita
del gruppo, riguardanti la famiglia, il lavoro, i momenti ludici, la guarigione
delle malattie, l'atteggiamento rispetto al mondo di là, il rapporto con gli
altri gruppi, ma non cambiano neppure e si tramandano di padre in figlio, le
abilità. Nelle società evolute il mutamento sempre più rapido sia dei costumi
sia delle arti ha capovolto il rapporto tra chi sa e chi non sa. Il vecchio
diventa sempre più colui che non sa rispetto ai giovani che sanno, e sanno, tra
l'altro, anche perché hanno maggiore facilità di apprendimento.
Già
Campanella alla fine della Città del Sole fa dire al viaggiatore:
"Oh se sapessi che cosa dicono per astrologia e per l'istessi profeti
nostri ed ebrei e d'altre genti di questo secolo nostro, c'ha più istoria in
cento anni che non ebbe il mondo in quattromila, e più libri si fecero in
questi cento che in cinque mila". Oggi si dovrebbe dire non cento, ma
dieci. Quando parlava dei libri Campanella alludeva all'invenzione della
stampa, proprio a un'invenzione tecnica, com'è un'invenzione tecnica il
computer, che, anch'esso, ha aumentato smisuratamente il numero dei libri,
tanto che se ne stampano oggi in un anno probabilmente quanti se ne erano
stampati in tutto il secolo cui Campanella si riferisce.
Tuttavia,
non bisogna tener conto soltanto del fatto oggettivo, ovvero della rapidità del
progresso tecnico, specie nella produzione di strumenti che moltiplicano il
potere dell'uomo sulla natura e sugli altri uomini, e lo moltiplicano tanto
vertiginosamente da lasciare indietro chi si ferma per strada, o perché non ce
la fa più o perché preferisce sostare per riflettere su se stesso, per tornare
in se stesso, dove, diceva sant'Agostino, abita la verità. Ad accrescere
l'emarginazione del vecchio concorre anche un fenomeno che è di tutti i tempi:
l'invecchiamento culturale, che accompagna sia quello biologico sia quello
sociale. Il vecchio, come ha osservato Jean Améry, nel libro Rivolta e
rassegnazione. Sull'invecchiare, tende a restare fedele al sistema
di principi o valori appresi e interiorizzati nell'età che sta fra la
giovinezza e la maturità, o anche soltanto alle sue abitudini, che, una volta
formate, è penoso cambiare. Siccome il mondo attorno a lui cambia, tende a dare
un giudizio negativo sul nuovo, unicamente perché non lo capisce più, e non ha
più voglia di sforzarsi a comprenderlo. Proverbiale è la figura del vecchio
laudator temporis acti: "Fiorenza dentro da la cerchia antica/ ond'ella
toglie ancora e terza e nona/ si stava in pace, sobria e pudica". Quando
parla del passato il vecchio sospira: "Ai miei tempi". Quando giudica
il presente, impreca: "Che tempi!".
Quanto
più mantiene fermi i punti di riferimento del suo universo culturale, tanto più
il vecchio si estrania dal proprio tempo. Mi sono ritrovato in questa frase di
Améry: "Quando il vecchio si accorge che il marxista, da lui certamente e
non a torto considerato campione dell'esercito razionalista, adesso si
riconosce per certi versi in Heidegger, lo spirito dell'epoca deve apparirgli
fuorviato, anzi autenticamente dissociato: la matematica filosofica della sua
epoca si trasforma in quadrato magico" (p. 103). I sistemi filosofici si
susseguono in un processo che chi lo vive interpreta come un succedersi non di
superamenti ma di arretramenti. Il sistema con cui avevi creduto di superare il
precedente viene poi superato da quello che lo segue. Ma tu, andando avanti
negli anni, non ti accorgi di essere diventato ormai un superatore superato.
Stai immobile fra due estraniamenti, il primo rispetto al sistema precedente,
il secondo rispetto al seguente. Tanto più grave è questo senso di
estraniamento quanto più rapido è anche in questo campo il succedersi dei
sistemi culturali. Non hai tempo di apprendere, mi limito a dire
"apprendere", non dico neppure "assimilare", una corrente
di pensiero che già se ne affaccia un'altra. Non è del tutto errato parlare di
"mode". Mi vengono le vertigini al pensiero a quante ascese e cadute,
a quante apparizioni folgoranti seguite da capitomboli repentini, a quanti
improvvisi trapassi dalla memoria all'oblio, una persona della mia età ha
assistito. Non puoi inseguirli tutti. A un certo punto sei costretto a fermarti
ansimante, e ti consoli fra te e te dicendo: "Non ne vale la pena".
C'è un momento, osserva ancora Améry, che segna la fine della possibilità di
andare oltre se stessi in senso culturale". Insinua anche che siano i
cinquant'anni il momento della svolta. Non conviene generalizzare. Ma io stesso
sono pronto a riconoscere che c'è una quantità di opere filosofiche,
letterarie, artistiche che non mi riesce più di capire e da cui rifuggo perché
non le capisco. Il nostro pensiero corre allo "spirito del tempo"
hegeliano. Si pensi alla contrapposizione tra classicismo e romanticismo che
divide una lunga epoca storica in mezzo alla quale c'è un evento eccezionale
come la Rivoluzione francese. Una divisione così netta forse oggi non si può
fare. Nulla di simile in questi ultimi cinquant'anni, in cui abbiamo assistito
al susseguirsi di indirizzi e di personalità, tanto rapidamente emergenti
quanto rapidamente sommerse dalle onde successive. Si pensi a un personaggio
come Sartre, ma dopo Sartre, per restare in Francia, Levy-Strauss, Foucault,
Althusser. Tanti maestri, nessun maestro. L'unica divisione che abbiamo
proposto è tra il moderno e il post-moderno, ma è abbastanza singolare che di
questa novità del nostro tempo non si sia sinora trovato un nome se non
aggiungendo un debolissimo "post" all'epoca precedente.
"Post" vuoi dire semplicemente che viene dopo.
Non
ignoro che c'è nella nostra storia letteraria una lunga tradizione retorica di
trattatelli scritti per esaltare la virtù e la felicità della vecchiaia, dal De
senectute di Cicerone, scritto nel 44 a.C. quando l'autore aveva 62 anni,
all'Elogio della vecchiaia di Paolo Mantegazza, apparso alla fine del
secolo scorso. Queste opere costituiscono un vero e proprio genere letterario,
comprendendo, insieme con l'apologia della vecchiaia, la sdrammatizzazione
della morte. Il tema è trattato da Cicerone secondo il modulo classico del
disprezzo della morte. Anche i giovani muoiono. E poi di che preoccuparsi se
l'anima sopravvive al corpo? "Un albergo ci ha dato la natura per
fermarvisi, non per abitarvi. Bellissimo sarà il giorno che partirò verso quel
divino ritrovo e concilio delle anime, e mi staccherò da questa turba e
confusione". Più prosaicamente il positivista darwiniano Mantegazza si
libera dal pensiero della morte con uno sbrigativo: "Basta non
pensarci". Perché tormentarsi al pensiero della morte? E poi la morte non
è che il ritorno alla natura in cui confluiscono tutte le cose.
Non
ho bisogno di dirvi che considero queste opere apologetiche, stucchevoli. Tanto
più fastidiose quanto più la vecchiaia è diventata, come dicevo, un grande e
irrisolto, difficile da risolvere, problema sociale, non solo perché è
aumentato il numero dei vecchi, ma anche perché è aumentato il numero degli
anni che si vivono da vecchi. Più vecchi e più anni di durata della vecchiaia:
moltiplicate un numero per l'altro e otterrete la cifra che rivela la
eccezionale gravità del problema. Mi raccontava un medico che si era trovato un
giorno in mezzo ad ammalati che parlavano della vecchiaia e naturalmente si
lamentavano. Ma uno di essi interloquì: "Non è che la vecchiaia sia
brutta. Il guaio è che dura poco". Davvero dura poco? Per quanti vecchi
malati, non autosufficienti, dura, invece, troppo! Chi vive in mezzo ai vecchi,
sa per quanti di loro la tarda età è diventata, anche grazie ai progressi della
medicina che spesso non tanto ti fa vivere quanto ti impedisce di morire, una lunga,
e spesso sospirata, attesa della morte. Non tanto un continuare a vivere, ma un
non poter morire.
Eppure
anche oggi c'è una retorica della vecchiaia che non prende la forma, peraltro
nobile, della difesa dell'ultima età contro il dileggio, se non addirittura il
disprezzo, che vengono dalla prima, ma si presenta, soprattutto attraverso i
messaggi televisivi, con una forma larvata e peraltro efficacissima di captatio
benevolentiae verso eventuali nuovi consumatori. In questi messaggi non il
vecchio, ma l'anziano, termine neutrale, appare ben portante, sorridente,
felice di essere al mondo, perché può finalmente godere di un tonico
particolarmente corroborante o di una vacanza particolarmente attraente. E così
anche lui diventa un corteggiatissimo fruitore della società dei consumi,
portatore di nuove domande di merci, benvenuto collaboratore dell'allargamento
del mercato. In una società dove tutto si può comprare e vendere, dove tutto ha
un prezzo, anche la vecchiaia può diventare una merce come tutte le altre.
Basta guardarsi attorno, allungare il proprio sguardo nelle case di riposo e
negli ospedali, o nei piccoli appartamenti della povera gente che ha un vecchio
in casa da sorvegliare e continuamente curare, perché non può essere lasciato
solo neppure per un momento, per rendersi conto di quanto sia falsa la
raffigurazione non disinteressata, ma interessatamente lusingatrice, del
"vecchio è bello". Formula banale, adatta alla società del mercato,
che ha sostituito l'elogio del vecchio virtuoso e sapiente.
Sulle
condizioni dei vecchi poveri rinvio alle numerose inchieste in cui sono loro
stessi a recare la loro dolorosa testimonianza, e quella, non meno dolorosa, e
in certi casi ancora più compassionevole, dei familiari. M riferisco in modo
particolare, perché vi ho partecipato io stesso, ad alcune raccolte di scritti
e testimonianze come Vecchi da morire (1987), e Eutanasia da
abbandono (1988), pubblicate nei Quaderni di promozione sociale, diretti da
Mario Tortello.
Raccomando
soprattutto la lettura del libretto di Sandra Petrignani, Vecchi, la
cui lettura mi ha insieme affascinato e rattristato per l'intensità della
rappresentazione del mondo dei vecchi in ospizio e mi ha fatto riflettere sul
tema della vita e della morte più che un saggio filosofico. I vecchi che si
confidano all'autrice sono quasi tutti senza speranza. Non affiora quasi mai
neppure la speranza religiosa. Sono letteralmente dei disperati. Scrive una
vedova di 85 anni il cui figlio è morto in una sciagura: "La vita è sempre
un errore. Per niente al mondo la rivivrei […]. Non esiste una vita bella per
nessuno da nessuna parte". Un architetto di 81 anni cui è morta la moglie:
"Uno crede di essere affezionato agli oggetti, ai ricordi, alle cose sue.
Impiega una vita a costruirsi una casa, i suoi angoletti, le sue poltrone. Poi
un giorno non gliene importa più niente. Niente davvero". Una vecchia di
85 anni che dopo la morte del marito ha "smesso di vivere": "Non
devo mettermi a piangere, è tutto così terribile […]. Non si può immaginare che
cosa sia questa attesa di nulla. Non si può. Io non lo so spiegare. Mi viene
subito da piangere"; "La nostra vita è come non fosse mai esistita e
io, piano piano, sto dimenticando tutto, e quando avrò dimenticato proprio
tutto, morirò e non se ne parlerà più". La vecchia ricamatrice, che non si
è mai sposata, e ha perso l'unica amica suicida: "Dormo, quando non dormo
piango. Vorrei sbattere la testa contro il muro. Ho 83 anni. Troppi. Dovrei
essere già morta: tanto a nessuno importa di me, nessuno al mondo sa che io
esisto". Una vecchia madre ricorda la bambina morta, molti anni prima, a 6
anni e non si dà pace: "Dopo la sua morte è stato tremendo. Non ho più
avuto un giorno di gioia [...]. Il mondo mi ha fatto sempre paura, la vecchiaia
solo un fastidio in più. Come si può essere felici in un mondo così brutto? Le
cose sono indifferenti alla nostra sorte, la natura è indifferente, Dio è
indifferente".
Stranamente,
in queste testimonianze non appaiono mai gli atteggiamenti consueti di fronte
alla morte: la paura e la speranza. La paura è contrastata dal taedium vitae,
che fa della morte una meta non da temere ma da desiderare. Alla speranza,
che può soccorrere il sofferente anche in situazioni disperate, ed è la
speranza o di guarire o di essere in cammino verso una nuova vita, si oppone il
cupio dissolvi, ovvero il desiderio del disfacimento, il non
essere più. Taedium vitae e cupio dissolvi, alla loro
volta, non hanno niente che vedere col contemptus mundi dei mistici, per
i quali la vita è altrettanto miserabile, ma la miseria è il frutto non di un
Dio indifferente o malvagio, ma di una colpa, e il disprezzo del mondo è
"il naturale trapasso per l'ascesa a Dio". Ora per chi ha a noia la
vita e brama annullarsi, la morte è il sospirato riposo dopo l'immane e inutile
fatica del vivere. E' stato scritto: "La mia forza vitale è così sfatta
che non riesce più a vedere al di là del sepolcro, non riesce più a temere e a
desiderare nulla oltre la morte. Non posso pensare un Dio così impietoso da
svegliare uno che sta dormendo stanco morto ai suoi piedi".
Il
vecchio soddisfatto di sé della tradizione retorica e il vecchio disperato sono
due atteggiamenti estremi. Li ho messi in particolare rilievo per indurci a
riflettere ancora una volta sulla varietà dei nostri umori verso la vita nel
pluriverso dei valori contraddittori in cui ci muoviamo, e quindi sulla
difficoltà di comprendere il mondo e, dentro questo mondo, noi stessi. Tra
questi due estremi vi sono infiniti altri modi di vivere la vecchiaia:
l'accettazione passiva, la rassegnazione, l'indifferenza, il camuffamento di
chi si ostina a non vedere le proprie rughe e il proprio indebolimento e si
impone la maschera dell'eterna giovinezza, la ribellione consapevole attraverso
il continuo sforzo, spesso destinato al fallimento, di continuare
inflessibilmente il lavoro di sempre, o, al contrario, il distacco dagli
affanni quotidiani, e il raccoglimento nella riflessione o nella preghiera, il
vivere questa vita come se fosse già l'altra, lacerati tutti i vincoli mondani.
La vecchiaia non è scissa dal resto della vita precedente; è la continuazione
della tua adolescenza, giovinezza, maturità. Rispecchia la tua visione della
vita e cambia il tuo atteggiamento verso di essa, secondo che hai concepito la
vita come una montagna impervia da scalare, o come una fiumana in cui sei
immerso e corre lentamente alla foce, o come una selva in cui ti aggiri sempre
incerto sulla via da seguire per uscire all'aperto. C'è il vecchio sereno e
quello mesto, il soddisfatto giunto tranquillamente alla fine delle proprie
giornate, l'inquieto che ricorda soprattutto le proprie cadute e attende
trepidante l'ultima da cui non riuscirà più a sollevarsi; chi assapora la
propria vittoria e chi non riesce a cancellare dalla memoria le proprie
sconfitte. Il vecchio, ormai fuori di senno, penoso non a sé ma agli altri,
vittima di una crudele penitenza di cui lui e noi ignoriamo la causa. Cosima,
la protagonista del libro della Petrignani dice affettuosamente: "I
rincoglioniti sono stupendi, sono come bambini folli. Ti vengono dietro a
qualsiasi fantasia, finché non sai più cos'è fantasia e cosa la loro realtà, la
vita che hanno avuto e dimenticata o voluta dimenticare".
Il
mondo dei vecchi, di tutti i vecchi, è, in modo più o meno intenso, il mondo
della memoria. Si dice: alla fine tu sei quello che hai pensato, amato,
compiuto. Aggiungerei: tu sei quello che ricordi. Sono una tua ricchezza, oltre
gli affetti che hai alimentato, i pensieri che hai pensato, le azioni che hai
compiuto, i ricordi che hai conservato e non hai lasciato cancellare, e di cui
tu sei rimasto il solo custode. Che ti sia permesso di vivere sino a che i
ricordi non ti abbandonino e tu possa a tua volta abbandonarti a loro. La
dimensione in cui vive il vecchio è il passato. Il tempo del futuro è per lui
troppo breve perché si dia pensiero di quello che avverrà. La vecchiaia, diceva
quel malato, dura poco. Ma proprio perché dura poco impiega il tuo tempo non
tanto per fare progetti per un futuro lontano che non ti appartiene più, quanto
per cercare di capire, se puoi, il senso o il non senso della tua vita.
Concentrati. Non dissipare il poco tempo che ti rimane. Ripercorri il tuo
cammino. Ti saranno di soccorso i ricordi. Ma i ricordi non affiorano se non
vai a scovarli negli angoli più remoti della memoria. Il rimembrare è
un'attività mentale che spesso non eserciti perché è faticoso o imbarazzante.
Ma è un'attività salutare. Nella rimembranza ritrovi te stesso, la tua
identità, nonostante i molti anni trascorsi, le mille vicende vissute. Trovi
gli anni perduti da tempo, i giochi di quando eri ragazzo, i volti, la voce, i
gesti dei tuoi compagni di scuola, i luoghi, soprattutto quelli dell'infanzia,
i più lontani nel tempo ma più nitidi nella memoria. Quella strada nei campi
che percorrevamo da ragazzi per giungere a una cascina un po' fuori mano, la
potrei descrivere passo dopo passo, pietra dopo pietra.
Nel
ripercorrere i luoghi della memoria, ti si affollano attorno i morti, la cui
schiera diventa ogni anno sempre più numerosa. La maggior parte di coloro coi
quali ti sei accompagnato ti hanno abbandonato. Ma tu non puoi cancellarli come
se non fossero mai esistiti. Nel momento in cui li richiami alla mente li fai
rivivere, almeno per un attimo e non sono morti del tutto, non sono scomparsi
completamente nel nulla: l'amico morto adolescente in una disgrazia di
montagna, il compagno di scuola e di giochi precipitato col suo aereo durante
la guerra, di cui non si è mai più trovato il corpo e la famiglia lo ha atteso
per anni. Ti domandi perché. La morte di Leone Ginzburg in un carcere romano
durante l'occupazione tedesca. Il suicidio di Pavese. E ti domandi ancora
perché.
Ho accennato a molti modi di vivere la vecchiaia. Qualcuno potrebbe chiedermi, ma tu come la vivi? In quest'ultima parte del mio discorso credo di averlo lasciato capire. Direi con una parola che ho la vecchiaia melanconica, intesa la malinconia come la consapevolezza del non raggiunto e del non più raggiungibile. Vi corrisponde l'immagine della vita come una strada, ove la meta si sposta sempre in avanti, e quando credi di averla raggiunta, non era quella che ti eri raffigurata come definitiva. La vecchiaia diventa allora il momento in cui hai la piena consapevolezza che il cammino non solo non è compiuto, ma non hai più il tempo di compierlo, e devi rinunciare a raggiungere l'ultima tappa.
La malinconia è temperata, tuttavia,
dalla costanza degli affetti che il tempo non ha consumato.