Neuropolitica: dalla psichedelia al Digital Brain

 

 

TOMMASO GAZZOLO

Università di Sassari

 

 

Sommario: 1. I tempi sono maturi? – 2. Attualità – 3. Liberazione dal lavoro. – 4. Rivoluzione psichedelica. – 5. Neuropolitica. – 6. L’incubo.

 

 

Ora stiamo tutti vivendo un periodo di attesa, silenzioso e preparatorio. Tutti sanno che qualcosa sta per accadere. I semi degli anni Sessanta sottoterra hanno fatto radice. Il cambiamento sta per accadere (Timothy Leary, I germi degli anni Sessanta, 1988)

 

 

1. – I tempi sono maturi?

 

Nelle lezioni tenute sul finire del 2016, poco prima del suo suicidio, Mark Fisher era tornato a più riprese sulle questioni che oggi possono leggersi anche nell’introduzione incompiuta a Comunismo acido – il libro mai scritto, a cui stava lavorando in quei mesi. Perché – si chiedeva – gli Anni Sessanta ossessionano ancora il nostro presente?[1] O, detto altrimenti: «perché preoccuparci ancora degli anni Sessanta? Perché è necessario preoccuparsi di quel decennio? Perché siamo ancora perseguitati dalle sue icone, e perché le sue forme culturali persistono?»[2].

Incominciamo da ciò che, secondo Fisher, gli anni Sessanta sono storicamente stati – dal tipo di rivoluzione sociale e psichica che essi annunciavano. Rileggendo il Marcuse di Eros e civiltà, è possibile, nota Fisher, vedere come gli anni Sessanta sembravano per la prima volta dimostrare come il capitalismo avesse ormai risolto il problema della penuria di risorse materiali in nome del quale la società aveva fino a quel momento giustificato le restrizioni imposte ai desideri individuali. La civiltà industriale, in altri termini, aveva imposto la meccanizzazione e la standardizzazione del lavoro, aveva giustificato il suo bisogno di repressione – politica, sociale, economica – a partire dalla necessità di rispondere razionalmente al problema della limitatezza delle risorse disponibili. La produzione di un livello sufficiente di ricchezza per tutti doveva essere pagato con la rinuncia alla felicità.

Eros e civiltà, tuttavia, si chiedeva se tutto ciò non avesse ormai smesso d’essere vero: non si erano forse ormai esauriti i «motivi che in passato hanno reso accessibile il dominio dell’uomo sull’uomo»? La penuria e la necessità del lavoro come fatica non erano ormai mantenuti in essere solo “artificialmente”, «allo scopo di preservare il sistema di dominio»[3]?

L’alienazione dell’individuo – separato dal proprio desiderio, sessualmente represso, costretto a un lavoro ripetitivo e uniforme – era stata, nelle società industriali, la condizione stessa affinché l’individuo potesse godere di sempre maggiori libertà ed opportunità economiche. Ma, come Marcuse già alla metà degli anni Cinquanta sembrava aver intuito, lo sviluppo capitalistico reso possibile da quegli stessi meccanismi repressivi sembrava aver creato le condizioni per il superamento di essi. Il capitalismo era la via, in questo senso, per il suo stesso superamento: «le conquiste stesse della civiltà repressiva sembrano creare le condizioni preliminari di una graduale abolizione della repressione»[4].

Se gli anni Sessanta hanno de-ciso radicalmente il tipo di società che le generazioni successive hanno vissuto, è perché è allora che si è per la prima volta data una risposta – non definitiva - all’alternativa generata al suo interno dal capitalismo. La “controcultura” aveva visto come quella società fosse giunta, grazie al suo sviluppo industriale, a poter superare le sue stesse premesse: se la repressione era stata necessaria per vincere la penuria, ora che la penuria era vinta, la repressione cessava di avere una giustificazione. Il boom economico mostrava la possibilità di «liberare l’individuo dalle costrizioni giustificate a suo tempo della penuria e dall’immaturità»[5].

Questa possibilità è, storicamente, rimasta inattuata, sconfitta dall’imporsi di una diversa evoluzione di quello “sviluppo”: quello del capitalismo per come lo abbiamo conosciuto negli anni successivi, fino ai giorni nostri – fondato sul mantenimento “artificiale” di quelle istituzioni politiche e sociali repressive, mantenimento assicurato dalla produzione controllata di “bisogni” e dalla trasformazione dell’individuo in consumatore. Marcuse la chiamava opulenza repressiva – oggi possiamo parlare di capitalismo cognitivo o culturale, che, come Stiegler ha sottolineato più volte, funziona attraverso la riproduzione non solo della forza lavoro (come aveva visto Marx), ma mediante la continua espropriazione del sapere e del saper-fare degli individui, alterazione delle loro abitudini, stili di vita, bisogni. Detto con una formula: il capitalismo tecnologico oggi non funziona offrendoti ciò che desideri, ma facendoti desiderare ciò che ti offre.

Ciò che però ora importa cominciare a sottolineare, è che non si trattava, neppure per le spinte contro-culturali di allora, di contrapporre al capitalismo un altro modello economico. Piuttosto, l’idea era di lasciare che il capitalismo realizzasse se stesso lasciandosi alla spalle le proprie condizioni iniziali: il lavoro e la repressione/limitazione del desiderio. Per questo gli anni Sessanta sono stati, anzitutto, un sogno di liberazione dal lavoro (e non: di liberazione attraverso il lavoro) e di liberazione della coscienza, di sperimentazione di nuove forme di creazione e concatenazione dei desideri. Sono stati, è ancora una formula di Marcuse, lo spettro di un mondo che avrebbe potuto essere libero. Ed è esattamente questo che ha terrorizzato, sostiene Fisher, i poteri istituiti – economici, politici, sociali, compresi ovviamente i partiti comunisti occidentali: la possibilità di una strana alleanza tra operai e hippie, tra classe lavoratrice e controcultura, tra liberazione dal lavoro e liberazione della mente.

 

 

2. – Attualità

 

Ogni passato – ha scritto Walter Benjamin - «può ottenere un grado di attualità (Aktualität) più alto che al momento della sua esistenza. La sua configurazione in quanto superiore attualità spetta all’immagine in cui la comprensione lo riconosce e lo colloca»[6]. Non possiamo ripercorrere, qui, la difficile strategia interna al pensiero benjaminiano. Ma abbiamo la necessità di trarre, da alcune sue considerazioni, una serie di punti, per orientarci nelle nostre questioni, per rispondere in modo nuovo alle domande da cui abbiamo preso le mosse: perché ancora gli anni Sessanta?

Cominciamo dal ricordo, dalla rammemorazione: noi qui non cerchiamo nessuna nostalgia, nessun ritorno al passato. Ciò che torna, infatti, è un passato che non è mai stato passato, è un passato in cui riviviamo ciò che non abbiamo mai vissuto[7]. Questa è l’autentica esperienza del passato: non l’esperienza vissuta (Erlebnis), soggettivamente, da ciascuno di noi, ma quell’esperienza di ciò che ci colpisce, ci espropria, ci porta fuori da noi stessi, giungendo dall’esterno, e che siamo chiamati a riattivare (Erfahrung). E dunque: non sono gli anni Sessanta per come sono stati vissuti da chi allora c’era, ad essere “attuali”; non sono gli anni Sessanta per come la generazione che li visse fece esperienza di essi, i significati che vi attribuì, i miti che essa costruì intorno a se stessa e al proprio tempo (e che continuano ad essere riprodotti oggi dalla cultura di tipo essenzialmente “nostalgico” dei media). Ciò che nel presente torna, sono gli anni Sessanta nella loro attualità, nel divenire attuale delle potenzialità che allora erano rimaste latenti. Non c’è progresso nella storia: c’è sempre e soltanto la possibilità che, all’improvviso, il passato si attualizzi, rompendo la continuità, la “progressione” apparente degli anni.

È questo che, adesso, può accadere: che gli anni Sessanta vengano improvvisamente “dopo” i nostri primi vent’anni del XXI secolo. E questo perché – come abbiamo accennato – soltanto oggi, soltanto adesso si sono compiute definitivamente le condizioni per rendere attuale ciò che la rivoluzione annunciata dagli anni Sessanta credeva fosse immediato, fosse già lì. È unicamente oggi, è adesso, che gli anni Sessanta giungono ad acquisire il loro senso, il loro vero significato – che all’epoca possedevano soltanto in “germe”: la verità è un processo, dal momento che essa deve realizzarsi, farsi vera, nel tempo. “Attuale” significa perciò qualcosa di radicalmente diverso da “presente”. Attuale può essere, propriamente, unicamente il passato: non il passato in quanto è stato, ma il passato in quanto non ancora vissuto, e che soltanto adesso, ha le condizioni per poter irrompere e realizzarsi. Come ha scritto Moroncini, commentando le pagine di Benjamin, «l’attualizzazione del passato […] non consiste dunque nel rendere presente quanto di presente c’era nel passato, ma nel porre all’ordine del giorno della storia ciò che nel presente del passato non è passato alla presenza, è rimasto latente»[8].

Che cosa, dunque, degli anni Sessanta è all’ordine del giorno? È attraverso questa domanda che proviamo a passare, ricorrendo in particolare alla musica di quegli anni – perché, a differenza dei semplici “fatti storici”, essa è ciò che funziona proprio attraverso la possibilità indefinita della sua ripetizione, e delle differenze che tale ripetizione produce, degli scarti, dei nuovi sensi, delle ri-attualizzazioni che essa consente.

 

 

3. – Liberazione dal lavoro

 

Come Fisher si è chiesto, che cosa sarebbe successo «se gli operai si fossero trasformati in hippie?»[9]. Se, cioè, anziché continuare a rivendicare e lottare per i loro diritti in quanto lavoratori, anziché chiedere un lavoro più “libero”, avessero improvvisamente cominciato a chiedere la liberazione dal lavoro, che sembrava finalmente essere una concreta e reale possibilità creata dallo stesso sistema capitalistico? È questa domanda, questa possibilità, che negli anni Sessanta per la prima volta comincia a definirsi. Storicamente, sarà sconfitta – ma è oggi che le condizioni per la sua realizzazione sono divenute mature.

I aint’gonna work on Maggie’s farm no more, aveva cantato Dylan, in versione elettrica, nel 1965, tra i fischi del pubblico di Newport che ancora pensava canzoni di protesta politica in stile classico[10]. Alla folk politics, alla vecchia idea di una politica “socialista” intesa come concessione di sempre maggiori diritti in favore dei lavoratori, Dylan replicava che il punto era, semplicemente, un altro: non vogliamo più lavorare, è finito il tempo del lavoro alienato, ripetitivo, noioso. Ci avevano detto che il lavoro era il prezzo da pagare per poter realizzare i propri desideri, per avere una vita felice, per goderci il nostro tempo libero, ma ora scopriamo che è esattamente il contrario:

 

I ain’t gonna work on Maggie’s farm no more

No, I ain’t gonna work on Maggie’s farm no more

Well, I try my best

To be just like I am

But everybody wants you

To be just like them

They sing while you slave and I just get bored

I ain’t gonna work on Maggie’s farm no more

 

Io alla fattoria di Maggie non ci lavoro più

No, per la madre di Maggie non ci lavoro più

Faccio quel che posso

Per restare quel che sono

Ma qui tutti pretendono

Che tu sia come loro

Loro cantano e tu sgobbi, e io sono stufo.

Io alla fattoria di Maggie non ci lavoro più

 

Ancora una volta, bisogna prestare attenzione al fatto che la prospettiva di una liberazione dal lavoro smise improvvisamente d’apparire, nel corso degli anni Sessanta, come una semplice utopia, o come qualcosa cui si sarebbe gradualmente e progressivamente potuto giungere nel corso del tempo: era ora, adesso, che il lavoro nel capitalismo aveva creato le condizioni per il suo superamento.

Nel 1967, Marcuse preciserà esattamente questo: si può parlare di utopia quando ci si riferisce a «progetti di trasformazione sociale di cui si ritiene impossibile la realizzazione», irrealizzabilità che dipende dall’impossibilità di «tradurre in fatti concreti il progetto di una nuova società, in quanto i fattori soggettivi e oggettivi di una data situazione sociale si oppongono alla sua trasformazione»[11]. Secondo Marcuse, la liberazione dal lavoro e dagli elementi repressivi della nostra società non è però più utopica, dal momento che non sussistono più impedimenti storici oggettivi:

 

[…] Oggi esistono tutte le forze materiali e intellettuali necessarie per realizzare una società libera. Il fatto che non vengano utilizzate è da ascrivere esclusivamente ad una sorta di mobilitazione generale della società, che resiste con ogni mezzo alla eventualità di una propria liberazione. Ma questa circostanza non basta assolutamente a rendere utopistico il progetto della trasformazione[12].

 

Possibile, e quindi già reale, è l’eliminazione della povertà, della miseria, del lavoro estraniato. Nessun economista borghese – notava ancora Marcuse - «è oggi in grado di contestare la effettiva possibilità di eliminare la fame e la miseria con le forze produttive materiali e intellettuali già tecnicamente esistenti». Come ricordano Williams e Srnicek, già dai primi anni Trenta Keynes aveva sostenuto che il capitalismo avrebbe potuto assicurare un futuro in cui gli individui avrebbero lavorato non più di tre ore al giorno. Timothy Leary, teorizzando la rivoluzione “acida” avrebbe pensato, negli anni Sessanta, la stessa cosa: «nella nostra tecnologica società futura, il problema non sarà più quello dell’impiego ma di sviluppare gratificanti modi per vivere serenamente una vita bella e creativa. La psichedelicità aiuterà a trovare la strada giusta»[13].

Nella realtà, ciò che è invece accaduto è stata «la progressiva eliminazione della distinzione tra lavoro e vita»[14], l’impossibilità, in cui oggi viviamo – si pensi a quanto la recente pandemia ha accelerato questo processo – di separare il tempo in cui lavoriamo dal nostro tempo “libero”. Ma nel 1965, ciò che appariva come realistico, come possibile da realizzare nel giro di pochi anni, era proprio la liberazione, da parte del capitalismo, dai suoi stessi limiti. L’anno dopo i Beatles, in Revolver, restano a letto, non vanno a lavorare, perché, come canta Lennon, non c’è più alcun bisogno di correre, di affrettarsi:

 

Everybody seems to think I’m lazy

I don’t mind, I think they’re crazy

Running everywhere at such a speed

Till they find there’s no need (There’s no need)

Please, don’t spoil my day, I’m miles away

And after all I’m only sleeping[15]

 

Tutti sembrano pensare che io sia pigro

ma non importa, sono io che penso siano loro matti

che corrono dappertutto ad una tale velocità

finché scoprono che non ce n’è alcun bisogno

Per favore, non rovinate la mia giornata,

sono distante miglia e dopotutto sto soltanto dormendo

 

In alcune bellissime pagine in cui ricorda la propria adolescenza, messa a confronto con ciò che rappresentò invece per gli inglesi l’affermazione del decennio della Thatcher, lo scrittore Hanif Kureishi ha colto perfettamente questo punto chiedendosi: come è possibile che i Beatles siano stati realmente più «pericolosi» e «sovversivi» di Elvis, Dylan o i demoniaci Rolling Stones quando dopotutto, almeno per i primi anni, «scrivevano innocue canzoni d’amore, offrendo poca ambiguità e nessun incitamento alla ribellione»? Come è possibile che abbiano più di ogni altro gruppo o fenomeno culturale rappresentato il punto di spaccatura tra padri e figli di allora?

La risposta di Kureishi è che ciò che i Beatles avevano di straordinario, ciò che annunciavano di così dirompente, per la prima volta nella società inglese e nel mondo, era il divertimento, il rifiuto del lavoro, la possibilità di un piacere che non era più la “ricompensa” che la società ti offriva per il lavoro svolto, ma qualcosa di immediatamente disponibile e che non aveva affatto bisogno di essere giustificato dalla fatica, dal grigiore di un lavoro anonimo ed identico a se stesso:

 

Eppure…eppure…questo è il punto, tutto quello che riguardava i Beatles rappresentava piacere, e per i ragazzi di provincia il piacere poteva essere solo il risultato e la giustificazione del lavoro. Il piacere era la ricompensa del lavoro e si trovava solo nel weekend dopo il lavoro. Ma quando vedevi A Hard Days’s Night o Help, era chiaro che quei quattro ragazzi si stavano divertendo molto: i film irradiavano libertà e divertimento. In essi non c’era segno del lungo e lento accumulo di sicurezza e status, il cammino anno dopo anno verso la soddisfazione, che era quello che ci si aspettava chiedessimo alla vita. Senza coscienza, dovere o preoccupazione del futuro, tutto intorno ai Beatles parlava di divertimento, abbandono e attenzione ai bisogni personali. I Beatles diventarono eroi per i giovani perché non erano rispettosi. Nessuna autorità aveva messo in crisi il loro spirito, erano fiduciosi e divertenti. Rispondevano per le rime. Nessuno li metteva a posto. […] I Beatles avevano respinto la concezione del lavoro[16].

 

I Beatles erano certamente il prodotto più alto del capitalismo, della sua industria culturale, della sua tecnologia (Revolver è in fondo il primo album della musica pop pensato non per restituire su disco ciò che si suonava in studio, ma per realizzare una ricerca sonora: i brani dell’album sono, in questo senso, irriproducibili dal vivo). Ma, al contempo, annunciavano un nuovo regime del desiderio, una rivoluzione anzitutto “psichica” (sarebbe più appropriato dire: delle coscienze), e proprio per questo anche politica: i Beatles avevano, al loro arrivo, cambiato radicalmente la American consciousness, avevano introdotto una nuova forma di mascolinità, alleata con una estrema vulnerabilità e dolcezza[17], e ora, in quegli anni, stavano dicendo che un nuovo modo di pensare, di sperimentare, di amare, era finalmente e realisticamente possibile – non era questione di “ideologia”, o di filosofia, ma, Timothy Leary lo aveva capito per primo, di cibernetica, di liberare «il cervello dai limiti della mente cosciente»[18].

Per questo non c’è accusa più stupida – e “stalinista” – di quella che vedeva nei Beatles un gruppo privo di ideologia, vuoto di contenuti impegnati[19]: perché ciò che la rivoluzione degli anni Sessanta annunciava, è che non si trattava affatto di creare un paradiso altrove, di edificare una società alternativa a quella occidentale. Più che “riformare” la società, le sue istituzioni, si trattava di aprirsi una via di fuga, a cominciare da quella da se stessi, dal proprio Io: soltanto percependo le cose in modo nuovo, si sarebbe anche vissuti in una società nuova. Il paradiso è ora, ed è qui. Ed è un paradiso artificiale – perché anzitutto “acido”, cibernetico-lisergico. È quello in cui vivono le ragazze dagli occhi caleidoscopici (kaleidoscope eyes) di Lucy in the Sky, quello che vedrai se saprai seguire la voce filtrata di Lennon che ti invita a smettere di pensare, seguire la corrente

 

Turn off your mind

relax and float down stream

it is not dying, it is not dying

lay down all thoughts

surrender to the void

it is shining, it is shining[20]

Spegni la testa

rilassati, fluttua lungo la corrente

non è morire, non è morire

distendi tutti i pensieri,

arrenditi al vuoto

è brillare, è brillare.

 

La rivoluzione degli anni Sessanta è psichedelica proprio in quanto essa non crede a una liberazione collettiva che non passi prima, e anzitutto, da quella individuale della mente – Morrison, che pure indica la parte “oscura” di questo movimento, sarà chiarissimo, ripetendo più volte: «non può esserci una rivoluzione su vasta scala, finché non ci sarà una rivoluzione personale, a un livello individuale. Prima di tutto deve accadere all’interno delle persone»[21].

Inside first: è la mente a doversi prima liberare, perché – è questo che gli anni Sessanta hanno infine scoperto, rispetto alle rivoluzioni degli anni Trenta – i rapporti di potere, l’oppressione, la repressione riguarda in primo luogo ciò che puoi sentire e pensare con la mente. Si tratta di spezzare the mind-forg’d manacles, le manette forgiate dalla mente, di cui parlava William Blake[22] - e non a caso l’immagine sarà ripresa anzitutto dai Doors[23], ma anche da Dylan, Joan Baez, Patti Smith[24].

 

 

4. – Rivoluzione psichedelica

 

Il cosiddetto “rinascimento psichedelico” che, in questi ultimi decenni, si sta verificando nella ricerca scientifica, ha coinciso con una nuova ondata di studi sull’efficacia terapeutica di sostanze come l’Lsd – si pensi al cd. microdosing – e con un nuovo interesse per gli psichedelici, come testimonia il successo dei recenti libri di scrittori quali Ayelet Waldman e Michael Pollan dedicati al tema. Mai come in tale campo gli anni Sessanta sembrano oggi essere tornati improvvisamente di moda: è forse venuto finalmente un tempo favorevole a quella “rivoluzione lisergica” che essi promettevano? Non è nostro compito entrare nel dibattito attuale, né prendere posizione in merito alla fortuna che potrebbe o meno incontrare questa nuova fase di ricerca medica. Ci interessa, piuttosto, capire da quale prospettiva seguire la discussione sulla presunta ri-attualizzazione della rivoluzione psichedelica di quegli anni. Per questo – a differenza di quanto oggi si tenta di fare, ossia di ri-legittimare sul piano terapeutico l’Lsd – noi recupereremo soprattutto il senso che all’esperienza psichedelica tentarono di fornire, contro il parere dei loro colleghi e potenziali alleati e della comunità scientifica, autori come Timothy Leary.

Quello che Nixon definì “l’uomo più pericoloso in America” è stato spesso accusato, anche dai sostenitori della ricerca sull’Lsd, di essere stato il primo responsabile del fallimento di quella “rivoluzione” che le droghe psichedeliche avrebbero potuto portare: troppo presto, in modo incosciente, senza alcun rigore scientifico, egli avrebbe infatti iniziato a sperimentare, diffondere, incitare pubblicamente la popolazione – soprattutto giovanile – ad un uso incontrollato delle droghe psichedeliche. Leary sarebbe stato, cioè, uno scienziato troppo spregiudicato – considerato lo scarso rigore dei suoi primi studi sperimentali condotti sull’efficacia terapeutica dell’Lsd –, il quale non avrebbe affatto svolto il ruolo pionieristico nella ricerca psichedelica che a lungo pretese per sé. Al contrario, egli avrebbe finito per screditare quella stessa ricerca scientifica che si vantava di aver per primo intrapreso, nel momento stesso in cui decise di divenire il “sacerdote” dell’acido, riuscendo ad attirare su di sé i riflettori dei media americani e di monopolizzare con la sua figura carismatica il senso e la posta in gioco del dibattito sulle sostanze psichedeliche. Da questo punto di vista, il “rinascimento psichedelico” di oggi in campo medico starebbe avvenendo nonostante l’eredità lasciata da Leary, e lo stesso ritardo nelle ricerche dipenderebbe dal modo in cui questo “eroe della coscienza americana”, come una volta lo aveva definito Allen Ginsberg, aveva tentato, a partire dagli anni Sessanta, di rendere l’Lsd – sono ancora parole di Ginsberg - «un preziosissimo elisir di civiltà»[25].

In realtà, ciò che rende oggi attuale l’esperienza psichedelica, a mio avviso, non è affatto la riscoperta dell’efficacia terapeutica di queste droghe, ma, al contrario, proprio il senso che a quell’esperienza Leary aveva fin dagli anni Sessanta cominciato a imprimere. Quando egli conierà il termine “neuropolitica”, su cui dovremo a breve ritornare, intenderà infatti esattamente questo: che ciò che la “psichedelia” annunciava non era nulla che riguardasse i progressi interni alla medicina o alla psichiatria, alla psicoterapia, bensì era la possibilità di una tecnologia che avrebbe finalmente consentito agli individui – per dirla con Leary – di uscire dalle loro menti per poter usare i propri cervelli o, detto altrimenti, di ri-programmare il nostro cervello. Cosa intendeva esattamente, allora, Leary?

«La vera rivoluzione degli anni Sessanta era neurologica»[26]. Così Leary ha ricordato tutto questo anni dopo, in un intervento del 1988 dedicati ai “germi” degli anni Sessanta. Nel 1960, proprio all’inizio del decennio, ciò che egli, a Harvard, aveva iniziato a studiare, era la possibilità di curare «la natura umana»: il cervello, pensava Leary, non è che una rete bio-chimico-elettrica, che viene limitata, nel suo funzionamento, dall’imposizione di «rigidi programmi mentali» e da circuiti neutrali che la condizionano. Nell’Lsd vide qualcosa che poteva «aprire il cervello alla riprogrammazione»: cambiare la mente, rendere possibile l’apprendimento di nuove sequenze condizionate, di nuovi programmi operativi. Questa è l’idea di una neuro-logia, e di una neuro-politica: fornire a ciascuno la possibilità di comprendere e controllare finalmente il proprio sistema nervoso, fargli imparare «a selezionare, sintonizzare, focalizzare, programmare e riprogrammare» il proprio cervello.

 

 

5. – Neuropolitica

 

Perché la rivoluzione neurologica era – è – una rivoluzione essenzialmente politica? È su questo punto che dobbiamo riprendere quanto si è accennato relativamente ai Beatles. Ciò che – soprattutto dopo il ’68 francese – abbiamo smesso di capire, è che la rivoluzione che negli anni Sessanta giungeva dall’America era certamente politica, ma non nel significato che di essa avevamo, specie in Europa, in quegli anni. Era “politica” in un senso che nessuna interpretazione in termini “marxisti” della società e della storia avrebbe potuto capire. Non dunque la rivoluzione per come comunemente intesa – per quella, come Lennon dice, contate/non contate su di me, siamo ancora indecisi circa la “distruzione”[27], se sarà necessaria bene, ma potrebbe non esserlo affatto e comunque non è questo il punto.

La “neuropolitica”, la rivoluzione lisergica, infatti, non si radicava se non in modo indiretto sul terreno della lotta tra le classi, delle contraddizioni proprie alla struttura economico-sociale, della critica del controllo, da parte delle classi dominanti, dell’apparato produttivo. In fondo, ciò che la “controcultura” americana comprese per prima, è che la “politica”, la decisione sul tipo di società in cui avremmo vissuto negli anni dell’affermazione del capitalismo “cognitivo”, non avrebbe riguardato che secondariamente il livello della produzione della ricchezza o quello dell’assetto politico-istituzionale: la posta in gioco era il cervello, era il modo in cui avremmo pensato, in cui avremmo ri-organizzato le nostre menti.

Già nei primi anni Sessanta, Leary e gli altri esponenti della rivoluzione “lisergica” avevano perfettamente compreso, in questo senso, che la rivoluzione tecnologica in atto nel capitalismo post-bellico stava già portando a quello che, oggi, si è compiutamente realizzato; avevano compreso, cioè, che il nostro cervello non è qualcosa di “naturale”, ma il prodotto delle tecnologie e delle tecniche che di volta in volta ne organizzano gli schemi di ragionamento, il suo modo di percepire le cose, di desiderare, di relazionarsi con l’esterno.

Ciò che oggi è divenuto di moda chiamare “psicotecnologie”, o “psicopotere”, era esattamente ciò che definiva il campo di problemi posti dalla rivoluzione lisergica: se esistono tecniche che permettono di controllare l’attività mentale degli individui, è evidente che sia qui – e non certo al livello delle “istituzioni” – che i concetti di libertà e dominio, di natura e artificio, acquistano senso.

La discussione sullo psicopotere non fa che ri-attualizzare, lasciandola irrompere in modo inedito, la rivoluzione acida degli anni Sessanta. Lsd, mescalina, psilocibina e altre droghe psichedeliche non sono “attuali”, oggi, né per i loro scopi e impieghi terapeutici né per una sorta di “esperienza mistica” non altrimenti determinata – Leary stesso non poté evitare di innestare qui tutti i riferimenti possibili alla tradizione orientale, allo sciamanesimo, al libro tibetano dei morti, e così via. Esse sono “attuali” in quanto tecnologie in grado di consentire agli individui di riorganizzare creativamente e liberamente i propri schemi e programmi cerebrali.

Per questo David Solomon, nel 1964, con ragione aveva indicato come la lotta contro la psichedelia riguardasse non esigenze di tutela della salute pubblica, quanto la questione di chi avesse in ultima istanza il diritto di controllare il cervello degli individui:

 

Inoltre io credo che quella cosa stupefacente che è il cervello umano sia la proprietà più inalienabile dell’uomo, la sua progenitura intellettuale. Nessuna persona o istituzione hanno il diritto morale di soffocare o inibire il suo sviluppo. Nessuna autorità sociale può arrogarsi con successo il diritto d’imporre e di fissare i livelli di coscienza a cui gli uomini possono aspirare, indipendentemente dal fatto che questi stati siano raggiunti grazie alla farmacopea o con altri mezzi[28].

 

La rivoluzione acida diceva: è a ciascun individuo che spetta il diritto di decidere cosa fare del proprio cervello, a quali tecniche ricorrere per fissare, modificare o riorganizzare i suoi livelli di coscienza.

L’Lsd è solo una tra le altre delle tecnologie che consentono di gestire a livello individuale il cervello umano, di farlo funzionare secondo “schemi” e “programmi” che liberamente possiamo decidere di adottare – è il sogno di Leary: servirsi delle droghe psichedeliche per cancellare i programmi cerebrali che già da sempre ci sono imposti, e lasciare ai singoli individui la possibilità di costruirsene di nuovi, sotto il loro controllo. Solo oggi questa de-cisione diviene attuale, liberando nuovamente il passato nella sua forza rivoluzionaria. Cerchiamo di capire perché.

Ancora negli anni Sessanta, la capacità dell’Lsd di modificare i livelli di coscienza, neutralizzare temporaneamente i vecchi schemi assimilati dal cervello, distruggere l’Ego lasciando emergere una «consapevolezza fluida e senza confini» delle cose, poteva certamente apparire difficilmente paragonabile allo “psicopotere” dei media di allora – perlomeno per come venivano percepiti. Le droghe psichedeliche, in altri termini, sembravano esse stesse le prime e più pericolose tecnologie per realizzare il “controllo mentale” degli individui e “rovinare il cervello” degli adolescenti. Difficilmente, almeno a livello di percezione collettiva, si sarebbe potuto allora replicare che la televisione già faceva tutto questo. Forse soltanto McLuhan aveva, correttamente, visto come le droghe psichedeliche avessero con i «media elettrici» una stretta affinità, a cominciare dal turn on, “accendersi”: si accende la coscienza, con le droghe, esattamente come si accende il televisore, disse una volta McLuhan – per il quale «il viaggio interiore non è solo prerogativa del consumatore di Lsd; è l’esperienza universale degli spettatori tv»[29].

La rivoluzione digitale, l’avvento del capitalismo “cognitivo”, gli stessi studi sul cervello umano condotti negli ultimi decenni, hanno ormai reso chiaro come il problema del “controllo” del cervello, della “manipolazione” mentale, vada integralmente ripensato. E ciò perché il cervello è un prodotto tecnologico – è già da sempre il risultato, l’effetto del modo in cui gli individui re-interiorizzano le tecniche di cui storicamente si servono. Basti pensare – come Maryanne Wolf ha dimostrato – che gli uomini non sono affatto nati per leggere, come il loro cervello “in se stesso” non fosse affatto “naturalmente” in grado di farlo: il reading brain, il cervello in grado di leggere, non è che il prodotto di una modifica dei collegamenti neuronali che l’uomo ha dovuto imporre a se stesso, rispetto cui si è dovuto auto-educarsi.

Il nostro cervello non è allora qualcosa di “dato”; è, piuttosto, il risultato delle tecnologiche che lo producono, lo modificano, lo organizzano. Il modo in cui internet sta modificando il funzionamento del cervello è ormai oggetto di ricerche scientifiche, con risultati che hanno anche ottenuto larga divulgazione, da anni.

È soltanto oggi, allora, che l’impostazione “politica” che possiamo leggere in posizioni come quella di David Solomon sopra ricordata, giunge alla sua attualità. Rivendicare oggi il diritto di modificare liberamente e individualmente il proprio cervello, infatti, non significa affatto porsi all’interno di un dibattito circa la legalizzazione delle droghe psichedeliche; significa, diversamente, porre la questione giuridica fondamentale in un’epoca di neuropolitica. In altri termini: è solo oggi che il diritto di de-cidere il “livello di coscienza” cui gli uomini possono aspirare può divenire realmente un diritto. Nella misura, infatti, in cui qualcosa può formare oggetto di un “diritto” soltanto laddove possa essere conteso – unicamente cioè laddove sia suscettibile di dar luogo a conflitti relativi al suo possesso, al suo uso, etc. –, allora è soltanto oggi, nell’epoca del capitalismo cognitivo compiutamente realizzato, che il cervello acquisisce tale status, che esso può divenire oggetto di diritti.

La posta in gioco della rivoluzione lisergica diviene pertanto oggi attuale nel suo contenuto di verità – diverso dal contenuto storico (che allora riguardava certamente il problema della legalizzazione o meno dell’uso delle droghe a scopi non terapeutici): rendere legale sostanze come l’Lsd significa, infatti, affermare il diritto, da parte di ciascun individuo, a sperimentare e decidere singolarmente e in autonomia come modificare il proprio cervello, in opposizione al modo in cui esso viene invece quotidianamente oggi modificato da tecnologie controllate da imprese, aziende, istituzioni.

 

 

6. – L’incubo

 

Nel 1970, con God, Lennon abiura: dream is over, il sogno è finito, canta dopo aver rinnegato, dopo aver detto che egli non crede più, ora, a Gesù, Kennedy, Hitler, Elvis, Dylan, e soprattutto agli stessi Beatles. I just believe in me / Yoko and me / And that’s reality. Gli anni Sessanta sono terminati, per quanto lo riguarda. Ma per noi? Se il contenuto storico della visione di Lennon era il sogno di una “fisica lisergica” ereditata da Leary, la sua verità non comincia forse ad apparire solo ora, come se tutto quel decennio fosse stato attraversato da una pulsione verso un’esperienza tecnologica e mentale in cui ogni mio pensiero sarà il pensiero degli altri, e ogni pensiero degli altri il mio? Ma allora: la verità dell’“uomo-uovo” (I’m the egg-man) o dei pensieri che vagano across the universe è forse il digital brain?

E se il sogno degli anni Sessanta fosse stato guidato, in realtà, proprio da una pulsione di morte, una spinta verso l’autoannientamento? La verità della Summer of love, non erano forse i Doors? Che cosa significava varcare le “porte della percezione” – una citazione diretta da Blake, che anche Huxley aveva utilizzato per il titolo del suo libro dedicato alle sue sperimentazioni con la mescalina? The Doors, l’album d’esordio del gruppo, uscito nel gennaio 1967, si apriva con la violenta progressione della voce di Morrison che esortava ad irrompere dall’altra parte, break on through / to the other side. Ma, era chiaro fin da subito, che ciò che si sarebbe trovato non era altro che la morte. Non c’è alcuna redenzione della storia, ma solo l’eterno ciclo di morte e resurrezione, in cui ogni dio deve morire affinché la terra si rinnovi, affinché cada la pioggia. The End è la versione lisergica de Il ramo d’oro di Frazer[30], è il movimento circolare del serpente nel quale la vita e la morte si ricongiungono continuamente.

I Doors non affermano la sconfitta della rivoluzione lisergica, non hanno il nichilismo dei Velvet Underground né la gioia demoniaca dei Rolling Stones: ne affermano la realizzazione, il suo avverarsi. Ma questo avverarsi significa, anzitutto, la distruzione del sé. La tecnologia della droga – e poco importa che essa, in Morrison, sia spiritualizzata in “sciamanesimo” o teatralizzata nel “dionisiaco” – è una via di liberazione che è anche, insieme, una via di morte, di annientamento: è il ritorno dell’indiano “disparente”[31], di qualcosa che è stato originariamente represso, e ora ossessiona l’uomo bianco facendolo sprofondare nella follia e nell’autodistruzione. Non è questione di contrapporre, allora, sogno e realtà. Piuttosto, ciò che attraversa la rivoluzione psichedelica è un movimento per cui vita e morte si rendono indistinguibili: è proprio il sogno che si realizza, che diviene reale, a trasformare la realtà in un sogno, e così a farla morire come realtà. Resta solo il sogno – un sogno in cui tutti siamo intrappolati.

Era il sogno che una rivoluzione neurologica – realizzata attraverso la tecnologia dell’Lsd – fosse in atto, potesse finalmente liberare il cervello dai limiti, dagli schemi che erano stati introiettati, dai vecchi programmi che lo avevano mantenuto obbediente, disciplinato, subordinato; ma era, al contempo, l’incubo – che solo un romanziere come Dick aveva intuito fino in fondo – di un mondo in cui gli individui sono mummificati, semi-vivi perché morti, ma in grado di comunicare attraverso la tecnologia. Cervelli digitalizzati, diremmo. Oggi “questo” è divenuto attuale: è divenuto una realtà, qualcosa di realizzabile – e che sia la realizzazione di un sogno o un di incubo, è questo che si deciderà adesso. È adesso, nei prossimi anni, che la storia ci dirà se gli anni Sessanta avevano sognato un mondo libero, o se avevano anticipatamente vissuto l’incubo di un mondo in cui le nuove tecnologie hanno espropriato – per dirla con Stiegler – gli individui dei loro saperi, delle loro capacità, delle loro azioni e dei loro desideri.

Nei primi anni ’60, Leary aveva pensato che il «numero critico per sconvolgere la mentalità della società americana», quello che avrebbe rivoluzionato dall’interno delle menti gli americani, si sarebbe raggiunto nel 1969, quando i consumatori di Lsd avrebbero potuto essere quattro milioni. La cosa si fermò prima, e forse, per la gioia di Nixon, appena in tempo: alla fine del decennio, erano circa due milioni gli americani che avevano provato l’Lsd[32]. Spostiamoci in avanti. Già nel 2017, tre adolescenti americani su quattro possedevano un IPhone. Oggi quasi il 90% degli americani è iscritto ad almeno un social media, e per l’anno prossimo si calcola che, negli Stati Uniti, 176 milioni di utenti accederanno a contenuti di realtà aumentata e realtà virtuale. L’infrastruttura che porterà verso l’embodied internet, l’internet “incarnato” nelle nostre menti e corpi, è già tutta qui.

Bisogna riconoscere allora a Leary il merito di aver capito come fosse nella fabbricazione di una realtà “elettronica” che si sarebbe definita la posta in gioco di quella che inizialmente egli aveva ipotizzato come rivoluzione lisergica: «scopare cervello-e-anima», «scopare la mente», realizzare la libertà da ogni forma di potere, sarebbe ora dipeso – scriveva nei primi anni ’90 – dal modo in cui il corpo umano avrebbe interagito con i computer[33]. Ciò che contava era la psibernetica, come la chiamava Leary: il modo, cioè, in cui, attraverso la tecnologia, avremmo costruito il nostro stesso cervello, collegando il nostro «neurospazio» con quello altrui, costruito «info-ambienti» nel nostro «neuromondo»[34].

È a questo livello che va capita la differenza con un’“utopia” come quella della rivoluzione comunista: se essa fu possibile in passato, ciò che è certo è che, oggi, non lo è più – non esistono condizioni economiche, sociali, ideologiche che possano renderla attuale. L’esatto inverso di quel che vive degli anni Sessanta: essi non furono in realtà possibili allora, ma lo sono divenuti oggi. Il fatto che la neuropolitica, la rivoluzione lisergica fosse una rivoluzione essenzialmente tecnologica, portava con sé, da sempre, il rischio di ciò che oggi si chiama capitalismo cognitivo: il rischio che, anziché liberare le nostre menti, la tecnologia le avrebbe espropriate[35].

Portava con sé, però, anche l’altro lato, quello di reale liberazione. Essa muoveva nella convinzione che il capitalismo avesse raggiunto un tale stadio – tecnologico – di sviluppo, da consentire la realizzazione immediata di ciò a cui si era dovuto rinunciare per poterlo raggiungere. Il mondo poteva essere finalmente libero, gli individui avrebbero potuto liberarsi grazie al capitalismo dei vincoli imposti dal capitalismo stesso – era la sensazione di un’intera generazione di giovani. A questo sarebbe servito, d’ora in poi, lo sviluppo capitalistico: a liberarci dalla società, dai governi, dalle istituzioni attraverso cui esso aveva imposto la repressione degli individui. Diremmo, con una formula: ad un uso lisergico, “acido”, della tecnologia.

Se del resto la “neuropolitica” è nuova e inedita alleanza tra cibernetica e cultura lisergica, tecnologia ed espansione della coscienza, ciò non dimostra altro che il sogno degli anni Sessanta – la liberazione dal lavoro, la fine dei limiti e dei meccanismi repressivi propri della società industriale, la sperimentazione di nuove forme di desiderio – è un sogno certamente tecnologico: la chitarra elettrica e l’acido lisergico sono essenzialmente prodotti di alta tecnologia per quegli anni. Come ricorda Norman Spinrad, il rock è musica tecnologica, è già cyber[36], innesto della tecnologia nella pelle, sul corpo. Ricordavamo prima la sera del 25 luglio 1965, quando Bob Dylan salì sul palco del Newport Folk Festival, ospite più atteso della serata: indossava una giacca nera di cuoio, una camicia gialla senza cravatta e, soprattutto, imbracciava una Fender Stratocaster. Si tratta di uno degli episodi più raccontati, e più discussi non solo della carriera di Dylan, ma della storia della musica pop[37]. Il pubblico fischia, urla, si agita. Dylan attacca ringhiando una “furiosa” Maggie’s Farm. Per i ragazzi di Newport, ha scritto Greil Marcus, «un profeta a cui avevano affidato la parte migliore di sé aveva voltato loro le spalle, e sulle spalle non portava il cotone blu dei lavoratori, la divisa che aveva sempre indossato, ma una giacca di pelle nera»[38].

Dylan, come noto, ha sempre rifiutato, fin dall’inizio, l’idea di essere un cantante “di protesta”, ha sempre dichiarato di non aver nulla a che fare con tutto questo. Dylan era elettrico. «I cyborg neuromantici in effetti hanno usato protesi tecnologiche per scopi trascendentali fin da quando Bob Dylan portò in scena quella famosa chitarra elettrica»[39], ed è questo il senso proprio di quel gesto: svegliare il pubblico dall’idea che “rivoluzione” volesse semplicemente indicare un tentativo di riforma delle istituzioni politiche, volesse dire la conquista di diritti civili, le rivendicazioni della classe lavoratrice. In gioco c’è molto di più: c’è la fine della politica e l’inizio di una neuro-politica, di una spinta verso una musica che Dylan raggiungerà, pochi mesi dopo, in Blonde on Blonde, con quel «suono sottile, selvatico e mercuriale», «metallico e lucente», suono che ha il corpo sottile come «quello che viene attribuito al mercurio nei trattati di alchimia» e che è insieme selvaggio, wild, «non addomesticato, e dunque libero e naturale»[40]. Elettricità e libertà, accelerazione del capitalismo e insieme suo compimento, liberazione attraverso la tecnologia di ciò che non è più semplicemente tecnologico, ma è “selvaggio”, selvatico.

Visions of Johanna dice lo stesso: The ghost of ‘lectricity howls in the bones of her face / Where these visions of Johanna have now taken my place[41]. Il fantasma dell’elettricità che urla nelle ossa del viso non ha nulla di “naturale”: è un movimento selvaggio, che manda in frammenti il corpo, che “prende il posto” dell’Io. Movimento essenzialmente tecno-logico – è un fantasma anfetaminico, chimico, elettronico. L’elettricità – di droghe e di sperimentazioni cyborg – libera un corpo senza organi, un corpo che non è più costituito, organizzato, disciplinato da istanze – ad esso trascendenti – che lo unificano, fanno di esso un corpo: See the primitive wallflower freeze / When the jelly-faced women all sneeze / Hear the one with the mustache say, “Jeez, I can’t find my knees”[42].

Neuro-politica, allora, significa esattamente questo: farla finita con la “persona” - con questa idea che noi siamo per natura come siamo (che il nostro cervello funzioni per natura in un certo modo, che il nostro corpo sia fatto per natura con queste funzioni, compiti, etc.). La rivoluzione psichedelica prometteva questa possibilità: di potersi servire della tecnologia – all’epoca, quella delle droghe – per sperimentare nuove connessioni tra gli organi, nuove modalità di percezione, nuovi circuiti neurali. Sperimentare una nuova “psicologia”, e nuovi modi di far funzionare il desiderio. In questo senso essa è una politica. Perché non c’è politica che del desiderio, e il desiderio è essenzialmente politica – per questo L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari è davvero il libro che racchiude l’esperienza, più ancora che del maggio francese, di quel decennio.

È per questo che la rivoluzione psichedelica è una rivoluzione tecnologica: perché essa porta avanti non una filosofia, ma una cibernetica. Una droga come l’Lsd era solo lo “strumento di navigazione” allora disponibile – ma presto ve ne sarebbero stati altri. Leary stesso non mancò di sottolinearlo, dichiarando che il computer era l’Lsd degli anni Novanta – e questa frase, oggi, trent’anni dopo, appare in tutta la sua verità.

Perché la rivoluzione delle coscienze, oggi, si decide non sul tema della droga, ma appunto sull’uso che facciamo, che vogliamo fare, dell’intelligenza artificiale, delle interfacce digitale-neutrale, del wired brain. «Pace, amore e liberate le vostre teste»: solo oggi il messaggio di Leary diviene realmente attuale. Le sue parole hanno un significato molto più determinato e specifico oggi, che non all’epoca – tanto da far sospettare che egli avesse più ragione di quanto credesse quando, parlando di sé e di Metzner, disse: «ci consideravamo come degli antropologi del XXI secolo abitanti di una capsula temporale situata negli oscuri anni Sessanta».

 

 



 

[1] M. FISHER, Comunismo acido. Introduzione incompiuta, ora in ID., Il nostro desiderio è senza nome. Scritti politici K-Punk/1, trad. it. di V. Perna, Roma, Minimum Fax, 2020, 358-392.

[2] M. FISHER, Desiderio postcapitalista. Le ultime lezioni, a cura di M. Colquhon, trad. it. di V. Perna, Roma, Minimum Fax, 2022, 118.

[3] H. MARCUSE, Eros e civiltà, trad. it. di L. Bassi, Torino, Einaudi, 1968, 33.

[4] H. MARCUSE, Eros e civiltà, cit., 53.

[5] H. MARCUSE, Eros e civiltà, cit., 128.

[6] Cito i frammenti di Benjamin dall’edizione storico-genetica alla base del volume W. BENJAMIN, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, a cura di G. Agamben, B. Chitussi, C.-C. Härle, Vicenza, Neri Pozza, 2019, 529.

[7] B. MORONCINI, L’eccedenza del presente. Sulla metodologia storiografica di Walter Benjamin, in ID., La lingua muta e altri saggi benjaminiani, Napoli, Filema, 2002, 202.

[8] B. MORONCINI, L’eccedenza del presente, cit., 206.

[9] M. FISHER, Desiderio postcapitalista. Le ultime lezioni, cit., 66.

[10] M. MARQUSEE, Wicked Messenger. Bob Dylan e gli anni Sessanta, trad. it. di S. Pezzani, Milano, Il Saggiatore, 2010, 161.

[11] H. MARCUSE, La fine dell’utopia, in ID., La fine dell’utopia, trad. it. di S. Vertone, Roma-Bari, Laterza, 1986, 11.

[12] H. MARCUSE, La fine dell’utopia, cit., 12.

[13] T. LEARY, The Politics of Ecstasy (1968), Berkeley, Ronin, 1998. La traduzione italiana è disponibile sul sito https://www.psicofania.it/

[14] A. WILLIAMS – N. SRNICEK, Manifesto accelerazionista, trad. it. di M. Cupellaro, Roma-Bari, Laterza, 2018, 19.

[15] THE BEATLES, I’m Only Sleeping, in Revolver, Parlophone, agosto 1966.

[16] H. KUREISHI, Otto braccia per abbracciarti, in ID., Otto braccia per abbracciarti. Riflessioni sulla politica, trad. it. di I. Cotroneo, Milano, Bompiani, 2002, 112-113, 116.

[17] A. GINSBERG, The Beatles changed American consciousness, riportato in G. GIULIANO – B. GIULIANO, The Lost Beatles Interviews, New York, Dutton, 1994, 371. Cfr., sul tema, S.G. DOUGLAS, Where the Girls Are. Growing Up Female with the Mass Media, New York, Times Books, 1994.

[18] T. LEARY, Neuropolitica, trad. it. di F. Rossi, Roma, Castelvecchi, 2013, 16.

[19] Cfr. A. GINSBERG, Gay Sunshine Interview, con Allen Young, Bolinas, Grey Fox, 1974, 27.

[20] THE BEATLES, Tomorrow Never Knows, in Revolver, Parlophone, agosto 1966.

[21] Lizzy James intervista Jim Morrison, trad. it., in P. Vites (a cura di), Jim Morrison oltre la leggenda, Padova, Arcana, 1997, 38. L’intervista risale al 1970, come ricorda Lizzie James, Jim Morrison: Ten Years Gone, in Creem Magazine, 1981.

[22] W. BLAKE, London, in ID., Canti dell’innocenza e dell’esperienza, trad. it. di G. Parks, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1984, 114.

[23] Cfr. T. CONNELLY, He Took a Face from the Ancient Galery: Blake and Jim Morrison, in S. Clark – T. Connolly, J. Whittaker (a cura di), Blake 2.0., London, Palgrave Macmillan, 2012, 230-247; L. FREEDMAN, Break on Through: Musical Openings of the Doors of Perception, in ID., William Blake and the Myth of America. From the Abolitionist to the Counterculture, Oxford, Oxford University Press, 2018, 165-191. Per Dylan, cfr. E. STELZIG, Bob Dylan’s Career as a Blakean Visionary and Romantic, Geneseo, Milne Library, 2013.

[24] Ciò non significa – ovviamente – non considerare, anche all’interno della comunità bianca americana, i movimenti più strettamente “politici”, nel senso più classico del termine, dell’attivismo proprio anche degli Yippie, ma anche di gruppi quali i Weathermen. Cfr., sul punto, H. Jacobs (a cura di), Weathermen. I fuorilegge d’America, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1973 e oggi, soprattutto, B. CARTOSIO, I lunghi anni Sessanta. Movimenti sociali e cultura politica negli Stati Uniti, Milano, Feltrinelli, 2012.

[25] A. GINSBERG, Prefazione a T. LEARY, Il Gran Sacerdote, trad. it. di A. Trentini, Milano, ShaKe, 2006, 10.

[26] T. LEARY, I germi degli anni Sessanta (1988), trad. it., in R. VALVOLA SCELSI, Cyberpunk. Antologia di scritti politici, Milano, ShaKe, 2007, 202.

[27] In Revolution, pubblicata a fine agosto 1968 come singolo, lato B di Hey Jude, Lennon canta «ma quando parli di distruzione, sappi che non puoi contare su di me (that you can count me out)». Pochi mesi dopo, a novembre, esce The Beatles – più conosciuto come White Album –, nel quale la canzone viene riproposta in una versione più lenta e con il titolo di Revolution 1. Rispetto al testo, Lennon introduce un solo cambiamento: il verso Don’t you know that you can count me put ora suona come “Don’t you know that you can count me out, in”: includermi fuori, o escludermi dentro, dice, come se fosse indeciso – Lennon, in un’intervista, lo disse: In and out – I put both in ‘cause I wasn’t sure.

[28] Prefazione del curatore, in D. SALOMON (a cura di), Lsd. La droga che dilata la coscienza, cit., 13.

[29] M. MCLUHAN, Intervista a Playboy. Un dialogo diretto con il gran sacerdote della cultura pop e il metafisico dei media, trad. it. di L. Barra, Milano, Franco Angeli, 2013, 46.

[30] Lo ha sottolineato molto bene L. COUPE, Il mito. Teorie e storie, trad. it. di B. Lazzaro, Roma, Donzelli, 1995, 33-36.

[31] The Doors, Peace Frog, in Morrison Hotel, Elektra, febbraio 1970: Indians scattered / On dawn’s highway bleeding / Ghosts crowd the young child’s / Fragile eggshell mind (“Indiani sparsi all’alba sulla strada sanguinante / fantasmi affollano la mente del bambino fragile guscio d’uovo”). Questo è il tema “americano” della poetica di Morrison: quello del fantasma dell’indiano che, da sempre scomparso, ritorna – il vanishing American, come lo chiama Fiedler (cfr. L.A. FIEDLER, Il ritorno del pellerossa. Mito e letteratura in America, trad. it. di L. Brioschi, Parma, Guanda, 2009).

[32] Riprendo i dati da M. POLLAN, Come cambiare la tua mente, trad. it. di I.C. Blum, Milano, Adelphi, 2019.

[33] Cft. T. LEARY, Caos e cibercultura, trad. it., Milano, Apogeo, 1994.

[34] T. LEARY, Caos e cibercultura, cit., 83.

[35] Su tutto ciò, rinvio a E. CAMURRI, Gnosticismo acido, in F. Di Vita (a cura di), La scommessa psichedelica, Macerata, Quodlibet, 2020, 189-211. Nello stesso volume, si veda anche il contributo di S. DAL DOSSO – N. NICOLAUS, Oltre la realtà: internet e memetica tra magia, estasi e distruzione, 150-188.

[36] N. SPINRAD, Science Fiction in the Real World, Carbondale-Edwardsville, Southern Illinois University, 1990, 113.

[37] Si veda, ora, E. WALD, Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, trad. it., Milano, Vallardi, 2022.

[38] G. MARCUS, Dov’è il vicolo della desolazione (2000), ora in ID., Bob Dylan. Scritti 1968-2010, trad. it., Bologna, Odoya, 2011, 256.

[39] N. SPINRAD, Science Fiction in the Real World, cit., 113.

[40] A. CARRERA, La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell’America, Milano, Feltrinelli, 2017, 182.

[41] BOB DYLAN, Visions of Johanna, in Blonde on Blonde, Columbia Records, maggio 1966: «Il fantasma dell’elettricità / grida sulle ossa del suo volto / dove le visioni di Johanna hanno preso il mio posto».

[42] BOB DYLAN, Visions of Johanna, in Blonde on Blonde, Columbia Records, maggio 1966: «La vedi quella violaciocca primitiva che congela / quando starnutiscono le donne dalla faccia di gelatina? / La senti quella con i baffi che dice: “Gesù, non ho più le ginocchia?”».