Tradizione romana

 

 

image006 ATTILIO MASTROCINQUE

Già Professore ordinario

Università di Verona

 

Tarquinio Collatino e la proprietà del Campo Marzio

 

 

 

SOMMARIO: 1. Il processo contro i Romani presso il tribunale di Aristodemo di Cuma. – 2. La Vestale Tarquinia, Acca Larenzia e il Campo Marzio. – 3. Gli dèi proprietari del Campo Marzio. – 4. Inconsistenze sul consolato di Collatino. – 5. L’eredità di Tarquinio. – 6. Bibliografia. – Abstract.

 

 

 

1. – Il processo contro i Romani presso il tribunale di Aristodemo di Cuma

 

Nel tentativo di ricostruire l’origine più antica della tradizione sulla storia romana degli ultimi re e delle origini della repubblica uno dei punti forti nella ricerca storiografica è costituito dalla cosiddetta Cronaca Cumana, un brano di storia cumana riportato nel VII libro delle Antichità romane di Dionisio di Alicarnasso[1]. Si tratta di una fonte greca attendibile che tratta anche di Roma, dato che Tarquinio il Superbo era in ottimi rapporti col tiranno cumano Aristodemo, presso il quale passò gli ultimi anni della sua vita. Probabilmente la Cronaca risale ad uno storico greco di IV secolo a.C. (si è suggerito più volte il nome di Timeo[2]). Questo storico trattò la controversia e il processo fra il popolo romano e Tarquinio il Superbo, che stava a Cuma, a proposito della confisca del Campo Marzio ai danni del re deposto e cacciato da Roma.

Scrive Dionisio di Alicarnasso:

 

π τοτον δ τν ριστόδημον τος μο τι τεσσαρεσκαιδέκατον δη τυραννοντα Κύμης ο σν Ταρκυνί φυγάδες καθιστάμενοι τν κατ τς πατρίδοςvβούλοντο συντελέσασθαι δίκην. ο δ πρέσβεις τν ωμαίων τέως μν ντέλεγον, ς οτ' π τοτον κοντες τν γνα οτ' ξουσίαν χοντες, ν οκ πέτρεψεν ατος βουλ περ τς πόλεως πολογήσασθαι [δίκην]. ς δ' οθν πέραινον, λλ' γκεκλικότα τν τύραννον ώρων π θάτερα μέρη δι τς σπουδς κα τς παρακλήσεις τν φυγάδων, ατησάμενοι χρόνον ες πολογίαν, κα διεγγυήσαντες τ σώματα χρημάτων ν τ δι μέσου τς δίκης οθενς τι φυλάττοντος ατος ποδράντες χοντο. θεράποντας δ' ατν κα τ ποζύγια κα τ π τ σιτωνί κομισθέντα χρήματα τύραννος κατέσχε[3].

“Al cospetto di questo Aristodemo, tiranno ormai da quattordici anni, si presentarono i Romani che erano andati in esilio con Tarquinio per chiedere la collaborazione per ottenere giustizia contro la loro patria. Gli ambasciatori dei Romani si opposero per qualche tempo, dichiarando che non per questa questione erano giunti e che non avevano il potere di difendere la causa della città, poiché non era stato conferito loro dal senato. Ma poiché non riuscivano ad ottenere nulla, visto che il tiranno tendeva verso la parte avversa, per effetto delle brighe e delle preghiere degli esuli, chiesero tempo per approntare la difesa, depositarono come pegno una somma di denaro e, poiché non erano sorvegliati da nessuno nell’arco di tempo che precedeva il processo, si diedero alla fuga in tutta fretta; il tiranno non si lasciò sfuggire i loro servi, gli animali da soma e il denaro che essi avevano portato per l’acquisto del grano”[4].

 

Livio conosce, negli stessi termini della Cronaca, la storia del processo in cui il popolo romano era imputato. Livio (II.34) racconta che la secessione della plebe aveva causato la mancanza di grano e per questo furono mandate navi ad acquistarne all’estero:

Consules deinde T. Geganius P. Minucius facti. eo anno cum et foris quieta omnia a bello essent et domi sanata discordia, aliud multo gravius malum civitatem invasit, caritas primum annonae…

frumentum Cumis cum coemptum esset, naves pro bonis Tarquiniorum ab Aristodemo tyranno, qui heres erat, retentae sunt.

“I consoli successivi furono Tito Geganio e Publio Minucio (492 a.C.). Quell’anno, non essendoci più nessuna preoccupazione militare ed essendo stato composto ogni motivo di urto all'interno, una calamità di ben altra portata si abbatté su Roma: la mancanza di generi alimentari…

A Cuma, una volta acquistato il grano, le navi furono trattenute dal tiranno Aristodemo come indennizzo delle proprietà dei Tarquini di cui egli era l'erede”.

 

Tarquinio rimase in esilio durante gli ultimi anni della sua vita, e fu, alla fine, accolto dal tiranno di Cuma Aristodemo, detto il Malaco, presso il quale finì i suoi giorni[5]. Aristodemo seppellì Tarquinio[6], compiendo così il rito che in Roma ogni erede era tenuto ad eseguire[7]; Tarquinio si era posto sotto la protezione del potente cumano, venendo probabilmente a stabilire con lui un rapporto di affinità con implicazioni patrimoniali, come nel caso degli esuli che, venuti a Roma, si ponevano sotto il patronato di potenti capifamiglia, i quali potevano accedere all’eredità dei loro protetti nel caso in cui questi ultimi fossero morti senza aver fatto testamento[8].

 

La storiografia romana registra molte narrazioni da cui risulta, in un modo o in un altro, che Tarquinio non avrebbe avuto diritto a possedere il Campo Marzio oppure che una parte di esso era stata ceduta al popolo romano da membri della famiglia di Tarquinio. I racconti relativi alla proprietà del Campo Marzio sono diversi e sono sia di natura storica che mitologica, il che fa capire che il repertorio narrativo si arricchì nel tempo e che esso risaliva ad epoche antiche, probabilmente a prima di Fabio Pittore.

Fausto Zevi, in un suo importante contributo[9], ha dimostrato come tutta la questione dell’eredità dei Tarquinii ruota intorno alla storia di Demarato, il loro progenitore: essa narrava, in sostanza, come si fosse formata la fortuna della famiglia. Il patrimonio dei Tarquinii si era costituito grazie all’operosità e all’ingegno di un aristocratico di altissimo lignaggio, Demarato, appartenente alla stirpe dominante in Corinto, quella dei Bacchiadi. «L’intera storia di Demarato è intesa a mettere a fuoco l’assoluta illegittimità del provvedimento con cui l’aristocrazia romana si era impossessata dei beni dei Tarquini; a quale mai titolo, se essi appartenevano loro per legittima discendenza ereditaria e se le vicende della famiglia ne rendevano chiare, al di là di ogni dubbio, l’origine e la provenienza?»[10]. Questa versione era presente nella tradizione greca, ma evidentemente ai Romani non conveniva ammettere che la confisca del campo Marzio era stata un atto illegittimo e ingiusto, e per questo furono create tradizioni diverse le quali, in un modo o in un altro, spiegavano come quei terreni fossero giunti in modo legale ai Romani, e che il possesso da parte di Tarquinio fosse stato illegittimo[11].

 

 

 

2. – La Vestale Tarquinia, Acca Larenzia e il Campo Marzio

 

La tradizione romana inventò la figura della vestale Tarquinia che avrebbe lasciato in eredità al popolo romano un terreno all’interno del Campo Marzio, di cui era proprietaria, secondo quanto racconta Plutarco nella Vita di Publicola (Publ., 8.7-8):

 

νιοι δ τοτο συμπεσεν στοροσιν οχ τε τ Ταρκυνίου καθιερώθη πεδίον, λλ χρόνοις στερον λλο χωρίον μορον κείν Ταρκυνίας νείσης. δ Ταρκυνία παρθένος ν έρεια, μία τν στιάδων, σχε δ τιμς ντ τούτου μεγάλας, ν ας ν κα τ μαρτυρίαν ατς δέχεσθαι μόνης γυναικν· τ δ' ξεναι γαμεσθαι ψηφισαμένων ο προσεδέξατο.

“Alcuni, tuttavia, tramandano che ciò (la creazione dell’isola Tiberina) non sia accaduto quando fu consacrato il campo di Tarquinio, ma più tardi, quando Tarquinia cedette un altro terreno confinante con quello. Era questa Tarquinia una sacerdotessa vergine, una delle Vestali, che ricevette per questo suo atto grandi onori, fra cui vi era anche quello di essere ammessa, unica fra tutte le donne, a testimoniare; ed il popolo inoltre deliberò che le fosse concessa la facoltà di sposarsi, ma lei non accettò”.

 

Plinio[12] e Aulo Gellio[13] raccontano che la Vestale Gaia Taratia o Taracia avrebbe donato l’intero campo Marzio al popolo romano. Un nome simile a quello della Vestale era portato dal ricco Tarutius, proprietario di terreni nel campo Marzio. A proposito di quest’ultimo personaggio, a Roma si raccontava la storia di un amore di Ercole con l’etera Acca Larenzia (la quale, per altro, era considerata anche la nutrice di Romolo e Remo)[14]. La leggenda voleva[15] che il custode del tempio di Ercole avesse un giorno perso ai dadi giocando con il dio e avesse pagato la scommessa procurandogli una bella prostituta, Acca Larenzia, la quale fu premiata dal nume facendola sposare col ricco Tar(r)uzio (o Tarutilio o Caruzio); la donna infine, divenuta vedova ed ereditiera, lasciò al popolo romano le sue proprietà, cioè i campi Turace, Semurio, Lutirio e Solinio, e ricevette per questo onori divini dopo la morte[16]. Stranamente questa vedova fece testamento, laddove solo le Vestali a Roma avevano diritto di testare personalmente, e tale testamento riguardava parti del campo Marzio. Il nome Turace (Turax) riecheggia nomi simili, riferiti al campo Marzio, quali Tarentum, Tarutius, Taratia…

Tutto questo complesso di leggende verte sempre sui terreni del campo Marzio e del modo in cui essi passarono al popolo romano. Da tempo è stato riconosciuto che il nome di Taruzio nascondeva quello di Tarquinio[17] e infatti era Tarquinio il proprietario del campo Marzio, il quale prima si sarà chiamato campus Tarquinius. Il passaggio di questa proprietà al popolo romano fu oggetto di feroci dispute dopo la cacciata del Superbo e queste dispute sono all’origine di tutte le tradizioni sulla proprietà di quei terreni.

 

 

3. – Gli dèi proprietari del Campo Marzio

 

Un’altra branca di tradizioni sostiene che il Campo Marzio era sacro a qualche divinità prima che Tarquinio Prisco lo acquisisse e poi lo lasciasse in eredità al Superbo. Secondo una tradizione[18], Tarquinio avrebbe messo sacrilegamente a coltura il campo Marzio, che era già sacro a Marte e destinato ad essere luogo di riunioni militari e di esercitazioni. Il raccolto di quell’anno fu preso dalla folla e gettato nel Tevere, perché non più suscettibile di uso profano; e dagli ammassi di paglia e grano sarebbe nata l’isola Tiberina[19]. Quindi quella che era stata una publicatio bonorum fu presentata come una consecratio bonorum[20]. Il dato sottinteso da questa storia è che Tarquinio non aveva diritto di possedere il Campo Marzio.

La gens dei Valerii deve avere promosso un’altra tradizione, legata all’origine dei Ludi Secolari, celebrati nel campo Marzio. Quest’ultimo fu collegato con la figura di Publicola, l’eroe che ne avrebbe ottenuto la publicatio[21], che avrebbe consacrato la zona e reintrodotto, nel sito chiamato Tarentum, i ludi in onore di Dispater e Proserpina[22]. Un suo antenato, Valesio, infatti, avrebbe trovato in passato, in questa zona, un altare sotterraneo sacro a Dis Pater e Proserpina. Ancora una volta si trattava di sostenere una priorità della natura sacra del luogo rispetto alla proprietà da parte di Tarquinio, la quale veniva così considerata illegittima.

 

 

4. – Inconsistenze sul consolato di Collatino

 

Nonostante la tradizione tramandi che a Roma il nomen Tarquinium era odiato e l’intera famiglia del tiranno era stata esiliata, ci viene detto che fra i primi consoli venne eletto Tarquinio Collatino[23], poi convinto da Giunio Bruto ad andare in esilio, e la vestale Tarquinia, che pure era rimasta a Roma. Lo stesso Bruto, inoltre, ci viene detto essere figlio di una figlia del Superbo[24].

Ci sono alcuni motivi per cui la tradizione potrebbe aver ritenuto opportuno inserire Tarquinio Collatino fra i primi consoli. La presenza di Collatino, parente dell’ultimo re, forse aveva la funzione di rendere meno grave la mancanza della trasmissione del potere e degli auspici da chi li aveva detenuti in precedenza ai nuovi eletti. Nessuno infatti avrebbe potuto presiedere i comizi essendo detentore degli auspici, poiché il re era stato esiliato.

Per la trasmissione dei poteri a Numa si parlò del rito dell’interregnum, mentre Livio dice che le prime elezioni consolari si svolsero secondo i dettami dei commentari di Servio Tullio, sotto la presidenza del praefectus urbi[25]. Ai fini della trasmissione degli auspici, la parentela di Collatino con l’ultimo re poteva, almeno in parte, sanare la mancanza del passaggio da un detentore all’altro. Giunio Bruto apparteneva a una gens plebea, cosa che poteva risultare imbarazzante per i sostenitori del diritto agli auspici da parte dei soli patrizi, mentre Tarquinio Collatino poteva nobilitare il primo consolato.

Per altro verso, l’esilio di Collatino presenta troppe somiglianze con la storia dell’esilio di Ipparco figlio di Carmo da Atene, dopo la cacciata del tiranno Ippia, per non apparire sospetto. Il figlio di Carmo era stato arconte nel 497/6 e fu poi ostracizzato nel 488/7. Scrive Aristotele:

 

πρτος στρακίσθη τν κείνου συγγενν ππαρχος Χάρμου Κολλυτεύςο γρ θηναοι τος τν τυράννων φίλους, σοι μ συνεξαμαρτάνοιεν ν τας ταραχας

“Il primo dei suoi (di Pisistrato) ad essere ostracizzato fu Ipparco figlio di Carmo… Gli Ateniesi avevano permesso di restare in città agli amici dei tiranni che non si erano compromessi nei torbidi…”[26].

 

E poi continua dicendo che dopo di lui anche altri personaggi legati ai Pisistratidi furono ostracizzati. L’esilio di Collatino fa dunque parte del vasto repertorio dei paralleli creati dalla storiografia romana fra la storia romana e la contemporanea storia greca.

 

Ma la figura di Collatino aveva anche finalità più importanti nell’ideologia romana.

Il personaggio di Tarquinio Collatino non può certo essere etichettato come frutto della fantasia degli storici romani, perché non abbiamo nessun motivo per condannare radicalmente la tradizione antica. Ma la tradizione che lo riguarda presenta alcune incongruenze e anche aspetti romanzeschi che non è detto dipendano da fatti storici reali. Per esempio, è strano che i Romani abbiamo eletto console Collatino e il giorno dopo si siano lamentati perché apparteneva alla gens Tarquinia, per cui Giunio Bruto lo convinse ad andare in esilio.

Nella storia del primo anno della repubblica romana sono presenti sia dati storici che dati che dipendono dall’ideologia, dalla religione e da altri fattori, e in questo articolo cercherò di focalizzare elementi di natura giuridica, relativi al diritto di proprietà, che contribuirono a plasmare la tradizione.

Alcune forti incongruenze nel racconto liviano che concerne Collatino sono sintomi di rielaborazioni a livello storiografico non completamente armonizzate con la trama del racconto, che si può leggere nei primi capitoli del II libro delle storie liviane. La prima incongruenza è costituita dal fatto che il movimento repubblicano sarebbe stato guidato da due parenti di Tarquinio il Superbo. Bruto infatti, era figlio di una figlia del Superbo[27], mentre Tarquinio Collatino era figlio di Egerio, figlio di Arrunte, che, a sua volta, era fratello di Tarquinio Prisco[28]. Livio[29] dice che Tarquinio Egerio (nonno[30] o padre[31] di Collatino) era stato nominato governatore (in praesidio relictus) di Collazia, mentre Dionisio di Alicarnasso[32] dice che ricevette molti onori da Tarquinio.

Bruto, secondo Livio[33], avrebbe fatto votare una legge che imponeva l’esilio a tutti i membri della gens Tarquinia. Se fosse stava viva sua madre, Bruto l’avrebbe dunque esiliata[34]. Prima di riferire di questa legge, Livio aveva narrato che Bruto convocò i comizi e fece capire a Tarquinio Collatino che sarebbe stato il caso che andasse in esilio, proprio perché apparteneva alla famiglia dei Tarquinii, invisa ai Romani, e Collatino accettò l’invito e se ne andò a Lavinio[35]. Al suo posto fu eletto console Valerio Publicola.

 

 

5. – L’eredità di Tarquinio

 

La famiglia di Collatino era povera, a differenza da quella dei suoi parenti Tarquinii. Ecco come Tito Livio narra l’origine della sua povertà e dice che Tarquinio Prisco, precedentemente chiamato Lucumone:

 

Demarati Corinthii filius erat, qui ob seditiones domo profugus cum Tarquiniis forte consedisset, uxore ibi ducta duos filios genuit. nomina his Lucumo atque Arruns fuerunt. Lucumo superfuit patri bonorum omnium heres: Arruns prior quam pater moritur uxore gravida relicta. nec diu manet superstes filio pater; qui cum, ignorans nurum ventrem ferre, immemor in testando nepotis decessisset, puero post avi mortem in nullam sortem bonorum nato ab inopia Egerio inditum nomen. Lucumoni contra, omnium heredi bonorum, cum divitiae iam animos facerent, auxit ducta in matrimonium Tanaquil, summo loco nata[36].

“Era figlio di Demarato di Corinto, il quale, fuggito dalla patria a seguito di disordini, si era stabilito per puro caso a Tarquinia e lì aveva preso moglie e messo al mondo due figli, i cui nomi erano Arrunte e Lucumone. Lucumone sopravvisse al padre e ne ereditò tutte le sostanze. Arrunte morì invece prima del genitore, lasciando la moglie incinta. Demarato non visse molto più a lungo del figlio e, ignorando che la nuora era incinta, morì senza ricordarsi del nipotino nel testamento. Il bambino nacque dopo la scomparsa del nonno e, non essendo destinato a ereditare, fu chiamato Egerio in ragione della sua miseranda condizione. In Lucumone, invece, nominato erede universale, la boriosa presupponenza dovuta alle sostanze ricevute aumentò ancora di più quando sposò un'esponente della più altolocata aristocrazia locale, Tanaquil”.

 

Dopo che Tarquinio Collatino, figlio di Egerio, era stato eletto console, Bruto tenne un discorso, rivolgendosi a lui, per convincerlo ad andare volontariamente in esilio, in quanto parente di Tarquinio, e gli avrebbe detto anche:

 

res tuas tibi non solum reddent ciues tui auctore me, sed si quid deest munifice augebunt[37].

“I tuoi concittadini non solo di restituiranno le tue proprietà, sotto la mia responsabilità, ma, se qualcosa manca, le incrementeranno in modo generoso”.

 

Secondo Dionisio di Alicarnasso, Bruto

 

τατα δ' ποθέμενος τ νδρ πείθει τν δμον εκοσι ταλάντων δοναι ατ δωρεν κα ατς πέντε τάλαντα προστίθησιν κ τν δίων.

dopo aver dato tali consigli a Collatino, persuase il popolo ad offrirgli un donativo di venti talenti ed egli stesso ne aggiunse cinque dei suoi[38].

 

Dato che le proprietà di Tarquinio il Superbo erano state oggetto di dure controversie fra Roma e Cuma, e dato che esisteva o, forse meglio, era stata creata una tradizione sul fratello di Tarquinio Prisco rimasto senza eredità, questa frase attribuita a Bruto probabilmente nasconde un’allusione al fatto che Collatino aveva diritto a metà delle ricchezze della famiglia di Tarquinio. Si quid deest munifice augebunt, di per sè avrebbe poco senso: cosa poteva mancare alle ricchezze di Collatino? Un pezzo di terreno? Una parte di casa? Qualche capo di bestiame? E poi, perché Livio scrive reddent? Il verbo è usato da Livio[39] anche per i beni mobili del Superbo e non gli furono “restituiti”, ma dati alla plebe che li saccheggiasse. I Romani non solo diedero o conservarono, ma “restituirono” a Collatino le sue proprietà. In realtà, quello che “mancava” era la parte di eredità che gli era dovuta. Livio qui probabilmente riassume testi di annalisti che dovevano essere più espliciti e che spiegavano che Collatino aveva diritto a metà del campo Marzio, e che questo diritto gli fu riconosciuto dai primi consoli. La versione di Dionisio di Alicarnasso, secondo cui Collatino ebbe del denaro, concilia la consacrazione del campo Marzio sacro a Marte con la restituzione dei beni che spettavano a Collatino e anche con il fatto che egli se ne stava andando a Lavinio. Infatti, non si sarebbe potuto dare a Collatino un terreno sacro a Marte e, d’altra parte, Collatino difficilmente avrebbe potuto conservare proprietà a Roma non essendo più romano, ma, eventualmente, laviniate e vivendo a Lavinio.

 

La storia di Collatino e della violenza subita da sua moglie Lucrezia era già in Fabio Pittore[40], mentre la leggenda di Bruto che si fingeva stolto come una bestia ma era il più intelligente dei Romani, doveva essere nota al un illustre membro della gens Iunia, Caius Iunius Bubulcus Brutus, che rivestì il suo primo consolato nel 317 a.C.; infatti a nessuno poteva venire in mente di assumere il soprannome bubulcus, che significa “bovaro stupido”[41]. La cosa si spiega perfettamente se si presume che già alla fine del IV secolo la leggenda di Bruto, il finto stupido, fosse stata radicata a Roma. Possiamo pertanto dire che un nucleo di racconti romani relativi alle origini della repubblica esisteva prima della nascita dell’annalistica, e possiamo aggiungere che anche la creazione di vari racconti sul campo Marzio e la sua acquisizione da parte dei Romani risale a prima di Fabio Pittore ed ebbe una lunga genesi, data l’articolazione di tali racconti in varie branche e varie forme di legittimazione della proprietà.

 

La storia del fratello diseredato di Tarquinio Prisco fa parte del filone della storia dei beni dei Tarquini e risulta essere di matrice romana. La tradizione su Tarquinio Egerio e la mancata eredità era stata probabilmente creata proprio per dimostrare che Tarquinio il Superbo non aveva diritto esclusivo alla proprietà del campo Marzio: si trattava di trovare argomenti per giustificare la confisca eseguita dai Romani dopo la cacciata del Superbo, di fronte ai forti argomenti formali sostenuti dalla famiglia di Tarquinio e da Aristodemo il Malaco. Il parallelo con Ipparco figlio di Carmo probabilmente venne dopo e fu innestato opportunamente nella storia per creare un parallelo con la storia greca: entrambi portavano il nome del tiranno (Ipparco era il fratello del tiranno, ma anche la vittima dei famosi tirannicidi Armodio e Aristogitone) e vennero mandati in esilio anche se non avevano colpe personali.

A Collatino spettava metà del Campo Marzio, la Vestale Tarquinia, forse figlia del tiranno, ne possedeva un’altra parte, Bruto era figlio di una sorella di Tarquinio, per cui avrebbe potuto ereditare, lui pure, dall’ultimo re, e pertanto poco sarebbe rimasto di pertinenza dei figli del Superbo, Sesto e Arrunte. Se le cose stavano così, a Collatino spettava il 50%, alla Vestale il 12,5, alla madre di Bruto il 12,5 e ai figli del Superbo in esilio il 25%. Ma Aristodemo aveva confiscato il denaro e quanto i delegati romani avevano con sé per la spedizione annonaria, come risarcimento per la confisca. Pertanto, se dovessimo dar retta alla tradizione romana, si può dire che essa aveva azzerato l’eredità rivendicata dai familiari di Tarquinio in esilio.

Tutte le storie inventate dalla tradizione romana che abbiamo evidenziato certamente non avrebbero potuto essere presentate davanti a un tribunale, perché potevano essere smentite facilmente dai familiari del Superbo. In effetti, i delegati romani a Cuma si sottrassero al processo fuggendo. In particolare, la sostituzione del nome Tarquinio con Taruzio, Tarutilio o nomi del genere, come proprietari del Campo Marzio, poteva andare bene solo nelle favole, ma non davanti a un giudice.

Fabio Pittore presentava la sua storia romana ad un pubblico greco, visto che scriveva in greco, e quel pubblico poteva conoscere la tradizione presente nella Cronaca Cumana. Per questo egli si sentiva certamente in dovere di giustificare, dal punto di vista formale, la confisca del Campo Marzio. I Greci non prevedevano la usucapio, a differenza dei Romani[42], per cui una rivendicazione delle proprietà dei Tarquinio per i Greci sarebbe stata, almeno teoricamente, possibile per chi potesse provare di essere un discendente del Superbo.

È molto improbabile che Fabio Pittore abbia introdotto tutte le storie a noi note, che terminavano immancabilmente con la cessione del Campo Marzio, o di sue parti, al popolo romano, in modo del tutto legale. Essendo la controversia molto antica e le giustificazioni romane molto diversificate, è probabile che Fabio Pittore abbia introdotto solo alcuni degli argomenti, o li abbia ripresi da tradizioni già diffuse a Roma, mentre è verosimile che altri siano stati introdotti da annalisti posteriori.

La consacrazione a Marte, a Dis Pater e Proserpina completavano la delegittimazione dei diritti ereditari accampati dalla famiglia del Superbo in esilio vantando una priorità, che avrebbe invalidato la cessione del Campo Marzio a Tarquinio Prisco da parte del popolo romano. Certo però che, in tal caso, sarebbe stato necessario un risarcimento agli eredi del Superbo.

Con questo, abbiamo messo in evidenza un vasto ed articolato filone della tradizione storica romana, sviluppatosi in epoche diverse e con modalità diverse, ma sempre centrato sulla necessità di negare i diritti ereditari sul Campo Marzio da parte della famiglia di Tarquinio il Superbo. È evidente che il filone si è sviluppato partendo da dei dati storici, attorno ai quali i Romani hanno inventato brani di pseudo-storia e di mitologia.

 

 

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Abstract

 

A varied part of the tradition surrounding the early Roman Republic turns out to be a response to arguments that arose following the seizure of the Campus Martius, an estate owned by the Tarquinii. In response to this, fabricated narratives were concocted. These stories included tales about Collatinus’ inheritance, the Vestal Virgin Tarquinia who supposedly donated a portion of the Campus to the Roman people, another Tarquinia (the sister of the tyrant and mother of Brutus), and Acca Larentia, who allegedly inherited the Campus from a certain Tarutius.

At the core of this collection of accounts lay a historical event: the trial orchestrated by Aristodemus, the tyrant of Cumae, in support of the exiled Tarquinius’ family against the Romans.

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] Dion. Hal. VII.12.1-2; cf. Liv. II.34.

[2] COZZOLI 1965; BREGLIA PULCI DORIA 1981; BIANCHI 2015.

[3] Dion. Hal. VII. 12.1-2.

[4] Trad. Guzzi.

[5] Liv. II.21.5.

[6] Dion. Hal. VI.21.3.

[7] Varro, in Non., p. 240 L.; cf. L.L. V.23; Fest., p. 242; Paul.Fest., pp. 68, 250 L.; Gell. IV.6.7-9; Marius Victorinus, in Gramm.Lat., VI, p. 25 Keil. Cf. MASTROCINQUE, Lucio Giunio Bruto. Ricerche di storia, religione e diritto sulle origini della repubblica romana, Trento 1988, 138, 210.

[8] Su tale controverso problema di eredità tra patroni e clientes originari di altri stati in età arcaica cf. Cic., De or. I.39.177. Cf. G. CRIFÒ, Ricerche sull'“exilium” nel periodo repubblicano, I, Milano 1961, 77-103.

[9] F. ZEVI, Demarato e i re Corinzi di Roma, in L’incidenza dell’antico. Studi in memoria di Ettore Lepore, I, a cura di A. Storchi Marino («Atti del Convegno Internazionale»), Anacapri, 1991, 291-314.

[10] F. ZEVI, Demarato e i re Corinzi di Roma, cit., 297; questo autore, p. 302, ritiene che la tradizione sulla mancata eredità di Egerio e di Collatino servisse per gettare un ombra sulla legittimità del ramo cadetto e dei loro diritti all’eredità.

[11] Giustamente A. MELE, Aristodemo, Cuma e il Lazio, in M. Cristofani (a cura di), Etruria e Lazio arcaico, Atti dell’incontro di studio, 10-11- novembre 1986, Roma 1987, 155-177, part. 177, sostenne che la tradizione romana che spiegava il possesso del campo Marzio da parte dei Romani presupponeva una tradizione ostile ai Romani, che non poteva essere stata creata dai Romani stessi ed era più antica delle origini dell’annalistica.

[12] Plin., N. H., 34.25: Inuenitur statua decreta et Taraciae Gaiae siue Fufetiae uirgini Vestali.

[13] Gell., N. A., VII. 7.1-4: Accae Larentiae et Gaiae Taraciae, siue illa Fufetia est, nomina in antiquis annalibus celebria sunt.

[14] Liv.I.4.7; Ovid., Fasti III.57 ss.; Plut., Rom. 4; Quaest. Rom. 35 = 272 E-273 B; Macrob.I.10; Paul.Fest., p. 106 L.; Gell. VII.7.8 (da Masurio Sabino); Lact., Inst. I.20.4.

[15] Plut., Rom. 5; Quaest. Rom. 35 = 272 E-273 B; Gell. VII.7.6; Macrob.I.10.12 e 15 (che chiama Caruzio il ricco cittadino); Verr.Flacc., Fasti Praen. 23 dec. (Inscr.It. XIII.2, p. 139 ove il ricco si chiama Tarutilio); Lact., Inst. I.20.4-5 (che cita Verrio); Tert., Ad nat. II.10; Aug., Civ.Dei VI.7 (ove la protagonista è detta Larentina).

[16] Cf. soprattutto Fasti Praen., l.c. Su queste tradizioni e su altre varianti cf. MASTROCINQUE 1993, 26-28; 114-121.

[17] Che Taruzio si identificasse con Tarquinio Prisco era stato notato già da PAIS 1926, 105; cf. recentemente le giuste osservazioni di MARTINEZ-PINNA 1992, 100, che mette sullo stesso piano le saghe di Acca Larenzia, delle tre Vestali benefattrici e di Tanaquil. Circa la possibilità di deformare il nome Tarquinius cf. Fest., p. 496 L.: Tarquitias scalas, quas Tarquinius Superbus fecerit.

[18] Dion.Hal.V.13.2. Lo EUING 1933, 44-45, ha cercato sensatamente di conciliare la tradizione della consacrazione a Marte con quella del dono del campo da parte della Vestale: in ambedue i casi si trattava di far passare un bene dalla proprietà privata al dominio pubblico.

[19] Liv.II.5.1-4; Dion.Hal., V.13; Plut., Publ. 8.

[20] Cf. LIOU-GILLE 1998, 47.

[21] Fest., p. 440 L.

[22] Val.Max. II.4.5; Zos. II.3.3; cf. Plut., Publ. 8. Cf. MASTROCINQUE, Lucio Giunio Bruto, 51-55.

[23] Su questo tema cf. A. MASTROCINQUE, Il consolato di Tarquinio Collatino, in Metabolé. Studi di storia antica offerti a Umberto Bultrighini, a cura di E. Dimauro, Lanciano, Carabba, 2021, 419-434. Da questo articolo sono ripresi qui i contenuti essenziali.

[24] Liv. I.56.7: L. Iunius Brutus, Tarquinia, sorore regis, natus; VII.3.2: a rege Tarquinio auunculo suo; Dion. Hal. IV.68.1.

[25] Liv.I.60.2: duo consules inde comitiis centuriatis a praefecto urbis ex commentariis Ser. Tulli creati sunt.

[26] Aristot., Ath. pol. 22.4 (trad. Lozza). Aristotele data l’ostracismo di Ipparco al 488/7, mentre Androzione (FHG fr. 5, in Harpocration, Lex. p. 161 Dindorf) pare datare l’evento subito dopo il varo della costituzione di Clistene e contemporanea legge che istituì l’ostracismo. Il parallelo e la probabile influenza della storia greca sulla storia romana sono stati sottolineati da MUSTI 1970, 106-107; cf. OGILVIE 1965, 238-239; DUBOURDIEU 1984, 736-737.

[27] Liv. I.56.7: L. Iunius Brutus, Tarquinia, sorore regis, natus; VII.3.2: a rege Tarquinio auunculo suo; Dion. Hal. IV.68.1.

[28] Liv. I.34; 38; 57.

[29] Liv. I.38.

[30] Dion. Hal. IV. 64.3.

[31] Liv. I.57.6.

[32] Dion. Hal. III.50.

[33] Liv. II.2.11: Brutus ex senatus consulto ad populum tulit ut omnes Tarquiniae gentis exsules essent.

[34] Su tali inconsistenze cf. CORNELL 1995, 217 («If the name Tarquinius was so odious, why was Collatinus elected consul in the first place? And if family connections with the Tarquins were so unacceptable, how did Brutus escape suspicion?»); POLETTI 2011, 43-45.

I figli di Bruto avrebbero poi complottato per far rientrare Tarquinio il Superbo: Liv. II. 5.5-8. DUBOURDIEU 1984, 737, pensa che ci fossero dissensi all’interno del governo dei Tarquini a Roma, e che si trattasse di “un affare di famiglia”, come pensava il MARTIN 1982, 36. La Dubourdieu cerca anche di dar ragione dell’esilio di Collatino a Lavinio, il quale però pone un quesito molto difficile: perché il nemico di Tarquinio il Superbo e di suo figlio Sesto Tarquinio andò in una città latina, laddove sappiamo che Tusculum era fedele alleata del Superbo, la cui figlia era sposata col potente leader tusculano Mamilio. Ma è importante che si tenga presente che Tarquinio il Superbo, poco prima di essere cacciato, stava facendo guerra ad Ardea, città molto vicina a Lavinio e dunque Lavinio era ostile al Superbo, come Ardea.

[35] Liv. II.2; Servio (in Verg., Aen. VI.818) dice, certamente per errore, che si trattava di Lucrezio Tricipitino, che era anche detto Tarquinio, e che sarebbe andato in esilio. Su altre inconsistenze nella tradizione liviana: TRÄNKLE 1965, 323.

[36] Liv. I.34.

[37] Liv. II.2.6.

[38] Dion. Hal. V.12.2.

[39] Liv. II.5.1-2.

[40] Fr. 14 Peter (in Dion. Hal IV.64.2).

[41] Cf. TODD 1943, 102.

[42] BICKERMANN 1932, 51-53.