Franco Vallocchia
Sapienza-Università di Roma
CONSIDERAZIONI SUL DITTATORE ROMANO.
UN SEMINARIO DI STUDI ALLA SAPIENZA, CONFRONTANDOSI SUL DICTATOR,
TRA EMERGENZA E LIBERTÀ
Sommario: 1. Perpetue emergenze e odierne illusioni. – 2. Discutere di dictator, emergenza e libertà alla Sapienza. – 3. Il dictator tra diritto e religione. – 4. I limiti del potere emergenziale, tra umano e divino. – 5. Potere emergenziale ed equilibri del sistema. – 6. Quando l’emergenza diventa normalità, la potestà emergenziale diviene ordinaria. – 7. Riferimenti bibliografici. – Abstract.
Un’emergenza generale, come forse non si era più vista dalla fine della seconda guerra mondiale, ha caratterizzato questi ultimi anni dell’umanità intera. La causa non è stata bellica, nel senso proprio del termine, ma si è trattato comunque di una lotta, contro un nemico non visibile a occhio nudo e (forse proprio per questo) molto minaccioso. Come duramente noto, il nemico è (stato) il virus covid-19, ove il numero sta a indicare l’anno di inizio dell’emergenza, dapprima nella Repubblica popolare cinese, subito appresso nel resto del pianeta. Grande è stato lo sgomento; grande quanto fino a quel momento era stata l’illusione di non dover più vivere emergenze così pressanti e diffuse.
L’emergenza ha provocato provvedimenti di varia natura, volti a disporre misure per il contenimento del contagioso morbo; e spesso si è trattato di atti che hanno limitato le libertà fondamentali delle persone, o almeno quelle libertà che in molti ordinamenti giuridici sono qualificate come fondamentali per le persone.
In queste condizioni, si è tornati a ragionare su concetti quali emergenza, necessità, restrizione, fino a evocare istituzioni, come la dittatura, ritenute lontane ormai da tempo, almeno negli ordinamenti dell’Unione Europea. E quando si parla di dittatura, non è possibile fare a meno di confrontarsi con il diritto romano, posto che tale istituzione ha avuto ampio utilizzo per secoli nella repubblica romana, contribuendo finanche alla sua difesa attraverso la gestione – ecco il punto – delle emergenze. Insomma, la dittatura romana per almeno tre secoli è stata l’istituzione emergenziale per eccellenza.
Ecco, allora, l’idea di organizzare un pomeriggio di studio sulla dittatura romana, chiamando a discuterne non solo chi si occupa di diritto romano, ma anche chi studia il diritto costituzionale contemporaneo, la storia del diritto in generale e la filosofia politica.
L’occasione dell’incontro è stata fornita da un recente testo di Giuseppe Valditara, pubblicato a Torino nel novembre del 2021 con il titolo «Il dictator tra emergenza e libertà». L’evento è stato organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza della Sapienza-Università di Roma, nell’ambito del “Corso di Alta formazione in Diritto romano” e del “Dottorato di ricerca in Diritto romano, teoria degli ordinamenti e diritto privato del mercato”, e si è tenuto al pomeriggio del giorno 25 marzo 2022 nella Sala delle lauree e nell’aula Calasso della medesima Facoltà, con la partecipazione di numerosi studiosi e studenti, con questo titolo: «Il dictator tra emergenza e libertà. Contributo allo studio del diritto pubblico».
Per motivi legati alla pandemia covid-19, l’incontro è stato organizzato contemporaneamente in due aule e – naturalmente, sono tentato di dire, visti i tempi – in modalità mista, con l’ausilio di un collegamento telematico che ha permesso la partecipazione delle numerose persone che non hanno potuto incontrarsi nella stessa aula (a causa della riduzione di capienza motivata dal covid) o essere fisicamente presenti al seminario. Si è provveduto altresì alla registrazione dell’evento, al fine di permetterne la fruizione in una forma tutto sommato nuova per chi si occupa di ricerca scientifica in ambito giuridico; per tale motivo, la Rivista Diritto @ Storia ha deciso di pubblicare i video della registrazione, distinti per ciascun relatore[1].
Il programma ha previsto i saluti istituzionali del Preside di Giurisprudenza, Oliviero Diliberto, anche in rappresentanza della Rettrice, purtroppo impedita a partecipare a causa di impegni istituzionali. I lavori, presieduti dallo stesso Preside, sono stati avviati dalle considerazioni introduttive di Andrea Di Porto, emerito del Dipartimento di Scienze giuridiche della Sapienza. Quindi, hanno tenuto comunicazioni: Riccardo Cardilli (ordinario di Diritto romano dell’Università Tor Vergata), Tommaso dalla Massara (ordinario di Diritto romano dell’Università Roma Tre), Alessandro Ferrara (ordinario di Filosofia politica dell’Università Tor Vergata), Vincenzo Mannino (ordinario di Diritto romano dell’Università Roma Tre), Laurent Reverso (ordinario di Storia del diritto dell’Università di Tolone), Antonio Saccoccio (ordinario di Diritto romano della Sapienza), Franco Vallocchia (ordinario di Diritto romano della Sapienza). Le considerazioni conclusive sono state tratte da Luigi Capogrossi Colognesi (Accademico dei Lincei), all’esito delle quali è intervenuto l’autore del testo sul dictator, Giuseppe Valditara (ordinario di Diritto romano dell’Università di Torino).
Nelle sue considerazioni iniziali, Andrea Di Porto ha focalizzato l’attenzione sui due concetti portanti della dittatura romana indicati nel titolo dell’incontro, emergenza e libertà, tra loro in costante dialettica, ispiratrice di soluzioni istituzionali tra antichità e modernità. Su tali basi, gli intervenuti al seminario hanno incentrato la loro attenzione sul valore del concetto romano di dittatura nell’attualità contemporanea, facendo emergere interessanti spunti di riflessione intorno a svariati temi. L’emergenza, in relazione alla distinzione tra potere di dichiararla e potere di affrontarla; il potere in sé, con attenzione alla distinzione tra potestà di gestire l’emergenza e potestà costituente; i limiti alla stessa potestà gestionale, collegata all’emergenza stessa e a un ordine (divino) distinto e non pienamente disponibile da parte umana; l’equilibrio istituzionale tra potere emergenziale e potere normalizzato; infine, l’alterazione di tale equilibrio e le sue conseguenze sui destini dell’antica res publica.
In questa sede, non ho, né potrei avere la pretesa di svolgere una trattazione particolareggiata ed esaustiva circa tutti gli aspetti emersi nell’incontro, ma neppure mi limito a una cronaca, peraltro di scarsa utilità, considerato che le comunicazioni sono fruibili in questo numero della Rivista tramite tracce audio-video di durata volutamente contenuta entro quindici o al massimo venti minuti. Provo, quindi, a mettere a fuoco alcuni concetti che diano la misura della specificità della dittatura romana entro il sistema giuridico-religioso di età repubblicana[2].
L’incontro ha suscitato questioni, alle quali si è provato a dare risposte.
Procedendo dai fondamenti, è emerso subito l’interrogativo su chi avesse il potere di nominare il dittatore e sul perché le modalità di nomina fossero così diverse da quelle proprie dei coevi magistrati patrizi.
Effettivamente la nomina del dittatore, necessariamente notturna, pone questioni di rilievo circa i profili costituzionali del sistema giuridico-religioso di età repubblicana.
La notte potrebbe far pensare a una ritualità oscura, lontana dalla tradizione solare relativa alla pressoché totale dominanza dei riti diurni nella religione politeista dei Romani; una sorta di attività arbitraria di consoli e senato, partecipanti alla nomina del dittatore, finalizzata alla gestione della vicenda all’insaputa del popolo e degli altri magistrati, e soprattutto lontano da scomodi controlli ‘istituzionali’. Come scrisse Livio, riferendo della nomina notturna e per i plebei temibile di Cincinnato quale dittatore nel 458 a.C.: «quella notte a Roma tutti vegliarono»[3].
La particolare modalità di nomina notturna del dittatore, però, lungi dal derivare da intenti minacciosi verso la plebe e l’intero popolo, rispecchiava semplicemente la situazione emergenziale che doveva giustificarla, non essendo affatto esente da controlli.
Innanzitutto, il ruolo del comizio (curiato) nelle procedure di nomina del dittatore pone il tema della condivisione con il popolo, fosse stata anche una semplice espressione di ‘gradimento’ cittadino. Certo, il fatto che l’intervento del comizio (ovviamente, fino alla prima elezione popolare del dittatore all’inizio della guerra annibalica) fosse successivo alla nomina da parte del console, pone altresì la questione della limitata rilevanza istituzionale del medesimo comizio in questa vicenda; tuttavia, i casi di nomina di dittatori, narrati soprattutto da Livio, mettono al centro la necessità di individuare una personalità la più condivisa possibile tra i cittadini. Si pensi, esemplarmente, al caso della nomina di uno dei primi dittatori, Manio Valerio Massimo, scelto in un momento difficilissimo per la repubblica, alla vigilia della prima secessione plebea[4]. Potremmo, allora, dire che i meccanismi di partecipazione popolare aderivano a schemi non esclusivamente comiziali e, quindi, non collocabili entro il principio elettorale, ma non possiamo dire che il popolo fosse escluso.
Per ciò che concerne più strettamente la ritualità notturna, ritengo necessario puntualizzare la sua funzione costituzionalmente rilevante. Va ricordato che la presa degli auspici da parte dei magistrati era fatta moribus dopo la mezzanotte, ma prima dell’alba e l’urgenza di nominare il dittatore imponeva che non vi fosse soluzione di continuità tra la necessaria presa degli auspici consolari, finalizzata alla nomina del dittatore, e la nomina stessa. Quindi, a me sembra chiaro che anche questo aspetto dipendeva fondamentalmente dall’emergenza e da particolare carattere ‘morale’ – o consuetudinario, se si preferisce – del sistema giuridico-religioso romano.
Va detto anche che la ritualità notturna non metteva la procedura al riparo da controlli. Decisamente no. Non sono pochi i casi, chiaramente attestati nelle fonti, di rinnovazione di nomine a causa di vizi riscontrati dai sacerdoti auguri.
Il ruolo degli auguri era a garanzia di ius e fas, potremmo dire del diritto divino e umano, nel senso che anche l’emergenza nonché la vastità dei poteri dittatoriali dovevano sempre essere conformi agli schemi del sistema giuridico-religioso, entro il quale e non sopra il quale il dittatore trovava spazio. Peraltro, il chiaro riferimento al mos e al silentium auspicale[5], quali base normativa e modalità giuridico-religiosa della nomina, manifestano tale conformità.
Occorre ricordare che il dittatore non era subordinato al potere auspicale del console (a differenza di tutti gli altri magistrati, tranne il tribuno e il censore); quindi, solo gli auguri, e forse in parte i pontefici, avrebbero potuto inficiare non solo la sua nomina, ma anche i suoi atti, facendo valere vizi di natura giuridico-religiosa[6]. E allora, pare proprio che l’emergenza non consentisse deroghe ai controlli. Semmai, si potrebbe fare qualche ragionamento più articolato sul rapporto tra la dittatura e l’augurato, forse iniziando da un dato che qualche suggestione effettivamente crea: a quanto ne sappiamo, solo quattro personaggi ricoprirono contemporaneamente dittatura e augurato nella lunga storia repubblicana; essi furono: Manio Valerio Massimo, da cui in buona parte dipese la ricomposizione giuridico-religiosa della prima secessione plebea, Quinto Fabio Massimo, il primo dittatore a essere eletto dai comizi all’indomani del disastro sul Trasimeno, Lucio Cornelio Silla e Caio Giulio Cesare, che sciolsero la dittatura dal tradizionale limite semestrale e furono pure gli ultimi dittatori.
Altre questioni emerse nell’incontro hanno avuto come riferimento i limiti alla potestà dittatoriale. Qual era la natura dei limiti temporali della dittatura?
La limitazione specifica, rappresentata dalla durata massima semestrale della carica, si cala nel contesto istituzionale (giuridico-religioso) della carica stessa. Infatti, il giurista Pomponio, dopo molti secoli dalle ultime esperienze dittatoriali, ancora si riferiva all’antichissimo fas per motivare giuridicamente la limitazione semestrale[7]. Ciò dimostra che tale limitazione era disposta dai mores, le più antiche fonti (consuetudinarie) del diritto, e non da leggi pubbliche, che invece iniziarono ad affermarsi alla metà del V secolo a.C. Insomma, mos era chiaramente la fonte della dittatura, dalla nomina alla scadenza.
Il tema della durata della carica contribuisce, quindi, a evidenziare tre aspetti: il sistema repubblicano romano era giuridico e al contempo religioso; la dittatura nacque e si sviluppò in un contesto di regole consuetudinarie; la regola relativa alla durata è antichissima, quanto il dittatore.
Potremmo così dire che il sistema romano si articola fondamentalmente su due piani, umano e divino, in cui le regole, segnatamente i mores, sono condizionate dal nefas, che è la disposizione ostativa all’esercizio del potere umano, avendo il nefas a sua volta un carattere obbligatorio e potestativo. Il piano divino, tramite il nefas, condiziona negativamente – cioè con un divieto – il piano umano e il condizionamento non è derogabile; ne andrebbero di mezzo gli stessi fondamenti giuridico-religiosi della repubblica.
In quest’ottica, ritengo che qualunque fatto, di natura agricola o militare, che si voglia in qualche modo ricondurre alla base della regola del limite semestrale, non possa essere considerato autonomo dalla sfera religiosa del sistema giuridico. La cadenza temporale delle attività di semina e raccolto, come l’influenza delle stagioni sulle campagne militari, non potevano, secondo me, assumere valenza giuridica che non dipendesse da fas, più specificamente da concetti religiosi collegati alla misura del tempo.
Forse, sul rapporto tra umano e divino in relazione al tema dell’emergenza si potrebbe compiere qualche ragionamento più articolato (e anch’esso non poco suggestivo) circa il nesso tra res publica, mores e tempio capitolino di Giove Ottimo Massimo, la cui dedica è tradizionalmente collocata nel primo anno della repubblica e anch’essa costituzionalmente e non solo religiosamente rilevante.
Mi sembra, comunque, evidente che il piano umano, pur potendo essere proiettato su quello divino tramite gli auspici, non può però disporne governandolo. E questo è vieppiù evidente nella vicenda relativa alla necessità di limitare la durata della carica dittatoriale. Se così è, ritengo che l’inizio del declino della dittatura tradizionale vada fatto coincidere con il superamento dei mores e, quindi, con l’approvazione delle prime leggi pubbliche in materia di dittatura, laddove l’introduzione del principio elettorale nella scelta del dittatore ne sarebbe stato l’esito più eclatante. Non a caso, gli ultimi dittatori, quelli del I secolo a.C., erano vitalizi.
Va detto, però, che la venuta meno del pre-dominio dei mores in una materia alquanto delicata quale quella della dittatura non ha recato con sé il generale abbandono di livelli normativi pre-dominanti. Esemplarmente, si pensi ai foedera, cioè ai trattati internazionali[8], si pensi alla tripartizione delle leges in perfectae, imperfectae e minus quam perfectae[9], si pensi al contenuto ostativo delle sanctiones legum dell’ultimo secolo repubblicano[10] e si pensi anche, in età più sviluppata e strutturata istituzionalmente, a principi come quello enunciato dal giurista Papiniano per cui «il diritto pubblico non può essere modificato tramite patti dei privati»[11], dal quale si evince il concetto di indisponibilità e intangibilità, almeno da parte degli individui, di quella parte del sistema giuridico rappresentata dal diritto pubblico.
Infine, una delle ultime questioni emerse nell’incontro è stata concentrata sugli equilibri del sistema di poteri. Quali poteri potevano interferire con la somma potestà del dittatore?
Particolare è il rapporto con i tribuni della plebe che, insieme a censori e dittatore stesso non erano subordinati al potere auspicale dei consoli.
Pare proprio che i tribuni, per una gran parte dell’età repubblicana, non abbiano potuto porre il veto alla nomina del dittatore e neppure ai suoi atti, a differenza di quel che nello stesso periodo potevano fare con i magistrati patrizi; tuttavia, nelle fonti sono chiaramente riportati casi di intervento dei tribuni, sia verso procedure di nomina del dittatore sia verso le sue attività. Che questi interventi fossero fondati sulla sacrosantità dei tribuni, non credo sia contestabile; che, però, ciò si traducesse nel potere di veto, non è facilmente dimostrabile, almeno fino ad una certa epoca. Ritengo che, in questi casi, i tribuni portassero a conseguenze estreme il loro ruolo di ausilio alla plebe, interpretandolo come una sorta di sussidio alla legalità repubblicana. Mi pare di scorgere, allora, un graduale percorso, cauto agli esordi e poi sempre più marcato, fino a documentati casi di vero e proprio potere di veto contro il dittatore che, però, appaiono solo dopo che la scelta dello stesso fu affidata ai comizi[12].
Si pensi, quindi, all’ostacolo creato dai tribuni alla elezione di consoli esclusivamente patrizi, fortemente perseguita dal dittatore in difformità delle leggi Licinie-Sestie, gestito politicamente e senza il ricorso al veto[13]. Si pensi, ancora, alla discussione intrapresa dai tribuni, anch’essa politicamente gestita e senza ricorrere al veto, nel caso risalente all’anno 325 a.C., quando le suppliche anziché il veto furono utilizzate dai tribuni medesimi per far desistere il dittatore dai suoi propositi[14].
A ben vedere, in questi eventi, l’effetto prodotto dall’intervento dei tribuni fu analogo a quello che essi avrebbero cagionato se avessero fatto uso del veto: la paralisi delle procedure.
Invece, il caso del 368 a.C., in un momento molto duro e complicato della lotta plebea per l’accesso al consolato, quando i tribuni minacciarono concretamente di multare il dittatore attraverso il voto del concilio plebeo per aver impedito al concilio stesso di votare una proposta tribunizia, indica uno dei prodromi, peraltro rimasto senza esiti, del graduale avvicinamento della dittatura all’ordinario rango di magistratura patrizia, come tale sottoposta al veto tribunizio. In questo caso specifico, è di tutta evidenza che l’intervento dei tribuni aveva posto il tema della responsabilità del dittatore su un piano esclusivamente istituzionale, secondo uno schema ben diverso rispetto a quello che sarebbe maturato nel tempo circa la responsabilità dei magistrati, incentrato sullo strumento processuale ordinario[15]. L’accusa, infatti, era in buona sostanza quella di aver minacciato il potere del concilio plebeo. Non a caso, allora, Livio definì la procedura instaurata dai tribuni del tempo come un ‘novum exemplum’[16].
Mi viene, allora, da pensare che il destino della dittatura tradizionale, come disciplinata dai mores, sia stato inversamente proporzionale all’affermazione dei poteri tribunizi. Così, gli ostacoli di natura politica divennero veti e i pronunciamenti della plebe divennero multe e infine leggi; mentre il dittatore, ormai soggetto a leggi e veti, perdeva il suo significato tradizionale fino a sparire del tutto dal sistema giuridico-religioso.
Sulla base di quanto esposto nell’incontro del 25 marzo 2022 alla Sapienza, dunque, è chiaramente emerso che quando si riflette sul dictator romano, ci sono alcuni aspetti che non possono essere trascurati; a pena di travisare i concetti e ritrovarsi, quindi, in balia delle sovrapposizioni concettuali, nemiche giurate della ricerca scientifica in prospettiva storica. Tali aspetti, combinati insieme, si traducono in alcuni principi di fondo, capaci di dare un senso all’istituto della dittatura entro i delicati meccanismi del sistema-ius repubblicano.
Uno di codesti principi è il seguente: non poteva essere il dittatore a ‘dichiarare’ l’emergenza, poiché la sua stessa nomina dipendeva da quell’emergenza che altri aveva il potere di ‘dichiarare’.
Tale principio non è di poco conto. Il potere dittatoriale non era istituito per riconoscere l’emergenza, bensì per fronteggiarla, una volta che fosse stata riconosciuta da altri. Insomma, le misure adottate dal dittatore presupponevano una situazione emergenziale delineata, quanto meno, nei suoi tratti essenziali, ai quali era ancorato lo stesso potere dittatoriale. Cessata l’emergenza, cessava il dittatore; e comunque, la mancata cessazione dell’emergenza entro sei mesi avrebbe comportato la inderogabile cessazione del dittatore.
Un altro principio è questo: il dittatore non poteva sovrapporsi a mores e neppure a leges. Non aveva poteri costituenti, insomma.
Anche ‘svolte’ epocali non potevano essere rimesse alla mera potestà dittatoriale. Si pensi, a tal proposito, alla mediazione del dittatore Furio Camillo circa la soluzione della crisi che portò alla definitiva approvazione delle leggi Licinie-Sestie[17]; si pensi, altresì, alla legge proposta dal dittatore Ortensio circa l’equiparazione dei plebisciti alle leggi[18]. È vero, sono state iniziative di dittatori, ma si è trattato pur sempre di leges e, come tali, iussa populi.
I due principi saranno insieme violati da Silla, quando assumerà la dittatura vitalizia con la potestà di (ri-)costituire la repubblica. Per un’emergenza divenuta normalità, si poneva un potere eccezionale divenuto ordinario. Con ciò finiva la dittatura originaria.
A ben vedere, l’istituzione emergenziale per eccellenza, cioè la dittatura, era già stata messa in crisi dalla persistente emergenza chiamata guerra annibalica, quando per la prima volta si provvide comizialmente alla nomina del dittatore; la fine di tale istituzione, però, dipese dal costante divenire di un’altra emergenza, impostasi al tempo di Silla con un nome ancor più temibile: guerra civile.
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Lors d’un séminaire à l’Université ‘Sapienza’ de Rome, la dictature romaine a été discutée, non seulement par ceux qui s’occupent du droit romain, mais aussi par ceux qui étudient le droit constitutionnel contemporain, l’histoire du droit en général et la philosophie politique. Les participants au séminaire ont fait émerger des réflexions intéressantes autour de thèmes variés sur la valeur du concept romain de dictature dans l’actualité contemporaine.
[Un evento culturale, ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti della sezione “Memorie” sono stati valutati “in chiaro” dai promotori, dal curatore della pubblicazione e dalla direzione di Diritto @ Storia]
[1] Ringrazio il Dott. Daniele Frisone della Facoltà di Giurisprudenza della Sapienza-Università di Roma per l’organizzazione delle riprese audio-video e del collegamento diretto tra le suddette aule. La Rivista Diritto @ Storia pubblica in questo numero anche i contributi scritti di due relatori, Vincenzo Mannino e Antonio Saccoccio. Confido che le altre comunicazioni siano pubblicate, in forma scritta, già nel prossimo numero della Rivista.
[2] Spero, comunque, che queste mie sintetiche riflessioni non deludano chi si adopera per mantenere il diritto (romano?) nella sua purissima storicità, preservandolo così dagli insidiosi mostri fabbricati da chi, come me, sostiene l’attualità del diritto romano.
Tanti anni vissuti con gli insegnamenti di grandi Maestri, tra diritto romano e diritto positivo, mi hanno aiutato a riconoscermi – pur in modo imperfetto, lo ammetto – nella qualifica che Giuseppe Grosso diede di se stesso: “studioso dalla sensibilità giuridica e storica” (nella Prefazione del volume Tradizione e misura umana del diritto, pubblicato postumo a Milano nel 1976).
[3] Liv. 3.26.12: illa quidem nocte nihil praeterquam vigilatum est in urbe.
[4] Liv. 2.30: Multis, ut erat, horrida et atrox videbatur Appi sententia; rursus Vergini Largique exemplo haud salubres, utique Largi [putabant sententiam], quae totam fidem tolleret. Medium maxime et moderatum utroque consilium Vergini habebatur; sed factione respectuque rerum privatarum, quae semper offecere officientque publicis consiliis, Appius vicit, ac prope fuit ut dictator ille idem crearetur; quae res utique alienasset plebem periculosissimo tempore, cum Volsci Aequique et Sabini forte una omnes in armis essent. Sed curae fuit consulibus et senioribus patrum, ut imperium sua vi vehemens mansueto permitteretur ingenio: M’. Valerium dictatorem Volesi filium creant. Plebes etsi adversus se creatum dictatorem videbat, tamen cum provocationem fratris lege haberet, nihil ex ea familia triste nec superbum timebat; edictum deinde a dictatore propositum confirmavit animos, Servili fere consulis edicto conveniens; sed et homini et potestati melius rati credi, omisso certamine nomina dedere.
[5] Liv. 8.23.15 (cum consul oriens de nocte silentio diceret dictatorem) e 9.38.14 (nocte deinde silentio, ut mos est, L. Papirium dictatorem dixit).
[6] A tal proposito, richiamo quanto asserito da Livio (6.38) nel narrare delle (possibili) irregolarità nella nomina del dittatore Furio Camillo nel 368 a.C., laddove il concetto di vitium è chiaramente collegato al tema degli auspici: sed re neutro inclinata magistratu se abdicavit, seu quia vitio creatus erat, ut scripsere quidam, seu quia tribuni plebis tulerunt ad plebem idque plebs scivit, ut, si M. Furius pro dictatore quid egisset, quingentum milium ei multa esset; sed auspiciis magis quam novi exempli rogatione deterritum ut potius credam.
[7] D. 1.2.2.18 dal libro Enchiridion: itaque dictatores proditi sunt, a quibus nec provocandi ius fuit et quibus etiam capitis animadversio data est. hunc magistratum, quoniam summam potestatem habebat, non erat fas ultra sextum mensem retineri.
[8] A tal proposito, merita attenzione il brano di Cicerone (part. or. 130) dedicato alle parti di ius publicum, tra le quali spicca il foedus: Scriptorum autem privatum aliud est, publicum aliud: publicum lex, senatusconsultum, foedus.
[9] Tit. Ulp. 1.1-2: leges aut perfectae sunt aut impefectae aut minus quam perfectae.
[10] Cic., Pro Caec. 33.95: Sulla legem tulit... ascripsisse eundem Sullam in eadem lege: ‘SI QUID IUS NON ESSET ROGARIER, EIUS EA LEGE NIHILUM ROGATUM’. Quid est quod ius non sit, quod populus iubere aut vetare non possit? Ut ne longius abeam, declarat ista ascriptio esse aliquid; nam, nisi esset, hoc in omnibus legibus non ascriberetur. ... non quicquid populus iusserit, ratum esse oportere.
[11] D. 2.14.38 dal secondo libro delle Questioni: Ius publicum privatorum pactis mutari non potest.
[12] Si pensi ai fatti del 314 a.C., narrati da Liv. 9.26, ove non è chiaro quali siano stati i motivi della mancata opposizione col veto ad atti del dittatore: Postulabantur ergo nobiles homines appellantibusque tribunos nemo erat auxilio quin nomina reciperentur … in praesidia adversariorum, appellationem et tribunicium auxilium, patricii confugerunt.
[13] Liv. 7.21.
[14] Liv. 8.34: Non noxae eximitur Q. Fabius, qui contra edictum imperatoris pugnavit, sed noxae damnatus donatur populo Romano, donatur tribuniciae potestati precarium non iustum auxilium ferenti.
[15] Ulpiano in D. 47.10.32 dal quarantaduesimo libro a Sabino: Nec magistratibus licet aliquid iniuriose facere. si quid igitur per iniuriam fecerit magistratus vel quasi privatus vel fiducia magistratus, iniuriarum potest conveniri.
[16] Liv. 6.38.10.
[17] Liv. 6.42.11.
[18] Pomponio in D. 1.2.2.8, dal libro Enchiridion: pro legibus placuit et ea observari lege Hortensia.