Università di Sassari
Tradizione e innovazione nelle ‘esternazioni’
dei sacerdotes populi Romani
SOMMARIO: 1. La centralità dei sacerdotes nel sistema costituzionale di Roma antica. – 2. Responsa e decreta. – 3. Pareri e precetti sollecitati da istanze di singoli cives. – 4. Pareri e precetti a seguito di richieste di partes costituzionali. – 5. Spontanee esternazioni. – 6. Portata e limiti dell’interpretatio sacerdotale. – Abstract.
Nell’esporre la tripartizione del ius publicum, Ulpiano, accogliendo la sistematica ciceroniana[1], presenta i sacerdoti quale parte essenziale del sistema costituzionale romano[2]. Tale concezione, enunciata dal giurista severiano tra i principi fondamentali ad introduzione della trattazione manualistica, derivava da riflessioni sacerdotali, precedenti o coeve allo scontro tra plebe e patriziato, che anteponevano sacerdotia e sacra agli honores[3].
Ancor prima dell’avvento del sistema repubblicano, invero, la minuziosa opera svolta dai sacerdotes populi Romani contraddistinse l’esperienza giuridica romana nell’antichità: la sapientia sacerdotale (in ambito sacro e, al contempo, giuridico[4]) era funzionale al sistema romano in cui la religio era intesa sostanzialmente come cultus deorum[5]. La preminenza dei riti[6] nella religione politeista romana era connessa alla nozione di pax deorum[7] su cui gravitava la vita dell’Urbe, in quanto il pacifico rapporto tra i cives e gli dèi si manteneva saldo attraverso i sacrificia da cui scaturiva il favore divino[8]. Il sostegno celeste, principiato fin dalla fondazione dell’Urbs[9], rappresentava la fonte dello sviluppo spazio-temporale del Populus Romanus[10], perciò, per la perfetta convivenza tra dèi e Romani, i culti dovevano essere posti in essere formalmente perfetti in ogni loro profilo e ogni manifestazione ultraterrena doveva essere interpretata. Sulla base di questa rappresentazione connotata da una “ossessiva” presenza del sacro nella civitas, i sacerdoti erano inevitabilmente indispensabili per indicare agli antichissimi Romani, castissimi cautissimique[11], le norme e le modalità per il corretto svolgimento del culto.
La presente ricerca vuole indagare sulle modalità con cui i sacerdotes populi Romani, a fronte della loro rilevanza, fornirono istruzioni sacrali al popolo Romano, e come quest’ultime incidessero nella vita dei cittadini. Come si vedrà, il frutto della profonda scienza sacerdotale fu oggetto di esternazione da una parte attraverso l’opera di consulenza prestata su richiesta di cives (infra, § 3) e partes costituzionali (infra, § 4) al fine di liberare la civitas da eventuali scrupoli religiosi[12], dall’altra parte mediante manifestazioni spontanee (infra, § 5). La portata normativa di tale operato in seno a un sistema costituzionale aperto e dinamico, quale quello romano, luogo di scontri, incontri e stratificazioni di elementi eterogenei, risulterà, tuttavia, estranea a schematizzazioni generalizzanti.
Tra i mezzi con cui l’interpretatio si estrinsecava, le fonti, talvolta senza ricorrere a un lessico rigoroso[13], attestano in maggior misura responsa e decreta[14]. Il termine responsum in origine è proprio del vocabolario religioso, usato, ad esempio, per indicare la sentenza dell’oracolo[15], o le risposte e i dettami divini[16]. Nel linguaggio comune il vocabolo assunse successivamente il significato di “répondre à une question”[17], laddove nella terminologia giuridica (e sacerdotale) indicò l’attività rispondente[18]. Interessante notare come, probabilmente in virtù dell’origine etimologica, le risposte dei viri sacris faciundis[19], in seguito alla consultazione dei libri Sibillini, e degli aruspici[20] sono quasi sempre denominate responsa dagli autori antichi. Il verbo da cui deriva decretum è decerno a cui, in riferimento ai collegi sacerdotali, è riconosciuto il significato più generale di «edicere, statuere, constituere, iubere»[21]. Le differenze semantiche ed etimologiche tra i due termini non appaiono, tuttavia, dirimenti al fine di comprenderne eventuali difformità sostanziali tra questi atti[22].
In letteratura si è sostenuto, in riferimento al collegio pontificale e a quello augurale, come il decreto fosse un tipo di responsum fornito dall’intero collegio, mentre i restanti responsa consistevano in pareri dispensati da un singolo membro[23]. Ma, come si vedrà più avanti, si ebbero sia casi in cui l’intero collegio diede un riscontro in merito alle questioni sottopostegli senza decretare alcunché[24], sia vicende in cui la risposta fu data dal singolo sacerdote, sebbene pro collegio[25]. È rimasto, invero, il ricordo della necessità da parte del collegio di esprimersi tramite decreto per alcuni atti del pontefice massimo che sollevavano dubbi in materia religiosa. Un primo caso riguarda l’inaugurazione di feriae praecidaneae in un dies ater da parte di Tiberio Coruncanio[26], che fu salvaguardata tramite decretum collegiale[27]. L’operato del primo pontefice massimo plebeo appare un’innovazione rispetto al principio generale sancito precedentemente dai pontifices (il verbo utilizzato è statuo) nel 389 a.C., per cui i giorni atri, successivi a calende, none e idi, neque proeliares neque puri neque comitialis essent[28]. La notizia circa il sostegno collegiale a Coruncanio, purtroppo, non accenna su chi abbia sollevato la questione intorno alla presunta irregolarità, se in seno al collegio stesso o al suo esterno, ma lascia comunque trapelare una certa autonomia nell’interpretazione giuridica goduta dal sacerdote.
Maggiori dettagli, invece, si hanno per un ulteriore avvenimento, verificatosi nel 200 a.C., quando il collegio non avvalorò la posizione del pontefice massimo P. Licinus Crassus Dives[29]. Nel pieno dei preparativi per la guerra contro Filippo V, Licinio si oppose all’esecuzione del voto a Giove che doveva essere compiuto dal console a cui era stata assegnata la provincia di Macedonia, P. Sulpicius Galba Maximus: il votum ex incerta pecunia non poteva validamente sciogliersi poiché, secondo quello che appare il principio tradizionale, l’assenza di una cifra esatta avrebbe eluso la prescrizione per cui il danaro destinato ai vota non doveva mescolarsi con altra pecunia né essere impiegato per scopi bellici[30]. Come rimarca Tito Livio, nonostante la rilevante questione fosse stata sollevata dall’autorevole sacerdote, i senatori invitarono il console a rivolgersi all’intero collegio che con decreto si espresse sulla correttezza del votum incertae pecuniae[31]. Da notare che il problema giuridico-religioso, seppur sorto per esigenze contingenti, fu sottoposto ai pontifices attraverso una domanda breve e inequivocabile, tesa a individuare il principio cardine. La soluzione adottata appare un escamotage congegnato dai pontefici; pertanto il console pronunciò (sotto dettatura dello stesso pontefice massimo) la formula di un voto quinquennale, opportunamente modificata[32].
Dalle vicende appare come entrambi gli atti collegiali qui richiamati, suscitati da casi concreti necessitanti di indicazioni nella sfera del sacrum, rappresentassero una fonte di riferimento in materia di sacra. I decreta sacerdotali risultano, così, atti con cui si estrinsecavano i principi generali, o l’interpretazione autentica, che confermavano, o mutavano[33], la tradizione giuridico-religiosa.
Un esempio di interpretazione giuridica sacerdotale espressa attraverso un decreto è fornito da Cicerone in De leg. 2.58 [34]. Ivi il decretum appare la logica conseguenza del dettato della XII tab. 10.1 [35] tratta da una giurisprudenza che padroneggiava – per mutuare una felice espressione di Emilio Betti – «l’arte della tecnica giuridica»[36]: in quanto il dettato decemvirale vietava di seppellire nell’urbs, non era lecito (qui si segnala l’uso della locuzione non esse ius) la costruzione di sepolcri nei luoghi pubblici.
Riguardo all’impatto dell’interpretazione sacerdotale in merito alle problematiche giuridico-religiose, è significativo quanto affiora da una glossa festina:
De verb. sign., p. 152 L.: Maximum praetorem dici putant ali eum, qui maximi imperi sit; ali, qui[a] aetatis maximae. Pro collegio quidem augurum decretum est, quod in Salutis augurio praetores maiores et minores appellantur, non ad aetatem, sed ad vim imperii pertinere (F.A. Brause, Librorum de disciplina augurali ante Augusti mortem scriptorum reliquiae. I, Lipsiae 1875, 43, fr. 29; P. Regell, Fragmenta auguralia, Hirschberg 1882, 18).
Pare molto probabile che la discussione erudita intorno alla ratio alla base della nozione di praetor maximus fu contemporanea all’età di Sesto Pompeo Festo (oppure di Verrio Flacco), dato l’uso dell’indicativo presente del verbo putare. La questione è risolta dall’autore inserendo al termine della glossa il richiamo all’atto autoritativo sacerdotale, introdotto dalla congiunzione coordinante limitativa quidem. Il rinvio al decreto collegiale appare dirimente rispetto alla questione, in quanto inteso, dunque, quale interpretatio autentica del ius sacrum.
Al riguardo si deve citare un’ulteriore annotazione festina:
Festus, De verb. sign., p. 366 L.: Referri diem prodictam, id est anteferri, religiosum est, ut ait Veranius in eo, qui est auspiciorum de comitiis: idque exemplo conprobat L. Iuli et P. Licini censorum, qui id fecerint sine ullo decreto augurum, et ob id lustrum parum felix fuerit.
Il testo riporta un frammento degli Auspiciorum libri di Veranio (Flacco oppure Q. Veranio[37]) che ritiene religiosum[38] anticipare una cerimonia fissata precedentemente. L’esempio addotto, al fine di avvalorare questa opinione, riguarda la lustrazione compiuta nell’88 a.C. dai censori L. Giulio Cesare e P. Licinio Crasso un giorno prima rispetto alla data prestabilita, sine ullo decreto augurum, ovvero senza richiedere un intervento chiarificatore del collegio in merito alla all’anticipazione del rito. L’assenza del decretum sacerdotale non invalidò la cerimonia, ma rese il lustrum, secondo un lessico probabilmente di derivazione pontificale[39], parum felix[40], ossia non particolarmente fecondo, nonostante con tale solennità si chiedesse il supporto degli dèi[41]: l’interpretatio sacerdotale era dunque atta a evitare l’incrinarsi del labile rapporto pacifico intrattenuto dai Romani con le divinità.
Circa il carattere dirimente dei decreti sacerdotali, si deve citare un breve passaggio del De domo sua in cui si contesta la validità dell’adrogatio di P. Clodio Pulcro[42]:
Cicero, De dom. 38: Dixi apud pontifices istam adoptionem nullo decreto huius collegi probatam, contra omne pontificum ius factam pro nihilo esse habendam; qua sublata intellegis totum tribunatum tuum concidisse.
Qui di primo acchito parrebbe che con il termine decretum l’oratore faccia riferimento al risultato dell’indagine di verifica preventiva[43] effettuata dai pontefici per il compimento dell’adoptio per populum[44]. In realtà, dal dato che emerge in un paragrafo precedente, dove si dichiara l’esistenza della approvazione pontificale (Pontificibus bona causa visa est; adprobaverunt)[45], si può supporre che l’oratore in De dom. 38 lamentasse l’assenza di un decreto atto a far valere il ius pontificium su una adrogatio che, in virtù delle numerose irregolarità, poneva in discussione la validità della stessa elezione al tribunato di Clodio.
Tacito fornisce un ulteriore indizio del valore orientativo e autoritativo dei decreti sacerdotali che dovette persistere ancora in età del principato. Secondo lo storico, nel 22 d.C. il senato demandò a Tiberio, in qualità di pontefice massimo, la questione di Servius Cornelius Lentulus Maluginensis, flamen Dialis, il quale chiedeva di partecipare al sorteggio per l’attribuzione della provincia d’Asia[46]. In tale circostanza il principe risolse la vertenza leggendo un decreto pontificale di età augustea inerente a prescrizioni in capo al sacerdote di Giove[47].
Da tali evidenze, si profila quindi l’ipotesi che i decreta dichiarassero le regole cardine, talvolta discostandosi dalla tradizione[48], laddove i responsa applicassero i principi generali e astratti alle fattispecie concrete. Non si può negare, però, l’uso del termine decretum con ulteriori valenze, ma è difficile affermare che ciò fosse il frutto di successivo slittamento semantico.
Nel 444 a.C., ad esempio, quando apparve per la prima volta il tribunato militare con potestà consolare, un decretum augurale rilevò l’irregolarità della creatio. Gli auguri si espressero ben 3 mesi dopo l’insediamento dei magistrati, e ciò fa pensare che essi furono chiamati a risolvere una complicata questione, poiché, come sottolinea Livio, ... pro firmato iam stetit magistratus eius ius[49]. In tale occasione il decreto non enunciò un principio generale, appalesandosi quale strumento autoritativo e nomofilattico dirimente problemi religiosi[50].
Si registra, inoltre, l’impiego del termine decretum in riferimento allo strumento con cui il collegio pontificale impartiva ordini ad altri sacerdoti: è il caso della vestale Minucia, alla quale, in attesa del giudizio, fu imposto di astenersi dai riti sacri e di non manomettere la propria servitù[51].
Interessante come siano definiti decreta anche le disposizioni pontificali relative ai corretti riti espiatori a seguito di prodigi[52], e quelle, date su istanza di parte, in materia di sepolcri[53], come è attestato in un frammento ulpianeo dove al dominus che dovesse esumare resti umani sotterrati da altri[54] si prescrive di attendere il decreto pontificale (inteso da Labeone quale permissum[55]), o, in alternativa, il iussum principis.
A fronte di una terminologia tutt’altro che univoca, non si può asserire con certezza l’esistenza di specifici distinguo giuridico-religiosi tra gli atti con cui i sacerdotes rispondevano alle richieste di parte in merito tematiche sacrali; del resto lo stato frammentario del materiale proveniente dagli archivi sacerdotali impedisce una esatta comprensione dell’argomento[56]. La presente analisi, dunque, procederà ad analizzare le fonti non in base al tipo di atto con cui si configurava l’estrinsecazione dell’interpretatio sacerdotale, ma, sulla scorta di casi concreti, in rapporto al soggetto da cui proveniva l’istanza.
Circa le risposte offerte a privati, da Livius 1.20.6 [57] e da D. 1.2.2.6 (Pomponius, libro singulari enchiridii)[58] si sa che i pontifices potevano essere consultati da tutti per risolvere questioni di interesse religioso-privatistico. In particolare, lo storico patavino specifica come Numa Pompilio sottopose agli scita del nuovo sacerdote le “altre” (in riferimento all’elenco di materie riferito precedentemente) cerimonie di natura pubblica e privata al fine di fornire consulti alla plebs – da intendersi, in questo caso, come la gente comune –, per evitare turbamenti nella sfera del sacro causati dalle negligenze dei culti. Dal passo liviano, pertanto, emerge come l’interpretatio pontificale fosse atta a vagliare l’argomento dei cetera sacra, senza distinzione tra pubblico e privato[59], per superare le esitazioni dei singoli individui.
Il giurista adrianeo, invece, dopo aver specificato come il sapere di interpretazione del ius e il campo delle azioni rientravano nella sfera di pertinenza pontificale, accenna all’aspetto organizzativo del collegio, ricordando la scelta annuale del pontifex preposto alle questioni private. Risulta, quindi, come la funzione di consulenza offerta al popolo era diretta conseguenza di una determinata competenza per materia.
Di tale ampia e costante opera di assistenza dispensata ai privati non si rinvengono riferimenti precisi nelle testimonianze antiche, in quanto le questioni religiose che preoccupavano il civis certamente non dovettero colpire particolarmente l’interesse degli antichi antiquari, ed è probabile inoltre che non tutti i pareri ad esse collegati fossero posti per iscritto[60], come quelli relativi a fattispecie identiche. Nelle fonti, tuttavia, si rinvengono indicazioni sacerdotali che, a fronte degli argomenti trattati seppur in assenza di cenni a eventuali istanze di parte, appaiono sollecitate da interessi intersoggettivi. Columella, ad esempio, offre informazioni sulle attività agricole che secondo i pontifices si potevano compiere durante le feriae[61]. Le numerose prescrizioni si presentano quali enunciati a carattere generale che appaiono il frutto di numerosi responsi appuntati dai pontefici e inseriti in un unico trattato per materia. Lo scrittore latino ricorre spesso all’uso di parole che si possono ricollegare all’azione interpretativa sacerdotale, ovvero il verbo veto, indice, in questo ambito, del valore vincolante delle disposizione pontificali, e all’espressione verbale negare[62], propria del lessico precettivo dei sacerdotes[63].
Nonostante la cautela profusa al fine di non incrinare la pax deorum, l’interpretatio sacerdotale mostra di sapersi aprire alle necessità nascenti in seno alla società civile, superando la rigidità classificatoria e ordinatoria di cui si connotava. In materia di giorni festivi, anche Macrobio offre alcune prescrizioni pontificali intorno agli interventi sugli ovini:
Sat. 3.3.11: Cavetur enim in iure pontificio ut, quoniam oves duabus ex causis lavari solent, aut ut curetur scabies aut ut lana purgetur, festis diebus purgandae lanae gratia oves lavare non liceat, liceat autem, si curatione scabies abluenda sit.
La risposta pontificale, sicuramente, fu provocata dalla semplice domanda se nei giorni di ferie si potesse medicare la propria pecora; la deroga al divieto di lavare l’animale, nel caso fosse afflitto dalla scabbia, par colorarsi di un principio di economicità presente altresì nel responso offerto da Quinto Mucio Scevola in veste di pontefice che, teso ad estendere i casi di deroga al divieto di lavorare nei giorni festivi, dispose la liceità di quod praetermissum noceret[64].
Nelle testimonianze antiche si registrano disposizioni sacerdotali inerenti a questioni di singoli, ma che, per importanza e estensione, richiedevano l’indicazione di una disposizione generale. In materia di riti funebri, ad esempio, Cicerone riferisce del decreto di Publio Mucio Scevola[65], in merito all’inumazione del cadavere prescritta dal diritto pontificale[66].
Cicero, De leg. 2.57: Itaque in eo qui in nave necatus, deinde in mare proiectus esset, decrevit P. Mucius familiam puram, quod os supra terram non extaret; porcam heredi esse contractam, et habendas triduum ferias et porco femina piaculum faciundum. Si in mari mortuus esset, eadem praeter piaculum et ferias.
L’atto prendeva in considerazione due fattispecie di dispersione in mare di cadaveri, quella dell’uomo ucciso su una nave e quella dell’annegato in modo accidentale[67]. Nel primo caso si specificava che la familia era da considerarsi pura in quanto non vi erano resti mortali supra terram, e dunque insepolti, e si fissava l’esatto rituale (piaculum et feriae) che l’erede doveva compiere. Per la seconda ipotesi, il decreto escludeva la celebrazione di ferie e cerimonie piacularie. Si manifesta, perciò, che la necessità di indicazioni generali sulla inumazione, implicante varie fattispecie, sorse da richieste ed esigenze differenti.
Nel De divinatione[68], in riferimento all’augure Atto Navio, risulta che la gente comune non si rivolgeva esclusivamente ai pontefici per ottenere chiarimenti relativi al sacro annessi alla vita quotidiana quali, ad esempio, in merito ad auspici privati, la cui rilevanza per la civitas emerge dall’inserimento di un auspicio ... quod sine piaculo praeterire non liceat ... tra le eccezioni previste nel iusiurandum con cui i soldati arruolati si impegnavano a presentarsi alla chiamata del console[69].
I sacerdoti potevano essere consultati, sempre in virtù del loro specifico sapere, in merito a questioni di estrema rilevanza per la civitas, poiché, conformemente a quanto si apprende in D. 1.1.1.2, essi rappresentavano un referente istituzionale che per lungo tempo applicò una rigorosa interpretazione del diritto sacro. Secondo la tradizione, lo stesso Numa Pompilio, dopo aver eretto un’ara a Giove Elicio sull’Aventino, consuluit auguriis al fine di conoscere i prodigi da tenere in considerazione[70]: si tratta di un significativo exemplum per il re riformatore del sistema sacerdotale e della religiosità romana[71].
Non sempre nelle testimonianze antiche si riferisce di chi nello specifico chiese un parere ai sacerdotes, come nel 426 a.C., quando, dopo aver subìto una sconfitta militare nel corso del conflitto contro Veio, l’intera città domandò a gran voce la nomina di un dittatore[72]; in tale frangente gli auguri, consultati circa la possibilità, in assenza di consoli, che un tribuno militare con potestà consolare procedesse alla dictio dictatoris[73], sollevarono Roma dallo scrupolo religioso attraverso un responsum.
La modalità più diffusa con cui si sottopose all’autorità sacerdotale alcune delicate questioni di carattere sacro era quella di un rinvio disposto dal senatus quale incarico per il magistrato[74]. Nelle fonti per indicare tale rimando normalmente si usa il verbo referre[75], lo stesso vocabolo a cui si fa ricorso per designare la presentazione di determinati argomenti al consesso senatorio[76]. In particolare, Livio riporta il testo di un senatoconsulto del 187 a.C., che faceva seguito alle lagnanze degli Ambracesi. Nel testo si specificava che, al suo ritorno, il console M. Fulvio Nobiliore doveva rimettere la questione circa signa aliaque ornamenta quae quererentur ex aedibus sacris sublata esse ai pontefici, e che et quod ii censuissent fieri[77], assicurando pertanto massimo rispetto a quanto da loro prescritto[78]. L’uso del verbo censeo attiene a una opportuna valutazione[79], ma al contempo può significare anche l’atto di decretare[80]; però, in questo caso è da riconoscere alla parola il primo senso, in quanto il senato non poteva prevedere in che modo si sarebbe espresso il collegio. Del resto, i sacerdoti potevano finanche negare che la materia in esame non era pertinente ai profili religiosi[81].
Che la forma degli atti con cui si esprimevano i sacerdotes fosse indipendente rispetto alla complessa procedura con cui si rimettevano gli argomenti alla loro scientia, emerge nello specifico dai fatti del 191 a.C. raccontati da Livius 36.3.7-12. Alla vigilia del conflitto contro Antioco, il console M’. Acilio Gabrione sottopose ai feziali una serie di domande in merito a chi rivolgere l’indictio belli, se vi fosse necessità di effettuare separatamente la dichiarazione di guerra anche agli Etoli, e se per questo popolo bisognasse precedentemente rinunciare ai rapporti di societas e amicitia. Ne seguì un articolato responsum, nel cui incipit, in merito alla prima parte della questione, si rinviava a quanto espresso in un precedente decreto riguardante la guerra contro Filippo di Macedonia[82].
Il senato poteva rimettere contemporaneamente specifici quesiti anche a sacerdoti appartenenti a differenti collegi, in particolare Cicerone ricorda che in seguito allo scandalo per la violazione del culto della Bona Dea[83] da parte di Clodio, mediante senato consulto fu interpellata una commissione composta da vestali e pontefici che si espresse tramite decreto[84].
La consulenza sacerdotale poteva essere richiesta anche da un altro sacerdote esterno al collegio. In merito si deve ricordare la notizia di Macrobio, il quale ha come fonte Giulio Modesto: l’augure Messala chiese ai pontefici se i giorni di mercato e le none dovessero ritenersi feriali[85]. L’impulso per una tale richiesta risiedeva nella precisa distinzione di funzioni tra i sacerdotes, in tal caso la generale competenza sui dies, secondo tradizione, fu trasmessa ai pontefici da Numa Pompilio[86].
Appare probabile che la richiesta di indicazioni inerenti il ius sacrum potesse essere rivolta ai sacerdoti dal magistrato senza impulso senatorio, come accadde dalle vicende del 200 a.C. quando il console Sulpicio consultò i feziali circa il modo con cui procedere all’indictio belli contro Filippo[87]. La risposta del collegio può qualificarsi quale decreto per l’uso di decernere, come parimenti, in altre occasioni, le disposizioni decretali sacerdotali sono introdotte dai verbi statuere[88] e placere[89].
Un altro esempio in merito riguarda una vicenda del 154 a.C. contemplata nei commentari pontificali come è espressamente riferito nel De domo sua ad pontifices[90]. Il censore C. Cassio Longino[91] si rivolse al collegio riguardo alle dedicationes[92] della statua di Concordia e della Curia in cui il magistrato aveva fatto collocare l’opera scultorea[93]. Il responsum, dato pro collegio dal pontefice massimo, mostra una particolare attenzione al iussum del popolo Romano. La richiesta fu presentata da Cassio senza essere cagionata dal consesso senatorio, laddove, nel secondo caso di responso pontificale citato nello stesso § da Cicerone, concernente la dedica effettuata in luogo pubblico dalla vergine vestale Licinia iniussu populi[94], prevalse ancora la necessità dell’assenso dei comizi per la validità di queste cerimonie[95].
Un frammento degli antichi documenti augurali[96] testimonia che, in alcuni casi, le indicazioni sacerdotali potessero essere dispensate indipendentemente da richieste di parte:
Cicero, De div. 2.77: ... quod nos augures praecipimus, ne iuges auspicium obveniat, ut iumenta iubeant diiungere[97].
La prescrizione di non lasciare aggiogati i giumenti durante la trazione degli auspici, o «in circostanze di particolare solennità»[98], con la motivazione di scongiurare un iuges auspicium[99], era di estrema antichità[100], e nella configurazione con cui è congeniato pare riguardare non soltanto i magistrati, ma anche i singoli. Nel testo per designare l’azione sacerdotale si ricorre al verbo praecipere (le cui accezioni oscillano tra suggerire, istruire, a prescrivere e ordinare[101]), infatti, non si illustrava un principio generale, ma il precetto era materialmente fatto applicare dagli auguri motu proprio, probabilmente tramite calatores[102].
Sulla facoltà sacerdotale, legata all’ambito di competenza, di imporre ordini erga omnes, appare degno di nota un episodio della fine del II sec. a.C. menzionato da Cicerone in merito ai vizi su immobili oggetto di compravendita[103]. Gli augures ordinarono a Tiberio Claudio Centumalo di demolire quelle parti della aedes situata sul Celio che ostruivano, a causa dell’altezza, la visuale per l’osservazione dei signa divini[104]. Centumalo vendette l’insula all’asta, e gli auguri rivolsero il medesimo iussum all’acquirente, Publio Calpurnio Lanario, il quale dopo aver ottemperato citò in causa l’alienante dinnanzi al pretore M. Porcio Catone Saloniano. Dato certo, dunque, è che nessuno durante la controversia, che si concluse con la condanna per responsabilità ex fide bona del convenuto[105], pose in discussione il comando augurale, dato per assodato. Festo ricorderà come, anni dopo, Mario volle che l’aedes che stava erigendo a Onore e Virtù fosse più bassa degli altri edifici, per non ostacolare la trazione degli auspici pubblici ed evitare che gli auguri imponessero la demolizione[106].
In riferimento agli auguri, si deve citare il caso del 215 a.C. quando essi, chiamati (vocati) poiché si era udito tuonare mentre il neo eletto console M. Claudio Marcello assumeva l’incarico[107], rilevarono un vizio nella creatio del magistrato. Qui la pronuncia sacerdotale fu effetto di una, seppur estemporanea, richiesta di consultazione, o meglio, di indagine sui profili giuridico-religiosi dell’accaduto; ma in altre circostanze gli augures agirono di propria iniziativa, come nell’episodio riguardante Tiberio Sempronio Gracco. Il padre dei due noti tribuni della plebe, nel 163 a.C., rifiutò con veemenza il responso degli aruspici sull’invalidità delle votazioni consolari da lui presiedute, poiché egli rientrato nell’urbs per interpellare il senato in seguito alla morte improvvisa del primus rogator, si era presentato dinnanzi all’assemblea popolare oltrepassando il pomerio senza ripetere gli auspici[108]. L’anno seguente, in Sardegna[109], che governava in qualità di proconsole[110], dando uno sguardo ai libri ad sacra populi pertinentes[111], il magistrato scrisse al collegio degli augures, di cui era membro, ammettendo il suo errore; il collegio, pertanto, informato del vizio auspicale, ne fece rapporto al senato[112].
Si registrano parimenti azioni pontificali, non dettate da istanze esterne al collegio[113], che si configurano quali resistenze sacerdotali ad azioni magistratuali nella sfera del ius sacrum. Un primo esempio risale al 208 a.C., allorché la dedicatio di una medesima cella a Honos e Virtus, promessa nel 223 dal console Marco Claudio Marcello, fu impedita dai pontefici con la motivazione che in caso di prodigi sarebbe stato difficile individuare la divinità a cui destinare la procuratio[114]: alla base del diniego sussisteva una logica rigorosa atta a interpretare adeguatamente le manifestazioni divine per non incrinare la pax deorum; del resto, come ricorda Varrone, in caso di profanazione di ferie successive a un terremoto, per espiare si immolava l’hostia ‘si deo, si deae’ secondo quanto decretato dai pontefici, poiché et qua vi et per quem deorum dearumve terra tremeret, incertum esset[115].
Un ulteriore accadimento si ebbe, come visto supra al § 2, nel 200 a.C., allorché Licinio Crasso Dives fece ritardare l’esecuzione del votum ex incerta pecunia[116]: l’opposizione del pontifex maximus è stata considerata, anche di recente, esito di un responsum[117], in realtà potrebbe essere un rifiuto – motivato – a praeire al console i verba della solenne premessa.
Il giurista-pontefice, inoltre, si rese protagonista in una successiva e spinosa vicenda. Nel 195 a.C., i consoli, M. Porcio Catone e L. Valerio Flacco, celebrarono in forza di un decreto pontificale (frutto anch’esso di una iniziativa autonoma del collegio[118]) il ver sacrum di cui, più di 20 anni prima[119], aveva fatto voto il pretore Aulus Cornelius Mammula dopo la rovinosa disfatta del Trasimeno[120]. La solutio del voto, tuttavia, nonostante fosse stata esortata dal decretum sacerdotale, fu confutata dal pontefice massimo l’anno successivo: Licinio Crasso dapprima sollevò la questione sulla correttezza della celebrazione presso il collegio, in seguito, ex auctoritate collegii, riferì ai patres i quali disposero che si procedesse alla ripetizione del rito arbitratu pontificum[121].
Le fonti antiche tramandano, con alcune varianti, un celebre caso di “scontro” intercorso tra Tarquinio Prisco e l’augure Atto Navio[122], il quale, come accennato supra, godeva grande fama in virtù delle sue profonde abilità nella consultazione augurale[123]. Il sacerdote si oppose al progetto del re, il quale, secondo Livio, aspirava a rafforzare la cavalleria con nuove centurie a cui avrebbe attribuito il suo nome[124], laddove, per Dionigi di Alicarnasso, egli era intenzionato a creare tre nuove tribù (φυλὰς) di cavalieri (ἱππέων) a cui attribuire il suo nome e quello dei suoi amici[125]. L’augure obbiettò con incisività al disegno di riforma, in quanto, secondo il racconto liviano, non si potevano modificare o innovare le centurie nisi aves addixissent[126], alludendo in tal modo a una carenza pertinente agli auguria. Il re, infastidito dal diniego sacerdotale, sfidò Navio al fine di sminuire le conoscenze augurali. L’‘urto’ tra i due protagonisti si chiuse con un fatto prodigioso[127] che indusse Tarquinio a rivedere la sua riforma, raddoppiando soltanto il numero degli effettivi[128]. In tale contesto è lampante che l’interpretatio sacerdotale presenti una portata assai ampia fin dalle origini, in quanto capace di compromettere le scelte politiche regie.
Cicerone, il quale non riferisce del progetto di riforma regio e non colloca l’episodio sul piano di uno scontro, all’opposto descrive Tarquinio Prisco determinato a porre alla prova la scienza augurale di Navio riconosciuta dalla collettività. Secondo l’oratore, dopo l’evento miracoloso ut et Tarquinius augure Atto Navio uteretur et populus de suis rebus ad eum referret[129]. In questo passaggio, le conoscenze sacerdotali appaiono funzionali alla esigenza, pubblica e privata, di una guida sicura per comprendere le manifestazioni divine e non turbare l’equilibrio della societas, regolata dalla medesima norma, composta da uomini e dèi, della cui esistenza l’oratore riferisce nel De legibus[130]. L’episodio in esame, così, mostra il valore della scientia sacerdotale, il cui unanime riconoscimento è avvenuto con il tempo. In un altro luogo, Cicerone offre il senso della azione sacerdotale: ai re-auguri fecero seguito i privati i quali furono muniti della religionum auctoritas con cui rexerunt la Res publica (dunque utilizzando volutamente il verbo regere[131] che rimanda all’azione regia)[132].
Nel De legibus[133] si manifesta con particolare intensità la congiunzione, intesa in chiave di “necessità”, tra auctoritas e ius augurum[134]; tale legame comportò che durante l’età repubblicana l’attività augurale di dimittere e rescindere comizi e concili superasse in grandezza i poteri magistratuali. Nel brano in esame, inoltre, si ricorda come in virtù di un decreto del collegio il senato cassò la lex Titia de agris dividundis del 99 a.C.[135], poiché non iure rogata. In questo caso, l’interpretazione sacerdotale rappresentava il dettato teorico di riferimento a sostegno della conduzione politica della civitas[136].
L’attività speculativa dei sacerdotes, fondata sulla auctoritas[137], acquistava efficacia e valore vincolante solo se osservata da privati e da partes costituzionali. Generalmente durante la res publica le indicazioni del decreto sacerdotale divenivano operative se fatte applicare dai magistrati su disposizione del senato[138]. Non esisteva, tuttavia, un automatismo, come affiora specie da Cicero, Ad Att. 4.2.3-4. Durante le vicende che si svilupparono intorno alla spinosa questione della casa dell’oratore, in senato si discusse anche in merito al decreto pontificale favorevole a Cicerone; in tale occasione, al fine di comprendere quale principio avesse influito nell’azione di discernimento sacerdotale, si interrogarono ... omnes pontifices qui erant senatores ... e nello specifico M. Terenzo Varrone Lucullo, il quale ... de omnium collegarum sententia respondit religionis iudices pontifices fuisse, legis <es>se senatum; se et collegas suos de religione statuisse, in senatu de lege statu<tur>os cum senatu: il consesso senatorio, pertanto, non era vincolato a seguire le indicazioni del collegio.
La valutazione se osservare o meno i precetti sacerdotali era ovviamente politica, legata a fattori contingenti. All’indomani della presa di Veio sorse la questione in merito a quanto promesso da Camillo ad Apollo: i pontefici considerarono l’intero popolo il soggetto su cui gravava l’onere di ottemperare al voto, ma le loro istruzioni furono disattese e si optò per una soluzione blanda, in quanto apparve difficile imporre alla cittadinanza la restituzione della preda bellica al fine di destinarne la decima parte alla divinità[139].
A tale riguardo si devono richiamare gli eventi narrati da Tito Livio che, nel 304 a.C., videro il pontefice massimo L. Cornelio Scipione Barbato contrapporsi alla dedicatio da parte di Gneo Flavio della aedes Concordiae situata in area Vulcani[140]. L’obbiezione del pontifex trovava sostegno nel mos maiorum che riconosceva unicamente a consoli, o imperatores, la funzione di dedicazione dei templi[141]. La presenza nel brano del verbo tecnico negare, e anche il coinvolgimento del sacerdote, suggeriscono che lo storico abbia tratto la notizia da archivi sacerdotali[142]; purtroppo, l’estrema sintesi con cui sono esposte le vicende lascia aperte alcune problematiche. È del tutto evidente che il pontefice massimo si fosse rifiutato di praeire i verba del rito, contrapponendosi al compimento della cerimonia, intesa, probabilmente, in chiave antinobiliare[143], a fronte della summa invidia nobilium segnalata nel testo liviano. Nulla è detto su quanto durò la disputa e quali soggetti coinvolse; la cronaca liviana dà conto soltanto della dedicatio celebrata da Gneo Flavio, ponendo per inciso che Barbato ottemperò alla sua funzione di suggeritore della formula poiché, secondo un’espressione di non immediata comprensione, “coactus consensu populi”. Difficile dire se Livio qui alluda al principio di sovranità popolare che emerge nella definitio di res publica ciceroniana, in cui il consensus è principio congiunto a populus[144]. In altre, e frequenti, occasioni lo storico patavino utilizza la locuzione quale nozione atecnica di carattere politico che esprime il concetto di “opinione pubblica”[145]; questa lettura farebbe escludere per il caso in esame una votazione comiziale avversa alla posizione del pontefice, in quanto Barbato avrebbe esclusivamente subìto la pressione politica[146]. I dubbi rimangono su chi o cosa scoraggiò la valutazione del sacerdote, che secondo la glossa festina Ordo sacerdotum era inteso fin dall’antichità quale iudex atque arbiter ... rerum divinarum humanarumque[147]; nel silenzio delle fonti ci si deve chiedere, in aggiunta, se la questione fosse stata esaminata dall’intero collegio, o dal senato, o, se il pontefice fosse stato forzato dalla minaccia di un intervento dell’assemblea popolare. Appare, inoltre, arduo affermare se il mos maiorum fosse stato superato dalla lex de dedicatione templi araeve votata dopo la dedicatio, giacché Livio in merito alla riforma accenna solo alla necessità del iussum del senato, o della maggioranza dei tribuni della plebe per la dedica di un templum o di un’ara[148]. Della vicenda, comunque, colpisce un dato, ovvero che Barbato non fece alcun cenno esplicitamente alla religio: il sacerdote si elevò, piuttosto, a paladino degli antichi mores.
Simili interazioni tra sacerdoti e le partes costituzionali possono essere spiegate solo alla luce di una prospettiva dinamica e concreta volta a soddisfare le esigenze amministrative e sociali del momento[149]. Il popolo, in altre circostanze, fu chiamato a risolvere spinose questioni sollevate da contrasti tra sacerdoti(-magistrati) che avevano ripercussioni sul piano politico.
Livius 37.51.1-6 descrive una accesa querelle del 189 a.C. che produsse un’ampia e articolata discussione in senato e davanti al popolo[150]. Le vicende videro come protagonista (ancora) Licinio Crasso Dives, il quale, in veste di pontefice massimo, vietò a Q. Fabio Pittore, flamen Quirinalis e pretore, di partire per amministrare la Sardegna, quindi anteponendo i sacra agli honores[151]. Le parti antagoniste si scontrarono facendo ricorso ad ogni mezzo, contrapponendo l’auctoritas all’imperium[152], finché il magistrato non fece ricorso alla provocatio ad populum. L’assemblea riconobbe le ragioni del culto e, sebbene condonò al flamine la multa inflitta dal pontifex maximus, ordinò al primo di obbedire alle disposizioni pontificali[153]. In questo caso, per dirla con le parole di Livio, religio ad postremum vicit[154], tuttavia, appare come un’eventualità che il popolo decidesse di far prevalere le ragioni politiche, e inviare il pretore nell’isola sarda. Che il principio alla base del divieto del pontefice massimo non fosse stato applicato successivamente[155], lo si apprende dal caso di Servio Cornelio Lentulo Maluginense citato supra al § 2. Nella sua orazione per ottenere il governo dell’Asia[156], il flamen Dialis affermò che i flamini marziali e quirinali ... duxissent provincias ... Nel proseguo del discorso si rinviene un’ulteriore informazione in merito all’interdizione di allontanarsi da Roma gravante sul suo sacerdozio, al fine di non pregiudicare la celebrazione dei Dialia sacra, Malunginense afferma che ... nulla de eo populi scita, non in libris caerimoniarum reperir[157]. In queste parole si sottintende che le fonti normative in materia erano le delibere popolari e i documenti provenienti dagli archivi sacerdotali, ponendo, dunque, le due nozioni sul medesimo piano.
Vi sono altri due successivi casi in cui gli autori antichi indicano espressamente l’intervento popolare che sanò i conflitti tra magistrature e sacerdozi (sempre subordinando la remissione della multa alla sottoposizione ai dettami pontificali), e dove prevalevano comunque le ragioni dei sacerdotes. Nel 180 a.C., il pontefice massimo, Caio Servilio Gemino, ingiunse a Lucio Cornelio Dolabella di abdicare dalla carica di duumviro navale per inaugurarlo come rex sacrorum. Il magistrato, a cui era stata comminata una multa per il suo rifiuto, si appellò al popolo; in questa circostanza un vitium de caelo turbò i comizi e indusse i pontefici a scegliere qui secundo loco nominatus erat[158]. La seconda vicenda ebbe luogo nel 131 a.C., nello sfondo dei contrasti politici intorno a chi affidare la conduzione della guerra contro Aristonico. In tal circostanza all’assemblea fu chiesto di deliberare riguardo alla multa inflitta dal pontifex maximus e consul, P. Licinio Crasso Muciano, al collega e flamen Martialis, L. Valerio Flacco[159].
Le interazioni tra sacerdotes e parti costituzionali sorgono, quindi, non solo dalla necessità di chiarimenti su questioni inerenti il diritto sacro, ma anche da vicende politiche complesse implicanti auctoritas, imperium e volontà popolare. L’interpretatio sacerdotale poteva essere fatta prevalere, o meno, sulle mere scelte politiche proprie di un sistema dinamico ed elastico quale quello romano, muovendosi tra memoria e innovazione a seconda delle occorrenze del momento. Questa complessa realtà, dove si riusciva comunque a trovare l’equilibrio tra poteri e auctoritas, difficilmente, come è stato già evidenziato da autorevole letteratura[160], può essere colta sotto l’ottica deformante dello Staatsrecht, in quanto la vita del Populus Romanus procedeva in chiave (volutamente) concreta.
La recherche vise à analyser les façons dont les sacerdotes populi Romani, protagonistes essentiels du système constitutionnel romain, ont mené leur travail incessant et minutieux d’interprétation juridique. Le fruit de la profonde science sacerdotale a fait l’objet de “extériorisation” tant par l’activité de consultance exercée à la demande des cives et partes constitutionnelles, afin de libérer la civitas de tout scrupules religieux, que par des manifestations spontanées. La portée normative de cet ouvrage dans un système constitutionnel ouvert et dynamique, comme celui de Rome, lieu d’affrontements, de rencontres et de stratifications d’éléments hétérogènes, est cependant étrangère aux schématisations généralisantes. Les interactions entre les prêtres et les partes constitutionnelles, qui caractérisent l’expérience juridique romaine dans l’Antiquité, constituent une réalité complexe, entre laquelle pouvoirs et auctoritas sont contrebalancés.
La ricerca vuole analizzare le modalità con cui i sacerdotes populi Romani, protagonisti essenziali del sistema costituzionale romano, estrinsecavano la loro incessante e minuziosa opera di interpretazione giuridica. Il frutto della profonda scienza sacerdotale fu oggetto di “esternazione” tanto attraverso l’attività di consulenza prestata su richiesta di cives e di partes costituzionali, al fine di liberare la civitas da scrupoli religiosi, quanto mediante manifestazioni spontanee. La portata normativa di tale operato in seno a un sistema costituzionale aperto e dinamico, quale quello romano, luogo di scontri, incontri e stratificazioni di elementi eterogenei, risulta, tuttavia, estranea a schematizzazioni generalizzanti. Le interazioni tra sacerdoti e le partes costituzionali, che contraddistinsero l’esperienza giuridica romana nell’antichità, costituirono una complessa realtà, in cui si controbilanciarono poteri e auctoritas.
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[1] Cicero, De leg. 2.19-22; 3.3-4; 3.6-11. In tal senso P. Catalano, La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone), in Studi in onore di G. Grosso, VI, Torino 1974, 670, seguito, ad esempio, da C. Nicolet, Notes complémentaires, in Polybe, Histoires, Livre VI, Paris 1977, 149 s. nt. 15, e J. Scheid, Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdoces et le droit public à la fin de la République, in Des ordres à Rome, sotto la direzione di C. Nicolet, Paris 1984, 245 ss.
[2] D. 1.1.1.2 (Ulpianus libro primo institutionum): Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim. Publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus constitit; per una analisi approfondita del frammento, vide G. Aricò Anselmo, Ius publicum – ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in Annali del Seminario Giuridico della Università di Palermo 37, 1983, 452 ss.
[3] Così, F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica. I. Libri e commentarii, Sassari 1983, 213 s.; Id., Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001, 175 s.; Id., Diritto e pax deorum in Roma antica, in Diritto @ Storia 5, 2006, § 2, http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Sini-Diritto-pax-deorum.htm.
[4] Per l’originaria unità genetica di fas e ius, specialmente: R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto fra diritto divino e umano in Roma dall’età primitiva all’età classica, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano 46, 1939, 194 ss. (ora in Id., Scritti, II.I. Saggistica, con una nota di lettura di A. Mantello, Napoli 1998, 561 ss.), Id., Fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, Torino 1967, 102 ss.; P. Noailles, Fas et Jus. Études de droit romain, Paris 1948; Id., Du Droit sacré au Droit civil. Cours de Droit Romain Approfondi 1941-1942, Paris 1949, 24 ss.; P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale. I, Torino 1960, 394 e nt. 7, 486 s., 501 ss.; H. Fugier, Recherches sur l’expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963, 133; G. Nocera, “Iurisprudentia”. Per una storia del pensiero giuridico romano, Roma 1973, 12; F. Sini, “Fas et iura sinunt” (Virg., ‘Georg.’ 1, 269). Contributo allo studio della nozione romana di ‘fas’. I, Sassari 1984, 8 ss.; Id., Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, Sassari 1991, 83 ss.; F. Bona, “Ius pontificium” e “ius civile” nell’esperienza giuridica tardo-repubblicana: un problema aperto, in “Contractus” e “pactum”. Tipicità e libertà negoziale nell’esperienza tardo-repubblicana. Atti del convegno di diritto romano e della presentazione della nuova riproduzione della littera Florentina, Copanello 1-4 giugno 1988, a cura di F. Milazzo, Napoli 1990, 209 (ora in Id., Lectio sua. Studi editi e inediti di diritto romano, II, Padova 2003, 965).
[5] Cicero, De nat. deor. 2.8: Et si conferre volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores repiemur; religione, id est cultu deorum, multo superiores; vedi anche 1.117: Horum enim sententiae omnium non modo superstitionem tollunt, in qua inest timor inanis deorum, sed etiam religionem, quae deorum cultu pio continetur.
[6] Spec.: J. Scheid, La parole des dieux. L’originalité du dialogue des Romains avec leurs dieux, in Opus 6-8, 1987-1989, 129; Id., Les espaces cultuels et leur interprétation, in Klio 77, 1995, 424; Id., Quand faire, c’est croire. Les rites sacrificiels des Romains, Paris 2005, 7 ss. (cfr. la recensione di C. Ando, Evidence and Orthopraxy, in Journal of Roman Studies 99, 2009, 171 ss.).
[7] In materia si veda specialmente: H. Fuchs, Augustinus und der antike Friedengedanke. Untersuchungen zum neunzehnten Buch der Civitas Dei, Berlin 1926, 186 ss.; M. Sordi, Pax deorum e libertà religiosa nella storia di Roma, in La pace nel mondo antico, Milano 1985, 146 ss.; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, cit., 235 ss., 256 ss.; Id., Populus et religio dans la Rome républicaine, in Archivio Storico e Giuridico Sardo di Sassari 2 n.s., 1995, 77 ss.; Id., Sua cuique civitati religio, cit., 167 ss., 262 ss.; Id., Uomini e Dèi nel sistema giuridico-religioso romano: pax deorum, tempo degli Dèi, sacrifici, in Diritto @ Storia 1, 2002, http://www.dirittoestoria.it/tradizione/F.%20Sini%20-%20Uomini%20e%20D%E8i%20%20nel%20sistema%20giuridico-religioso%20roman.htm; Id., «Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant»: riflessioni su fides e “diritto internazionale” romano (a proposito di bellum, hostis, pax), in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di A. Burdese (Padova-Venezia-Treviso, 14-15-16 giugno 2001), III, a cura di L. Garofalo, Padova 2003, 535 ss.; Id., Ut iustum conciperetur bellum: Guerra “giusta” e sistema giuridico-religioso romano, in Seminari di storia e di diritto, III. «Guerra giusta»? Le metamorfosi di un concetto antico, a cura di A. Calore, Milano 2003, 71 ss.; Id., Bellum, fas, nefas: aspetti religiosi e giuridici della guerra (e della pace) in Roma antica, in Diritto @ Storia 4, 2005, §§ 8-9, http://www.dirittoestoria.it/4/Memorie/Sini-Guerra-pace-Roma-antica.htm; Id., Diritto e pax deorum in Roma antica, cit.; R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996, 167 ss.; E. Montanari, Il concetto originario di ‘pax’ e la ‘pax deorum’, in Concezioni della pace (Seminario 21 aprile 1988), a cura di P. Catalano e P. Siniscalco, Roma 2006, 39 ss.; F. Santangelo, Pax deorum and Pontiffs’, in Priests and State in the Roman World, a cura di Id. e J.H. Richardson, Stuttgart 2011, 161 ss.; S. Satterfield, Prodigies, the pax deum and the ira deum, in The Classical Journal 110, 2015, 431 ss. Cfr. P. Madejski, Pax deorum?, in Res Historica 29, Lublin 2010 (= Terra, mare et homines II. Studies in Memory of Professor T. Łoposzko), 109 ss., il quale, criticando la visione moderna della pax deorum, nega il valore del concetto nella religio Romana.
[8] Per le concezioni giuridico-religiose del sacrificio si rinvia a F. Sini, Sua cuique civitati religio, cit., 177 ss.
[9] Sull’intervento divino all’atto della fondazione, ad es.: Cicero, In Cat. 1.33; Livius 28.28.11. In merito, si rinvia a P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, 479 ss., spec. 442 ss., e a F. Sini, Fondazione della urbs Roma, in Diritto @ Storia 15, 2017, http://www.dirittoestoria.it/15/memorie/Sini-Fondazione-urbs-Roma.htm , per le implicazioni giuridico-religiose negli initia Urbis.
[10] Cicero, De nat. deor. 2.8: C. Flaminium Coelius religione neglecta cecidisse apud Transumenum scribit cum magno rei publicae vulnere. Quorum exitio intellegi potest eorum imperiis rem publicam amplificatam qui religionibus paruissent; Valerius Maximus: 1.1.8: Non mirum igitur, si pro eo imperio augendo custodiendoque pertinax deorum indulgentia semper excubuit, quo tam scrupulosa cura parvula quoque momenta religionis examinari videntur, quia numquam remotos ab exactissimo cultu caerimoniarum oculos habuisse nostra civitas existimanda est.
[11] Gellius, Noct. Att. 2.28.2: ... veteres Romani cum in omnibus aliis vitae officiis tum in constituendis religionibus atque in dis inmortalibus animadvertendis castissimi cautissimique ...
[12] Vedi, in particolare, un passaggio del discorso del console Postumio tenuto dinnanzi all’assemblea popolare durante la spinosa vicenda dei Baccanali: Ubi deorum numen praetenditur sceleribus, subit animum timor ne fraudibus humanis vindicandis divini iuris aliquid immixtum violemus. Hac vos religione innumerabilia decreta pontificum, senatus consulta, haruspicum denique responsa liberant (Livius 39.16.7).
[13] In tal senso, B. Albanese, P. Mucio Scevola pontefice e l’uccisione sulla nave, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano 98-99, 1995-1996, 30 (ora in Id., Scritti giuridici, IV, a cura di G. Falcone, Torino 2006, 702) per il quale sarebbe «da escludere l’esistenza di una terminologia tecnica rigorosa in ordine alle deliberazioni dei pontefici».
[14] In generale per decreta e responsa sacerdotali: G. Mancuso, Studi sul decretum nell’esperienza giuridica romana, in Annali del Seminario Giuridico della Università di Palermo 40, 1988, 78 ss.; S. Randazzo, «Collegium pontificum decrevit». Note in margine a CIL. X. 8259, in Labeo. Rassegna di diritto romano 50, 2004, 135 ss.
[15] Ad esempio: Livius 29.10.7: ... responsum oraculo editum maiorem multo victoriam quam cuius ex spoliis dona portarent adesse populo Romano (in riferimento a un carme dei libri Sibillini); Ovidius, Met. 3.527: Dicta fides sequitur, responsaque vatis aguntur; Vergilius, Georg. 3.489-491: Aut siquam ferro mactaverat ante sacerdos, / inde neque impositis ardent altaria fibris, / nec responsa potest consultus reddere vates; Statius, Theb. 8, 206-207: Iamque erit ille dies, quo te quoque conscia fatis / templa colant reddatque tuus responsa sacerdos; Cornelius Nepos, Miltiad. 1.4: Hoc oraculi responso ...; Pausan. 5.5: Inde posterius Delphici responso erutus ...; Hyginus astron., De astronom. 2.4: ... petentibus eis Apollo dedit responsum ...; Macrobius, Sat. 1.23.13: ... ut videmus apud Antium promoveri simulacra Fortunarum ad danda responsa.
[16] Vergilius, Aen. 9.133-134: Nil me fatalia terrent, / siqua Phryges prae se iactant, responsa deorum; Papinius Statius, Theb. 5.645: Necdum etiam responsa deum monitusque vetusti.
[17] A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots, 4ª ed. a cura di J. André, Paris 2001, 643.
[18] Gaius, Inst. 1.7: Responsa prudentium sunt sententiae et opiniones eorum, quibus permissum est iura condere; così anche I. 1.2.8.
[19] Ad es.: Livius 31.12.10: Ea uti fierent C. Aurelius consul ex decemvirorum responso curavit; 34.55.3: Postremo decemviris adire libros iussis, ex responso eorum supplicatio per triduum fuit; 38.35.4: Eo anno in aede Herculis signum dei ipsius ex decemvirorum responso ...; De vir. illustr. 46.1: Hannibale Italiam devastante ex responso librorum Sibyllinorum Mater deum a Pessinunte arcessita cum adverso Tiberi veheretur, repente in alto stetit; Pseudacronis scholia in Horatium, Expos. In Carm. Saec. 8 (ed. O. Keller, 1902, p. 471): <Dicere carmen> Valerius [leg. Verrius] Flaccus refert carmen saeculare et sacrificium inter annos centum et decem Diti et Proserpinae constitutum bello Punico primo ex responso decemvirorum, cum iussi essent libros Sibillinos inspicere ob prodigium, quod eo bello accidit. Di Livio si segnala anche: 22.1.16 s., in cui l’atto dei decemviri, a cui fa seguito il decreto senatorio, è denominato monitus: cetera, cum decemviri libros inspexissent, ut ita fierent, quem ad modum cordi esse divis <e> carminibus praefarentur. 17. Decemvirorum monitu decretum est, Iovi primum donum fulmen aureum pondo quinquaginta fieret, Iunoni Minervaeque ex argento dona darentur, et Iunoni reginae in Aventino Iunonique Sospitae Lanuvii maioribus hostiis sacrificaretur ...; 40.19.5: Eorum decreto supplicatio circa omnia pulvinaria Romae in diem unum indicta est e 38.44.7: Supplicatio inde ex decemvirorum decreto pro valetudine populi per triduum fuit, quia gravis pestilentia urbem atque agros vastabat, 41.21.10 s.: Cum pestilentiae finis non fieret, senatus decrevit uti decemviri libros Sibyllinos adirent. 11. Ex decreto eorum diem unum supplicatio fuit ..., dove si ricorre al termine decretum.
[20] Cicero, De har. resp. 29: Sed ut ad haec haruspicum responsa redeam, ex quibus est primum de ludis, quis est qui id non totum in istius ludos praedictum et responsum esse fateatur?; De nat. deor. 2.10: Multa ex Sibyllinis vaticinationibus, multa ex haruspicum responsis commemorare possum quibus ea confirmentur quae dubia nemini debent esse; De div. 1.97: Quotiens senatus decemviros ad libros ire iussit! quantis in rebus quamque saepe responsis haruspicum paruit! ... quibus portentis magna populo Romano bella perniciosaeque seditiones denuntiabantur, inque his omnibus responsa haruspicum cum Sibyllae versibus congruebant; 2.52: Quid ego haruspicum responsa commemorem (possum equidem innumerabilia), quae aut nullos habuerint exitus aut contrarios?; In Catilin. 3.9: Lentulum autem sibi confirmasse ex fatis Sibyllinis haruspicumque responsis se esse tertium illum Cornelium, ad quem regnum huius urbis atque imperium pervenire esset necesse ...; Livius 8.6.12: ... responsa haruspicum insidenti iam animo tacitae religioni congruerunt ...; 39.16.7: ... haruspicum ... responsa ...; Tacitus, Ann. 13.24.2: Urbem princeps lustravit ex responso haruspicum ...; Plinius maior, Nat. hist. 7.69: Cum ita nata esset Valeria, exitio civitati in quam delata esset futuram responso haruspicum vaticinante, Suessam Pometiam illa tempestate florentissimam deportata est ...
[21] Th. Bögel, v. decerno, in Thesaurus Linguae Latinae, V.1, Lipsiae 1910, coll. 139 ss., in part. coll. 151 ss. per decretum.
[22] In Cicerone, seppur non in specifico riferimento ad atti sacerdotali, responsa e decreta sono intesi quali nozioni differenti: De orat. 2.100: At vero in foro tabulae, testimonia, pacta, conventa, stipulationes, cognationes, adfinitates, decreta, responsa, vita denique eorum, qui in causa versantur tota cognoscenda est; quarum rerum neglegentia plerasque causas et maxime privatas - sunt enim multo saepe obscuriores - videmus amitti; 2.116: Ad probandum autem duplex est oratori subiecta materies: una rerum earum quae non excogitantur ab oratore, sed in re positae ratione tractantur, ut tabulae, testimonia, pacta, conventa, quaestiones, leges, senatus consulta, res iudicatae, decreta, responsa, reliqua, si quae sunt, quae non reperiuntur ab oratore, sed ad oratorem a causa atque a reis deferuntur ... La distinzione concettuale emerge anche in Pro Mur. 29: Deinde vestra responsa atque decreta et evertuntur saepe dicendo et sine defensione oratoris firma esse non possunt, quando nel 63 a.C. l’oratore procedette a un duro attacco contro l’interpretatio prudentium.
[23] Così J. Linderski, The libri reconditi, in Harvard Studies in Classical Philology 89, 1985, 219: «The responsa were of two kinds: the official responsa of a college, which can also be classified as decreta, and the responsa of individual pontiffs or augurs».
[24] Vedi infra, § 4.
[25] Cicero, De dom. 136: ... M. Aemilium pontificem maximum pro collegio respondisse... Cum P. Scaevola pontifex maximus pro collegio respondit ... Difficile asserire che il decreto attribuito al pontefice massimo Publio Mucio Scevola in materia di sepolture non fosse stato emanato pro collegio Cicero, De leg. 2.57 (testo infra, § 3), cfr. B. Albanese, P. Mucio Scevola pontefice e l’uccisione sulla nave, cit., 28 s. (= Id., Scritti giuridici, IV, cit., 700 s.), per il quale si tratterebbe di una atto reso pubblico dal pontifex maximus, ma confezionato dall’intero collegio.
[26] Sul pontefice massimo e giurista, si veda spec.: W. Kunkel, Die Römischen Juristen. Herkunft und soziale Stellung, 2ª ed., Graz 1967 [rist., Köln-Weimar-Wien 2001], 7 s.; F. d’Ippolito, I giuristi e la città. Ricerche sulla giurisprudenza romana della Repubblica, Napoli 1978, 27 ss. (già in Labeo 23, 1977, 131 ss.); R.A. Bauman, Lawyers in Roman Republican Politics. A study of the Roman jurists in their political setting, 316-82 BC, München 1983, 71 ss.; J.W. Cairns, Tiberius Coruncanius and the Spread of Knowledge about Law in Early Rome, in The Journal of Legal History 5, 1984, 129 ss.; C.A. Cannata, Tiberius Coruncanius, qui primus publice profiteri coepit. L’inizio dell’insegnamento pubblico del diritto, in Mélanges en l’honneur de J.-M. Grossen, Bâle-Francfort-sur-le-Main 1992, 485 ss. (ora in Id., Scritti scelti di diritto romano, II, a cura di L. Vacca, Torino 2012, 31 ss.); Id., Per una storia della scienza giuridica europea. I. Dalle origini all’opera di Labeone, Torino 1997, 145 ss.; F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., Torino 1995, 81 ss.; Id., Sua cuique civitati religio, cit., 218 ss.; G. Viarengo, I giuristi arcaici: Tiberio Coruncanio, in Ius Antiquum - Древнее Право 2.7, 2000, 73 ss.; Ead., I «responsa complura et memorabilia» di Tiberio Coruncanio, in Materiali per una storia della cultura giuridica 30.2, 2000, 525 ss.; Ead., Ti. Coruncanius (cos. 280), in Antiquissima iuris sapientia saec. VI-III a.C., praef. V. Marotta, E. Stolfi, Roma 2019, 169 ss.
[27] Gellius, Noct. Att. 4.6.10: Tib. Coruncanio pontifici maximo feriae praecidaneae in atrum diem inauguratae sunt. Collegium decrevit non habendum religioni, quin eo die feriae praecidaneae essent (P. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum, Tilsit 1878, 8, fr. 33; PH.E. Huschke, Iurisprudentiae anteiustinianae quae supersunt, 5ª ed., Lipsiae 1886, 117, fr. 8; F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, II. Primi post principatum constitutum saeculi iuris consulti. 1, Lipsiae 1898, 272, fr. 1).
[28] Macrobius, Sat. 1.16.22-24: Anno ab urbe condita trecentesimo sexagesimo tertio a tribunis militum Virginio Manlio Aemilio Postumio collegisque eorum in senatu tractatum, quid esset propter quod totiens intra paucos annos male esset afflicta res publica; et ex praecepto patrum L. Aquinium haruspicem in senatum venire iussum 23. religionum requirendarum gratia dixisse Q. Sulpicium tribunum militum ad Alliam adversum Gallos pugnaturum rem divinam dimicandi gratia fecisse postridie idus Quintiles, item apud Cremeram multisque aliis temporibus et locis post sacrificium die postero celebratum male cessisse conflictum. 24. Tunc patres iussisse ut ad collegium pontificum de his religionibus referretur, pontificesque statuisse postridie omnes kalendas nonas idus atros dies habendos, ut hi dies neque proeliares neque puri neque comitiales essent. Cfr.: Varro, De ling. Lat. 6.29: Dies postridie kalendas, nonas, idus appellati atri, quod per eos dies <nihil> novi inciperent; Livius 6.1.8-9 e 11-12: Interregnum initum; P. Cornelius Scipio interrex fuit, post eum M. Furius Camillus [iterum]. Is tribunos militum consulari potestate creat L. Valerium Publicolam iterum, L. Verginium, P. Cornelium, A. Manlium, L. Aemilium, L. Postumium. 9. Hi ex interregno cum extemplo magistratum inissent, nulla de re prius quam de religionibus senatum consuluere ... 11. Tum de diebus religiosis agitari coeptum, diemque a. d. quintum decimum kal. Sextiles, duplici clade insignem, quo die ad Cremeram Fabii caesi, quo deinde ad Aliam cum exitio urbis foede pugnatum, a posteriore clade Aliensem appellarunt insignemque religione rei ullius publice privatimque agendae fecerunt. 12. Quidam, quod postridie idus Quinctiles non litasset Sulpicius tribunus militum neque inventa pace deum post diem tertium obiectus hosti exercitus Romanus esset, etiam postridie idus rebus divinis supersederi iussum; inde, ut postridie kalendas quoque ac nonas eadem religio esset, traditum putant. In merito alla ratio del decreto pontificale rinvio a F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur, cit., 92 ss., e Diritto e documenti sacerdotali romani: verso una palingenesi, in Diritto @ Storia 4, 2005, § 5, https://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Sini-Diritto-documenti-sacerdotali-palingenesi.htm.
[29] Sul personaggio, vide per tutti F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur, cit., 113 ss. e F. Nasti, P. Licinius Crassus Dives (cos. 205), in Antiquissima iuris sapientia saec. VI-III a.C., cit., 267 ss. Per il suo cursus honorum: W. Drumann, Geschichte Roms in seinem Übergange von der republikanischen zur monarchischen Verfassung oder Pompeius, Caesar, Cicero und ihre Zeitgenossen, IV: Junii-Pompeii, 2ª ed., Leipzig 1908-1910, 59 s. [reprograf. Nachdr., Hildesheim 1964, 69 s.]; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic. I. 509 B.C. – 100 B.C., New York 1951 [rist., Atlanta, Ga. 1986], 268, 271, 278, 291, 301, 308, 381; J. Rüpke, Römische Priester in der Antike. Ein biographisches Lexikon, Stuttgart 2007, 148, nr. 2235.
[30] Livius 31.9.5-7: Cum dilectum consules haberent pararentque quae ad bellum opus essent, civitas religiosa in principiis maxime novorum bellorum, 6. supplicationibus habitis iam et obsecratione circa omnia pulvinaria facta, ne quid praetermitteretur quod aliquando factum esset, ludos Iovi donumque vovere consulem cui provincia Macedonia evenisset iussit. 7. Moram voto publico Licinius pontifex maximus attulit, qui negavit ex incerta pecunia voveri debere, quia ea pecunia non posset in bellum usui esse seponique statim deberet nec cum alia pecunia misceri: quod si factum esset, votum rite solvi non posse. Per alcune considerazioni giuridiche sulla vicenda: F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur, cit., 122 ss.; L. Franchini, A proposito del votum ex incerta pecunia del 200 a.C., in Archivio giuridico 221, 2001, 159 ss.; Id., Voti di guerra e regime pontificale della condizione. La riforma del 200, in Diritto @ Storia 4, 2005, https://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Franchini-Voti-di-Guerra.htm; Id., Aspetti giuridici del pontificato romano. L’età di Publio Licinio Crasso (212-183 a.C.), Napoli 2008, 291 ss.; Id., Il problema dell’esistenza di un ius controversum in età arcaica, in Diritto @ Storia 13, 2015, § 4, https://www.dirittoestoria.it/13/memorie/Franchini-Problema-esistenza-ius-controversum-eta-arcaica.htm; F. Van Haeperen, Le collège pontifical (3ème s. a. C.-4ème s. p. C.). Contribution à l’étude de la religion publique romaine, Bruxelles-Rome 2002, 248 ss.; F. Nasti, P. Licinius Crassus Dives (cos. 205), cit., 286 s.
[31] Livius 31.9.8: Quamquam et res et auctor movebat, tamen ad collegium pontificum referre consul iussus si posset recte votum incertae pecuniae suscipi. Posse rectiusque etiam esse pontifices decreverunt. Come evidenzia A. Corbino, Caso, diritto e regula. Limiti della funzione normativa del caso deciso nella visione romana, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité 61, 2014, 56 s., in riferimento alle decisioni sacerdotali, così come accadeva per le leges, l’uniformità dei principi adottati non rilevava al fine della validità degli atti, in quanto i precedenti non erano vincolanti; in questo episodio le pronunce anteriori neganti la correttezza di un simile votum non inibirono «un radicale mutamento di avviso del collegio, che detta per il “caso” ultimo una soluzione diversa da quella fin allora praticata, sulla base di una ratio ritenuta — re melius perpensa — preferibile a quella precedentemente seguita».
[32] Livius 31.9.9 s.: Vovit in eadem verba consul, praeeunte maximo pontifice, quibus antea quinquennalia vota suscipi solita erant, 10. praeterquam quod tanta pecunia quantamtum cum solveretur senatus censuisset ludos donaque facturum vovit. Octiens ante ludi magni de certa pecunia voti erant, hi primi de incerta.
[33] G. Greco, Permanenza e instabilità nei precetti di derivazione sacrale, in Iura and Legal Systems 6, 2019, 7 ss., sostiene che l’interpretazione sacerdotale, talvolta, era mossa da scopi eterogenei e interessi del momento per cui non sarebbe stata «sempre produttiva di regole di condotta stabili e sottratte a processi di manipolazione, tali che la soluzione dettata in un caso possa costantemente fungere da precedente per l’avvenire» (16).
[34] Cicero, De leg. 2.58: Sed ut in urbe sepeliri lex vetat, sic decretum a pontificum collegio non esse ius in loco publico fieri sepulchrum.
[35] XII tab. 10.1: Hominem mortuum in urbe ne sepelito neve urito (Fontes Iuris Romani Antejustiniani, I. Leges, ed. S. Riccobono, Florentiae 1968, 66).
[36] E. Betti, Diritto romano. I. Parte generale, Padova 1935, 38 s.
[37] A tutt’oggi sussistono numerosi dubbi a proposito della corretta identificazione di questo autore: A.E. Gordon, Veranius 1, in Paulys Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, 8A.1, Stuttgart 1955, col. 937; F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., 102, 130 nt. 66; J. Linderski, The Augural Law, cit., 2186; R. Del Ponte, Documenti sacerdotali in Veranio e Granio Flacco: problemi lessicografici, in Diritto @ Storia 4, 2005, spec. §§ 2-4, http://www.dirittoestoria.it/4/TradizioneRomana/Del-Ponte-Documenti-sacerdotali-Veranio-Granio-Flacco.htm; F. Vallocchia, “Silentium” nei documenti sacerdotali. Le interpretazioni di Veranio e di Ateio Capitone, in Diritto @ Storia 6, 2007, § 3, http://www. dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Vallocchia-Silentium-documenti-sacerdotali-VeranioCapitone.htm; F. Glinister, ‘Bring on the dancing girls’, in Priests and State in the Roman World, cit., 109 nt. 11.
[38] Sull’utilizzo di religiosus in luogo di nefastus, mi sia permesso di rinviare a C.M.A. Rinolfi, Testamentorum autem genera initio duo fuerunt: nam aut calatis comitiis testamentum faciebant … aut in procintu. Testamenti, diritto e religione in Roma antica, Torino 2020, 113 ss.
[39] Sull’appartenenza dell’aggettivo felix al linguaggio dei pontifices, R. Del Ponte, Documenti sacerdotali in Veranio e Granio Flacco, cit., § 2, si veda anche il § 4, per una accezione del termine che esula dal «senso esclusivamente materiale».
[40] Il vocabolo felix si ritrova nella formula introduttiva di atti ufficiali (ad es., Cicero, De divin. 1.102; Livius 1.17.10, 1.28.7, 3.54.8), su cui F.V. Hickson, Roman Prayer Language: Livy and the Aneid of Vergil, Stuttgart 1993, 63 ss.; questo doveva essere presente nella antica formula di lustrazione come risulta nei Panegyrici Latini che riportano l’orazione catoniana recitata nel 183 a.C. (5(8).13.2: Praeclara fertur Catonis oratio de lustri sui felicitate. Iam tunc enim in illa vetere re publica ad censorum laudem pertinebat, si lustrum felix condidissent, si horrea messis implesset, si vindemia redundasset, si olivitas larga fluxisse[n]t). Per le varie accezioni terminologiche, H. Ammann, v. felix, in Thesaurus Linguae Latinae, VI.1, Lipsiae 1915, coll. 434 ss.
[41] Vedi, ad es., Valerius Maximus 4.1.10: Qui [i.e. Africanus] censor, cum lustrum conderet inque solitaurilium sacrificio scriba ex publicis tabulis sollemne ei precationis carmen praeiret, quo di immortales ut populi Romani res meliores amplioresque facerent rogabantur, ‘satis’ inquit ‘bonae et magnae sunt: itaque precor ut eas perpetuo incolumes servent', ac protinus in publicis tabulis ad hunc modum carmen emendari iussit. Qua votorum verecundia deinceps censores in condendis lustris usi sunt: prudenter enim sensit tunc incrementum Romano imperio petendum fuisse, cum intra septimum lapidem triumphi quaerebantur, maiorem autem totius terrarum orbis partem possidenti ut avidum esse quicquam ultra adpetere, ita abunde felix, si nihil ex eo, quod optinebat, amitteret.
[42] Su vita, carriera e politica del tribuno della plebe, vedi, ad es.: C. Gallini, Politica religiosa di Clodio, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni 33, 1962, 257 ss.; A.W. Lintott, P. Clodius Pulcher-Felix Catilina?, in Greece & Rome 14, 1967, 157 ss.; W.M.F. Rundell, Cicero and Clodius: The Question of Credibility, in Historia 28, 1979, 301 ss.; H. Benner, Die Politik des P. Clodius Pulcher. Untersuchungen zur Denaturierung des Clientelwesen in der ausgehenden römischen Republik, Stuttgart 1987; D. Mulroy, The Early Career of P. Clodius Pulcher: A Re-Examination of the Charges of Mutiny and Sacrilege, in Transactions of the American Philological Association 118, 1988, 155 ss.; J. Spielvogel, P. Clodius Pulcher: Eine Politische Ausnahme-Erscheinung der Späten Republik?, in Hermes 125, 1997, 56 ss.; L. Fezzi, La legislazione tribunizia di Publio Clodio Pulcro (58 a.C.) e la ricerca del consenso a Roma, in Studi Classici e Orientali 47, 1999, 245 ss.; Id., Il tribuno Clodio, Roma-Bari 2008; E. Winsor Leach, Gendering Clodius, in The Classical World 94, 2001, 335 ss.; J.L. Butrica, Clodius the Pulcher in Catullus and Cicero, in The Classical Quarterly 52, 2002, 507 ss.; J. Cels Saint-Hilaire, P. Clodius, ses amis, ses partisans, sous le regard de Cicéron, in Dialogues d’histoire ancienne suppl. 1, 2005, 69 ss.; R. Seager, The (re/de)construction of Clodius in Cicero’s speeches, in The Classical Quarterly 64, 2014, 226 ss.; A. Russel, Why did Clodius shut the shops? The rhetoric of mobilizing a crowd in the Late Republic, in Historia 65, 2016, 186 ss.; K. Morrell, P. Clodius Pulcher and the praetorship that never was, in Historia 72, 2023, 29 ss.; vedi anche F.R. Berno, Fuoco e fiamme su Cicerone: il personaggio di Clodio nella De domo sua, in Pan. Studi del Dipartimento di Civiltà Euro-Mediterranee e di Studi Classici, Cristiani, Bizantini, Medievali, Umanistici 23, 2005, 113 ss., e J.-P. De Giorgio, Clodius le scandaleux d’après la Correspondance de Cicéron (58 et 56 av. J.-C.), in Scandales, justice et politique à Rome. Textes inédits d’Alain Malissard suivis d’hommages en son honneur, dir. di P.M. Martin, E. Ndiaye, Paris 2018, 165 ss., per la stigmatizzazione di Clodio tracciata da Cicerone.
[43] Cicero, De dom. 34: Quod est, pontifices, ius adoptionis? Nempe ut is adoptet qui neque procreare iam liberos possit, et, cum potuerit, sit expertus. Quae deinde causa cuique sit adoptionis, quae ratio generum ac dignitatis, quae sacrorum, quaeri a pontificum collegio solet. Si veda anche Gellius, Noct. Att. 5.19.5 s.: Sed adrogationes non temere nec inexplorate committuntur; 6. nam comitia arbitris pontificibus praebentur, quae ‘curiata’ appellantur, aetasque eius, qui adrogare vult, an liberis potius gignundis idonea sit, bonaque eius, qui adrogatur, ne insidiose adpetita sint, consideratur ...
[44] Tra le opere più recenti in materia, si segnalano: P. Cerami, Note sulla struttura formale dell’adrogatio per populum, in Scritti per A. Corbino, II, a cura di I. Piro, Tricase 2016, 85 ss.; A.A. Díaz-Bautista Cremades-M. Baelo Álvarez, Historia, significación y utilidad sociojurídica de la adrogatio y la adoptio en Roma, in Vergentis 3, 2016, 247 ss.; M. De Simone, Studi sulla patria potestas. Il filius familias ‘designatus rei publicae civis’, Torino 2017, 83 ss. Si veda anche P. Arces, Osservazioni sulla scrittura e sul metodo di lavoro di Gellio e Gaio: la trattazione di adoptio e adrogatio nelle Notti Attiche e nelle Istituzioni, in Teoria e Storia del Diritto Privato 13, 2020, 1 ss., http://www.teoriaestoriadeldirittoprivato.com/media/rivista/2020/contributi/2020_Contributi_Arces.pdf, per un confronto tra la trattazione della materia in Gaio e Gellio.
[45] Cicero, De dom. 35: Nisi forte ex te ita quaesitum est, num perturbare rem publicam seditionibus velles et ob eam causam adoptari, non ut eius filius esses, sed ut tribunus plebis fieres et funditus everteres civitatem. Respondisti, credo, te ita velle. Pontificibus bona causa visa est; adprobaverunt. Non aetas eius qui adoptabat est quaesita, ut <in> Cn. Aufidio, M. Pupio, quorum uterque nostra memoria summa senectute alter Oresten, alter Pisonem adoptavit, quas adoptiones sicut alias innumerabiles hereditates nominis, pecuniae, sacrorum secutae sunt. Tu neque Fonteius es, qui esse debebas, neque patris heres neque amissis sacris paternis in haec adoptiva venisti. Ita perturbatis sacris, contaminatis gentibus, et quam deseruisti et quam polluisti, iure Quiritium legitimo tutelarum et hereditatium relicto factus es eius filius contra fas cuius per aetatem pater esse potuisti.
[46] Tacitus, Ann. 3.58-59.1.
[47] Tacitus, Ann. 3.71.2: Et quoniam de religionibus tractabatur, dilatum nuper responsum adversus Servium Maluginensem flaminem Dialem prompsit Caesar recitavitque decretum pontificum, quotiens valitudo adversa flaminem Dialem incessisset, ut pontificis maximi arbitrio plus quam binoctium abesset, dum ne diebus publici sacrificii neu saepius quam bis eundem in annum; quae principe Augusto constituta satis ostendebant annuam absentiam et provinciarum administrationem Dialibus non concedi. Per una analisi sulla vicenda: F.M. Simón, ‘Flamen Dialis’. El sacerdote de Jupiter en la religion romana, Madrid 1996, 105; M. Ravizza, Pontefici e Vestali nella Roma Repubblicana, Milano 2020, 59 ss.
[48] Le fonti rammentano un antico caso di interpretazione estensiva enunciata tramite decreto: Cicero, De div. 2.73: Quo antiquissumos augures non esse usos argumento est, quod decretum collegii vetus habemus omnem avem tripudium facere posse (F.A. Brause, Librorum de disciplina augurali, cit., 46, fr. 3; P. Regell, Fragmenta auguralia, cit., 14).
[49] Livius 4.7.3.
[50] Si veda anche Livius 45.12.9-10: Consulum eius anni sicut alterius clarus consulatus insigni victoria, ita alterius obscura fama, quia materiam res gerendi non habuit. 10. Iam primum cum legionibus ad conveniendum <diem> dixit, non auspicato templum int<ravit>. Vitio diem dictam esse augures, cum ad eos relatum est, decreverunt. In altre occasioni, invece, gli auguri rilevarono vizi auspicali con semplici responsi: Livius 8.15.6: Religio inde iniecta de dictatore, et cum augures vitio creatum videri dixissent, dictator magisterque equitum se magistratu abdicarunt; 41.18.8: Valerium auspicato sortitum constabat quod in templo fuisset; in Petillio id vitio factum postea augures responderunt quod † extra templum sortem in sitellam in templum latam foris ipse oporteret †.
[51] Livius 8.15.7-8: Eo anno Minucia Vestalis suspecta primo propter mundiorem iusto cultum, insimulata deinde apud pontifices ab indice servo, 8. cum decreto eorum iussa esset sacris abstinere familiamque in potestate habere, facto iudicio viva sub terram ad portam Collinam extra viam stratam defossa Scelerato campo (su tali ordini imposti alle vestali, da ultima, M. Ravizza, Pontefici e Vestali nella Roma Repubblicana, cit., 130 ss.). Attesta un decreto pontificale volto a una vestale anche ILS II.1.4939, p. 255: † [contine]ntis vitae, pudicitiae, castitatis, iuxta legem divinitus datam, decreto pontificum.
[52] Ad es.: Livius 24.44.9: His procuratis ex decreto pontificum profecti consules, Sempronius in Lucanos, in Apuliam Fabius; 27.4.15: Haec prodigia hostiis maioribus procurata decreto pontificum, et supplicatio diem unum Romae ad omnia pulvinaria, alterum in Capenate agro ad Feroniae lucum indicta; 27.37.4: Haec procurata hostiis maioribus prodigia, et supplicatio diem unum fuit ex decreto pontificum; 27.37.7: Decrevere item pontifices ut virgines ter novenae per urbem euntes carmen canerent; 34.45.7: Ea prodigia ex pontificum decreto procurata.
[53] Si veda l’epigrafe trovata a Terracina, databile tra il II e III secolo d.C., CIL X.8259: [D(is)] M(anibus) [s(acrum). C]ollegi[u]m pon[tif]icum d[e]crevit: si ea ita suntque libelo [c]ontenentur, placere per[...]re puela[m], d(e) q(ua) agatu[r, s]acelo [eximere et i]ter[um ex] pra[escr]ipto [d]eponere et scripturam tituli at pristinam formam restituere piaculo prius dato operis faciendi ove atra (= Fontes iuris Romani antejustiniani, I, cit., 330 s., nr. 63).
[54] D. 11.7.8 pr. (Ulpianus 25 ad ed.): Ossa quae ab alio illata sunt vel corpus an liceat domino loci effodere vel eruere sine decreto pontificum ‘seu iussu principis’, quaestionis est: et ait Labeo expectandum ‘vel’ permissum pontificale ‘seu iussionem principis’, alioquin iniuriarum fore actionem adversus eum qui eiecit. Il frammento è considerato interpolato con l’inserimento da parte dei compilatori giustinianei della locuzione ‘seu iussu principis’ , ad esempio, da C. Ferrini, De iure sepulcrorum apud Romanos, in Archivio giuridico 30, 1883, 448 e nt. 1 (ora in Id., Opere di C. Ferrini, IV. Studi vari di diritto romano e moderno, a cura di E. Albertario, Milano 1930, 2 e nt. 1); G. Longo, Comunità cristiane primitive e res religiosae, in Studi giuridici in memoria di F. Vassalli, II, Torino 1960, 1028 e 1037 (ora in Id., Ricerche romanistiche, Milano 1966, 223 e 234); F. de Visscher, Le droit des tombeaux romains, Milano 1963, 62 nt. 65; A. Calonge, El Pontifex Maximus y el problema de la distinción entre magistraturas y sacerdocios, in Anuario de historia del derecho español 38, 1968, 23.
[55] In alcune epigrafi si parla in chiave di permesso pontificale in merito al reficere un monumento sepolcrale, ad es.: CIL IX.1729: P. Aelius Venerianus hoc vas disomum sibi et felicitati suae posuit et tribunal ex permissu pontiff. perfecit; CIL VI.2963: petit a pontifices ut sibi permitterent reficere n. monumentum iuris sui lib(ertis) libertabusque sibi et suis posterisque eorum; CIL VI.22120: sepulcrum parentum suorum vetustate corruptum permissu pontificum c. v. restituit; CIL VI.35068: permissu pontific. refec.
[56] Circa la stato in cui vertono i documenti dei collegi sacerdotali, oltre al fondamentale F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., si veda dello stesso autore: Documenti sacerdotali e lessico politico-religioso di Roma arcaica, in Atti del Convegno sulla lessicografia politica e giuridica nel campo delle scienze dell’antichità (Torino, 28-29 aprile 1978), a cura di I. Lana e N. Marinone, Torino 1980, 127 ss.; Libri e commentarii nella tradizione documentaria dei grandi collegi sacerdotali romani, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 67, 2001, 375 ss.; Dai documenti dei sacerdoti romani: dinamiche dell’universalismo nella religione e nel diritto pubblico di Roma antica, in Diritto @ Storia 2, 2003, https://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Sini-Dai-Documenti.htm; Diritto e documenti sacerdotali romani: verso una palingenesi, cit.; Palingenesi dei documenti sacerdotali romani: un progetto scientifico russo-italiano, in Diritto @ Storia 5, 2006, https://www.dirittoestoria.it/5/Rassegne/Sini-Documenti-sacerdotali-progetto-russo-italiano.htm.
[57] Livius 1.20.6: Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit, ut esset quo consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios ritus peregrinosque adsciscendo turbaretur.
[58] D. 1.2.2.6 (Pomponius, libro singulari enchiridii): Omnium tamen harum et interpretandi scientia et actiones apud collegium pontificum erant, ex quibus constituebatur, quis quoquo anno praeesset privatis. Et fere populus annis propre centum hac consuetudine usus est.
[59] La definizione di queste cerimonie si rinviene in Festus, De verb. sign., p. 284 L.: Publica sacra, quae publico sumptu pro populo fiunt, quaeque pro montibus, pagis, curis, sacellis: at privata, quae pro singulis hominibus, familiis, gentibus fiunt. Per il conferimento dei sacra pubblici e privati al collegio pontificale vedi, ad esempio: Cicero, De har. resp. 14: ad pontifices reicietur, quorum auctoritati, fidei, prudentiae maiores nostri sacra religionesque et privatas et publicas commendarunt. In tale contesto si deve rammentare la posizione di P. Catalano: Populus Romanus Quirites, Torino 1974. 124 ss., per cui «il sistema romano dei sacra si era formato assai prima che si introducesse la giustapposizione fra publicus e privatus» (124).
[60] J. Linderski, The libri reconditi, cit., 219, evidenzia, contrariamente alla memorizzazione dei decreta, che la maggioranza dei responsa non veniva posta per iscritto: «The decreta were certainly preserved in priestly archives, but this will hardly have been the case with the “replies” of individual priests. In sharp contrast to the decreta they were not binding explications of the doctrine but merely opinions; and the opinion of one sacerdos could easily be contradicted by the opinion of another. Most of them were given orally and were never committed to writing; a few became famous and found their way into various antiquarian books de iure sacrorum, de iure pontificio, de iure augurali, and other similar works».
[61] Columella, Res rust. 2.21: ... pontifices negant segetem feriis saepiri debere; vetant quoque lanarum causa lavari oves nisi si propter medicinam. ... Ac ne vindemiam quidem cogi per religiones pontificum feriis licet nec ovis tondere, nisi si catulo feceris. Defrutum quoque facere et vinum defrutare licet. Uvas itemque olivas conditu legere licet. Pellibus oves vestiri non licet. In horto quicquid holerum causa facias, omne licet. Feriis publicis hominem mortuum sepeliri non licet. … Nos apud pontifices legimus fereis tantum denicalibus mulos iungere non licere, ceteris licere.
[62] L’utilizzo del termine è attestato dalle fonti non solo per i pontefici (ad es.: Livius 27.25.8, 31.9.7, 39.5.9; Plinius, Nat. hist. 8.206; Macrobius, Sat. 1.16.25), ma anche per gli auguri (ad es.: Cicero, De dom. 39; Livius 1.36.3).
[63] Sul costante ricorso alla negazione proprio del linguaggio sacerdotale, rinvio per tutti a F. Sini: Sua cuique civitati religio, cit., 227 ss., Diritto e documenti sacerdotali romani: verso una palingenesi, cit., § 5.
[64] Macrobius, Sat. 1.16.11: Scaevola denique consultus quid feriis agi liceret, respondit quod praetermissum noceret. Quapropter si bos in specum decidisset eumque pater familias adhibitis operis liberasset, non est visus ferias polluisse: nec ille qui trabem tecti fractam fulciendo ab imminenti vindicavit ruina (PH.E. Huschke, Iurisprudentiae anteiustinianae quae supersunt, cit., 15, fr. 12, ascrive al giurista l’ultima frase del testo, contra F.P. Bremer, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I. Liberae Reipublicae iuris consulti, Lipsiae 1896, 57, fr. 2.
[65] Sul pontefice-giurista: E.S. Gruen, The political allegiance of P. Mucius Scaevola, in Athenaeum 43, 1965, 321 ss.; G. Grosso, P. Mucio Scevola tra il diritto e la politica, in Archivio giuridico 175, 1968, 204 ss. (ora in Id., Tradizione e misura umana del diritto, Milano 1976, 105 ss.); A.H. Bernstein, Prosopography and the career of Publius Mucius Scaevola, in Classical Philology 67, 1972, 42 ss.; A. Guarino, La coerenza di Publio Mucio, Napoli 1981; M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, 2ª ed., Napoli 1982, 255 ss.; R.A. Bauman, Lawyers in Roman republican politics, cit., 230 ss.; A. Schiavone, Giuristi e nobili nella Roma repubblicana. Il secolo della rivoluzione scientifica nel pensiero giuridico antico, Roma-Bari 1987, 3 ss.; Id., Publio Mucio e la nascita della letteratura giuridica romana, in Roma tra oligarchia e democrazia. Classi sociali e formazione del diritto in epoca medio-repubblicana. Atti del convegno di diritto romano. Copanello 28-31 maggio 1986, Napoli 1988, 139 ss.; Id., Linee di storia del pensiero giuridico romano, Torino 1994, 41 ss.; F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz und Rechtsliteratur. I. Einleitung Quellenkunde Frühzeit und Republik, München 1988, 547 s.; A. Palma, Publio Mucio Scevola e la ‘dote di Licinia’, in Fraterna munera. Studi in onore di L. Amirante, Salerno 1997, 323 ss.
[66] Cicero, De leg. 2.57: Declarat enim Ennius de Africano: “Hic est ille situs”. Vere, nam siti dicuntur ii, qui conditi sunt. Nec tamen eorum ante sepulcrum est quam iusta facta et porcus caesus est. Et quod nunc communiter in omnibus sepultis venit usu, ut humati dicantur, id erat proprium tum in iis, quos humus iniecta contexerat, eumque morem ius pontificale confirmat. Nam priusquam in ossa iniecta gleba est, locus ille ubi crematum est corpus, nihil habet religionis; iniecta gleba tum et illic humatus est, et sepulcrum vocatur, ac tum denique multa religiosa iura conplectitur; Varro, De ling. Lat. 5.23: Terra, ut putant, eadem et humus; ideo Ennium in terram cadentis dicere: ‘cubitis pinsibant humum’: et quod terra sit humus, ideo is humatus mortuus, qui terra obrutus; ab eo qui Romanus combustus est, <si> in sepulc[h]rum eius abiecta gleba non est aut si os exceptum est mortui ad familiam purgandam, donec in purgando humo est opertum (ut pontifices dicunt, quod inhumatus sit), familia funesta manet; vedi anche Plinius, Nat. hist. 7.187: Ipsum cremare apud Romanos non fuit veteris instituti: terra condebantur. At postquam longinquis bellis obrutos erui cognovere, tunc institutum. Et tamen multae familiae priscos servavere ritus, sicut in Cornelia nemo ante Sullam dictatorem traditur crematus, idque voluisse veritum talionem eruto C. Mari cadavere. [Sepultus vero intellegatur quoquo modo conditus, humatus vero]. Sulla prevalenza della inumazione sul rito della incinerazione in Roma: F. de Visscher, Locus religiosus, in Atti del congresso internazionale di diritto romano e di storia del diritto. Verona 27–28–IX–1948, a cura di G. Moschetti, III, Milano 1953, 179 ss.; Id., Le droit des tombeaux romains, Milano 1963, 21 ss.; G. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche. Contributo alla storia della famiglia romana. II, Napoli 1980, 59 ss.; Id., Sepolcri e riti di sepoltura delle antiche ‘gentes’, in Ricerche sulla organizzazione gentilizia romana, a cura di G. Franciosi, I, Napoli 1984, 35 ss. (ora in Id., Opuscoli. Scritti di G. Franciosi, II, a cura di L. Monaco, A. Franciosi, Napoli 2012, 407 ss.); L. D’Amati, La morte e il mare: riflessioni a margine di Cic. Leg. 2.22.57, in Archivio giuridico 155, 2023, 11 ss.
[67] Generalmente l’ultima frase del brano è attribuita al pontefice-giurista (PH.E. Huschke, Iurisprudentiae anteiustinianae quae supersunt, cit., 7, fr. 4; F.P. Bremer, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, cit., 33, fr. 7; B. Albanese, P. Mucio Scevola pontefice e l’uccisione sulla nave, cit., 41 = Id., Scritti giuridici, IV, cit., 713), ma vedi L. D’Amati, La morte e il mare, cit., 25, la quale riconosce la paternità a Cicerone.
[68] Cicero, De div. 1.32 (testo infra, § 6) si veda anche il § prec., sebbene in riferimento al vicinato del sacerdote: ... cum vicini omnes ad eum de rebus suis referrent, erat in magno nomine et gloria.
[69] Gellius, Noct. Att. 16.4.4.
[70] Livius 1.20.7: Iovi Elicio aram in Aventino dicavit, deumque consuluit auguriis quae suspicienda essent.
[71] Sulla riforma religiosa di Numa Pompilio, si veda spec.: J.B. Carter, The Religion of Numa, London 1906; F. Ribezzo, Numa Pompilio e la riforma etrusca della religione primitiva di Roma, in Rendiconti della Accademia Nazionale dei Lincei ser. VIII, 5, 1950, 553 ss.; S. Accame, I re di Roma nella leggenda e nella storia, 2ª ed., Napoli s.d. [1959?], 219 ss.; E.M. Hooker, The Significance of Numa’s Religious Reforms, in Numen 10, 1963, 87 ss.; G.B. Pighi, La religione romana, Torino 1967, 31 s.; F. Della Corte, Numa e le streghe, in Maia 26, 1974, 3 ss.; M.A. Levi, Il re Numa e i ‘penetralia pontificum’, in Rendiconti dell’Istituto Lombardo. Classe di Lettere e Scienze morali e storiche 115, 1981, 161 ss.; J. Martínez-Pinna, La reforma de Numa y la formación de Roma, in Gerión 3, 1985, 97 ss.; L. Fascione, Il mondo nuovo. La costituzione romana nella ‘Storia di Roma arcaica’ di Dionigi d’Alicarnasso, I, Napoli 1988, 128 ss.; G. Capdeville, Les institutions religieuses de la Rome primitive d’après Denys d’Halicarnasse, in Pallas 39, 1993, 153 ss.; I.G. Mastrorosa, Numa artisan de la religion civique dans l’historiographie romaine : la modélisation de Tite-Live, in Diuina studia. Mélanges de religion et de philosophie anciennes offerts à F. Guillaumont, a cura di É. Gavoille e S. Roesch, Bordeaux 2018, 127 ss.
[72] Come evidenzia M.B. Wilson, Dictator. The Evolution of the Roman Dictatorship, Ann Arbor, Michigan 2021, 115, si tratta di un caso in cui la richiesta di un dittatore non fu frutto dell’azione senatoria e «the impetus was usually placed with the city at large».
[73] Livius 4.31.4: Maesta civitas fuit vinci insueta; odisse tribunos, poscere dictatorem: in eo verti spes civitatis. Et cum ibi quoque religio obstaret, ne non posset nisi ab consule dici dictator, augures consulti eam religionem exemere.
[74] Vedi a titolo esemplificativo: Livius 29.20.10; Macrobius, Sat. 1.16.24. Oltre a referre si rinviene anche il verbo reiciere, con il senso sempre di “rinviare”: Livius 41.16.1: senatusque ad pontificum collegium reiecisset.
[75] Accezioni in F. Spoth, v. refero, in Thesaurus Linguae Latinae, XI.2, Stuttgart-Leipzig 2016, coll. 602 ss., spec. coll. 616 s. per il significato di «ad hominum [...] auctoritatem, qua aliquid probari, decerni, iudicari possit».
[76] Ex multis:Cicero, In Pis. 13, Phil. 3.39; Sallustius, Catil. 29.1, 51.43; Livius 2.27.2, 4.12.4, 5.30.8, 8.18.5, 38.54.3, 42.3.5, 43.11.12.
[77] Livius 38.44.5-6.
[78] Doveva trattarsi di una formula ufficiale, ad es., Livius 41.16.6: Tusculi facem in caelo visam, Gabiis aedem Apollinis et privata aedificia complura, Graviscis murum portamque de caelo tacta ea patres procurari uti pontifices censuissent iusserunt; vedi anche Livius 31.12.4, per cui nelle disposizioni impartite dal senato nel 200 a.C., in seguito ad un furto a danno del tesoro di Proserpina a Locri, qualora si ritenesse necessario compiere sacrifici espiatori, si prescriveva di conformarsi a quanto deciso dai pontefici nel 204 a.C.: si quo minus inventum foret expleri, ac piacularia, si videretur, sicut ante pontifices censuissent, fieri.
[79] Nonius Marcellus, De comp. doct. 12, p. 519 M.: Censere et arbitrari veteres cognatione quadam socia ac similia verba esse voluerunt. Varro Rerum Humanarum lib. XX: ‘quod verbum censeo et arbitror idem poterat ac valebat’. Plautus in Rudente: non vidisse undas <me> maiores censeo. Idem in Menaechmis: demam hanc coronam atque abiciam ad laevam manum, ut, si sequentur, me hac abisse censeant. Varro de Vita Populi Romani lib. II: ‘itaque quod hos arbitros instituerunt populi, censores appellarunt: idem enim valet censere et arbitrari’. Cfr. Paul. Fest., excerpt. de verb. sign., p. 47 L.: Censere nunc significat putare, nunc suadere, nunc decernere.
[80] H. Hoppe, v. censeo, in Thesaurus Linguae Latinae, III, Lipsiae 1908, coll. 786 ss.
[81] Livius 39.5.9 (testo infra, nt. 138). Sul principio ad religione non pertinere, si rinvia a L. Franchini, Principi di ius pontificium, in Religione e Diritto Romano. La cogenza del rito, a cura di S. Randazzo, Tricase 2015, 303 s.
[82] Livius 36.3.7-12: Consul deinde M’. Acilius ex senatus consulto ad collegium fetialium rettulit, ipsi ne utique regi Antiocho indiceretur bellum, an satis esset ad praesidium aliquod eius nuntiari; 8. et num Aetolis quoque separatim indici iuberent bellum, et num prius societas et amicitia eis renuntianda esset quam bellum indicendum. 9. Fetiales responderunt iam ante sese, cum de Philippo consulerentur, decrevisse nihil referre ipsi coram an ad praesidium nuntiaretur; 10. amicitiam renuntiatam videri, cum legatis totiens repetentibus res nec reddi nec satisfieri aequum censuissent; 11. Aetolos ultro sibi bellum indixisse, cum Demetriadem, sociorum urbem, 12. per vim occupassent, Chalcidem terra marique oppugnatum issent, regem Antiochum in Europam ad bellum populo Romano inferendum traduxissent. Per un’analisi giuridica della vicenda, G. Turelli, «Audi Iuppiter». Il collegio dei feziali nell’esperienza giuridica romana, Milano 2011, 203 ss., il quale evidenzia come in tal caso il collegio non rispose tramite decretum, in quanto il suo responsum «segue saldamente i binari tracciati dalla tradizione» (205).
[83] Ricordano la vicenda, ad esempio: Cicero, De har. resp. 37, 44; Seneca phil., Ad Luc. 97.2. In argomento, si veda: J.P.V.D. Balsdon, Fabula Clodiana, in Historia 15, 1966, 65 ss.; W.M.F. Rundell, Cicero and Clodius, cit., 303 ss.; D.F. Epstein, Cicero’s Testimony and the Bona Dea Trial, in Classical Philology 81, 1986, 229 ss.; P. Moreau, Clodiana Religio. Un procès politique en 61 av. J.-C., Paris 1982; D. Mulroy, The Early Career of P. Clodius Pulcher, cit., 165 ss.; H.H.J. Brouwer, Bona Dea: the sources and a description of the cult, Leiden 1989, 363 ss.; W.J. Tatum, Cicero and the Bona Dea scandal, in Classical Philology 85, 1990, 202 ss.; J. Spielvogel, P. Clodius Pulcher, cit., 58 ss.; E. Winsor Leach, Gendering Clodius, cit., 335 ss.; F. Van Haeperen, Le collège pontifical, cit., 243 s.; J. Lennon, Pollution and ritual impurity in Cicero’s De domo sua, in The Classical Quarterly 60, 2010, 427 ss., spec. 432 ss.; M. Ravizza, Pontefici e Vestali nella Roma Repubblicana, cit., 213 ss.
[84] Cicero, Ad Att. 1.13.3: ... postea rem ex senatus consulto ad virgines atque ad pontifices relatam idque ab iis nefas esse decretum...
[85] Macrobius, Sat. 1.16.28: ... quod Iulius Modestus adfirmat Messala augure consulente pontifices, an nundinarum Romanorum Nonarumque dies feriis tenerentur, respondisse eos nundinas sibi ferias non videri ...
[86] Livius 1.20.5: [i.e. Numa] Pontificem deinde Numam Marcium, Marci filium, ex patribus legit eique sacra omnia exscripta exsignataque attribuit, quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur. In argomento, C.M.A. Rinolfi, Livio 1.20.5-7: pontefici, sacra, ius sacrum, in Diritto @ Storia 4, 2005, § 3, http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Rinolfi-Pontefici-sacra-ius-sacrum.htm; Ead., Testamentorum autem genera initio duo fuerunt, cit., 141 s.
[87] Livius 31.8.3: consultique fetiales ab consule Sulpicio, bellum quod indiceretur regi Philippo utrum ipsi utique nuntiari iuberent, an satis esset in finibus regni quod proximum praesidium esset eo nuntiari. Fetiales decreverunt utrum eorum fecisset recte facturum.
[88] Cicero, De leg. 2.58: ... statuit enim collegium locum publicum non potuisse privata religione obligari; Macrobius, Sat. 1.16.24, testo supra, nt. 28; la medesima notizia è offerta anche da Gellio, ma le prescrizioni pontificali sono espresse con il verbo decernere: Gellius, Noct. Att. 5.17.2: Tum senatus eam rem ad pontifices reiecit, ut ipsi, quod videretur, statuerent. Pontifices decreverunt nullum his diebus sacrificium recte futurum.
[89] Livius 41.16.2: Id cum ad senatum relatum esset, senatusque ad pontificum collegium reiecisset, pontificibus, quia non recte factae Latinae essent, instaurari Latinas placuit, Lanuvinos, quorum opera instaurandae essent, hostias praebere.
[90] Cicero, De dom. 136: Sed, ut revertar ad ius publicum dedicandi, quod ipsi pontifices semper non solum ad suas caerimonias sed etiam ad populum iussa accomodaverunt, habetis in commentariis vestris C. Cassium Censorem de signo Concordiae dedicando ad pontificum collegium retulisse eique M. Aemilium pontificem maximum pro collegio respondisse, nisi eum populus Romanus nominatim praefecisset atque eius iussu faceret, non videri eam posse recte dedicari.
[91] Per il cursus honorum di C. Cassius Longinus, T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 396, 404, 409, 416, 421, 425, 429, 449.
[92] In materia, da ultimo, F.G. Cavallero, Ius publicum dedicandi (e consecrandi): il diritto di dedica a Roma, in Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité 130, 2018, 219 ss.
[93] Cicero, De dom. 130: Q. Marcius censor signum Concordiae fecerat idque in publico conlocarat. Hoc signum C. Cassius censor cum in curiam transtulisset, collegium vestrum consuluit num quid esse causae videretur quin id signum curiamque Concordiae dedicaret.
[94] Cicero, De dom. 136: Cum Licinia, virgo Vestalis summo loco nata, sanctissimo sacerdotio praedita, T. Flaminino Q. Metello consulibus aram et aediculam et pulvinar sub Saxo dedicasset, nonne eam rem ex auctoritate senatus ad hoc collegium Sex. Iulius praetor rettulit? cum P. Scaevola pontifex maximus pro collegio respondit, QVOD IN LOCO PVBLICO LICINIA GAI FILIA INIVSSV POPVLI DEDICASSET, SACRVM NON VIDERIER.
[95] Il iussum populi era considerato dalla giurisprudenza pontificale quale prerequisito anche per vota (Livius 22.10.1) e dona (Livius 4.20.4) pubblici: F. Sini, Diritto e documenti sacerdotali romani: verso una palingenesi, cit., § 5, Id., Religione e poteri del popolo in Roma repubblicana, in Diritto @ Storia 6, 2007, §§ 5 s., https://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Sini-Religione-poteri-Popolo-Roma-repubblicana.htm; Id., La règle «iniussu populi voveri non posse»: le peuple et la religion dans la Rome républicaine, in Diritto @ Storia 9, 2010, https://www.dirittoestoria.it/9/Tradizione-Romana/Sini-Iniussu-populi-voveri-non-posse.htm, il quale dimostra l’antichità del principio.
[96] F.A. Brause, Librorum de disciplina augurali, cit., 44 s., fr. 3, il quale colloca il frammento tra i commentari; P. Regell, Fragmenta auguralia, cit., 14; F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., 107 s., che inserisce la materia tra i libri augurales.
[97] Il ricordo è conservato ancora in Servius Dan., In Verg. Aen. 3.537: Sed multi de libris augurum tractum tradunt: iugetis enim dicitur augurium quod ex iunctis iumentis fiat. Observatur enim, ne prodituro magistratui disiunctis bobus plaustrum obviam veniat.
[98] F. Sini, Diritto e documenti sacerdotali romani: verso una palingenesi, cit., § 5.
[99] La definizione è offerta da Paul. Fest., excerpt. de verb. sign., p. 92 L.: Iuges auspicium est, cum iunctum iumentum stercus fecit.
[100] G. Dumézil, La religion romaine archaïque, 2ª ed., Paris 1974, 99 ss., il quale individua il precetto in esame in parte dell’iscrizione del cippus vetustissimus del Foro romano.
[101] A. Baumgartner, v. praecipio, in Thesaurus Linguae Latinae, X.2, Lipsiae 1983, coll. 441 ss.
[102] In tal senso G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 101. Calatores augurum sono ricordati da Svetonio (Gramm. 12: Cornelius Epicadus, L. Cornelii Sullae dictatoris libertus calatorque in sacerdotio augurali ...) e da un’epigrafe (CIL VI.2187: L(ucius) Iunius Silani l(ibertus) Paris, dispe(n)s(ator), calator augur(um), vixit annos XXXII).
[103] Cicero, De off. 3.65-67: Ac de iure quidem praediorum sanctum apud nos est iure civili ut in iis vendendis vitia dicerentur quae nota essent venditori. Nam cum ex duodecim tabulis satis esset ea praestari quae essent lingua nuncupata quae qui infitiatus esset dupli poenam subiret a iuris consultis etiam reticentiae poena est constituta. Quidquid enim est in praedio vitii id statuerunt si venditor sciret nisi nominatim dictum esset praestari oportere. 66. Ut cum in arce augurium augures acturi essent iussissentque T. Claudium Centumalum qui aedes in Caelio monte habebat demoliri ea quorum altitudo officeret auspiciis Claudius proscripsit insulam [vendidit] emit P. Calpurnius Lanarius. Huic ab auguribus illud idem denuntiatum est. Itaque Calpurnius cum demolitus esset cognossetque Claudium aedes postea proscripsisse quam esset ab auguribus demoliri iussus arbitrum illum adegit quidquid sibi dare facere oporteret ex fide bona. M. Cato sententiam dixit huius nostri Catonis pater. Ut enim ceteri ex patribus sic hic qui illud lumen progenuit ex filio est nominandus. Is igitur iudex ita pronuntiavit cum in vendundo rem eam scisset et non pronuntiasset emptori damnum praestari oportere. 67. Ergo ad fidem bonam statuit pertinere notum esse emptori vitium quod nosset venditor. Lo stesso episodio è offerto da Valerius Maximus 8.2.1: Claudius Centumalus ab auguribus iussus altitudinem domus suae, quam in Caelio monte habebat, summittere, quia his ex arce augurium capientibus officiebat, vendidit eam Calpurnio Lanario nec indicavit quod imperatum a collegio augurum erat. A quibus Calpurnius demoliri domum coactus M. Porcium Catonem inclyti Catonis patrem arbitrum † cum Claudio adduxit formulam, quidquid sibi dare facere oporteret ex fide bona. Cato, ut est edoctus de industria Claudium praedictum sacerdotum suppressisse, continuo illum Calpurnio damnavit, summa quidem cum aequitate, quia bonae fidei venditorem nec conmodorum spem augere nec incommodorum cognitionem obscurare oportet.
[104] Intorno alla ratio dell’ordine augurale, non pare da accettare la visione di L. Richardson, jr., Honos et Virtus and the Sacra Via, in American Journal of Archaeology 82, 1978, 240 ss., per cui l’edificio copriva la visione del mons Albanus (critiche in A. Ziolkowski, Between Geese and the Auguraculum: The Origin of the Cult of Juno on the Arx, in Classical Philology 88, 1993, 214 s.; R. Taylor, Watching the Skies: Janus, Auspication, and the Shrine in the Roman Forum, in Memoirs of the American Academy in Rome 45, 2000, 20 nt. 92).
[105] Come ha evidenziato R. Fiori, Bona fides. Formazione, esecuzione e interpretazione del contratto nella tradizione civilistica (Parte seconda), in Aa.Vv., Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato, IV, a cura di Id., Napoli 2011, 119 ss., si tratta del primo esempio in cui in un iudicium bonae fidei si applicò l’interpretazione giurisprudenziale che ampliava la previsione decemvirale inserendo la reticentia sui vitia praedii.
[106] Festus, De verb. sign., p. 466 L.: Summissiorem aliis aedem Honoris et Virtutis C. Marius fecit, ne, si forte officeret auspiciis publicis, augures eam demoliri cogerent. Per questo tempio: Cicero, Pro Sest. 116; Vitruvius, De arch. 3.2.4; 7, praef.
[107] Livius 23.31.13: Cui ineunti consulatum cum tonuisset, vocati augures vitio creatum videri pronuntiaverunt.
[108] Cicero, De nat. deor. 2.10-11: Atqui et nostrorum augurum et Etruscorum haruspicum disciplinam P. Scipione C. Figulo consulibus res ipsa probavit. Quos cum Ti. Gracchus consul iterum crearet, primus rogator, ut eos rettulit, ibidem est repente mortuus. Gracchus cum comitia nihilo minus peregisset remque illam in religionem populo venisse sentiret, ad senatum rettulit. Senatus quos ad soleret referendum censuit. Haruspices introducti responderunt non fuisse iustum comitiorum rogatorem. Tum Gracchus, ut e patre audiebam, incensus ira: ‘ita ne vero, ego non iustus, qui et consul rogavi et augur et auspicato? 11. An vos Tusci ac barbari auspiciorum populi Romani ius tenetis et interpretes esse comitiorum potestis?’ Itaque tum illos exire iussit. Post autem e provincia litteras ad collegium misit, se cum legeret libros recordatum esse vitio sibi tabernaculum captum fuisse hortos Scipionis, quod, cum pomerium postea intrasset habendi senatus causa, in redeundo cum idem pomerium transiret auspicari esset oblitus; itaque vitio creatos consules esse. A proposito del vizio augurale, R. Fiori, La convocazione dei comizi centuriati: diritto costituzionale e diritto augurale, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Rom. Abt. 131, 2014, 164 ss.
[109] Cicero, Ad Quint. fr. 2.2.1: Sed habet profecto quiddam Sardinia appositum ad recordationem praeteritae memoriae. Nam ut ille Gracchus augur, postea quam in istam provinciam venit, recordatus est quid sibi in campo Martio comitia consulum habenti contra auspicia accidisset, sic tu mihi videris in Sardinia de forma Numisiana et de nominibus Pomponianis in otio recogitasse.
[110] T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 442.
[111] Valerius Maximus 1.1.3; parla genericamente di libri letti dal governatore nella sua provincia Cicero, De nat. deor. 2.11 (P. Regell, Fragmenta auguralia, cit., 19).
[112] Cicero, De nat. deor. 2.11: Augures rem ad senatum; senatus ut abdicarent consules; abdicaverunt; Valerius Maximus 1.1.3: ... eaque re ab auguribus ad senatum relata ... Recentemente, G. Greco, Permanenza e instabilità nei precetti di derivazione sacrale, cit., 15, rinviene nella vicenda motivazioni di carattere politico, in quanto il “ripensamento tardivo” di Tiberio Gracco ebbe come effetto finale l’abdicazione dei consoli, uno dei quali, Scipione Nasica, militava nella fazione concorrente.
[113] In alcuni casi, nonostante l’indeterminatezza delle fonti, si può sostenere, con un certo grado di convincimento, che l’atto pontificale faceva seguito alla richiesta magistratuale: Livius 39.22.4: Addita et unum diem supplicatio est ex decreto pontificum, quod aedis Opis in Capitolio de caelo tacta erat. Hostiis maioribus consules procurarunt urbemque lustraverunt; 40.45.2: Itaque Latinas † mox † subito coorta et intolerabilis tempestas in monte turbavit, instaurataeque sunt ex decreto pontificum.
[114] Livius 27.25.7-9: Marcellum aliae atque aliae obiectae animo religiones tenebant; in quibus quod, cum bello Gallico ad Clastidium aedem Honori et Virtuti vovisset, dedicatio eius a pontificibus impediebatur 8. quod negabant unam cellam amplius quam uni deo recte dedicari, quia si de caelo tacta aut prodigii aliquid in ea factum esset, 9. difficilis procuratio foret, quod utri deo res divina fieret sciri non posset; neque enim duobus nisi certis deis rite una hostia fieri; Valerius Maximus 1.1.8: In qua cum M. Marcellus quintum consulatum gerens templum Honori et Virtuti Clastidio prius, deinde Syracusis potitus nuncupatis debitum votis consecrare vellet, a collegio pontificum inpeditus est, negante unam cellam duobus diis recte dicari: futurum enim, si quid prodigii in ea accidisset, ne dinosceretur utri rem divinam fieri oporteret, nec duobus nisi certis diis una sacrificari solere. Sull’episodio, F. Van Haeperen, Le collège pontifical, cit., 251, e L. Franchini, Aspetti giuridici del pontificato romano, cit., 187 ss.; C.M.A. Rinolfi, Cicerone e la “segretezza” della giurisprudenza pontificale, in Diritto @ Storia 15, 2017, § 5 (http://www.dirittoestoria.it/15/tradizione/Rinolfi-Cicerone-segretezza-giurisprudenza-pontificale.htm).
[115] Gellius, Noct. Att. 2.28.3.
[116] Livius 31.9.7.
[117] Così: F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur, cit., 120; F. Nasti, P. Licinius Crassus Dives (cos. 205), cit., 284.
[118] J. Scheid, Les incertitudes de la voti sponsio. Observations en marge du ver sacrum de 217 av. J.C., in Mélanges de droit romain et d’histoire ancienne. Hommage à la mémoire de A. Magdelain, a cura di M. Humbert e Y. Thomas, Paris 1998, 421: «Les pontifes ne furent donc pas saisis, mais au contraire ils prirent l’initiative d’avertir les consuls de l’échéance du vœu. Cette initiative, confirmée par des interventions semblables qu’ils faisaient lors des débats sénatoriaux du début d’année, prouve qu’ils possédaient la cura de tous les vœux courants».
[119] Secondo L. Franchini, Il ver sacrum. Considerazioni in merito a regime e sviluppo storico di un antico rito migratorio, in Jus- Online 4, 2020, 155, la celebrazione fu differita così a lungo in virtù della “tradizione stessa del ver sacrum”, in quanto, per ciò che attiene ai nati umani, il rito da cruento era divenuto migratorio: «l’osservanza di quel termine, solitamente di molto posteriore rispetto al momento in cui si era verificata la condizione, era stata imposta dalla necessità di aspettare che i consacrati al dio, prima di essere espulsi dalla comunità, fossero diventati completamente adulti».
[120] Livius 33.44.1-2: Provinciis ita distributis, consules priusquam ab urbe proficiscerentur ver sacrum ex decreto pontificum iussi facere, 2. quod A. Cornelius Mammula praetor voverat de senatus sententia populique iussu Cn. Servilio C. Flaminio consulibus.
[121] Livius 34.44.1-3: Ver sacrum factum erat priore anno, M. Porcio et L. Valerio consulibus. 2. Id cum P. Licinius pontifex non esse recte factum collegio primum, deinde ex auctoritate collegii patribus renuntiasset, de integro faciendum arbitratu pontificum censuerunt, ludosque magnos qui una voti essent tanta pecunia quanta adsoleret faciendos: 3. ver sacrum videri pecus quod natum esset inter kalendas Martias et pridie kalendas Maias P. Cornelio et T<i>. Sempronio consulibus. Per questioni giuridiche legate alla vicenda, spec.: F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur, cit., 126 ss.
[122] Sull’episodio, mi sia concesso di rinviare a C.M.A. Rinolfi, «Rex, quia potentissimus». Il re romano tra diritto e religione, in Diritto @ Storia 17, 2019, § 6, https://www.dirittoestoria.it/17/tradizione/Rinolfi-Rex-quia-potentissimus.htm) (bibl. ivi).
[123] Profili aneddotici del sacerdote sono offerti da Cicero, De div. 1.31, e Dionysius Halicarnassensis 3.70, su cui G. Piccaluga, Attus Navius, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni 40, 1969, spec. 156 ss. Intorno alla storicità del personaggio, D. Briquel, Tarquins de Rome et idéologie indo-européenne: (II) Les vicissitudes d’une dynastie, in Revue de l’histoire des religions 215, 1998, 423 s., sostiene che, sebbene il racconto sia leggendario, nulla osta che un augure celebre sia esistito, e «il n’est pas étonnant qu’on ait accumulé sur son nom les prodiges les plus étonnants».
[124] Livius 1.36.1-2: Muro quoque lapideo circumdare urbem parabat, cum Sabinum bellum coeptis intervenit. Adeoque ea subita res fuit, ut prius Anienem transirent hostes, quam obviam ire ac prohibere exercitus Romanus posset. 2. Itaque trepidatum Romae est, et primo dubia victoria magna utrimque caede pugnatum est. Reductis deinde in castra hostium copiis datoque spatio Romanis ad conparandum de integro bellum Tarquinius, equitem maxime suis deesse viribus ratus ad Ramnes, Titienses, Luceres, quas centurias Romulus scripserat, addere alias constituit suoque insignes relinquere nomine.
[125] Dionysius Halicarnassensis 3.71.1: Οὗτος ὁ Νέβιος βουλομένῳ ποτὲ τῷ Ταρκυνίῳ τρεῖς φυλὰς ἑτέρας ἀποδεῖξαι νέας ἐκ τῶν ὑφ´ αὑτοῦ πρότερον κατειλεγμένων ἱππέων καὶ ποιῆσαι τὰς ἐπιθέτους φυλὰς ἑαυτοῦ τε καὶ τῶν ἰδίων ἑταίρων ἐπωνύμους μόνος ἀντεῖπε κατὰ τὸ καρτερόν, οὐκ ἐῶν κινεῖν τῶν ὑπὸ Ῥωμύλου κατασταθέντων οὐθέν (tr. ingl. di E. Cary–E. Spelman, II, Cambridge, Mass.-London 1961, 253: «This Nevius, when Tarquinius once desired to create three new tribes out of the knights he had previously enrolled, and to give his own name and the names of his personal friends to these additional tribes, alone violently opposed it and would not allow any of the institutions of Romulus to be altered»). Si parla di tribù anche in Festus, De verb. sign., pp. 168 e 170 L.: ... Nam cum Tarquinius Priscus institutas tribus a Romulo mutare vellet, deterrereturque ab Atto per augurium ...
[126] Livius 1.36.3: Id quia inaugurato Romulus fecerat, negare Attus Navius, inclitus ea tempestate augur, neque mutari neque novum constitui, nisi aves addixissent, posse. Cfr. Lactantius, Div. inst. 2.8, dove Atto Navio sembra ammonire Tarquinio circa la necessità di un’operazione augurale per avviare la riforma.
[127] Dionysius Halicarnassensis 3.71.2-5; Livius 1.36.4. Florus, Epit. 1.5.2; Augustinus Hipponensis, De civ. Dei 10.16.2.
[128] Livius 1.36.7-8: Neque tum Tarquinius de equitum centuriis quicquam mutavit; numero alterum tantum adiecit, ut mille et octingenti equites in tribus centuriis essent - posteriores modo sub iisdem nominibus, 8. qui additi erant, appellati sunt -, quas nunc, quia geminatae sunt, sex vocant centurias; Granius Licinianus, Hist. fragm. 26.12: Verum de equitibus non omittam, quos Tarquinius duplic[a]vit, ut <p>riores equites binos equos in proelium ducerent (ed. N. Criniti, 1981, p. 12); Liv. Perioch. 1b, p. 2 ed. O. Rossbach: ... equitum centurias ampliavit ... Cfr. Dionysius Halicarnassensis 3.71.5, il quale dice solo che, dopo il prodigio, il re per prima cosa abbandonò gli intenti di riforma.
[129] Cicero, De div. 1.32.
[130] Cicero, De leg. 1.23: Est igitur, quoniam nihil est ratione melius, eaque est et in homine et in deo, prima homini cum deo rationis societas. Inter quos autem ratio, inter eosdem etiam recta ratio [et] communis est: quae cum sit lex, lege quoque consociati homines cum dis putandi sumus. Inter quos porro est communio legis, inter eos communio iuris est. Quibus autem haec sunt inter eos communia, ei civitatis eiusdem habendi sunt. Si vero isdem imperiis et potestatibus parent, multo iam magis parent [autem] huic caelesti discriptioni mentique divinae et praepotenti deo, ut iam universus sit hic mundus una civitas communis deorum atque hominum existimanda. Et quod in civitatibus ratione quadam, de qua dicetur idoneo loco, agnationibus familiarum distinguuntur status, id in rerum natura tanto est magnificentius tantoque praeclarius, ut homines deorum agnatione et gente teneantur; De fin. bon. et mal. 3.19.64: Mundum autem censent regi numine deorum, eumque esse quasi communem urbem et civitatem hominum et deorum, et unum quemque nostrum eius mundi esse partem; ex quo illud natura consequi, ut communem utilitatem nostrae anteponamus. In merito rimando a P. Catalano, Una civitas communis deorum atque hominum: Cicerone tra temperatio reipublicae e rivoluzioni, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 61, 1995, 723 ss.
[131] Per il collegamento etimologico tra il verbo rego e il sostantivo rex, vedi Cicero, De re publ. 1.41 s.: Omnis ergo populus, qui est talis coetus multitudinis qualem exposui, omnis civitas, quae est constitutio populi, omnis res publica, quae ut dixi populi res est, consilio quodam regenda est, ut diuturna sit … 42. Deinde aut uni tribuendum est, aut delectis quibusdam, aut suscipiendum est multitudini atque omnibus. Quare cum penes unum est omnium summa rerum, regem illum unum vocamus, et regnum eius rei publicae statum (A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., 572).
[132] Cicero, De div. 1.89: Omnino apud veteres, qui rerum potiebantur, iidem auguria tenebant; ut enim sapere sic divinare regale ducebant: <ut> testis est nostra civitas, in qua et reges augures et postea privati eodem sacerdotio praediti rem publicam religionum auctoritate rexerunt.
[133] Cicero, De leg. 2.31: Maximum autem et praestantissimum in re publica ius est augurum cum auctoritate coniunctum. Neque vero hoc, quia sum ipse augur, ita sentio, sed quia sic existimare nos est necesse. Quid enim maius est, si de iure quaerimus, quam posse a summis imperiis et summis potestatibus comitiatus et concilia vel instituta dimittere vel habita rescindere? quid gravius quam rem susceptam dirimi, si unus augur ‘alio die’ dixerit? quid magnificentius quam posse decernere, ut magistratu se abdicent consules? quid religiosius quam cum populo, cum plebe agendi ius aut dare aut non dare? quid? leges non iure rogatas tollere, ut Titiam decreto conlegii, ut Livias consilio Philippi consulis et auguris? nihil domi, nihil militiae per magistratus gestum sine eorum auctoritate posse cuiquam probari?
[134] In altri luoghi l’oratore ricorre all’archetipo dell’auctoritas (uno dei concetti da lui prediletti: J.P.V.D. Balsdon, Auctoritas, dignitas, otium, in The Classical Quarterly 10, 1960, 43 ss.) per indicare il prestigio pontificale (ad es.: De dom. 2, 44 s., 137; De har. resp. 14).
[135] La votazione della norma fu funestata da un prodigio, e perciò, secondo Iulius Obsequiens, vi fu una pronuncia degli aruspici: Prodig. 46: Sex. <Ti>tius tribunus plebis de agris dividendis populo cum repugnantibus collegis pertinaciter legem ferret, corvi duo numero in alto volantes ita pugnaverunt supra contionem, ut rostris unguibusque lacerarentur. Aruspices sacra Apollin<i> litanda et de lege, quae ferebatur, supersedendum pronuntiarunt. Sul plebiscito, G. Rotondi, Leges publicae populi Romani. Elenco cronologico con una introduzione sull’attività legislativa dei comizi romani, Milano 1912 [rist., Hildesheim 1962], 333.
[136] Non va dimenticata, specialmente in età repubblicana, la prossimità dei sacerdoti al potere politico che sta alla base della loro stessa auctoritas: «les prêtres romains sont experts avant tout en vertu de leurs compétences générales d’aristocrates, habitués qu’ils sont à célébrer les cultes à titre privé comme à titre public, à débattre au Sénat des affaires religieuses, à pratiquer quotidiennement le droit en conseillant leurs clients ou en agissant en justice. Car, loin de se consacrer à leur seule fonction sacerdotale et à la seule étude du droit sacré, les prêtres romains sont d’abord, sous la République, des aristocrates qui gouvernent la cité» (Y. Berthelet, Légitimer les experts religieux, sous la République romaine, in Hypothèses 14, 2010, 119 ss., cit. a 128).
[137] L’auctoritas è nozione non univoca (così, ad es., A. Magdelain, «Auctoritas rerum», in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité 5, 1950, 127 ss., ora in Id., Jus imperium auctoritas, cit., 685 ss.); per i vari significati si veda K. Münscher, v. auctoritas, in Thesaurus Linguae Latinae, II, Lipsiae 1903, coll. 1213 ss. Tra le ultime opere in materia, si segnala F. Santangelo, Priestly auctoritas in the Roman Republic, in The Classical Quarterly 63, 2013, 743 ss., A.I. Clemente Fernández, La auctoritas romana, Madrid 2014, e Y. Berthelet, Gouverner avec les dieux. Autorité, auspices et pouvoir, sous la République romaine et sous Auguste, Paris 2015, spec. 18 ss., il quale pone il concetto in connessione all’auctoritas di Giove.
[138] Tra gli esempi delle fonti: Livius 22.9.11: Senatus, quoniam Fabium belli cura occupatura esset, M. Aemilium praetorem ex collegi[o] pontificum sententia omnia ea ut mature fiant, curare iubet; 39.5.9 s.: Senatus pontificum collegium consuli iussit num omne id aurum in ludos consumi necesse esset. Cum pontifices negassent ad religionem pertinere quanta impensa in ludos fieret, 10. senatus Fulvio quantum impenderet permisit, dum ne summam octoginta milium excederet.
[139] Livius 5.23.8-11: Agi deinde de Apollinis dono coeptum. Cui se decumam vovisse praedae partem cum diceret Camillus, 9. pontifices solvendum religione populum censerent, haud facile inibatur ratio iubendi referre praedam populum, ut ex ea pars debita in sacrum secerneretur. 10. Tandem eo, quod lenissimum videbatur, decursum est, ut, qui se domumque religione exsolvere vellet, cum sibimet ipse praedam aestumasset suam, decumae pretium partis in publicum deferret, 11. ut ex eo donum aureum, dignum amplitudine templi ac numine dei, ex dignitate populi Romani fieret. Il problema si ripropose successivamente riguardo ai beni immobili: Livius 5.25.7: Cum ea disceptatio, anceps senatui visa, delegata ad pontifices esset, adhibito Camillo visum collegio, quod eius ante conceptum votum Veientium fuisset et post votum in potestatem populi Romani venisset, eius partem decumam Apollini sacram esse (in merito all’espressione liviana che indica il bottino di guerra, J.M. Piquer Marí, Sui beni patrimoniali dello stato nell’antica Roma. La preda bellica, in Annali del Dipartimento Jonico, Taranto 2016, 438 ss., per cui in tale contesto la frase “praeda in potestatem populi Romani venisset” non si alluderebbe ancora a un concetto tecnico).
[140] A. Ziolkowski, The Temples of Mid-Republican Rome and their Historical and Topographical Context, Roma 1992, 21 s.
[141] Livius 9.46.6: aedem Concordiae in area Vulcani summa invidia nobilium dedicavit; coactusque consensu populi Cornelius Barbatus pontifex maximus verba praeire, cum more maiorum negaret nisi consulem aut imperatorem posse templum dedicare. Cfr. una diversa tradizione tramandata da Plinius, Nat. hist. 33.19: Flavius vovit aedem Concordiae, si populo reconciliasset ordines, et, cum ad id pecunia publice non decerneretur, ex multaticia faeneratoribus condemnatis aediculam aeream fecit in Graecostasi, quae tunc supra comitium erat, inciditque in tabella aerea factam eam aedem CCIIII annis post Capitolinam dedicatam, che per E. Pais, Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma, Serie prima, Roma 1915, 224 s., è “più degna di fede”, in quanto la versione liviana appare una anticipazione, laddove F.G. Cavallero, Ius publicum dedicandi (e consecrandi), cit., 229 nt. 91, riconosce autenticità alla notizia di Livio.
[142] C.M.A. Rinolfi, Livio 1.20.5-7, cit., nt. 94 e da ultimo F.G. Cavallero, Ius publicum dedicandi (e consecrandi), cit., 229 nt. 91.
[143] Vedi L. Loreto, La censura di Appio Claudio, l’edilità di Gneo Flavio e la razionalizzazione delle strutture interne dello Stato romano, in Atene e Roma 36, 1991, 181 ss., Gneo Flavio operò in termini di riorganizzazione dello spazio e del tempo, a fronte dei cambiamenti istituzionali e ideologici. Secondo F.M. Simón – F. Pina Polo, Concordia y libertas como polos de referencia religiosa en la lucha política de la república tardía, in Gerión 18, 2000, 278, l’edile in questa occorrenza volle “conmemorar y sacralizar” la sua idea di concordia, non collimante con la visione della nobilitas, del superamento delle diseguaglianze sociali e dell’ampliamento della partecipazione politica. Cfr., invece, E.M. Orlin, Temples, Religion, and Politics in the Roman Republic, Leiden 1997 [rist., Boston – Leiden 2002], 166, per cui Barbato non agì in accordo col senato, in quanto il consesso aveva appoggiato le istanze plebee, preoccupato per il «priestly control over the approval of dedicants» (vedi le critiche sollevate da F.G. Cavallero, Ius publicum dedicandi (e consecrandi), cit., 230 s.).
[144] Cicero, De re publ. 1.39, 3.43; intorno alla definizione ciceroniana, non è qui possibile dar conto della vasta letteratura che ha dato adito a discussioni, specie alla luce di una visione in chiave “contrattualistica-volontaristica” (G. Mancuso, Potere e consenso nell’esperienza costituzionale repubblicana, in Annali del Seminario Giuridico della Università di Palermo 41, 1991, 209 ss.; P. Catalano, Una civitas communis deorum atque hominum, cit., spec. 195; G. Lobrano, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, Torino 1996, 113 ss.; Id., La Respublica romana, municipale-federativa e tribunizia: modello costituzionale attuale, in Diritto @ Storia 3, 2004. https://www.dirittoestoria.it/3/Memorie/Organizzare-ordinamento/Lobrano-Res-publica-Romana-modello-costituzionale-attuale.htm; F. Vallocchia, Appunti su bonum et aequum e conventio-consensus tra ius e societas, in Diritto @ Storia 11, 2013, spec. § 3, https://www.dirittoestoria.it/11/memorie/Vallocchia-Bonum-aequum-societas.htm), o naturalistica (M. Varvaro, Iuris consensus e societas in Cicerone. Un’analisi di Cic., De rep., 1,25,39, in Annali del Seminario Giuridico della Università di Palermo 45, 1998, 445 ss.). In generale, tra le ultime opere, si veda S. Romeo, Populus e res publica. Riflessioni sulle categorie politiche del mondo antico, in Revista da Faculdade de Direito UFPR 66, Curitiba 2021, 33 ss.
[145] Ad es., Livius 8.35.1, 10.24.18 (così anche Cicero, Phil. 1.37, Ad fam. 12.7.1). Vedi invece Livius 10.21.15: Adversus quattuor populos duces consules illo die deligi meminissent. Se, nisi confideret eum consensu populi Romani consulem declaratum iri, qui haud dubie tum primus omnium ductor habeatur, dictatorem fuisse extemplo dicturum.
[146] In tal senso: G. Nocera, Il potere dei comizi e i suoi limiti, Milano 1940, 162 e nt. 2; C. Cascione, Consensus. Problemi di origine, tutela processuale prospettive sistematiche, Napoli 2003, 72 ss.; F.G. Cavallero, Ius publicum dedicandi (e consecrandi), cit., 231. Vedi, invece, A. Ziolkowski, The Temples of Mid-Republican Rome and their Historical and Topographical Context, cit., 228, il quale afferma che Barbato fu costretto da un plebiscito.
[147] Festus, De verb. sign., p. 198 L.
[148] Livius 9.46.7: Itaque ex auctoritate senatus latum ad populum est, ne quis templum aramve iniussu senatus aut tribunorum plebei partis maioris dedicaret. Vedi G. Rotondi, Leges publicae populi Romani, cit., 234 s.
[149] Vedi, in merito, P. Cerami, Iuris publici interpretatio e contentio de iure publico (a proposito di alcune riflessioni di Alberto Burdese), in Annali del Seminario Giuridico della Università di Palermo 59, 2016, 183 ss., per cui «il coordinamento fra i vari poteri costituzionali e le correlate forze sociali, in assenza di una capillare disciplina normativa dei rispettivi rapporti, si attuava concretamente e dinamicamente, caso per caso, nella misura in cui ciascun potere riusciva a opporsi o riteneva di doversi adeguare agli altri poteri, al fine di realizzare l’utilitas communis omnium, su cui era istituzionalmente incentrata la funzione ordinante della concordia, tanto a livello dei poteri costituzionali (concordia potestatum), quanto a livello dei gruppi sociali (concordia civium)» (204).
[150] Livius 37.51.1-6: Priusquam in provincias praetores irent, certamen inter P. Licinium maximum pontificem fuit et Q. Fabium Pictorem flaminem Quirinalem, quale patrum memoria inter L. Metellum et <A.> Postumium Albinum fuerat: 2. consulem illum cum C. Lutatio collega in Siciliam ad classem proficiscentem ad sacra retinuerat Metellus, pontifex maximus; 3. praetorem hunc, ne in Sardiniam proficisceretur, P. Licinius tenuit. Et in senatu et ad populum magnis contentionibus certatum, 4. et imperia inhibita ultro citroque, et pignera capta, et multae dictae, et tribuni appellati, et provocatum ad populum est. 5. Religio ad postremum vicit; ut dicto audiens esset flamen pontifici iussus; et multa iussu populi ei remissa.
[151] Per i rapporti tra magistratura e sacerdozi, con analisi della bibl. prec., si veda: F. Vallocchia, Sacerdozio, magistratura e popolo, in Diritto @ Storia 8, 2009, https://www.dirittoestoria.it/8/Memorie/Roma_Terza_Roma/Vallocchia-Sacerdozio-Magistratura-Popolo.htm; M. Ravizza, Su alcuni casi di collisione tra pontefice massimo e sacerdoti-magistrati, in Rivista di Diritto Romano 13, 2013, 1 ss., https://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano13Ravizza-Collisione.pdf.
[152] Così, A. Calonge, El Pontifex Maximus, cit., 15, interpreta il passaggio di Livius 37.51.4, “imperia inhibita”, ponendosi tra coloro che hanno rigettato l’idea (prospettata, ad es., da Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II.1, 3ª ed., Leipzig 1887, 18 ss., spec. 20 e nt. 5 = Id., Le droit public romain, III, tr. fr. di P.F. Girard, Paris 1893, 19, spec. 22 e nt. 2), che il pontefice massimo fosse munito di imperium magistratuale. Il primo a sostenere al atecnicità del termine imperium utilizzato nel passo liviano è P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, cit., 363 nt. 29, e 538 nt. 56, tra gli ultimi M. Ravizza, Su alcuni casi di collisione tra pontefice massimo e sacerdoti-magistrati, cit., 12 ss. Cfr. R.T. Ridley, The Absent Pontifex Maximus, in Historia 54, 2005, 275 ss., spec. 283, il quale legge la notizia in chiave di potestas di cui il pontefice massimo era rivestito.
[153] Suggestiva appare la teoria espressa da A.H.M. Jones in un lavoro postumo, The Criminal Courts of the Roman Republic and Principate, Oxford 1972, 11 s., (seguito, ad es., da M. Ravizza, Su alcuni casi di collisione tra pontefice massimo e sacerdoti-magistrati, cit., 7), per cui negli intervalli tra le varie adunanze del iudicium populi, in seguito a una sorta di patteggiamento tra le parti in causa, si modificava la proposta su cui il popolo avrebbe votato, subordinando la remissione della multa alla sottoposizione agli ordini impartiti dal pontefice.
[154] Secondo L. Franchini, Principi di ius pontificium, cit., 274, in tale circostanza «fu necessario preservare dall’ingerenza del potere politico, inteso come potere del magistrato, le prerogative del pontefice massimo, le quali, proprio perché per loro natura non assimilabili al potere magistratuale, incommensurabili rispetto ad esso sul piano giuridico, non tolleravano limitazioni di sorta».
[155] Si veda il caso di Sesto Giulio Cesare, flamine quirinale dal 58 al 46 a.C. ca., il quale in Spagna forse in qualità di tribuno militare nel 49, questore nell’anno successivo e, probabilmente promagistrato, in Siria nel 47-46 a.C. (T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, II. 99 B.C. – 31 B.C., New York 1952 [rist., Chico, Ca. 1984], 199, 264, 274, 289, 297, 304).
[156] Tacito riporta il testo in forma diretta in estrema sintesi (A. Balbo, Oratoria, religione e storiografia negli Annales di Tacito: il caso di Servio Maluginense, in Bollettino di Studi Latini 38, 2008, 609 ss., per una analisi degli aspetti retorici).
[157] Tacitus, Ann. 3.58.1: Inter quae, provincia Africa Iunio Blaeso prorogata, Servius Maluginensis flamen Dialis ut Asiam sorte haberet postulavit, frustra vulgatum dictitans non licere Dialibus egredi Italia, neque aliud ius su<u>m quam Martialium Quirinaliumque flaminum: porro, si hi duxissent provincias, cur Dialibus id vetitum? nulla de eo populi scita, non in libris caerimoniarum reperiri.
[158] Livius 40.42.8-11: De rege sacrific<ul>o sufficiendo in locum C<n>. Corneli Dolabellae contentio inter C. Servilium pontificem maximum fuit et L. Cornelium Dolabellam duumvirum navalem,quem ut inauguraret pontifex magistratu sese abdicare iubebat. 9. Recusantique id facere ob eam rem multa duumviro dicta a pontifice, deque ea, cum provocasset, certatum ad populum. 10. Cum plures iam tribus intro vocatae dicto esse audientem pontifici duumvirum iuberent, multamque remitti si magistratu se abdicasset, vitium de caelo, quod comitia turbaret, intervenit. 11. Religio inde fuit pontificibus inaugurandi Dolabellae. P. Cloelium Siculum inaugurarunt, qui secundo loco nominatus erat. Sulle varie questioni giuridiche suscitate da questo brano, specialmente intorno allo status giuridico del sacerdote captus ma non ancora inauguratus, L. Franchini, Aspetti giuridici del pontificato romano, cit., 168 s. nt. 252.
[159] Cicero, Phil. 11.18: Cum Aristonico bellum gerendum fuit P. Licinio L. Valerio consulibus. Rogatus est populus quem id bellum gerere placeret. Crassus consul, pontifex maximus, Flacco conlegae, flamini Martiali, multam dixit, si a sacris discessisset: quam multam populus Romanus remisit; pontifici tamen flaminem parere iussit.
[160] Tra coloro che hanno avvalorato l’inadeguatezza di una lettura del ius Romanum alla luce della visione statualista, vedi: P. Catalano: Populus Romanus Quirites, cit., 41 ss.; Id., La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone), cit., 673 ss.; G. Lobrano, Note su «diritto romano» e «scienze di diritto pubblico» nel XIX secolo, in Index 7, 1977, 66; Id., Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1982, 6 ss.; Id., Diritto pubblico romano e costituzionalismi moderni, Sassari 1990, 81 ss.; Id., Res publica res populi, cit., 42 ss.; Id., La alternativa attuale tra i binomi istituzionali: “persona giuridica e rappresentanza” e “società e articolazione dell’iter di formazione della volontà”. Una ìpo-tesi (mendeleeviana), in Diritto @ Storia 10, 2011-2012, spec. § 2, https://www.dirittoestoria.it/10/D&Innovazione/Lobrano-Persona-giuridica-rappresentanza-societa-formazione-volonta.htm; F. Sini, Dai documenti dei sacerdoti romani, cit., § 5; Id., Diritto e documenti sacerdotali romani: verso una palingenesi, cit., § 1.