Si pubblica, col consenso dell’Autore e dell’Editore, il Capitolo Terzo «Urbs Sacra» (185-204) della monografia di SANDRO CONSOLATO, GIACOMO BONI. SCAVI, MISTERI E UTOPIE DELLA TERZA ROMA, Roma, Altaforte Edizioni, 2022, pp. V-503. ISBN 978-88-320-7838

Indice del volume

 

 

 

Sandro Consolato

Messina

 

Urbs sacra

 

 

Sommario: 3.1. A Roma senza un background ? – 3.2. Nel Foro. – 3.3. In cerca del Lapis Niger. – 3.4. Dimore di dèi e sacerdoti. – 3.5 Discours de la méthode.

 

 

 

3.1. – A Roma senza un background ?

 

M. Pilutti Namer ha scritto, con riferimento allo stesso periodo romano precedente il 1898, che per Boni «allora Roma non significava nulla: la civiltà per eccellenza per lui era quella veneziana»[1]; poi, che «di certo fu inizialmente estraneo al mito di Roma, a quella città-metafora di qualcos’altro che nulla aveva a che fare con la verità della sua storia»[2], e che solo in seguito «la capitale soppiantò Venezia nel suo cuore piuttosto rapidamente»[3].

Personalmente non condivido questo punto di vista – che arriva perfino alla affermazione secondo cui sarebbe «arduo stabilire se e quanto Boni fosse consapevole delle vicende di Roma antica»![4] –, tutto interno al processo di revisione che la Pilutti Namer ha intrapreso rispetto alla «eccentrica biografia»[5] della Tea. Ma, se è vero che la Tea ha proposto con accenti retorici un’immagine di ‘predestinazione’ fin dall’infanzia alla ‘missione’ romana del suo ‘maestro’, bisogna pur tener presente che è lo stesso Boni a dirci, nel 1903 (ben dodici anni prima dell’incontro con la sua allieva-biografa), come si è visto dal brano che ho citato (vd. supra § 1.2) da Dalle origini, di aver nutrito precocemente un forte amore per Roma in stretta connessione con Venezia. E nel 1919, nel suo articolo in ricordo di Ruskin, della propria giovinezza scrive:

 

«[…] mi avevano sino allora nutrito la profondità delle leggende e la forza delle istituzioni romane, che addolcirono il mio distacco da Venezia, il dover lasciare una città-madre per la città-nonna»[6].

 

Certo, anche Boni potrebbe aver raccontato le cose in tal modo in conformità a una propria posteriore mitopoiesi. Ma l’idea di M. Pilutti Namer si scontra, sempre a mio parere, pure con il giovanile studio del latino (e dei classici latini), e pure del greco, tanto che, pur segnalando il prolungato interesse medievistico dell’amico[7], lo stesso Beltrami (il biografo di Boni antiretorico e alternativo alla Tea che la Pilutti Namer invita a tenere come bussola), afferma che la «famigliarità cogli scrittori greci e latini» si mostra «sino dai primi scritti», e ciò lo induce a parlare di «precoce passione del Boni per quel mondo antico, del quale egli era destinato ad approfondire la struttura e le caratteristiche» (corsivo mio)[8]. Si aggiunga, a conferma dell’embrionale passione romana del Veneziano, che se Beltrami scrive di una iniziale preferenza boniana per gli scrittori greci rispetto a quelli latini, chiarisce però come prestissimo la sua attenzione passò dal mondo greco a quello latino, «ritenuto fonte della moderna civiltà, più di quanto sia stato quello greco»[9]. Ai nostri giorni, Ferruccio Canali, che non manca anche lui di sottolineare come quella della Tea sappia «un po’ troppo di biografia encomiastica (o autocelebrativa)»[10], non mette in dubbio ad es. la testimonianza raccolta dalla biografa di un Boni che fin dall’adolescenza aveva maturato una «passione per Traiano imperatore», per il «mito dell’imperatore ‘buono’, che aveva colpito il suo immaginario sia per le sue imprese, sia per la sua umana sensibilità»[11]. Aggiungo che gli studiosi del Boni ‘veneziano’ Ettore Vio e Michela Sediari dal canto loro sostengono che:

 

«L’interesse di Boni per Venezia era di tipo archeologico. Egli voleva, perché ne era certo, ritrovare nei resti delle costruzioni antiche di Venezia i segni dell’eredità romana. Egli era convinto che ci fosse stata, oltre ad Altino, nell’area lagunare Nord, una fase di edilizia agricola romana»[12].

 

E la fondazione antica del campanile, del resto, «appena liberata dei resti del crollo, gli consentì di individuare molti spolia di origine romana»[13]. Per cui, io ritengo che una posizione equilibrata sia quella di ritenere che Boni, se fosse rimasto per sempre a Venezia, o se vi fosse tornato (come forse pure potrà aver desiderato almeno nei suoi esordi romani[14]) prima del 1898, avrebbe continuato, con piena soddisfazione, a lavorare solo sulla conservazione di monumenti medievali o rinascimentali, e così pure sarebbe accaduto se nella stessa Roma avessero proseguito a dargli incarichi ‘medievistici’, nell’Urbe e/o nel resto d’Italia, come fu in effetti per tutto il decennio 1888-1898. Probabilmente in tal caso la Romanitas sarebbe rimasta per lui un interesse ‘ideologico’ con una portata meno invasiva (o addirittura ‘invasante’) di quanto non fu dal momento in cui cominciò a scavare nel Foro, maturando a mio parere da solo, e oserei dire non a torto, l’idea di un ‘destino’. Che poi, sul piano strettamente professionale, come sostiene F. Guidobaldi, egli fosse arrivato nel Foro senza un retroterra di archeologo e filologo classico, con una «consistenza culturale […] certamente adeguata per quanto riguarda l’architettura e il restauro», ma

 

«evidentemente meno solida nel campo più specifico della storia urbana, che richiedeva la conoscenza di fonti variatissime e non solo antiche, anzi disperse nell’arco di oltre due millenni, delle quali si doveva avere una totale padronanza per interpretare l’articolata e discontinua serie di trasformazioni della città nei secoli della sua millenaria esistenza»[15],

 

tutto questo può essere riconosciuto, ma non avalla l’idea di un Boni che si appassiona a Roma antica a quarant’anni!

Tra coloro che determinarono già nei preforensi anni Ottanta l’interesse di Boni per gli scavi romani vanno ancora una volta segnalati degli stranieri[16]. Ad es., l’americano William James Stillman (1828-1901), giornalista, diplomatico, storico e fotografo, che a Roma, dove visse tra il 1886 e il 1898, era entrato pure lui nella cerchia di Crispi. Già compagno di Dante Gabriele Rossetti, vicino alle idee di Ruskin e console americano a Creta durante l’insurrezione contro i Turchi, ove aveva apertamente parteggiato per gli insorti, Stillman fece conoscere a Boni il genero, l’archeologo inglese John Henry Middleton (1846-1896), che aveva seguito gli scavi di Rodolfo Lanciani e di Heinrich Jordan al Foro Romano. Autore dei saggi su Rostri, Grecostasi, Miliarium Aureum e sulla Casa delle Vestali, «Middleton, e a voce e con gli scritti, contribuì a fermare la sua [id est di Boni] mente sui problemi ancora insoluti della topografia forense, massime in rapporto al rituale» (ET I, 193). Fondamentale fu per Boni anche la lettura del libro di William Lethaby, architetto dell’abbazia di Westminster, Architecture, Mysticism and Myth (1891). Glielo aveva inviato Webb nel settembre 1893, proprio mentre il Nostro era impegnato nella lettura del capolavoro di Fustel de Coulanges La Cité antique[17]: «I due libri – scrive la Tea – si integravano, mostrando come un principio sacro stesse alla radice di ogni grande manifestazione civile» (I, 437). E nota sempre la Tea:

 

«Per più versi, nelle virtù e nei difetti, Fustel e Boni si rassomigliavano. Entrambi indifferenti alla Kultur germanica, s’incontravano nel sacro senso della vita e nella tendenza a spiegare religiosamente le grandi istituzioni della civiltà classica. Per Fustel de Coulanges l’unità dei gruppi sociali antichi era fondata sull’unità di culto: famiglia, clientela, civitas, non erano che aggregati religiosi: la coesione permaneva sin che durasse il rispetto per le credenze. Per la prima volta, dopo il Vico, lo storico mostrava di dar valore a quel grande fattore di civiltà e di ordine morale ch’era stata presso gli antichi la religione» (I, 573).

 

Il filosofo Ernst Cassirer del lavoro di Fustel de Coulanges, oggi ingiustamente svalutato, scriverà:

 

«Nell’opera La Città antica vien fatto per la prima volta il coerente tentativo di spiegare non questo o quell’elemento del mondo greco o del mondo romano, bensì il complesso della vita sociale e politica dell’antichità partendo dalla forma e dall’orientamento fondamentale delle antiche credenze. Questa connessione non viene però intesa nel senso del materialismo storico. Di fronte a questo il Fustel de Coulanges ha piuttosto fondato una nuova e particolare forma di sociologia della religione. Quale dei due elementi, il sociale o il religioso, abbia preceduto l’altro, e quale dei due sia stato la “causa” e quale l’“effetto” è una questione di non decisiva importanza per lui. Lo storico infatti non incontra mai questi due elementi separatamente; essi invece gli si presentano solo compenetrati l’uno con l’altro nella loro “concrezione” vitale. È arbitrario staccare i singoli elementi da questa concezione perché tutto dipende proprio dalla correlazione in cui si trovano. Se si volesse compiere questa separazione bisognerebbe dare il primato alla religione»[18].

 

Tale visione è ben riconoscibile anche in Boni. Altri influssi importanti che si esercitarono sul Nostro quale indagatore delle antichità romane furono quelli dovuti alla lettura del francese Jean-Jacques Ampère (1800-1864), figlio del celebre fisico André Marie, medievista e dantista ma pure studioso di storia romana[19]. Boni gli dovette l’attenzione al nesso tra topografia romana e storia di Roma[20]. All’italiano Ruggiero Bonghi (1826-1895), ai nostri giorni più facilmente citato per la sua attività politica che per i suoi studi di antichistica, l’attenzione ai temi dell’interazione tra territorio, clima e istituzioni religiose e civili, e – particolare di non poco rilievo – la considerazione del farro nella vita religiosa e sociale romana[21]. Anche il prussiano Christian K. J. von Bunsen (1791-1860), che aveva scavato nel Foro tra il 1829 e il 1835, destò un’eco fortissima in Boni, a causa del suo sentire l’impulso divino operante nel linguaggio e nella religione e del suo concepire l’archeologia come riscoperta delle radici sacre dei popoli. Bunsen era stato tra i fondatori dell’Istituto Archeologico Prussiano (poi Germanico), che teneva la sua adunata solenne il 21 aprile[22]. E certamente interessanti suggestioni egli dovette ricevere a Roma dall’antichista Ersilia Caetani-Lovatelli (1840-1925)[23], forse l’italiana più colta dell’epoca (tornerò su di lei infra § 11.2), il cui salotto cominciò a frequentare fin dal 1885 [24], incontrandovi personalità come Theodor Mommsen, Ruggiero Bonghi e il commendator Giovanni Battista De Rossi, il fondatore dell’archeologia cristiana, l’esploratore della Roma sotterranea, lo scopritore delle Catacombe di San Callisto (1850)[25].

 

 

3.2. – Nel Foro

 

Nel decennio 1888-1898, tra un viaggio e l’altro nel resto d’Italia, Boni si occupò a Roma di attività di restauro e salvaguardia di edifici della cristianità (dalla basilica di S. Paolo fuori le mura a Castel S. Angelo, da S. Giovanni in Laterano a S. Eusebio, da S. Pudenziana a S. Maria Maggiore, da S. Pietro in Vincoli, S. Maria degli Angeli, S. Maria sopra Minerva a S. Croce in Gerusalemme ecc.)[26]; un’opera che va sottolineata poiché la Tea sentì il bisogno di scrivere: «Si fece anche rimprovero a Boni di non curare le memorie cristiane, per senso di paganità. Tutto il suo passato, ormai ben noto, sta a deporre il contrario» (II, 154)[27]. Nel dicembre del 1892 si può indicare l’incipit del ruolo di archeologo romano per il quale fu poi soprattutto famoso nel mondo intero. Allora, come si è già detto, partecipò con Beltrami e Sacconi, alle ricerche al Pantheon volute dal ministro Pasquale Villari, benemerito perché fu sotto di lui che vennero istituiti nel 1891 gli Uffici Regionali per la Conservazione dei Monumenti, gli ‘antenati’ delle Soprintendenze per i Beni Architettonici ed Artistici. Poi, all’inizio del 1894, tornato presidente del Consiglio Crispi, all’Istruzione venne chiamato Guido Baccelli, che con Crispi, come si è già anticipato, condivideva la passione per Roma antica e la sua proiezione nell’ideale della Terza Roma, e pertanto ridiede impulso all’attività archeologica.

Sotto Baccelli, dal dicembre del 1895 fino alla prima metà del 1896, Boni, di cui il ministro comunque si servì largamente, soprattutto a partire dal 1899, anche per scopi di prestigio personale, sempre attento che l’attenzione ‘mediatica’ cadesse più su di lui che sul ‘suo’ archeologo[28], ricoprì l’incarico di commissario dell’Ufficio regionale dei monumenti di Roma, lottando contro l’incompetenza, l’incuria e il malcostume che vi regnavano[29], trovando il sostegno affettuoso di funzionari intelligenti e onesti come l’architetto Torquato Ciacchi (1871-1950), che fu accanto al Nostro come responsabile della documentazione grafica e fotografica e la cui fedeltà a Boni può tutta misurarsi in queste parole della Tea: «Lunghissimo e sottilissimo, s’inabissava come una serpe sotterra, e sarebbe sceso a fotografare anche gli Inferi, se Boni gliene avesse fatto comando» (ET II, 155).

Al 1895 risalgono i primi lavori forensi di Boni, relativi al consolidamento e alla riparazione dell’Arco di Settimio Severo[30]. Ma è nel 1898, con Baccelli a giugno tornato ministro della P.I. nel gabinetto Pelloux, che a Boni, già a luglio, venne assegnata la direzione degli scavi del Foro Romano[31], peraltro inserendolo in una commissione di più illustri e archeologicamente formate personalità quali Sacconi, Gatti, Hülsen e Lanciani, con cui il sodalizio (se si esclude l’amico Sacconi) non fu però armonico. Iniziò allora la straordinaria avventura del Boni archeologo. Gli scavi forensi, in Roma ormai capitale condotti da Pietro Rosa (anni 1871-1880) e dall’allora celeberrimo Rodolfo Lanciani (anni 1884-1885), erano interrotti da dieci anni e si erano estesi in superficie, e non in profondità. La situazione dell’epoca così è stata rappresentata:

 

«Allora la convinzione generale degli archeologi era che gran parte dei monumenti fosse già stata portata alla luce e si pensava che non fosse più opportuno intervenire in quest’area, ormai abbandonata e ridotta a un deposito per prelevare marmi per i restauri. La comunità scientifica sembrava essere paga del fatto che i principali monumenti di Roma fossero stati scavati senza riflettere sulla circostanza che tutta la stratigrafia precedente all’epoca tardo-repubblicana e imperiale rimaneva sconosciuta. Boni volle indagare anche le fasi anteriori degli edifici»[32].

 

A ciò si aggiunga che i dati filologici e le memorie storiche non ancora confermati erano stati accantonati come ingenue leggende, mentre l’archeologia forense ignorava le nuove discipline paletnologiche e il fondamentale apporto della geologia[33]. Intanto l’abbandono degli scavi favoriva la rovina dei monumenti già scoperti e la dispersione dei marmi, di cui facevano di nuovo incetta i costruttori.

Boni arrivò dunque nel Foro unendo alle competenze di architetto, ingegnere (non lo era, ma non del tutto impropriamente spesso così veniva appellato[34]), scavatore, esperto di scienze naturali e, ancorché afilologico, studioso delle fonti letterarie classiche[35], e però

 

«antesignano dell’archeologia moderna, proprio per le sue competenze nel campo dei materiali, anche dei più umili, rinvenuti nei monumenti e negli scavi. Marmi, pietre, legni, metalli non avevano per lui segreti: l’apprezzamento era duplice, per la materia in sé e per l’esecuzione del manufatto»[36].

 

La sua competenza unita alla sua convinzione di dover svolgere una missione per il rinnovamento della patria ebbero porte aperte da Baccelli, che voleva «recuperare l’antica identità del centro di Roma e farne l’oggetto di pubblica consapevolezza», tanto che con i suoi cospicui finanziamenti «l’area scavata del Foro Romano fu più che raddoppiata e la sua connessione con le rovine antiche sul Palatino ripristinata»[37]. Il ministro a metà del 1899 fece aumentare gli operai assegnati a Boni da venti a cento[38].

 

 

3.3. – In cerca del Lapis Niger

 

Boni non approvava le tesi su Roma – già irrise, può essere interessante saperlo, da Leopardi[39] e, dopo le scoperte del Nostro, da Pirandello[40] – di Niebuhr e di altri filologi, soprattutto tedeschi, che negavano realtà storica alla Roma dei re[41]: in cuor suo sapeva, prima d’averne la prova, che «in quei primi secoli di tradizione romana [...] risiedeva il segreto della forza e dell’espansione civile del popolo latino nel mondo» (ET I, 572). Sulla scia del lavoro già compiuto a Venezia, applicò il metodo dello scavo stratigrafico, per il quale vi è una difformità di opinioni tra gli studiosi, ponendosi la questione se Boni avesse accolto la lezione del tedesco Wilhelm Dörpfeld negli scavi di Olimpia, o se piuttosto (come si è già detto), egli avesse trasferito in campo archeologico metodiche già presenti nella paletnologia italiana[42].

Nel suo Dalle origini, excursus sulle proprie ricerche tra il 1898 e il 1903, Boni scrisse che era suo sforzo quello di

 

«giungere all’anima stessa delle cose, e farmene guida sicura nella ricerca di quanto ieri ancora era negato e deriso, solo perché non ne appariva vestigio o esplicita tradizione negli scrittori»[43].

 

Sul finire del 1898, dopo aver già ritrovato frammenti dell’Arco di Tiberio[44] e un avanzo di quella Regia che altri avevano dato come archeologicamente perduta, con lo scavo presso l’aedes Vestae iniziò dunque

 

«la ricerca di quei caposaldi della storia religiosa, politica e sociale del Foro la conoscenza dei quali è necessario preludio a studi che, avvicinando a noi il nucleo storico della leggenda, si propongono di svelare le origini di Roma»[45].

 

Il suo primo risultato eclatante non riguardò però l’età arcaica, esso consistendo nella scoperta dell’Ara di Cesare, eretta da Augusto sul posto dove era stato arso il corpo del Divus[46]. Ma fin dal 1896, anno del suo primo saggio archeologico nel Foro[47]. Boni sognava di scoprire il Lapis Niger[48], peraltro dentro una visione di riscoperta della totalità delle vie della valle forense, scorgendo «un alto simbolo in quei sentieri colleganti i massimi sacrari dell’antica Roma; quasi legame sensibile fra i principi morali su cui fondavasi lo stato romano»[49].

Di un niger lapis in Comitio vi era notizia innanzitutto in un passo di Verrio Flacco, riportato da Sesto Pompeo Festo (p. 185 Lindsay) che vi accennava come a un luogo funesto, identificato da alcuni come la tomba di Romolo e da altri come quella di Faustolo (il mitico pastore che si prese cura di Romolo e Remo bambini) o, ancora, quella di Osto Ostilio, avo del re Tullo Ostilio[50]. Ma Boni aveva presente anche i versi oraziani: «Barbarus... / quaeque carent ventis et solibus ossa Quirini, / nefas videre, dissipabit insolens» (Epod. 16, 11-14)[51]. L’erudito del III sec. d.C. Pomponio Porfirione, nei suoi Commentarii ad Orazio, aveva collegato il verso 13 a una presunta sepoltura di Romolo post rostra riferita da Varrone; e la Tea scrive:

 

«Quel “carent” gli fece pensare che memorie del primo re di Roma fossero state raccolte e ricoperte in occasione di lavori forensi: e s’aspettava di trovarli sotto la fatidica “pietra nera”» (II, 14).

 

La mattina del 10 gennaio 1899, nel mentre si lavorava alla sistemazione della Via Sacra, la pietra nera, una platea a grossi blocchi levigati, comparve. Fu allora, riferisce la Tea, che Boni «sentì uno spirito arcano presiedere al suo destino» (II, 15; corsivo mio). La stampa romana e nazionale, ma anche quella estera, diedero ampio rilievo per giorni e giorni alla scoperta, intanto «ignote mani gentili cospargevano di fiori la Tomba di Romolo (il popolo non volle mai chiamarla altrimenti)» (II, 18). Il 30 gennaio il ministro Baccelli invitò i colleghi della Camera a visitare gli scavi. La Camera e il Consiglio comunale, tutti i partiti essendo concordi, votarono per la prosecuzione dei lavori. Le autorità dello Stato riconoscevano alle nuove scoperte il compito religioso di affratellare gli Italiani vicini a festeggiare il trentennale del ritorno di Roma a caput Italiae.

Nel febbraio, sulla «Rivista politico-letteraria», L’Italico (Primo Levi) scriveva della riabilitazione del Foro e dei meriti di Boni e del suo sponsor, il ministro Baccelli[52]. Interpretando il pensiero dell’amico archeologo, Levi proponeva la «consacrazione di un tempio o museo archeologico» nell’antico Heroon di Romolo sulla Via Sacra, e inseriva nell’articolo pure la lettera che Boni aveva inviato a Ruskin (il quale però si trovava ormai in uno stato di infermità mentale) appena dopo la scoperta del Lapis[53]. A marzo, seguirono altre scoperte nello scavo di tale sito, mentre altri saggi furono effettuati sempre nell’area del Comizio, con rinvenimento della base di Massenzio (su cui vd. infra § 10.3), e presso il tempio di Antonino e Faustina, ove Boni individuò un tratto di quella che ritenne la vera Via Sacra, a livello diverso di quella in precedenza scoperta da Lanciani, e da Boni stimata come medievale[54]. Ma è il 31 maggio «Il giorno prima […] avevo la febbre a 39°5’; ingoiai un grammo di chinino e tornai sottoterra» (in ET II, 24, da una lettera all’amico inglese Baddeley[55]) – che finalmente il Nostro porta alla luce i reperti sottostanti il Lapis Niger, tra cui il più importante è la stele recante incisa sui quattro lati e su uno degli spigoli, con lettere di alfabeto calcidico e andamento bustrofedico, una legge sacrale, di oscura interpretazione; stele in cui però leggevasi chiaramente il dativo RECEI.

 

«Mutila, aveva accanto un cippo conico pure scapezzato. Tutto il complesso monumentale portava i segni di violenta distruzione ed era avvolto in una specie di stipe votiva, mista ad avanzi di sacrifici» (ET II, 23).

 

Nel luogo sotterraneo vengono rinvenuti pure

 

«una base con modanatura, a pianta pressoché quadrata, recante probabilmente due leoni e oggi alquanto mutila; vari altri oggetti arcaici, alcuni ex voto, un puteale e un deposito di resti animali, provenienti forse da sacrifici connessi coi riti di fondazione e comprendenti – fatto piuttosto strano – le ossa di uno o più avvoltoi»[56].

 

Una sintesi del significato del luogo ce la offre M. Pilutti Namer:

 

«Dovette trattarsi di un luogo sacro al tempo della guida di Roma da parte dei re, e un re era forse l’unico che potesse accedervi assieme a un calator, un araldo; nessun altro era ammesso a entrare nell’area sacra, salvo incappare in maledizioni. L’opinione più accreditata sull’iscrizione arcaica è che alluda a un divieto, implicitamente rivelando un’ampia frequentazione dell’area»[57].

 

Oggi il cippo e la sua iscrizione (che anche in molti libri scolastici sono indicati essi erroneamente come Lapis Niger) sono datati alla prima metà del VI secolo a.C., mentre il settore di superficie lastricato in marmo nero (l’effettivo Lapis Niger) è ricondotto a un definitivo interramento dell’area sacra avvenuto nella tarda età repubblicana (I sec. a.C.). Il cippo è dunque inequivocabilmente d’età regia[58]. Ma per qualche anno, dopo la sua scoperta, divamparono aspre polemiche sulla sua datazione e sulla iscrizione, che videro contrapposti gli studiosi ‘tradizionalisti’ italiani (in primis Luigi Ceci, vicino a Boni e al ministro Baccelli) e gli ‘ipercritici’ tedeschi (in primis Christian Hülsen, allora vice segretario dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma[59]) e quelli italiani influenzati dalla scuola germanica (Ettore Pais in primis), mentre ambienti culturali cattolici (il gesuita De Cara su La Civiltà Cattolica) sposavano la tesi ‘tradizionalista’ con il non tanto nascosto fine di andare contro quella filologia e quella critica storicistica nate nella Germania luterana e che avevano investito pure la tradizione biblica. E Boni?

 

«Fu forse per sfuggire a questo pericolo di deriva cattolica e filoclericale che Boni preferì mantenere un profilo basso, rimanendo tutto sommato in disparte nell’infuriare delle polemiche, senza offrire il destro a speculazioni che sarebbero state di segno del tutto opposto alle proprie posizioni ideologiche»[60].

 

Fu comunque l’autorevole tedesco Mommsen a chiudere la partita nel 1903, ammettendo che l’iscrizione del cippo del Foro era un documento pubblico d’età regia[61].

 

 

3.4. – Dimore di dèi e sacerdoti

 

Tra gli scavi del 1899 successivi a quelli del Lapis Niger, senza dimenticare quelli alla Basilica Emilia cui lavorò ad intermittenza per diversi anni[62], vanno ricordati: la scoperta del sacello di Venere Cloacina «legato al sacro principio della purificazione, base del rituale romano, e ad uno dei più appassionati racconti di Livio: la morte di Virginia»[63], quindi, ancora nell’area del Comizio, quella, a giugno, del Volcanal[64]: un’ara scavata nel tufo, intonacata di rosso, l’ara del fuoco, su cui Latini e Sabini avevano suggellato la loro alleanza, «forse nel mondo italico, il monumento più venerando»[65]. Baddeley scrisse che quel mattino «era un vero scintillio di splendore solare, come se la Divinità che presiede alla luce e alla fiamma volesse esprimere il suo favore» (in ET II, 57-88). A luglio, durante l’esplorazione della Regia[66]. dimora dei pontefici, nel cortile settentrionale, scoprì una tholos conoide. Vi riconobbe un granaio sotterraneo, del tipo descritto da Varrone. Scrive la Tea:

 

«Con la rapidità e la potenza di associazione, caratteristiche del suo ingegno, egli intravide il rapporto oscuro fra la dea terrestre, l’Ops Consiva in Regia dei calendari romani e il farro usato dalle Vestali per la mola salsa. Ripensò al penus o cella di Proserpina in Campo Marzio e ai granai sacri di Cerere ad Enna: comparò la notizia data da Varrone, che al Sacrario d’Ops Consiva nella Regia solo il sommo sacerdote e le Vergini Vestali potessero accedere, con quanto riporta Columella sulla purità richiesta in coloro che nella cella domestica maneggiavano il cibo comune: “propter quod his necessarium esse pueri vel virginis ministerium”, intorno al pozzo di tufo tessé un poema» (II, 30).

 

Scoperto quello che ritenne il sacrario di Ops Consiva, il granaio sacro della Regia, poco dopo, sempre nella Regia, rinvenne il Sacrarium Martis, ove venivano custodite le Hastae-sismografo (sulle quali vd. infra § 10.1)[67]: la mente lo spingeva alla ricerca dei nessi segreti tra Vesta e il dio dei Romulidi,[68] di cui scriveva in un articolo destinato al pubblico inglese: «Il Marte della Regia non era dio bellicoso, ma pacifico, come dimostra la pianta di lauro, “ipsa pacifera”, alle soglie del sacrario» (in ET II, 33).[69] E ancora:

 

«Prima di piantar lontano i segni fieri di Roma, Marte era padre della luce e del calore solare che fa crescere e maturare il grano. Gli era sacro il campo sperimentale chiamato Marzio, dove i primi re di Roma, a cui erano affidati la pioggia e il bel tempo, seminavano il farro destinato alla mola salsa. Una corsa autunnale, come l’indo-ariano açvamedha, conduceva alla scelta dell’October equus, cavallo di destra della biga vincitrice; la sua testa, portata di corsa alla Regia, veniva cinta di pani, poiché il sacrificio era fatto per la prosperità delle messi. Le Vestali riponevano le prime spighe mature nel granaio sotterraneo di Ops Consiva, accanto al sacrario di Marte, perché servissero alla confarreatio»[70].

 

Nella casa delle Vestali a novembre ritroverà un tesoro di 397 monete auree di età repubblicana[71]. Ma è all’inizio del nuovo secolo che l’esplorazione del sacrario di Vesta lo porta a riconoscerne

 

«la circolare struttura, e, nel mezzo, la cella trapezoidale, dove si custodivano, verisimilmente, quelle ceneri sacre, che, qual ritual cibo alla terra, erano ogni anno recate al tempio di Ops, compagna di Saturno»,

 

e poi, di età repubblicana, «avanzi di sacrifici a Vesta e vasellame ad ansa lunata», e infine, nel cortile dell’aedes, «due grandi vasche» ed «un gruppo di stanze appartate, di cui una absidata», che gli apparvero i penetralia custodi delle misteriose eredità che i Romani avevano ricevuto da tempi remoti[72]. Scrive la Tea:

 

«A Vesta il suo pensiero tornava ogni qualvolta bramava racchiudere in un sol nome la santità delle origini e la purezza della romana religio.

Non estraneo a quel mito giudicava il concetto di stabilità. Simbolo, effetto e causa delle stabili sedi»[73].

 

 

3.5. – Discours de la méthode

 

Il proficuo biennio forense 1899-1900 (che comprende pure scoperte relative a Stationes Municipiorum, Graecostasis, Rostra Vandalica e Vetera e Rostri Imperiali[74], la platea forense, le cloache, i pozzi rituali[75]) è anche quello dell’inizio dei rapporti apparsi su Notizie degli Scavi[76] la pubblicazione dell’Accademia dei Lincei (che però sempre gli sbarrò le porte[77]). Ed è nel volume del 1900 che compariranno i lavori scientificamente migliori (relativi al Sacrario di Vesta, al rilievo altimetrico e planimetrico dell’area Colosseo-Tabulario, al Fons Iuturnae, al Comizio, ai Rostri), apprezzati anche da moderni studiosi[78] che pure ritengono di aver individuato i molti limiti, sia scientifici che umani, del Nostro, limiti che l’affetto dei biografi Beltrami e Tea avrebbe velato[79]. Tra questi studiosi, F. Guidobaldi, che scrive:

 

«Le recenti esplorazioni nel Sacrario di Vesta […] può essere considerato un prototipo del nuovo modo di studiare e pubblicare una indagine archeologica poiché in esso si propone, per la prima volta, una accurata analisi stratigrafica del nucleo murario di fondazione del tempio e si forniscono, su quella base, numerosi dati del tutto inediti sulla storia e la struttura del tempio stesso»[80].

 

E ancora:

 

«L’innovazione contenuta negli scritti boniani di una sola annata di Notizie degli Scavi (anche se in gran parte frutto dell’attività svolta nell’anno precedente) fa davvero pensare ad una mente libera e creativa capace di elaborare criteri innovativi di studio anche su temi che non erano stati preliminarmente frequentati in modo specifico: non si può dunque fare a meno di pensare che alla base delle nuove impostazioni ci fosse una notevole capacità di analisi e di elaborazione – in breve, una indiscutibile genialità – ma si deve anche ritenere che soprattutto il metodo stratigrafico, di cui Boni si fece teorico e divulgatore nel 1901, nacque in modo “naturale” dalla semplice constatazione dell’esigenza di documentare e studiare il più possibile ciò che si manometteva prima di decidere che si poteva procedere con la definitiva rimozione»[81].

 

Del 1899 e del 1900 sono anche i primissimi articoli per La Nuova Antologia, la rivista cui fino al 1923 affiderà la maggior parte dei suoi scritti divulgativi. E la serie inizia proprio con Gli scavi nel Foro Romano e Aedes Vestae[82]. mentre del 1901 è il fondamentale testo Il metodo negli scavi archeologici, che «codificava lo schema di lavoro che aveva appena applicato nello scavo dell’aedes Vestae e del Comitium» e che dimostra come Boni «si sia reso subito conto delle novità assolute che stava introducendo» nel mondo degli scavi[83]. Nel 1912, in occasione del I Convegno degli Ispettori Onorari dei Monumenti e Scavi (Roma, 22-25 ottobre 1912), Boni, cui venne affidata la presidenza della sezione di topografia romana, amplierà notevolmente il suo saggio del 1901 facendone quella che la Tea chiama una «memorabile lezione sul metodo» (ET II, 293)[84]. Di questa relazione, oggi Bruno Zanardi, in un suo bel saggio, così loda in particolare la conclusione:

 

«Straordinaria, anche sul piano letterario, è infine la chiusa che Boni fa al suo intervento, un richiamo alla natura e alla vita reso con un delicatezza d’animo e una precisione tecnica e storica che lo conferma uomo di grandissima qualità, qual egli fu nell’intera Europa del suo tempo»[85].

 

Già Luca Beltrami aveva grandemente valorizzato nella sua monografia del 1926 il metodo e la dottrina relativa dell’amico da poco scomparso, così citandolo e commentandolo:

 

«“Per riconoscere, egli scrive, la parte sepolta o i fondamenti di antichi ruderi, inizio la esplorazione stratigrafica mediante piccole sezioni laterali: se nel procedere dello scavo incontro altri ruderi, proseguo l’esplorazione in senso orizzontale, fino a trovarne il limite, e continuo allora la discesa fino al terreno vegetale. Le sezioni giovano a ben determinare il numero e la qualità degli strati da esplorare, nonché i caratteri dei materiali componenti ogni singolo strato; conoscenza di sommo aiuto, quando si deve fare lo scavo su grande scala”. Non si potrebbe immaginare una maggiore semplicità di metodo e di esposizione; però il Boni mette tosto in guardia chi volesse, da questa semplicità, dedurre la facilità: “Per poter leggere questo libro costituito dagli strati archeologici con rigore scientifico – non col facile, ma infecondo proposito di appagare la effimera curiosità della folla – occorrono due specie di abnegazione: quella, dirò così fisica, la quale non fa indietreggiare dinanzi agli ostacoli materiali del lavoro sotterraneo o subacqueo, nei pozzi e nelle cloache: e quella morale che ammaestra a non dimenticare quanto dobbiamo alle ricerche altrui, a non tirare la somma di cifre ancora ignorate, a tollerare se non tutti comprendono la ragione e la portata delle indagini incipienti”»[86].

 

F. Guidobaldi riconosce a Boni, pur con delle riserve, il merito di aver sanzionato l’ingresso della geologia, degli studi tecnologici, della matematica e della fisica nel campo dell’archeologia,

 

«per affiancare e supportare i tradizionali strumenti fino ad allora utilizzati e cioè le fonti, l’epigrafia, le tecniche costruttive e l’analisi stilistica: ovviamente il tessuto connettivo necessario, in entrambi i casi, era quello dell’elaborazione logica, ma quest’ultima era dominante nel primo caso, mentre nel secondo era spesso pericolosamente subordinata all’intuizione»[87].

 

Ma vorrei concludere questo argomento con il particolarissimo modo, rivelatore del suo eclettismo, che Boni aveva di strutturare le sue trattazioni, ben riassunto da Marco Pretelli prendendo come modello due scritti archeologici qui già citati:

 

«In Scavi nel Foro Romano. Aedes Vestae Boni descrivendo il Sacrario di Vesta, in poche pagine ripercorre tutte le molteplici storie che in quel reperto si potevano riscontrare: la storia degli scavi del Foro, e delle incapacità che avevano avuto gli archeologi a studiare quel rudere; la storia particolare che nell’antichità aveva segnato quel particolare monumento, che templum non era (per non essere mai stato inaugurato); la storia leggendaria dell’area su cui l’Aedes sorgeva; il significato simbolico collegato alla scelta di quel luogo. Quindi descriveva fisicamente il monumento e il suolo su cui esso sorgeva, elencando la natura degli strati geologici sottostanti la fabbrica e deducendo dall’analisi dei materiali considerazioni sull’epoca della costruzione e sugli interventi che nel corso dei secoli lo avevano interessato. Dalla cura diligente e illuminata per la stabilità dell’edificare”, giungeva a conclusioni sulle qualità morali dei Romani della Repubblica e dei primi tempi dell’Impero “quando Augusto encomiava un amico per la cura da lui spesa nell’edificare la propria casa, quasi Roma dovesse durare eterna…”. Infine, con l’esame dei reperti, dai resti di carbone dei fuochi votivi e delle ossa degli animali sacrificati a quello dei fittili, Boni svolgeva considerazioni sull’evoluzione dei riti e della società»[88].

 

Limite notevole di Boni fu però, secondo alcuni, dilazionare e alla fine trascurare la pubblicazione scientifica dei successivi risultati dei suoi scavi,

 

«lasciando una mole di documentazione che ancora oggi, nonostante l’encomiabile lavoro della Soprintendenza di Roma sotto la direzione di Patrizia Fortini, risulta in parte inedita»[89].

 

Ma per altri:

 

«[…] se nessuno dei predecessori e dei successori [id est Rosa, Lanciani, Bartoli, Carettoni] di Boni al Foro e al Palatino (almeno fino agli scavi di quest’ultima generazione) vanta non solo una documentazione grafica pari a quella prodotta da Boni, ma un elenco di pubblicazioni scientifiche pari ai volumi di terra asportata, possiamo domandarci chi sia in condizione di scagliare la prima pietra per questa indegna lapidazione?»[90].

 

 



[1]. M. Pilutti Namer, Giacomo Boni cit., p. 58.

[2]. Ibid., p. 59.

[3]. Ibid.

[4]. Ibid., p. 57 n. 142. I. Iacopi, Giacomo Boni cit., p. 15, è ad es. di parere diverso: «Di formazione autodidatta, aveva acquisito una conoscenza profonda del mondo antico e degli scrittori classici».

[5]. M. Pilutti Namer, op. cit, p. 17.

[6]. G. Boni, John Ruskin, cit., p. 74.

[7] Cfr. L. Beltrami, Giacomo Boni cit., p. 37.

[8] Ibid., p. 21.

[9] Ibid.

[10] F. Canali, Giacomo Boni e Corrado Ricci cit., p. 577 n. 5.

[11] Ibid., p. 616.

[12] E. Vio e M. Sediari, Il contributo di Giacomo Boni cit., p. 109.

[13] Ibid., p. 110.

[14] Cfr. M. Pilutti Namer, Spolia e imitazioni cit., p. 108.

[15] PG, p. 641 (Guidobaldi). Vd. anche, ibid., le osservazioni alla n. 190.

[16] Cfr. ET I, pp. 190-193.

[17] Cfr. N.-D. Fustel de Coulanges, La Città antica, trad. it., Sansoni, Firenze 1972. Questa edizione italiana riprende quella di Gennaro Perrotta per Vallecchi del 1923, e malgrado una più ‘disponibile’ Nota introduttiva di Giovanni Pugliese Carratelli (pp. IX-X), ripropone l’originaria Prefazione (pp. II-XXIV), sostanzialmente ostile al comparativismo indoeuropeo, di Giorgio Pasquali. In merito, vd. le opportune osservazioni di R. Del Ponte, La religione dei Romani, II ed., Arya, Genova 2017, p. 22 n. 31.

[18] E. Cassirer, Storia della filosofia moderna. Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza, trad. it., Einaudi, Torino 1978, vol. IV, t. II, pp. 470-471 (il corsivo è dell’A.).

[19] Su Ampère, favorevolmente presentato come contrario alla ipercritica tedesca antiromulea e quasi come ‘proto-carandiniano’, vd. A. Grandazzi, La fondazione di Roma, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 179-180.

[20] Cfr. ET I, pp. 573-574.

[21] Cfr. ibid., p. 574.

[22] Cfr. ibid., pp. 574-575. Ma tutt’altro che amati furono da Boni i successori di Bunsen a Roma: vd. infra § 3.3.

[23] Sulla nobildonna romana, cfr. A. Petrucci, s. v. Caetani, Ersilia, in DBI, vol. 16, 1973; P. Ghione, Il salotto di Ersilia Caetani Lovatelli a Roma, in M. L. Betri e E. Brambilla (a c. di), Salotti e ruolo femminile. Tra fine Seicento e Primo Novecento, Marsilio, Venezia 2004, pp. 487-508; G. D’Uva, Ersilia Caetani Lovatelli, in «La Cittadella», n. s., a. III, n. 10, apr.-giu. 2003, pp. 11-12. La casa editrice romana Flower-ed ha inaugurato nel 2014 una collana (Il salotto di Ersilia) dedicata alla riedizione degli scritti della contessa-antichista.

[24] Cfr. ET I, pp. 139, 142.

[25] G. B. De Rossi nel 1852, proprio nelle Catacombe di S. Callisto, aveva scoperto i graffiti ivi lasciati dall’umanista Pomponio Leto (1428-1498) e dai suoi sodali dell’Accademia Romana, protagonisti della supposta congiura antipapale del 1468: graffiti che rendevano plausibile l’accusa mossa a Pomponio di esser ritornato al culto pagano romano (mi sono occupato dell’argomento in Pomponius Pont. Max., cap. XII di S. Consolato, Urbs Aeterna cit., pp. 113-131). Pomponio Leto, che può anche essere considerato un ‘proto-archeologo’, è per non pochi aspetti (tra cui ad es. il frugale modo di vita ispirato alla Roma catoniana) accostabile a Boni, ma il suo nome, a quanto mi risulta, non è mai fatto dal Nostro.

[26] Cfr. PG, p. 639 e n. 66 (Guidobaldi).

[27] Ma vd. più ampiamente, con tanto di autodifesa di Boni, E. Tea, L’opera di Giacomo Boni ecc. V, cit., pp. 152-160. Un ruolo non da poco nell’accusare Boni di «una totale indifferenza per l’arte paleocristiana ed altomedievale» lo ebbe il tedesco Wilpert: cfr. G. Bordi, 1900-1916. Giuseppe Wilpert e la scoperta della pittura altomedievale a Roma, in S. Heid (a c. di), Giuseppe Wilpert (1857-1944) esponente della “scuola romana” di Archeologia Cristiana, Atti del Simposio internazionale (Roma, 16-20 maggio 2007), Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Città del Vaticano 2009, pp. 323-358, cit. da p. 328, ma vd. integralmente le pp. 226-236. Importante in proposito l’odierno giudizio di Adriano La Regina: «[…] il Foro romano [è] una creazione del Novecento, in gran parte dovuta a Giacomo Boni, il quale seppe sottrarre senza remore elementi non funzionali alla composizione del paesaggio e alla rappresentazione più efficace della sua dimensione temporale. Non è vero che furono eliminate le testimonianze di età medievale per preferire quelle di epoca classica. Boni documentò quello che la scienza del suo tempo considerava necessario ma asportò livelli e strutture di età antica e medievale per giungere all’assetto che nel Foro tuttora si mantiene». In http://www.bianchibandinelli.it/2015/03/11/roma-moderna-i-fori-e-la-citta-conferenza-di-adriano-la-regina/.

[28] Cfr. PG, pp. 618-619 (Paribeni). Pubblicando recentissimamente la serie inedita di brevi rapporti sugli scavi del periodo agosto-settembre 1899 che Boni inviò a Baccelli, M. Pilutti Namer (Notes on Some Unpublished Fieldwork Reports Written by Giacomo Boni for Guido Baccelli in 1899, in «History of Classical Scholarship», vol. 3, a. 2021, pp. 295-324) ha giustamente rilevato come il ministro, di buona cultura classica, avesse un suo preciso progetto archeologico-politico, ma, ad avviso della studiosa, di tale progetto l’archeologo veneziano, ancora una volta presentato (lo si è già visto) come sostanzialmente ignorante di latino e quindi dei classici (vd. art. cit., p. 305), sarebbe stato, fatta salva la sua perizia negli scavi, per lo più un esecutore ambizioso, abbastanza  pronto, allora come poi all’avvento del fascismo, a piegarsi agli interessi del potere politico da cui dipendeva la sua attività scientifica (vd. ibid., p. 302). Ma appare sorprendente che la Pilutti Namer, in uno studio dedicato ai rapporti Boni-Baccelli, dimentichi del tutto il terribile attacco poi sferrato in Parlamento dal politico romano all’archeologo, nel 1905, proprio perché Boni aveva mostrato di voler seguire un suo piano di lavoro nel Foro (ma su ciò dirò infra).

[29] Così descrive in un suo rapporto del 20 dicembre 1895 la sede in Via Miranda dell’Ufficio: «Un odore acre di cattiva cucina e di corridoi male spazzati e di latrine mal lavate, dispone a tutt’altro che a pensieri degni d’un personale che voglia e sappia con scienza e coscienza occuparsi della conservazione dei monumenti dell’antica Roma […] Gli operai erano in numero esuberante; ma su ottantadue solo trentaquattro lavoravano; e gli elenchi comprendevano anche gli assenti e i morti. Molti erano passati di categoria; “operai-custodi”, pagati per non lavorare» (in ET I, p. 485).

[30] Cfr. E. Tea, L’opera di Giacomo Boni ecc. IV, cit., pp. 315-316.

[31] Per il periodo che va dalla scoperta del Lapis Niger nel Foro (1899) a quella del presunto Mundus sul Palatino (1913-1914), cfr. ET II, capp. I-XV; L. Beltrami, op. cit., capp. V-XI; PG, pp. 58-75 (Paribeni), pp. 639-659 (Guidobaldi). Su Boni archeologo forense vd. pure A. J. Ammerman, Boni’s work and ideas on the origins of the Forum in Rome, in I. Favaretto e M. Pilutti Namer, op. cit., pp. 145-146; P. Fortini, Gli scavi al Foro Romano e il Museo, in A. Russo, R. Alteri, A. Paribeni, Giacomo Boni cit., pp. 46-59.

[32] M. Barbanera, Storia dell’archeologia classica in Italia, cit., pp. 102-103.

[33] Sull’importanza data alla geologia per il lavoro dell’archeologo, tanto che auspicava che per i giovani archeologi non bastasse la laurea in Lettere, cfr. E. Tea, L’opera di Giacomo Boni ecc. Le fonti, cit., pp. 95-98.

[34] Su questa questione, vd. PG, p. 665 (Guidobaldi).

[35] Guidobaldi, ibid., p. 627, scrive che il Nostro «risulta […] inquadrabile con molta difficoltà in una specifica professione». Occorre aggiungere che Guidobaldi ha appurato che Boni non avrebbe avuto in realtà diritto al titolo di architetto, in quanto al tempo dei suoi studi veneziani non si presentò agli esami finali per il conseguimento del diploma (ibid., p. 632 e n. 29).

[36] I. Favaretto, Giacomo Boni e… Ongania, cit., p. 97. Un notevole contributo alla conoscenza dell’opera di Boni nel Foro è stato dato promuovendo la pubblicazione dei suoi lavori inediti (testi, fotografie, disegni) connessi agli scavi: cfr. A. Capodiferro e P. Fortini (a c. di), Gli scavi di Giacomo Boni al Foro Romano cit.; P. Fortini e M. Taviani (a c. di), In Sacra Via. Giacomo Boni al Foro Romano. Gli scavi nei documenti della Soprintendenza, Electa, Milano 2014; E. Carnabuci, Regia cit.

[37] M. Barbanera, op. cit., p. 59.

[38] Cfr. PG, p. 87 (Paribeni).

[39] Nei suoi Paralipomeni della Batracomiomachia (c. VII, st. 2), Leopardi prese in giro, nominandolo espressamente, il già morto filologo e storico Niebuhr, che pure in verità gli si era mostrato amico, proprio in tema di tradizioni antiche e cronologie, riferendosi a Creta e Minosse, ma evidentemente pensando a Roma e Romolo. Cfr. G. Leopardi, Poesie e prose, vol. I, Poesie, a c. di R. Damiani e M. A. Rigoni, Mondadori, Milano 1996, pp. 283-284 e n. di p. 1039. In merito vd. pure P. Treves, L’idea di Roma e la cultura italiana del XIX secolo, Ricciardi, Milano-Napoli 1962, p. 96.

[40] Nel testo Ritorno di Fuori di chiave (1912) Pirandello immagina di essere in treno di ritorno in Italia con «una tedesca ebrea» (3, 2) che chiama Frau Germania, e a cui, al termine di uno sconsolato richiamo al glorioso passato romano dell’Italia, dice: «ed a Roma ecco una cattedra / pronta, allora, perché Lei // qualche irsuto suo discepolo / ci spedisca, o dotta amica, / a insegnare a noi la storia / (senza i re) di Roma antica» (in L. Pirandello, Tutte le poesie, a c. di F. Nicolosi e M. Lo Vecchio-Musti, Mondadori, Milano 1996, pp. 214-218). E cfr. anche il racconto interventista, scritto poco prima dell’ingresso italiano nella Grande Guerra, Berecche e la guerra, ove il protagonista, un italiano con simpatie germaniche, formatosi sugli studi filologici tedeschi (come Pirandello stesso, che aveva studiato a Bonn), si trova a soffrire per «l’affermazione, per esempio, che ai Romani mancasse il dono della poesia; e, accanto a questa affermazione, la dimostrazione che poi fosse leggendaria tutta la prima storia di Roma» (in L. Pirandello, Novelle per un anno, a c. di M. Costanzo, Mondadori, Milano 1990, vol. III, t. I, pp. 571-622, v. p. 586).

[41] Per una rivisitazione aggiornata della storia delle tesi ipercritiche sui primordi di Roma (a partire da Niebuhr, Mommsen e l’italiano Pais) e della loro confutazione archeologica (a partire dalle scoperte di Boni), cfr. A. Grandazzi, op. cit., in particolare il cap. I (L’età della filologia), pp. 13-27. R. Del Ponte, op. cit., pp. 21-25, fa osservare come oggi nella stessa Italia, di contro alla riconsiderazione delle fonti letterarie antiche di archeologi come Carandini, siano ben vivi, nei vari ambiti dell’antichistica, i «vecchi pregiudizi della scuola storicistica, il cui estremo epigono si può senz’altro considerare Arnaldo Momigliano» (p. 22). Ho già accennato a questa problematica nella Introduzione, vi tornerò nelle Conclusioni.

[42] Su tutto ciò, cfr. PG, pp. 138-140 (Paribeni), ed anche D. Manacorda, Boni e il metodo cit., in particolare p. 123. Altre osservazioni sul metodo boniano, oscillanti tra i pregi e i difetti che avrebbe avuto, in M. Barbanera, op. cit., pp. 103-105. Sul metodo, vd. pure ET II, 121-132. F. Guidobaldi, in PG, pp. 652-653, sottolinea che l’utilizzo del metodo stratigrafico da parte di Boni non fu costante, ed escluso ad es. per S. Maria Antiqua, in cui operò «con i classici sterri indiscriminati accompagnati talvolta persino dall’uso di esplosivi» (p. 653), ma vd. però, su questo genere di critiche, D. Manacorda, art. cit., pp. 128, 136. Sul metodo di Boni tornerò diffusamente più avanti.

[43] G. Boni, Le origini di Roma cit., p. 14.

[44] Cfr. E. Tea, L’opera di Giacomo Boni ecc. IV, cit., pp. 312-313.

[45] G. Boni, art. cit., p. 14.

[46] Sulla scoperta dell’Ara di Cesare, cfr. E. Tea, L’opera di Giacomo Boni ecc. Fonti, cit., pp. 99-101.

[47] Cfr. ET I, p. 486; PG, pp. 54-55 (Paribeni).

[48] Su Boni e il Lapis Niger, cfr. E. Tea, L’opera di Giacomo Boni ecc. II., cit., 272-277, 302-303; PG, op. cit., pp. 88-90 (Paribeni) e 232-236; M. Pilutti Namer, op. cit., pp. 94-98.

[49] E. Tea, L’opera di Giacomo Boni ecc. IV, cit., p. 301. Su Miliarium Aureum e Umbilicus, Sacra Via, Via Nova, Summa Sacra Via, vici e clivi, cfr. ibid., pp. 301-310.

[50] Festo, p. 174 Lindsay. Sul Lapis Niger, le fonti classiche e il tema della tomba di Romolo’, nonché quello del mundus plutarcheo del Comizio, cfr. J. Rykwert, L’idea di città, trad. it., II ed., Einaudi, Torino 1981, pp. 187-190. Nel bel libro di Rykwert vd. anche le fotografie degli scavi al tempo di Boni. In R. A. Staccioli, Guida di Roma antica, Rizzoli, Milano 1986, p. 265, si legge: «Secondo una recente ipotesi si tratterebbe però e prima di tutto del santuario di Vulcano (Volcanal), ossia dell’antichissimo santuario del Comizio costituito in età regia nel luogo in cui secondo la tradizione si sarebbero incontrati ed accordati Romolo e Tito Tazio dopo la battaglia tra Romani e Sabini nella valle del Foro (e dall’incontro – cum ire = andare insieme, riunirsi – sarebbe nato il Comitium). Dato poi che in quel luogo lo stesso Romolo sarebbe stato ucciso, sull’esempio delle città greche che avevano la tomba/santuario del fondatore presso l’agorà, la piazza corrispondente al Foro, si fece del Volcanal il santuario (e la presunta tomba) di Romolo, una statua del quale potrebbe essere stata collocata in cima alla colonna sulla base tronco-conica presso l’altare. Tutto ciò spiega l’importanza e il rispetto del luogo e la sua sistemazione, previa la parziale demolizione e la copertura dei monumenti, con la “pietra nera” al tempo dei lavori di Silla intorno all’80 a.C. e, successivamente, l’inclusione di quell’area “di rispetto”, rimasta sempre in vista, nel pavimento in travertino dell’età di Cesare e di Augusto».

[51] «Sulle ceneri un barbaro / sosterà vittorioso, il suo cavallo / picchierà con lo zoccolo sonoro / la Città, le ossa di Quirino, / che ignorarono sempre il vento e il sole, / saranno con disprezzo profanate» (trad. it. di E. Mandruzzato, in Quinto Orazio Flacco, Odi e Epodi, con Introduzione di A. Traina, IX ed., Rizzoli, Milano 1997, p. 451).

[52] Cfr. L’Italico, La riabilitazione del Foro Romano, in «Rivista politico-letteraria», a. III, fasc. II, feb. 1899, pp. 112-113.

[53] Cfr. ET II, pp. 20-21; PG, p. 212. Riporterò buona parte della lettera nel § 10.1.

[54] Su tale questione, cfr. PG, pp. 95-97 (Paribeni) e 258-260.

[55] Welbore St. Clair Baddeley (1856-1945), lettore nella Harvard University e nel Lowell Institute degli Stati Uniti, membro dell’Istituto archeologico di Londra e fondatore della scuola inglese di Roma, aveva conosciuto Boni già a Venezia nel 1887. A partire dal 1897 Baddeley si stabilì a Roma e iniziò a interessarsi di archeologia romana legandosi a Lanciani. Ma a ridosso della scoperta del Lapis Niger si fece fervido seguace e propagandista di Boni, avendo un ruolo non indifferente nella contesa tra i due archeologi italiani anche in merito alla loro divergente identificazione della Via Sacra. In proposito vd. T. P. Wiseman, Con Boni nel Foro. I diari romani di W. St. Clair Baddeley, in «Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte», s. III, VIII-IX, 1985-86, pp. 119-149; A. Paribeni, Personalità e istituzioni cit., pp. 37-38. La fonte fondamentale sugli scavi boniani del 1899, nella biografia della Tea, è costituita dalle lettere di Boni a Baddeley (T. P. Wiseman, art. cit., p. 119), ma questi fu pure autore del libro Recent discoveries in the Forum 1898-1904, George Allen, London 1904. L’opera, impreziosita da ben 45 illustrazioni, si autopresentava così: «Being a handbook for travellers, with a map made for this work by order of the director of the excavations», quindi come voluta dallo stesso Boni. Sulla scoperta del gennaio 1899 l’intellettuale inglese, che Wiseman, art. cit., p. 119, definisce «ormai un personaggio dimenticato», scrisse anche una poesia, Niger Lapis, dedicata a Boni, presente nella sua raccolta di versi che stampò privatamente: Autographs of Cloud and Sunbeam in England and Italy, Edinburgh-London 1900, vd. pp. 105-107.

[56] J. Rykwert, op. cit., p. 187.

[57] M. Pilutti Namer, op. cit., p. 96. Per i particolari più strettamente tecnici dello scavo boniano, cfr. M. Taviani, Niger Lapis, in A. Capodiferro e P. Fortini, op. cit., pp. 135-165.

[58] Una recente, e accessibile a tutti facilmente, sintesi della storia degli studi sul monumento e la sua iscrizione è quella di M. Malavolta, Inscriptiones latinae antiquissimae. Il cippo del Foro sotto il Lapis Niger, testo di una conferenza tenuta ad Ariccia il 13.02.2019 e poi ospitato dal sempre prezioso sito Academia.edu.

[59] In merito cfr. K. S. Freyberger, Giacomo Boni e il suo rapporto scientifico con l’Istituto Archeologico Germanico, in P. Fortini, Giacomo Boni e le istituzioni straniere, cit., pp. 49-55, ed ivi vd. pure E. Carnabuci, Gli scavi di Hülsen e Boni alla Regia. Due metodologie di indagine a confronto, pp. 209-229. I rapporti tra Boni e l’Istituto tedesco furono pressoché sempre problematici. In una lettera a Baccelli ad es. «Boni riferisce di non aver permesso a Christian Huelsen di prendere calchi della “iscrizione di Romolo” (ovvero del Lapis Niger), fintanto che non fossero completati i calchi di gesso dell’Accademia dei Lincei, pensando di interpretare in tal modo il pensiero “romanamente italiano di Sua Eccellenza”» (PG, p. 105 [Paribeni]). Da poco terminata la Grande Guerra, Boni scrisse: «La scoperta del Niger Lapis mi ha procurato con molte amarezze la soddisfazione d’inaugurare un’era nuova negli studi di antichità romana, mettendo a lor posto i professori dell’Istituto Imperiale Germanico, avvezzi a farla da padroni nel Foro e sul Palatino, centri d’irradiazione della civiltà romana» (in L’Italia derubata, in NA, vol. 282, 1 dic. 1918, pp. 306-310, vd. p. 309).

[60] PG, p. 89 (Paribeni). L’articolo scientifico che Boni dedicò alla scoperta apparve col titolo Iscrizione latina arcaica scoperta nel Foro Romano, in «Notizie degli Scavi», mag. 1899, pp. 151-158. Ma quello divulgativo non differiva molto: Gli scavi nel Foro Romano, in NA, vol. 166, lug. 1899, pp. 368-371.

[61] Ha mirabilmente ricostruito le ‘guerre’ tra studiosi negli anni 1899-1903 A. Porretta, La polemica sul “Lapis Niger”, in «ACME, Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano», vol. LVIII, fasc. III, set.-dic. 2005, pp. 79-106.

[62]. Cfr. il § Basilica Emilia 1899-1925, di E. Tea, L’opera di Giacomo Boni ecc. III, cit., pp.141-145.

[63] E. Tea, L’opera di Giacomo Boni ecc. II, cit., p. 285.

[64] Errata la datazione al giugno 1900 della Tea (II, p. 55), cfr. PG, p. 59 (Paribeni); in E. Tea, L’opera di Giacomo Boni ecc. II, cit., p. 282, però è riportata correttamente al 1899, ma qui vd. tutto il § Il Volcanal 1899, pp. 282-285.

[65] G. Boni, Le origini di Roma cit., p. 16.

[66] Per gli studi e gli scavi alla Regia, vd. E. Tea, L’opera di Giacomo Boni ecc. II cit., pp. 286-289; PG, pp. 94-95 (Paribeni), 254-257, ma, per un approccio strettamente archeologico, cfr. E. Carnabuci, Regia cit. Il lavoro della Carnabuci, che presenta e analizza la documentazione manoscritta, grafica e fotografica del Nostro contenuta nella Cartella N. 14 conservata presso gli Uffici della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, è utile per comprendere anche errori o interpretazioni superate del Nostro, ma pure per avere la consapevolezza di come rimangano ancor oggi aperte molte questioni di topografia forense e decifrazione delle scoperte di e dopo Boni.

[67] Sui Sacraria di Ops e Mars vd., in A. Carnabuci, op. cit., pp. 45-59, il boniano Fascicolo VI della Cartella N. 14: «Scavi nel Foro Romano. Hastae Martiae e Ops Consiva».

[68] Cfr. quanto Boni scrive, ibid., p. 52, sulla contiguità tra sacrarium Martis e aedes Vestae; ma citerò io stesso il passo sul tema infra nel § 10.1.

[69] Sul Marte pacifico in connessione ai lauri, cfr. ibid., p. 51.

[70] G. Boni, Terra nostra, in Arse Verse, silloge da NA, Roma 1920, pp. 38-69, vd. p. 40. Cfr. pure il già cit. schema di lavoro in E. Tea, L’opera di Giacomo Boni al Foro ecc. Fonti, cit., p. 87. Sull’Equus October, anche in rapporto al rito ario-vedico dell’Ashvamedha, vd. l’ampia trattazione di G. Dumézil ne La religione romana arcaica, trad. it., Rizzoli, Milano 2001, pp. 197-208, ma anche le notevoli deduzioni di A. Carandini, La nascita di Roma, cit., pp. 317-322, in particolare p. 320 n. 24. Per un ridimensionamento delle tesi del ‘Marte agrario’ vd. sempre l’op. cit. di Dumézil, capp. IV (Marte) e V (Quirino). Non mi è chiaro perché E. Carnabuci, op. cit., p. 58 n. 4, parli di «presunta origine ariana della cerimonia dell’October Equus confrontata con il rito chiamato Ashvamedha» e ritenga ciò un’ipotesi di Boni sic et simpliciter.

[71] Cfr. PG, op. cit., p. 59 e n. 155 (Paribeni), p. 228.

[72] G. Boni, Le origini di Roma cit., pp. 19-20. Cfr. pure, per il Tempio di Vesta e Casa delle Vestali, G. Boni, Aedes Vestae, cit., ed E. Tea, L’opera di Giacomo Boni ecc. II, cit., pp. 292-301. Benché sia invalso l’uso di chiamare l’aedes Vestae ‘Tempio di Vesta’, ricordo che esso non aveva lo statuto di templum in quanto non inaugurato, come anche Boni sottolinea nel suo Aedes Vestae, cit., p. 8.

[73] E. Tea, L’opera di Giacomo Boni ecc. II, cit., p. 295.

[74] Cfr. Ead., L’opera di Giacomo Boni ecc. III, cit., pp. 133-141.

[75] Cfr. Ead., L’opera di Giacomo Boni ecc. IV, cit., pp. 320-328.

[76] Per i lavori apparsi su «Notizie degli Scavi» tra il 1899 e il 1911, cfr. la Bibliografia ragionata di Giacomo Boni di A. Paribeni, in PG, pp. 673-706. Cfr. anche l’interessante paragrafo ‘tecnico’ dedicato a Boni da G. Pertot, Temi del restauro in “Notizie degli scavi dell’antichità” (1876-1997), in G. P. Treccani (a c. di), Archeologie, restauro, conservazione, Unicopli, Milano 2003, pp. 97-175, vd. pp. 116-118.

[77] Sull’ostilità dei Lincei e della Minerva, vd. L. Beltrami, op. cit., Prefazione e passim; ET II, 164. Per i più generali rapporti problematici di Boni con il mondo scientifico ‘ufficiale’, vd. D. Palombi, Giacomo Boni e l’“Accademia”, in A. Russo, R. Alteri, A. Paribeni, op. cit., pp. 126-131.

[78] Ma vd. già quanto ne scrisse R. Artioli, Giacomo Boni, in NA, vol. 242, 1 ago. 1925, pp. 243-258, vd. pp. 247-248.

[79] Cfr. PG, pp. 607-611 (Paribeni), 645, 647 n. 110, 649-653, 659, 662-663, 665-668 (Guidobaldi) e nn. Si va dall’intestardirsi su ipotesi non verificate alla voluta dimenticanza di riferirsi a studiosi a lui precedenti e/o a lui avversi, dal dilazionare e non portare a termine la pubblicazione dei suoi scavi al celare i suoi ‘buchi’ culturali e scientifici col ricorso all’ausilio di amici-collaboratori, da una sopravvalutazione di se stesso alla sua difficoltà nell’instaurare rapporti d’intesa con gli archeologi accademici italiani nel mentre ricercava un appoggio da parte della stampa amica e di ambienti politici, intellettuali e artistici, questi due ultimi in particolare stranieri. Ma bisogna riconoscere che senza tali appoggi e protezioni Boni sarebbe stato presto messo fuori gioco, in un ambiente romano che si rivelò prestissimo di ‘maschere e pugnali’. Si aggiunga che mentre F. Guidobaldi parla di uno «smisurato livello di autostima» di Boni (ibid., p. 663), M. Pilutti Namer, op. cit., p. 43, invece ne difende una sua lontananza «dalla seduzione della vanità, da qualsivoglia revanscismo su un avvertito provincialismo, da eccessi di alterigia rivolti a mascherare la timidezza». Per questa studiosa Boni avrebbe avuto il merito di «concepire l’organizzazione degli scavi con mentalità di alto profilo gestionale (oggi si direbbe: manageriale)», rimproverandogli però il suo finire «per fondersi col proprio progetto senza più riuscire a distinguere tra sfera pubblica e privata, suscitando invidie e malumori di cui fu vittma lui stesso» (ibid., p. 52).

[80] PG, p. 645 (Guidobaldi).

[81] Ibid., p. 646.

[82] G. Boni, Gli scavi nel Foro Romano, in NA, vol. 166, lug. 1899, pp. 368-371; Aedes Vestae, in NA, vol. 172, 1 ago. 1900, pp. 425-434 (ma vd. la già cit. rist. anast. 2016).

[83] PG, p. 647 (Guidobaldi).

[84] I due saggi (Il metodo negli scavi archeologici, in NA, vol. 178, 16 lug. 1901, pp. 312-322; Ilmetodo” nelle esplorazioni archeologiche, in «Bollettino d’Arte», a. VII, fasc. I-II, Roma 1913, pp. 312-322), sono stati opportunamente ripubblicati insieme come G. Boni, Il metodo stratigrafico negli scavi archeologici, a c. di M. E. García Barraco, Arbor Sapientiae, Roma 2013. Al metodo boniano dedica ammirata attenzione P. Fortini, Gli scavi cit., pp. 46-53.

[85] B. Zanardi, La cultura della conservazione nell’Italia post-unitaria. Cavenaghi, Giovannoni e Boni al Convegno degli Ispettori Onorari del 1912, in I. Favaretto e M. Pilutti Namer, op. cit., pp. 14-34, vd. p. 32 (il saggio di Zanardi si conclude a sua volta con una lunga, partecipe citazione dalla chiusa bonianana, dopo un passaggio polemico, che Boni avrebbe senz’altro apprezzato, su «l’immenso e credo ormai irrisarcibile degrado culturale raggiunto dall’Italia circa il grande tema di quale sia il senso del passato nel mondo d’oggi nel Paese, il nostro, che vanta il più cospicuo e straordinario patrimonio storico e artistico dell’Occidente», ibid., p. 33).

[86] L. Beltrami, op. cit., pp. 60-61. Per le citazioni da Boni, tratte dal testo del 1901, vd. sempre Il metodo cit., pp. 13 e 12.

[87] In PG, p. 647. Vd. anche F. Guidobaldi, La visione multidisciplinare dell’archeologia, in A. Russo, R. Alteri, A. Paribeni, op. cit., pp. 78 -82.

[88] M. Pretelli, L’influsso della cultura inglese cit., pp. 132-133 n. 32. Le citazioni da Boni sono senza rimandi, ma provengono da Aedes Vestae (vd. ed. cit., p. 12).

[89] M. Pilutti Namer, op. cit., p. 60, ma vd. pure p. 48 n. 109. Sulla difficoltà che Boni ebbe a trasformare le sue ricerche in compiute opere scientifiche, vd. anche E. Tea, L’opera di Giacomo Boni ecc. Le Fonti, cit., pp. 88-94.

[90] D. Manacorda, Boni e il metodo cit., p. 132; ed ora anche Id., Boni: un profilo sintetico fra passato e presente, in A. Russo, R. Alteri, A. Paribeni, Giacomo Boni cit., pp. 29-31.Va detto che G. Carettoni stesso, Giacomo Boni cit., p. 53, giustificava le ‘mancanze’ del Nostro in fatto di pubblicazioni, scrivendo che «a non pochi altri archeologi venuti prima e dopo di lui si potrebbe muovere analogo rimprovero».