Contributi

 

 

Foto-Di-Vincenzo-quadr‘CONFLITTI’ E CONFINI GIURIDICO-RELIGIOSI

NELLA FONDAZIONE DELLA URBS ROMA

 

 

MARKO DI VINCENZO

Sapienza Università di Roma

 

 

SOMMARIO: 1. La necessità di regole giuridico–religiose. – 2. Il ‘perimetro’ della pax deorum. – 3. Brevi conclusioni. – Abstract.

 

 

1. – La necessità di regole giuridico-religiose

 

L’esperienza giuridico-religiosa romana è fondata, come la tradizione ci insegna, su un conflitto[1]. Questo ci viene tramandato, tra gli altri[2], da Livio:

 

Liv. 1.6.3-1.7.3: Romulum Remumque cupido cepit in iis locis ubi expositi ubique educati erant urbis condendae… Quoniam gemini essent nec aetatis verecundia discrimen facere posset, ut di quorum tutelae ea loca essent auguriis legerent qui nomen novae urbi daret, qui conditam imperio regeret, Palatium Romulus, Remus Aventinum ad inaugurandum templa capiunt. Priori Remo augurium venisse fertur, sex voltures; iamque nuntiato augurio cum duplex numerus Romulo se ostendisset, utrumque regem sua multitudo consalutaverat: tempore illi praecepto, at hi numero avium regnum trahebant. Inde cum altercatione congressi certamine irarum ad caedem vertuntur; ibi in turba ictus Remus cecidit. Volgatior fama est ludibrio fratris Remum novos transiluisse muros; inde ab irato Romulo, cum verbis quoque increpitans adiecisset, “Sic deinde, quicumque alius transiliet moenia mea”, interfectum. Ita solus potitus imperio Romulus; condita urbs conditoris nomine appellata.

 

Posto che l'esame del conflitto, è bene chiarirlo subito, ruota intorno al diritto augurale, è doveroso sottolineare che, sulla base di questo, Remo non può essere considerato una figura inserita posteriormente[3], poiché «l'inauguratio di scelta fra Romolo e Remo doveva trovare spunto e appoggio nell'antichissima realtà giuridico-religiosa»[4]. Infatti la consultazione augurale, compiuta dalle persone fra le quali doveva intervenire una scelta, pubblica, era realmente in uso fra le popolazioni latine[5].

Preliminarmente, non può dubitarsi del fatto che Romolo possa considerarsi l'augure perfetto[6], dato che compie da solo la sua inaugurazione. Non si verifica infatti un’approvazione, piuttosto una scelta divina: in altre parole «egli preesiste all'ordinamento e lo genera per volontà divina»[7]. La chiusura del sistema (giuridico) verso la sfera dello ius divinum[8] si presenta, quindi, come immediatamente necessaria alle origini[9]: è grazie proprio ai poteri augurali, riconosciuti a Romolo, che si può comprendere quella sottomissione[10] dei pastori latini senza che vi fosse una elezione. È proprio il diritto augurale che, estrinsecantesi attraverso i suoi principi nel momento giustificativo e a fondamento del potere, mostra quale sia la concezione istituzionale del potere stesso. Ciò permette di abbandonare altre tesi metagiuridiche, che argomentano intorno a un ‘misterioso’, “carisma personale[11]” o “istituzionale[12]”. Romolo, come detto, è ‘semplicemente’ un augure che si inaugura rex: questo è espressione del diritto augurale, non certo di un particolare carisma, poiché «la tradizione non poneva tanto una spiegazione storica quanto cercava una suprema giustificazione divina all'ordinamento giuridico-religioso romano»[13].

Operate queste brevi premesse, è evidente come un conflitto[14] si crei nel momento dell'inauguratio[15] di Romolo e Remo circa chi dovesse regnare. Ma prima di analizzare quali sono i conflitti che emergono dalla narrazione di Livio sopra riportata, si chiarisca che il tutto è orientato alla nascita di una società organizzata secondo il diritto[16]. Questo è evidente nelle fonti:

 

Liv. 1.8.1: Rebus divinis rite perpetratis vocataque ad concilium multitudine quae coalescere in populi unius corpus nulla re praeterquam legibus poterat, iura dedit.

 

Il conflitto, dunque, deve necessariamente esser risolto, perché la città, alla quale deve esser dato il diritto, richiede l'ordine e la regola, sin dai primissimi tempi[17]. Ed è per tale ragione che, giuridicamente, e non solo[18], è pressoché irrilevante interrogarsi sulla natura e le origini del mito fondativo’ secondo una logica ordinatrice che distingue “miti delle origini” e “miti escatologici”[19]. Ciò porterebbe infatti a far del conflitto tra Romolo e Remo un'eccezione che confermi una presunta regola generale.

Poste le premesse e chiarito il fine, si può tracciare la linea dei conflitti che emergono dal racconto di Livio.

Innanzitutto Remo e Romolo[20] erano gemelli, come tradizione insegna. Ciò costituisce una prima complicazione per l’individuazione di regole che possano scongiurare un conflitto. Infatti, l’età non poteva costituire un criterio dirimente per chi dovesse fondare la città.

Per decidere quindi chi dovesse essere il conditor, e dunque regnare dopo aver fondato la città, i due rimisero la scelta agli dèi chiedendo auspicia[21], e, per l'appunto, privata[22]: Romolo infatti non era ancora rex, e sarebbe inopportuno parlare di auspicazioni pubbliche del re anteriormente alla lex curiata (come sarà poi per i re successivi), non differendo questi auspicia da quelli dei patres. Si ricordi infatti il principio che sta alla base dell'interregnum: mancando i supremi magistrati auspicia ad patres[23] redeunt (Cic. Ad Brut. 1.5.4)[24]: sembra che siano gli auspicia publica a tornare ai patres[25]. È anche qui d’aiuto Livio:

 

Liv. 6.41.6: nos quoque ipsi (sc. patres) sine suffragio populi auspicato interregem prodamus et privatim auspicia habeamus, quae isti ne in magistratibus quidem habent.

 

Quindi durante l'interregnum si hanno gli auspicia privatim, e, la consultazione, tanto quanto la base dell'interregno stesso, su questi poggiano il loro fondamento giuridico-religioso. Dunque, i singoli interreges per prodere interregem consultano auspicia privata.

Si può dire di conseguenza che il depositario degli auspicia patrum -nominato tramite prodere interregem, che equivale a porro dare, e quindi una trasmissione degli auspicia dei patres all'interrex- diviene quindi l'interrex scelto. Ha un auspicium che si fonda sugli auspicia dei patres, come dimostrato, privata. Dunque anche quegli auspicia publica in Cic. Ad Brut. 1.5.4, del magistrato e del rex, provengono dai patres e (quindi dai loro auspicia privata).

Il conflitto si sposta dunque sul piano auspicale. Infatti, per prendere gli auspici Romolo occupò il Palatino, mentre Remo l'Aventino[26]: la differenza del luogo di osservazione dimostra come si volesse evitare un ulteriore conflitto. Si chiese alla sfera dello ius divinum[27] di far pervenire i segni in determinati luoghi, che, necessariamente, al fine di evitare confusioni interpretative, dovevano essere per ciascuno chiari.

Ma prima di prender la strada dei colli, per risolvere ogni tipo di conflitto, i gemelli avrebbero dovuto stabilire una regola, un criterio risolutivo per la futura interpretazione dei segni divini. Avrebbero dovuto, infatti, decidere per la prevalenza di un criterio cronologico o quantitativo nella futura attività auspicale. Così non avvenne.

Remo vide per primo sei avvoltoi, Romolo ne vide il doppio[28], ma dopo che il primo aveva già reso pubblico, annunziato[29] l'auspicio. Il conflitto, è evidente, ha ad oggetto l’attività auspicale. Remo potrebbe essere il conditor sulla base di un criterio temporale, Romolo potrebbe fondare la città sulla base di un criterio quantitativo.

Ecco, però, che dal conflitto giuridico-religioso, irrisolubile in assenza di una regola precisa, si arrivò al conflitto fisico, al duello: Remo cadde colpito nella mischia[30].

L’accordo, il patto, e quindi una regola, avrebbero di certo evitato che i due gemelli risolvessero il conflitto con il ricorso all’uso della forza. La tradizione, insomma, vuole insegnarci la necessità dell’accordo, pena l’applicazione dell'homo homini lupus[31], verso invece una comunità retta da un contratto sociale[32].

 

 

2. – Il ‘perimetro’ della pax deorum

 

La versione riportata da Livio, infatti, fa comprendere la necessità della risoluzione del conflitto, perché la città deve ncessariamente essere fondata; così vengono erette delle mura[33] e con esse delle regole, entrambe destinate ad essere estese o riviste, in una direzione precisa di espansione e crescita.

Una città era stata fondata e con essa una dicotomia nello spazio: esiste un territorio della città[34] e qualcosa che è esterno ad esso; il rituale, denso di significati giuridici, ha già conferito necessariamente alla civitas uno ‘statuto’, che la distingue da ciò che circonda il pomerium[35]: la sorte di Remo[36] ne è la viva testimonianza, poiché egli valicando il sulcus primigenius[37] ha calpestato la regola giuridica[38], e con essa ha oltraggiato la volontà divina.

Il sistema scelto è di tipo giuridico-religioso, perché è l’unico che assicura la sopravvivenza – e, come si dirà, la crescita – del popolo: la pax deorum ne costituisce una solida garanzia. Ciò è avvertito anche dagli storici: «Tutto questo sistema di cautele religiose[39] era stabilito nel momento in cui la comunità si insediava, secondo un suo specifico sistema religioso e socio-politico. Si trattava di un patto tra la comunità e gli dèi, e quando la comunità cambiava nella sua struttura (ad esempio da monarchia a repubblica) e nel sistema insediativo (ad esempio con la Roma serviana delle quattro regioni) il patto doveva esser rinnovato. Quello che Rousseau chiamava “contrat social”, presso gli antichi Latini ed Etruschi era un contratto tra gli uomini e gli déi»[40].

Quindi garantire la pax deorum è l'obiettivo che da subito si pone il conditor, dove infatti «il ʻcentroʼ religioso dello spazio è anche il punto iniziale della storia del popolo romano»[41]. Spazio e tempo sono messi in evidenza innanzitutto da «due misteriosi monumenti, i quali rimangono pur sempre un'incognita»[42], e cioè il mundus (o fossa) e la quadrata Roma, nonché più strettamente dal pomerium, dato il suo “concetto normativo”[43].

Il mundus, una sorta di ‘pozzo’ scavato al centro della città che si sta fondando, si identificherebbe con l'umbilicus urbis, che si trova nel Foro Romano[44], nelle strette vicinanze del comitium e quindi il centro della vita pubblica della città, almeno se partiamo da ciò che narra Plutarco[45], che pone chiaramente il mundus come il centro del perimetro della città, rispetto al quale poi viene tracciato il pomerium.

Secondo appunto Plutarco[46], attraverso la consulenza di sacerdoti etruschi, Romolo fondò l'urbe secondo un rito che prevedeva la costruzione di una cavità, detta mundus[47], una fossa[48] nella quale dovevano esser gettate delle primizie e porzioni di terra proprie dei luoghi da cui provenivano i cittadini[49]. La cavità scavata nella terra ha una precisa funzione verso il mondo ctonio, di comunicazione con le potenze soprannaturali che lo abitano: attraverso essa si entra in rapporto con gli dèi e con le altre entità che si aggirano nella profondità della terra. Ma la funzione del mundus non si esercita solo verso il basso, tant'è che il nome che designa questa cavità è lo stesso che si utilizza per indicare la volta celeste[50]. Il rapporto con il cielo è importante poiché sta a significare che il mundus non è in rapporto solo con ciò che sta sotto, terra e viscere, ma anche con ciò che sta sopra, il cielo: la dimora dei dii caelestes, che ovviamente sono diversi dalle divinità infernali, ctonie, i dii inferi. La comunicazione attraverso il mundus è posta su un piano verticale, dal basso verso l'alto, facendo sì che la città entri in rapporto con il pantheon nel suo complesso. E questo ponte, questo collegamento, viene posto in essere all'inizio, sin dal momento della fondazione, ove la città non è soltanto un'entità materiale, l'urbs, ma una comunità di uomini (civitas) che ha la necessità di vivere in un rapporto (pacifico) con gli dèi. Ma v'è di più: la dimensione verticale non riesce da sola a fondare la civitas poiché essa richiede una dimensione orizzontale, non potendo coincidere la città con il suo centro geometrico. Si rende necessario quindi tracciare il pomerium.

Le fonti riportano che Romolo fortificò il Palatino[51], dove egli aveva fondato la città, e che tale città era quadrata[52]. Il collegamento fra la tradizione sul pomerio romuleo e i dati archeologici[53] è comunque estremamente pericoloso, poiché da uno studio approfondito è chiaro che (già) ogni autore antico tendeva verso particolari ipotesi al fine di ricostruire una realtà primigenia.

Concentrandoci sul pomerio, dato che è esso che per primo è destinato ad estendersi nell'ottica della civitas augescens, va chiarito subito che l'inaugurazione del confine dell’urbs differiva da quella che si aveva per altri luoghi[54], poiché il permesso, la richiesta di approvazione concerneva un particolare ‘uso pubblico’. Ciò distingueva[55] le urbes dagli altri abitati (oppida).

Seguendo Catalano[56] e Valeton[57] il concetto di pomerium va definito in base alla congiunta interpretazione di:

 

Liv. 1.44.3-: Pomerium verbi vim solam intuentes postmoerium interpretantur esse; est autem magis circamoerium, locus quem in condendis urbibus quondam Etrusci qua murum ducturi erant certis circa terminis inaugurato consecrabant, ut neque interiore parte aedificia moenibus continuarentur, quae nunc volgo etiam coniungunt, et extrinsecus puri aliquid ab humano cultu pateret soli. Hoc spatium quod neque habitari neque arari fas erat, non magis quod post murum esset quam quod murus post id, pomerium Romani appellarunt; et in urbis incremento semper quantum moenia processura erant tantum termini hi consecrati proferebantur.

 

Aul. Gell., Noct. Att. 13.14.1: Pomerium quid esset, augures populi Romani, qui libros de auspiciis scripserunt, istiusmodi sententia definierunt: "Pomerium est locus intra agrum effatum per totius urbis circuitum pone muros regionibus certeis determinatus, qui facit finem urbani auspicii

 

Varro, ling. 5.143: ...postmoerium dictum eiusque auspicia urbana finiuntur

 

Secondo la definizione di Livio, pomerium era il luogo inaugurato, e cioè il luogo in cui era stato chiesto il permesso divino affinché fossero costruite le mura: in questo modo i muri dell'urbs erano sancti[58]. Il proposito di costruire le mura centra la definizione del pomerio (Livio dice ducturi). Vi sono dunque due azioni[59]: una è l’inaugurazione, tramite la quale si rende possibile la costruzione delle mura in quel luogo, e la seconda è la costruzione delle stesse[60]. Sono poi due i caratteri necessari del pomerio, inteso quindi nel senso di luogo inaugurato per le mura: esso doveva cingere l'urbs senza interruzioni[61], ed altresì doveva essere unico, costituendo un preciso confine di (e per) una serie di regole giuridico-religiose.

Dalla definizione di Varrone e da quelle degli augures si comprende che il pomerio è il confine della città: le notizie sono di fondamentale importanza poiché tutta una serie di norme e di poteri presupponevano questo concetto, e di conseguenza anche tutta una serie di attività poteva compiersi solo fuori o all'interno del pomerium. Esemplarmente, per quanto attiene all'imperium, chi ne era titolare veniva considerato extra urbem quando era extra pomerium:

 

Aul. Gell., Noct. Att. 15.27.4: centuriata autem comitia intra pomerium fieri nefas esse, quia exercitum extra urbem imperari oporteat, intra urbem imperari ius non sit.

 

Si ricordi poi[62] che i comitia curiata era all'interno del pomerium che si riunivano, e questa norma non fu derogata neanche nel periodo della lotta tra Cesare e Pompeo[63].

Per quanto attiene all'espressione finis urbani auspicii, auspicium non sembra destare problemi per intendervi ʻpotereʼ magistratuale, dato il connesso significato di ʻauspicazioneʼ, anziché solamente come ʻsegno divinoʼ. Infatti si può poi così distinguere gli auspicia urbana da quelli militaria[64], come imperia ed auspicia domi e militiae[65].

È proprio sulla base del concetto di pomerium come confine dell'urbs, e quindi sulla base del significato degli auspicia urbana, che vanno esaminati giuridicamente i successivi ampliamenti. Lo sviluppo della città, la sua crescita, richiede un adeguamento tanto degli stessi auspici urbani quanto delle regole giuridico-religiose: è necessario rivolgersi a Iuppiter chiedendogli si est fas che la (certa) linea del pomerio cresca o rimanga tale. Ciò implicitamente significa chiedere al dio si est fas che cresca il confine degli auspicia urbana: con essi si chiede, in buona sostanza, se sia conforme al fas che quell’insieme di regole e poteri (ius) esista entro quel preciso confine dell'urbs o se questo debba essere esteso.

In ogni caso, una volta fondata l'urbs si rendeva necessaria un'inaugurazione della modifica del pomerio per operare qualsiasi intervento sul tracciato[66]. Precisamente, poteva richiedere tale inaugurazione solo chi avesse lo ius proferendi pomerii come ci confermano le fonti[67]. Da ricordare è poi comunque che anche la tradizione era incerta sulle modifiche in età regia:

 

Tac. Ann. 12.24: regum in eo ambitio vel gloria vel vulgata.

 

L'archeologia[68] non ci fornisce dati certi circa l'età della comprensione dell'intero Palatino, a sostegno della tradizione che la attribuisce a Romolo[69]. Un considerevole ampliamento si ebbe poi in età etrusca, attribuito a Servio Tullio:

 

Liv. 1.44.3: Addit duos colles, Quirinalem Viminalemque; Viminalem inde deinceps auget Esquiliis; ibique ipse, ut loco dignitas fieret, habitat; aggere et fossis et muro circumdat urbem; ita pomerium profert[70].

 

Se non vi furono ampliamenti fino a Silla e poi Augusto[71], l'Aventino venne ricompreso nel pomerium solo sotto Claudio[72], e si hanno poi testimonianze, non pacifiche[73], di ampliamenti sotto Nerone, Vespasiano, Traiano, Commodo ed Aureliano.

Il confine, tramite un'exaugurazione[74], può poi essere anche ristretto. Ciò può creare un conflitto di tipo giuridico-religioso, in termini spaziali. Proprio nel momento della modifica del tracciato del pomerio, si ha una difficoltà: Valeton[75] sostiene che si doveva exaugurare la parte che si voleva sostituire e inaugurare la parte nuova, poiché considerando gli effetti giuridici, non poteva che esistere un unico pomerio, e quindi non poteva aversi una exaugurazione prima che non fosse stato approvato dagli dèi il nuovo luogo e tratto del pomerio. Tutto ciò, ovviamente, senza interruzioni del tracciato di quest'ultimo. In realtà, si dovrebbe pensare solo a una semplice inaugurazione della modifica[76]. Catalano afferma infatti: «Questa tesi del Valeton è sottile ma, da respingere: si trattava di semplici modifiche del pomerio e non di eliminazione del vecchio per costituirne uno del tutto nuovo: solo in questo caso si sarebbe compresa una exaugurazione unita ad una inaugurazione»[77]. Ma non è, forse, solo questa la motivazione alla base della risoluzione del conflitto: a ben guardare, se veramente vi fosse prima un'exaugurazione e poi una inaugurazione del nuovo pomerio, una risposta negativa alla duplice domanda avrebbe reso nefas non solo quella precisa modifica, ma ogni modifica di tratto del pomerio: quindi una semplice ʻaggiuntaʼ elimina alla radice un irrisolvibile conflitto[78].

 

 

3. – Brevi conclusioni

 

La considerazione di questi concetti di inestimabile forza giuridico-religiosa offre dunque lo spunto per chiarire in quali termini debba essere intesa la risoluzione del conflitto tra i gemelli. La città è fondata su un sistema di tipo giuridico-religioso, che, per crescere, ha bisogno (da subito) di regole. In definitiva, la tradizione mostra come la civitas sia nata con, se non prima, dell’urbs: è la regola giuridico-religiosa che condanna Remo. Ma la città deve crescere, e con essa debbono crescere anche le regole: con la crescita del popolo e del territorio cresceranno i conflitti, e dove non c'è regola c'è la forza bruta[79]. E ci si affida al diritto per la risoluzione degli stessi: solo così la civitas è augescens[80].

 

 

 

Abstract

 

La civitas a besoin de règles pour éviter ‘conflits’: le sort de Remus en est le meilleur témoignage. On choisit un système juridique-religieux afin de créer des limites dans lesquels la communauté peut grandir. En fait, la volonté humaine a besoin de l’autorisation de la volonté divine: c’est cette logique juridique qui assure le maintien de la pax deorum. De cette façon on trace le sillon, pour garantir à la ville des frontières spatiales précises: le pomerium, unique et ininterrompu, déligne le périmètre de ce qui doit être fixé en conformité du système

 

La civitas necessita di regole per evitare ‘conflitti’: la sorte di Remo ne costituisce testimonianza. Si sceglie un sistema giuridico-religioso, così tracciando dei confini entro cui la comunità può crescere. La volontà umana, infatti, necessita del permesso di quella divina: è questa logica giuridica che assicura il mantenimento della pax deorum. Così viene tracciato il solco, per assicurare alla città dei precisi confini spaziali: il pomerium, unico ed ininterrotto, segna il perimetro di ciò che deve porsi in conformità al sistema.

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] È opportuno chiarire come debba essere inteso il termine in chiave giuridica. A. BERRUTI, v. “Conflitto”, in NNDI, IV, Torino 1957, scrive, sotto il Capo I “Il conflitto di poteri e il conflitto costituzionale” (manca quindi un capo apposito dedicato ad una definizione del ‘conflitto’ in generale): «La dottrina anteriore alla nuova Costituzione dello Stato italiano ha precisato che la nozione generale del “conflitto” suppone due autorità le quali asseriscano che una determinata potestà sia nelle attribuzioni di ciascuna di esse ad esclusione dell'altra, o che non sia nelle attribuzioni né dell'una né dell'altra; ed ha posto in rilievo che la nozione stessa è connessa col principio della separazione dei poteri dello Stato e deriva dalla necessità che fra i poteri medesimi sia assicurata la coordinazione, ai fini di un armonico svolgimento delle pubbliche potestà»; in Enc. dir., VII, Milano 1961, manca una voce dedicata al conflitto, ma C. CORRADO, apre la v. “Conflitti di amministrazione”, 993-997, affermando che «Il verificarsi di una situazione di conflitto rende necessario il ricorso a sistemi di risoluzione idonei». Continuando con voci enciclopediche, ed abbracciando prettamente l'odierno terreno dei diritti soggettivi, A. MAGAZZÙ, in Enc. dir., VII, 671-681, scrive «In sede di teoria generale (e a proposito dell'esercizio del diritto soggettivo) si parla di “concorso e conflitto” tra diritti soggettivi. L'uso di codesti termini si riscontra anche nella legge. Per esempio: il termine “concorso” è adoperato dal legislatore nella rubrica dell'art. 2741 c.c. che parla del “concorso dei creditori” e il termine “conflitto” nella rubrica dell'art. 1380 c.c., che prevede e regola l'ipotesi di “conflitto tra più diritti personali di godimento”» e in nota 1 specifica che «è legittima la comune tendenza (che risale ai pandettisti e trattatisti tedeschi) a considerare il tema in esame, a proposito dell'esercizio del diritto soggettivo. Si vedrà infatti che conflitto o “collisione” (quando si verifica) e concorso (quando è disposto dalla norma che previene o risolve il conflitto), nella ipotesi di coesistenza di diritti che hanno contenuto identico e identico oggetto, attengono, rispettivamente, all'“esercizio” e alla “esercitabilità” del diritto soggettivo». U. NATOLI, v. Conflitto di diritti, in Digesto Discipline Privatistiche – Sez. civile, III, Torino 1998, 447-451, afferma che «tra le ipotesi in cui l'esercizio del diritto di un soggetto può riflettersi nella lesione del diritto di un altro soggetto, la dommatica del secolo scorso ha messo in particolare evidenza quella del conflitto o della collisione dei diritti, tradizionalmente rappresentata come una situazione, nella quale due o più diritti soggettivi appartenenti a soggetti diversi si trovino di fronte e in modo che l'esercizio dell'uno renda, in tutto o in parte, impossibile quello del o degli altri», sforzandosi poi di riuscire a dare un precipuo indirizzo al tema del conflitto, enuclea ben tre elementi o caratteri posti alla base di situazioni di conflittualità e cioè “la contemporanea esistenza, o più precisamente, la coesistenza di più diritti soggettivi”, “l'appartenenza di questi a soggetti diversi”, e “la possibilità che vi sia interferenza tra le attività di esercizio dei singoli diritti, che, cioè, l'esercizio dell'uno porti al sacrificio più o meno completo e definitivo del o degli altri diritti”. Passando ai dizionari, si fornisce una rapida rassegna di qualche esempio di definizione di conflitto, tesa a rimarcare la incompiutezza lessicale di un termine che presta il fianco a innumerevoli campi semantici: Vocabolario Treccani: Il Vocabolario Treccani, Roma 1997, 891, v. “Conflitto” riporta per l'accezione che ci interessa: «In diritto, situazione giuridica caratterizzata da posizioni contrastanti e incompatibili proprie di soggetti diversi, pubblici o privati, rispetto al medesimo rapporto giuridico in senso lato (diritti soggettivi, norme, poteri), e per la quale l'ordinamento positivo predispone adeguati mezzi di composizione» passando poi a delineare precipuamente cosa debba intendersi per “conflitto di diritti soggettivi”, “conflitto di norme”, “conflitto di poteri”; Dizionario Garzanti: Il grande dizionario Garzanti della lingua italiana, Milano 1987, 714, v. “Conflitto” si legge tra i vari significati: «Contrasto, opposizione, contraddizione; lotta, contrasto sociale»; nel Sabatini-Coletti: dizionario della lingua italiana, Milano 2003, 555, v. “Conflitto” si attesta tra le varie accezioni: «Opposizione, contrasto, discordia» e ancora «Contrasto tra autorità politiche, giudiziarie o amministrative: c. di attribuzione, di competenza, c. giurisdizionale»; ed ancora nel Grande dizionario italiano dell’uso, ideato e diretto da TULLIO DE MAURO, 243, v. “Conflitto” si legge: «Urto, contrasto, opposizione: c. di idee, c. sociale, di classe, di poteri; contrasto tra autorità od organi politici, amministrativi o giudiziari». E, naturalmente, è diversa la prospettiva del giurista da quella dello storico intorno al tema del conflitto: F. DE MARTINO, Il conflitto giuridico tra Cesare e il Senato, in Cesare nel bimillenario della morte, Roma 1956, 177 ss., raccolto in F. DE MARTINO, Diritto e società nell'antica Roma, I, a cura di A. DELL'AGLI e T. SPAGNUOLO VIGORITA, Roma 1979, 380 ss., definisce subito il conflitto come “contrasto”, e dopo aver saggiamente chiarito come in realtà la costituzione romana fosse di fatto ‘aristocratica’, sotto il forte indirizzo del senato, criticando così quel concetto di costituzione mista, visione di un Polibio «propria di circoli aristocratici facenti capo a Scipione» e quindi «abbastanza tendenziosa» ecco che il giurista afferma che «Il contrasto tra Cesare e il Senato, che fu in sostanza un aspetto del più grave conflitto fra Cesare e Pompeo, fu appunto sulla durata del comando proconsolare di Cesare. Dalla sua mancata soluzione scaturì la guerra civile», mentre E. GABBA, in Nuove ricerche sul conflitto fra plebei e patrizi in Roma arcaica, in Athenaeum 67, 1989, 570-575, intende il conflitto come «lotta per un progressivo e costante inserimento politico della plebe». La prospettiva è dunque assai diversa: il giurista lamenta una mancata soluzione al “contrasto”, lo storico assiste alla “lotta” e ne trascrive l'esito “progressivo”.

[2] In Enn. Ann. 97-100, poco emerge il tema del conflitto: Cedunt de caelo ter quattor corpora sancta avium, praepetibus sese pulchrisque locis dant. Conspicit inde sibi data Romulus esse priora, auspicio regni stabilita scamna locumque; come è noto ripreso da Cic., div. 1.107: Atque ille Romuli auguratus pastoralis, non urbanus fuit, nec fictus ad opiniones imperitorum, sed a certis acceptus et posteris traditus. Itaque Romulus augur, ut apud Ennium est, cum fratre item augure...

[3] Vd. TH. MOMMSEN, Die Remuslegende, in Hermes 16, 1881, 12 ss.; questa linea è poi seguita da E. PAIS, Storia critica di Roma durante i primi cinque secoli, I, 1, Roma 1913, 296 nt. 1.

[4] CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, Torino 1960, 576.

[5] Basta infatti concentrarsi sulla descrizione del modo di scelta del praetor della lega dell'aqua Ferentina sulla base di Fest. 241 M: Praetor ad portam nunc salutatur is qui in provinciam pro praetore aut pro consule exit: cuius rei morem ait fuisse Cincius in libro de consulum potestate talem: “Albanos rerum potitos usque ad Tullum regem: Alba deinde diruta usque ad P. Decium Murem consulem populus Latinos ad caput Ferentinae, quod est sub monte Albano, consulere solitos, et imperium communi consilio administrare: itaque quo anno Romanos imperatores ad exercitum mittere oporteret iussu nominis Latini, conplures nostros in Capitolio a sole oriente auspicis operam dare solitos. Ubi aves addixissent, militem illum, qui a communi Latio missus esset, illum quem aves addixerant, praetorem salutare solitum, qui eam provinciam optineret praetoris nomine”.

[6] Cic. div. 1.3: Principio huius urbis parens Romulus non solum auspicato urbem condidisse, sed ipse etiam optumus augur fuisse traditur.

[7] P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale, cit., 585.

[8] È chiaro che siamo di fronte ad uno di quei casi in cui il piano del diritto divino guida quello del diritto umano, potendosi scorgere una netta compenetrazione tra le due sfere, quella del fas e quella dello ius. La precisazione è dovuta poiché questo è lo spirito che mi sembra di cogliere in P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 109, nt. 7, nella quale egli interpreta R. HENRION, La recherche scientifique en ancien droit romain, in Latomus VI, 1947, 126: «n'est pas dans l'histoire des croyances religieuses qu'il fait chercher les principales sources de l'ancien droit romain». Queste affermazioni vanno sicuramente confrontate con l'interpretazione autentica offertaci dallo stesso P. CATALANO, Per lo studio dello ius divinum, in SMSR 33, fasc. 1, 1962, il quale, rispondendo a D. SABBATUCCI, Diritto augurale e religione romana, in SMSR 32, 1961, 154 ss., non negando la distinzione, già nella prima età della repubblica, fra le varie parti del sistema (ad es. ius augurium, pontificium, civile) né l'isolamento tra questi avvenuti nell'ultima età repubblicana, chiarisce come debba intendersi un “sistema religioso-giuridico unitario”. Quindi, per esempio, «lo ius augurium non è meno giuridico dello ius civile (si ricordi l'equivalenza del significato di ius, che si trova ancora in Cic., Cato Maior, 11, 38: ius augurium, pontificium, civile tracto) né meno religioso della individuazione delle singole volontà divine compiuta dal complesso della tradizione sacerdotale romana. Tutte queste realtà da una parte sono insieme religiose e giuridiche, dall'altra si presentano in un complesso molteplice di piani» (131). Infatti, poco dopo, così ‘chiude’ Catalano: «Orbene, i Romani contrapponevano i singoli concetti di deus, religio, fas, ius, patres, populus ecc., e non in un modo che la nostra distinzione religione-diritto possa esprimere: noi dovremo qualificarci come religiosi e insieme giuridici» (133-134).

[9] E accompagnerà poi la storia del diritto romano: basti ricordare Ulpiano in D.1.1.10.2: Iuris prudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia. Per questa definizione: B. Biondi, Crisi e sorti dello studio del diritto romano, in Conferenze Romanistiche Univ. Trieste, I, Trieste 1950, 25 ss.; criticata però da P. CATALANO che in Per lo studio dello ius divinum, cit., 134, la contesta dato che a suo avviso dimentica della «radice storica antichissima del pensiero di Ulpiano»; vd. anche B. DONATI, La definizione di Ulpiano della iurisprudentia e l'interpretazione del Vico, in Archivio giuridico 98, 1927, 66 ss.; R. ORESTANO, Introduzione allo studio storico del diritto romano. Parte speciale: Su talune concezioni del diritto nell'esperienza giuridica romana, I ed., Torino 1953, 269 ss.

[10] Liv. 1.6; Cic., rep. 2.2.4; Diodoro 8.3; Cassio Emina, Hist. rom. fragm. ed. Peter, I, 101, fr. 11.

[11] P. DE FRANCISCI, Arcana Imperii III, 1, 24 ss.; ID., Primordia civitatis, Roma 1959, 499 ss.

[12] P. DE FRANCISCI, Arcana III, 1, cit., 32 ss., ID., Primordia civitatis, cit., 516 ss.; ID., Intorno alla natura e alla storia dell'auspicium imperiumque, Milano 1953, 403 ss.; ID., Intorno all'origine etrusca del concetto di imperium, in Stud. Etr. 24, 1955-1956, 39.

[13] P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 512.

[14] Si aderisce, quindi, a quella tesi secondo la quale il conflitto è stato risolto a favore di uno dei due; contrariamente ricordo invece che sulla base di Cassio Emina frg. 11; Schol. Cic. Bob. 148; Virgilio, Aen. 1.293; Servio, Aen. 1.276, si è voluto ricercare un influsso sulla duplicità dei magistrati consolari su una presunta parità di Romolo e Remo: si veda R. BONGHI, Storia di Roma, I, 7ss.; L. HOLZAPFEL, Intorno alla leggenda di Romolo in Atti Congr. Inernaz. scienze storiche, Roma 1903, II, 57 ss.; L. PARETI, Storia di Roma e del mondo romano, I, 294 ss.

[15] Per augurium - inauguro, Liv. 1.6: Quoniam gemini essent nec aetatis verecundia discrimen facere posset, ut di quorum tutelae ea loca essent auguriis legerent qui nomen novae urbi daret, qui conditam imperio regeret, Palatium Romulus, Remus Aventinum ad inaugurandum templa capiunt; 1.7: Priori Remo augurium venisse fertur...; 1.8: Alii ab numero avium quae augurio regnum portenderant eum secutum numerum putant; 1.18: ...accitus, sicut Romulus augurato urbe condenda regnum adeptus est, de se quoque deos consuli iussit. Inde ab augure, cui deinde honoris ergo publicum id perpetuumque sacerdotium fuit, deductus in arcem, in lapide ad meridiem versus consedit. Augur ad laevam eius capite velato sedem cepit, dextra manu baculum sine nodo aduncum tenens quem lituum appellarunt; Floro, epit. 1.1.6: uter auspicaretur et regeret adhibere placuit deos. Remus montem Aventinum, hic Palatinum occupat... sic vicitor augurio... Impropriamente, in quanto utilizzanti auspicium, auspicor; Gell. 13.14.5: Huius rei Messala aliquot causas videri scripsit, sed praeter eas omnis ipse unam probat, quod in eo monte Remus urbis condendae gratia auspicaverit avesque inritas habuerit superatusque in auspicio a Romulo sit: “Idcirco" inquit “omnes, qui pomerium protulerunt, montem istum excluserunt quasi avibus obscenis ominosum"; Seneca, Dial. 10.13.8: aut quod Remo auspicante illo loco aves non addixissent; Nepoziano 1.4 praef.: Urbem Roman auspiciis conditam certum est. Itaque Romus prior sex vultures auspicatus: postea Romulus duodecim, potior Remo fuit, quod Remus prioribus auspiciis niteretur, Romulus pluribus; Ps. Aurelio Vittore, orig. 23.1: Cum igitur inter se Romulus et Remus de condenda urbe tractarent, in qua ipsi pariter regnarent, Romulusque locum, qui sibi idoneus videretur, in monte Palatino designaret Romamque appellari vellet contraque item Remus in alio colle, qui aberat a Palatio milibus quinque, eundemque locum ex suo nomine Remuriam appellaret neque ea inter eos finiretur contentio, avo Numitore arbitre ascito placuit disceptatores eius coiitroversiae immortales deos sumere, ita ut, utri eorum priori secunda auspicia obvenissent, urbem conderet eamque ex suo nomine nuncuparet atque in ea regni summam teneret. Cumque auspicaretur Romulus in Palatio, Remus in Aventino; Paolo, Fest. epit. 276: remurinus ager...ubi Remus de urbe condenda fuerat auspicatus; Schol. in Cic. orat. Bobiensia, ed. Stangl p. 148, In Vat. par. 23: notissimum habemum auspicante Romulo, qui Palatium ceperat, et Remo, qui Aventinum, priusquam Roma conderetur, auspicia esse captata primumque sex vultures Remum vidisse, dein postea Romulum duodecim, atque ita et Romam conditam et ipsos reges appellatos: illum quod prior auspicium cepisset, Romulum vero, quod maius.

[16] Cic. rep. 1.25.39: est igitur, inquit Africanus, res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus.

[17] Ad esempio c’è infatti chi, secondo la propria prospettiva, continua a concepire la fondazione di Roma come una leggenda, o peggio, un «prodotto storico di lungo periodo, pluristratificato, che è possibile sondare attraverso la mitologia comparata, la storia delle istituzioni religiose e politiche, la linguistica, le stesse conoscenze letterarie degli antichi esterne all’annalistica e l’archeologia» dimenticando il fine della fondazione, cioè l'ordine e il diritto: A. CARANDINI, Remo e Romolo. Dai rioni dei Quiriti alla città dei Romani, Torino 2006, 36 ss.; puntuale, sempre dal punto di vista dello storico, ma con attenzione rivolta alla giuridicità della fondazione, è Attilio Mastrocinque, che oltre a sviluppare interessantissimi spunti riguardo il rapporto tra Romolo e i patrizi, e sul punto rimando a A. MASTROCINQUE, Romolo (La fondazione di Roma tra storia e leggenda), Padova 1993, 130 ss., preferisce sempre essere attento al dato giuridico con compiute analisi degli atti rituali come l'auspicatio o della tracciatura del sulcus primigenius. Vd. anche A. MASTROCINQUE, Romolo alla luce delle nuove scoperte, in Roma. Romolo, Remo e la fondazione della città, catalogo della mostra, Roma 2000, 51-57.

[18] Gli scavi di Andrea Carandini e dei suoi allievi, nell'area tra la Via Sacra e il Palatino, hanno in qualche modo ricondotto l'attenzione a Romolo, alimentando, ancora una volta, il dibattito intorno al fatto se Roma sia nata per un processo di formazione, per sinecismo, ovvero mediante un atto di fondazione. Come noto, trattasi di questione assai discussa, resa ancor più complicata da quanto dimostrato. Roma, infatti, era frequentata ben prima dell'VIII sec. a.C., come testimoniano alcuni ritrovamenti che indicano la presenza di insediamenti nel Foro Boario, sul Palatino e sul Campidoglio, comunque databili all'età del Bronzo, attestanti una lunga fase ‘proto-urbana’. D'altronde la tradizione romana ne era consapevole, ed Ercole, Evandro ed Enea ne sono i testimoni, così come quei re indigeni (Saturno, Pico, Fauno, Latino ecc.) che in un tempo remoto avrebbero regnato nel Lazio. Sul tema si è espresso T.J. CORNELL, La leggenda della nascita di Roma, in Roma. Romolo, Remo e la fondazione della città, catalogo della mostra, cit., 45. D’altronde, altrettanto noto è che i Lupercalia costituivano la festa che si riferiva alla Roma del Palatino, e cioè la Roma primigenia: «C'è un unico punto, credo, nel quale concordano storici greci e romani, poeti antichi, culti romani e dati emersi da scavi archeologici: la prima Roma era quella del Palatino, precisamente del Germalo, note dagli inizi del secolo, ora sappiamo che una porzione di abitato, alla fine del IV secolo, fu rispettata e monumentalizzata evidentemente perché i Romani la consideravano un lugo sacro alla memoria delle origini, legata alle tradizioni di Romolo, Faustolo o altro eroe. Augusto d'altra parte era convinto di aver edificato il suo palazzo sopra la casa di Romolo», così A. MASTROCINQUE, Romolo alla luce delle nuove scoperte, cit., 52; per qualche dato archeologico a supporto, si veda A. CARANDINI, La nascita di Roma, Dèi, Lari, eroi e uomini all'alba di una civiltà, Torino 1997, 60 ss.

[19] Entrambe le espressioni sono tratte dal lavoro di H. HUBERT-M. MAUSS, Mélanges d'histoire des réligions, Paris 1909 = E. DURKHEIM, H. HUBERT, M. MAUSS, L’origine dei poteri magici, Torino 1972, 99. Peraltro gli stessi H. HUBERT e M. MAUSS, La rappresentazione del tempo nella religione e nella magia, in E. DURKHEIM, H. HUBERT, M. MAUSS, L’origine dei poteri, a 104: «Gli uomini, nel timore di turbare l’ordine delle cose con una iniziativa malaugurata, si impongono delle regole per preservare, nei limiti delle loro possibilità, l’ordine necessario, quel medesimo che le loro credenze mostrano perfettamente realizzato nel mondo. C’è infatti una generale convinzione che domina e turba l’esperienza, e che i nostri antenati hanno elevato a vera e propria legge scientifica. Esistono cioè dei fenomeni che, se cominciati all’inizio di un periodo, durano per tutto il periodo: e tali fenomeni per cominciare attendono l’inizio di un periodo»; altro non mi sembra che invocare a gran voce quanto proprio ci dice Liv. 1.8.1.

[20] Per l’‘inversione’ tra Remo e Romolo: Nevio, Alimonia Remi et Romuli; Cassio Hemina, fr.2 p.= Dion., in Grammatici Latini, II, pp. 384-5 Keil; Cic., leg. I.30; Fasti Praen., 23 dic. (Inscr. It. XII.2, p. 139); Ovid., Fasti III.31; Tac. Ann. XIII.58; Iustin. XLIII.27; tant'è che a volte i Romani venivano detti discendenti di Remo: Prop. II.1.23; IV.1.9; V.6.80; Catull. 58.5; Iuven. X.73; Mart. X.76.4; Stat., Silvae II.7.60; Anth. Pal. IX.219.

[21] Tutti, ma con riferimento agli atti che possono compiere validamente, possono auspicare, e quindi possono auspicare (in senso lato) i sacerdoti, i magistrati, i patres familias, i filii familias, i plebei (dopo la lex Canuleia), gli stranieri (italici e non), i servi: Cic. div. 1.16.28, 1.2.3; Liv. 1.36.6, 5.52.15, 6.41.4; Valerio Massimo 2.1.1; Servio, Aen. 1.346; 4.340; Varro rust. 3.3.5; Servio, Aen. 4.45; Fest. 268 L, s.v. ‘Prohibere comitia’: per il commento di queste fonti si veda P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 197 ss., ove tra l'altro egli critica la teoria di TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, Leipzig 1885-1888 = Le droit public romain, Paris 1892-1893, I, 101 nt.1 e III, 325; aiutandosi con la tesi di G. DE SANCTIS, Storia dei Romani, Torino 1907, I, 237 ss., 295; sottolineando poi come gli auspicia fossero diffusi presso le popolazioni italiche (per Gubbio si veda G. DEVOTO, Tabulae Iguvinae, Roma 1937, o Le tavole di Gubbio, Firenze 1948) ed etrusche (Cic. div. 1.42.94), proprio con riferimento al volo degli uccelli.

[22] L'espressione auspicia privata la si trova in Liv. 4.2.5; Cic. div. 1.16.28, Valerio Massimo 2.1.1; auspicia publica si trova in Liv. 4.2.5, Dio. Cass. 38.13.2 e, se fra essi comprendiamo anche quelli sacerdotali: Paolo, Fest. epit. 18; per completezza l'espressione auspicia magistratuum la si trova in Gellio 13.15.4; Cens. De die nat. 26.4; auspicia populi per il senso di auspicia magistratuum in Cic., de domo sua 38; nat. deor. 2.4.11. Quelli privati riguardano tutti i cittadini circa gli atti che possono validamente compiere e si distinguono da quelli pubblici, non solo per la diversa attività cui sono rivolti, ma anche per alcuni elementi formali: «ad esempio maggior numero di segni osservati, assoluta mancanza della necessità del luogo inaugurato», come riporta P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 452.

[23] Per patres intende l'insieme dei senatori TH. MOMMSEN, Le droit public romain I, cit., 102 ss.; II, 331; VI, 13 ss.; che patres siano tutti i senatori è ritenuto da P. WILLEMS, Le droit public romain, Louvain, 1883, 18 ss., e in Le sénat de la république romaine, Paris 1885, e contra A. WAGNER, Qui désignait le premier interroi?, in Revue de l'instruction publique en Belgique 1887, 137-15; 217-228; e anche G. DE SANCTIS, Storia, I, cit., 233 e 352; ed ancora G. NOCERA, Il potere dei comizi e i suoi limiti, Roma 1940, 251 ss. Sicuramente da escludere che significhi l'insieme dei patrizi riuniti in curie, poiché così si celerebbe uno dei fondamenti storici degli auspicia (come ritiene S. MAZZARINO, Dalla monarchia allo Stato repubblicano. Ricerche di storia romana arcaica, Catania 1945, 218. P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 455, nt. 55: «Comunque sia di ciò si può dire che per l'età più antica gli auspicia tornano al consiglio degli anziani».

[24] Cfr. Cic. leg. 3.3.9: Ast quando consules magisterve populi nec erunt, auspicia patrum sunto, ollique ec se produnto qui comitiatu creare consules rite possit. Si legge anche auspicia renovantur nelle fonti, in Liv. 5.31.7; 5.52.9; 6.5.6 (cfr. 5.17.3).

[25] Comunque «non è un astratto potere di auspicazione che torna ai patres (che non avrebbe senso): è il potere di comando sui cittadini, è il concreto potere di comando come si atteggia in quanto attribuito ai patres (e non a un singolo) e che quindi si esprime essenzialmente nell'attività di scelta del capo: è il potere di comando concepito dal punto di vista (preminente in antico) del diritto augurale, cioè rivestito del corrispondente potere auspicale», così P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 457. A sostegno Liv. 1.32.1: Mortuo Tullo res, ut institutum iam inde ab inito erat, ad patres redierat. Si nota che è semplicemente l'aspetto ‘umano’ a esser rimarcato per il ritorno del potere ai patres.

[26] Il fatto che Remo ebbe auspici pessimi fa sì che l'Aventino fu detto sede di auspici ‘osceni’: Gell. XIII.14.5.6 (avibus oscenis ominosus); Verg. Aen. VIII.235 (dirarum nidis domus opportuna volucrum). Sul nome Aventino fatto derivare da aves: Varro ling. V.43; Serv. Aen. VII.657; Aug. Civ.Dei XVIII.21; Ennio Ann. I.79-81 scrive che Romolo prese gli auspici dall'Aventino, «ma questo va inteso nel senso che da questo colle egli auspicava circa il destino del Palatino, come comprova la tradizione sul corniolo nato sul Palatino dalla lancia che egli aveva scagliata dall'Aventino», così A. MASTROCINQUE, Romolo alla luce delle nuove scoperte, 133-134 nt. 511; sul tema vedasi O. SKUTSCH, The Annals of Quintus Ennius, Oxford 1985, 221-238, ed ancora A. MERLIN, L'Aventin dans l'antiquité, Paris 1906, 29.

[27] Il conflitto è risolto a favore dello ius sacrum, perché così è scelto dallo ius humanum: è l'uomo che chiede al dio come vuole che arrivi il segno (si pensi esemplarmente, all'inauguratio descrittaci da Liv. 1.18.6-10), in una sola direzione e per una sola ragione: evitare conflitti interpretativi.

[28] Con riferimento all’imperium, appare sicuramente suggestivo il numero di dodici avvoltoi per Romolo (che sarà re) e l’esatta metà (sei) per Remo.

[29] Qui si apre una problematica di non poco conto, e cioè quella relativa alla partecipazione del popolo all'inauguratio del rex. Si ritiene che una partecipazione ci sia, sia pure nella misura di ‘omaggio’. Occupandosi del primo dei re, il quadro è ancor più complesso, poiché non ci si può affidare al sistema dell'inauguratio operato da Numa in poi. In questo caso il rex si inaugura da sé, perché non v'è la partecipazione di un altro augure. A ben guardare, però, che sia un augure che stia alla sua sinistra (e che secondo quel particolare rito giuridico-religioso gli tocchi il capo con la mano destra), o che interpreti la volontà di Iuppiter egli stesso, come optumus augur nulla cambia. Mommsen esclude che il popolo intervenisse nella scelta del rex, anche se egli, escludendo comunque la successione ereditaria, tesi seguita da Bonfante e dal ‘primo’ De Francisci, ritiene necessaria la consultazione degli Dei e la lex curiata. Nonostante questa affermazione non è forse corretto annoverarlo fra i sostenitori della sovranità popolare in età regia, poiché è comunque chiaro che egli ritiene che il potere del rex non derivasse dal popolo. Sul punto si veda TH. MOMMSEN, Le droit public romain III, cit., 8 ss.; II, 278 ss.; VI, 1, 341 ss., 356 ss.; P. BONFANTE, Storia del diritto romano, Roma 1934, I, 76 ss.; P. DE FRANCISCI, Storia del diritto romano, Milano 1943, I, 151 e 164. Considerando fondata la tesi di Mommsen dell'impossibilità, anche in avanzata età repubblicana, che il popolo creasse i sacerdoti (non per la creazione, ovviamente, ma per la sua ‘partecipazione’ nella scelta, si veda F. VALLOCCHIA, Collegi sacerdotali ed assemblee popolari nella repubblica romana, Torino 2008) scrive U. COLI, Regnum, in SDHI 17, 1951, 92: «La ragione...era esclusivamente questa: che essi erano inaugurati. Ciò significa che era Giove a sceglierli. Se era Giove a sceglierli, la elezione popolare non era ammissibile. Infatti, o la inaugurazione veniva dopo il voto del popolo, e allora questo non avrebbe avuto il solito valore di iussum, perché sulla scelta l'ultima parola sarebbe spettata a Giove, il quale alla domanda si fas est... avrebbe potuto rispondere negativamente; o la inaugurazione veniva prima, e allora si avrebbe avuto l'assurdità di una pronunzia del popolo in eventuale contrasto con l'eccelsa pronunzia del massimo degli déi». A parte il fatto che non tutti i sacerdoti erano inaugurati (P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 211 ss.), mentre invece è generale il principio dell'impossibilità della creatio da parte del popolo (e a parte il fatto che iussum può significare consenso oltreché comando), si deve considerare che l'inauguratio è un permesso di Iuppiter, non un obbligo. P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 402 scrive: «una corretta visione dell'efficacia dei segni rilevanti la volontà divina non contraddice dunque la presenza della volontà popolare». Se Catalano ripone fiducia nella tradizione che vuole un qualche intervento della volontà popolare nella scelta del rex, sembra, almeno per il primo, che quell'annunciazione di cui parla Livio, si avvicini a quel semplice “atto di omaggio del popolo”, concordando con la visione propria di P. DE FRANCISCI, Per la storia dei comitia centuriata, in Studi Arangio-Ruiz, Napoli 1953, I, 16, che vede la lex curiata come «promessa di obbedienza del popolo al magistrato». Quindi una dichiarazione, una lex con cui il rex imponeva al popolo (ossia all'esercito) un vincolo di obbedienza, come residuo della primitiva coniuratio con la quale le milizie si vincolavano proprio all'obbedienza verso il condottiero.

[30] Secondo ovviamente la prima delle due versioni riportateci da Livio nel passo esaminato.

[31] Plaut. Asin. II.4.88: lupus est homo homini, non homo; espressione che diventa concetto ed indagine di studio da parte di T. HOBBES, De cive, Amsterdam 1642.

[32] Proprio nel senso di J.-J. ROUSSEAU, Contrat social, Amsterdam 1762.

[33] Ricordo che quando Festo parla di riti di fondazione, egli distingue la sanctitas, quindi l'inviolabilità, che i riti assicurano alle mura, dallo ius che riguarda le porte: Festo, 358 L: Rituales nominantur Etruscorum libri, in quibus perscribtum est, quo ritu condantur urbes, arae, aedes sacrentur, qua sanctitate muri, quo iure portae, quomodo tribus, curiae, centuriae distribuantur, exercitus constituant<ur>, ordinentur, ceteraque eiusmodi ad bellum ac pacem pertinentia.

[34] Se è vero che il rito del solco primordiale è emblema di idee arcaiche, è opportuno sottolineare che vi sono comunque degli accomodamenti di ordine pragmatico e, per così dire, imperniati su quell'ottica di concretezza che sempre ha contraddistinto la realtà storica e nondimeno giuridica romana. Ove infatti vi sono le porte il solco si interrompe, poiché bisogna fare in modo che la separazione da ciò che è fuori non vi renda impossibile la comunicazione, dato che si deve poter uscire ed entrare nella città, ad esempio per deporre i cadaveri, poiché lo spazio dei morti è al di fuori della città. A tal proposito si ricordi il divieto delle XII tavole, Tavola X, 1 in Bruns, Fontes iuris Romani antiqui, I, 35 (cfr. Cic., leg. 2.23.58); C.I.L VI, 31577 e 31614-5. Il vero e proprio limite sacro non è di certo costruito dalla cinta muraria, ma dal pomerium, che si trova leggermente dietro le mura. Anche qui possiamo scorgere dei motivi pratici: in caso di attacco nemico, le mura dovevano comunque esser difese, e la previsione di uno spazio franco tra le mura e la città lasciava la possibilità di ottenere un dispiegamento delle truppe, senza intralciare il divieto di non poter entrare in città in armi.

[35] «I fondatori di una città aggiogavano un toro a destra e una vacca dalla parte interna. Cinti alla maniera di Gabii, e cioè con il capo coperto da un lembo della toga rimboccata, essi tenevano il manico dell'aratro piegato in modo da far ricadere le zolle all'interno. E nel tracciare il solco in questo modo essi segnavano il luogo delle porte, sollevando l'aratro in corrispondenza delle mura», traduzione tratta da D. BRIQUEL, La leggenda di Romolo e il rituale di fondazione delle città, in Roma. Romolo, Remo e la fondazione della città, catalogo della mostra, cit., 39, di Cato, Orig. fr. 18 Peter. Vd. anche Varro ling. 5.143, Varro Agric. 2.1.9-10; Plut. Rom. 11.1-5; Festo, 358 L, Macr. Saturn. 5.9.13. Questa descrizione trova una puntuale illustrazione in numerose monete celebranti la fondazione di colonie romane e in un bassorilievo rinvenuto in Aquileia; è evidente quindi che i Romani erano consapevoli di riprodurre in età repubblicana ed imperiale lo stesso rito seguito da Romolo. Plutarco con dovizia di particolari narra le modalità con le quali il fondatore, attraverso un vomere aggiogato ad una coppia di bovini delimitò il perimetro della città determinando così il luogo in cui avrebbe innalzato le sue mura: il solco era raddoppiato da una linea formata dalle zolle della terra, che erano state rovesciate con cura verso l'interno; trattasi del pomerium che conformemente all'etimologia del termine adottata dallo scrittore greco, è una linea situata dietro il muro (post murum), Plut. Rom. 11.3-5.

[36] Remo si perde nel mondo civilizzato, proprio di Romolo, quando invece, secondo la tradizione, Remo è più adatto al mondo della natura selvaggia: è lui, e non Romolo, che per primo riacciuffa i briganti che si sono impadroniti dei loro armenti, mentre è Romolo che entra da vincitore nella città di Alba a capo della schiera dei pastori, quando Remo vi era entrato sì per primo, ma come prigioniero, poiché catturato dai servitori di Numitore. «Non è un caso che Remo non conosce la vita adulta: Egli muore, come tramandano le nostre fonti, a diciotto anni, e cioè proprio nell'età in cui si diventa cittadini, membri a pieno titolo della comunità. La sua vita è limitata alla fase iniziale, prima che egli sia in grado di poter svolgere un ruolo nella città», così D. BRIQUEL, La leggenda, 40. Sul tema vedasi altresì: R. Schilling, Romulus l'élu et Rémus le réprouvé, in REL 38, 1960, 182-199; D. BRIQUEL, Les enfances de Romulus et Rémus, in Mélanges offerts à R. Schilling, Paris 1983, 55-56; D. BRIQUEL, La meurtre de Rémus, ou le franchissement de la limite, in Tracés de fondation, a cura di M. DETIENNE, Louvain-Paris 1990, 171-179.

[37] Dion. Hal. I.88.2.

[38] Il divieto, che rimarrà, è quello di entrare armati nel territorio della città: il suolo della città deve conoscere solo rapporti pacifici tra cittadini, poiché lo spazio inaugurato è lo spazio della civiltà, che per essenza è regolamentata: chi ha a che fare con la guerra, preso dal furor, è tenuto lontano dal territorio prettamente cittadino, e non è un caso che l'esercito in armi si riunisca nel Campo Marzio, e quindi fuori dal pomerium, così come il fatto che il guerriero di ritorno da una spedizione, dovesse essere prima purificato dal furore, prima di tornare alla normale vita del cittadino. Per approfondimenti su queste notizie, si veda D. BRIQUEL, La leggenda, cit., 39 ss.

[39] L'autore si riferisce anche al mundus: quello romano per antonomasia è pacifico che fosse quello del Foro presso il Comizio, cfr. M. VERZAR, L'umbilicus Urbis: il mundus in età tardorepubblicana, in DA 9-10, 1976-1977, 9.378-88; F. Coarelli, Il Foro Romano, I, Roma 1983, 210-214. Esso veniva aperto tre giorni l'anno, giorni nefasti, nei quali gli spiriti dei morti potevano vagare liberamente per la città. Quindi il pomerio normalmente teneva lontano gli esseri terrestri, mentre il mundus tratteneva gli spiriti sotterranei. Ricordo poi che nell'epoca in cui cominciarono a riunirsi i comizi centuriati, e quindi nel Campo Marzio, Roma fu dotata, oltre all'altare sotterraneo di Dispater al Tarentum e di un luogo elevato per prendere gli auspici sul Quirinale, anche di un altro mundus: sul punto F. COARELLI, La doppia tradizione sulla morte di Romolo e gli auguracola dell'Arx e del Quirinale, in Gli Etruschi e Roma, Atti dell'incontro di studio in onore di M. Pallottino, Roma 1981, 173-188, A. MASTROCINQUE, Roma quadrata, in MEFRA 110, 1998, 681-697.

[40] A. MASTROCINQUE, Romolo alla luce delle nuove scoperte, 56.

[41] P. CATALANO, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in ANRW, II, 16, 1, 1978, 464.

[42] G. LUGLI, Itinerario di Roma antica, Milano 1970, 160.

[43] Per usare l'espressione di P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, cit., 479.

[44] F. COARELLI, Il Foro Romano. I. Periodo arcaico, cit., 199-226. Testimonianze archeologiche del mundus sono poi state trovate in colonie romane (per esempio a Cosa, fondata nel 273 a.C.) o anche in città etrusche (a Marzabotto, III-IV sec. a.C.), anche se in questi casi il mundus si trova sull'arce anziché propriamente al centro del Foro, assurgendo piuttosto a valore simbolico di centralità.

[45] Plut. Rom. 11.1-5; in C. Ampolo, Plutarco, Le vite di Teseo e Romolo, Milano 1988, 299, si fa riferimento al fatto che Plutarco attribuisse alla città una forma circolare, contrastante con la tradizione, fondata sul significato, esaminato infra di quadrata Roma, secondo il quale appunto la stessa aveva una forma se non propriamente quadrata, rettangolare.

[46] La narrazione di Giovanni Lido, De mens. 4.73, Wuensch, è simile a quella di Plutarco, ma P. CATALANO, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, cit., 462 nella stessa vi ravvisa un collegamento del mundus non solo con l'urbs ma anche con l'ager.

[47] Ovidio, Fasti 4.821 ss., anche se non parla di ritus Etruscus e di mundus, narra il rito similmente a Plutarco: fossa fit ad solidum, fruges iaciuntur in ima / et de vicino terra petita solo;/ fossa repletur humo, plenaeque imponitur ara, / et novus accenso fungitur igne focus. Anche Festo, 310L, sembra far riferimento a questa fossa: Quadrata Roma in Palatio ante templum Apollinis dicitur, ubi reposita sunt quae solent bona omnis gratia in urbe condenda adhiberi, quia saxo m<u>nitus est initio in speciem quadratam. Eius loci Ennius meminit cum ait : ‘et quis erat Romae regnare quadrateʼ. Sempre lo stesso riporta dal libro VI ʻDe iure pontificioʼ di Ateio Capitone, la definizione di mundus data da Catone nei ʻCommentaria iuris civilisʼ: Mundo nomen impositum est ab eo mundo, qui supra nos est: forma enim eius est, ut ex is qui intravere cognoscere potui, adsimis illae. Comunque sull'interpretazione di questi passi, e in generale, su quelli riguardanti pomerium, sulcus primigenius, quadrata Roma, mundus, mundus Cereris, vi sono profonde divergenze fra gli studiosi, e per tutti si può vedere L. DEUBNER, Mundus, in Hermes 68, 1993, 276 ss.; F. CASTAGNOLI, Roma quadrata, in Studies presented to D.M. Robinson 1, Saint Louis 1951, 389 ss.; G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, suivi ďun appendice sur la religion des Étrusques, Paris 1966.

[48] L'ara e la fossa della fondazione romulea sono identificate da V. BASANOFF, Pomerium Palatinum, in Memorie Della Reale Accademia Dei Lincei serie VI, vol. IX, fasc. 1, 1939, con il mundus e la quadrata Roma. Queste considerazioni però non sono state prese in considerazione da tutti coloro che vogliono nettamente distinguere la fossa del Palatino dal mundus, e questo dalla quadrata Roma: ad es. H.L. BONNIEC, Le culte de Cérès à Rome, des origines à la fin de la République, Études et Commentaries 27, Paris 1958, 175 ss.; K. LATTE, Römische Religionsgeschichte, Handbuch der Altertumswissenschaft, V, 4, München 1960, 141 ss. Ne tengono conto invece, tra gli altri G. LUGLI, Il solco primigenio della ‘Roma quadrataʼ, in Capitolium 18, 1943, 203-210; P. DE FRANCISCI, Primordia, 482; F. Fabbrini, Dai ‘religiosa locaʼ alle res religiosaeʼ, in BIDR LXXIII, 1970. «Difficile sostenere una identità tra il mundus del Palatino e il mundus Cereris. Inoltre va menzionata l'ipotesi dell'Alföldi (A. Alföldi: Die Struktur des voretruskischen Römerstaates, Heidelberg 1974, 173 ss.) che il mundus nel comitium (cui si riferisce Plutarco) sia quello di una città con “Doppelorganisation”, comprendente sia l'area del Palatino che quella del Quirinale», così P. CATALANO, Aspetti spaziali, cit., 463. Per quanto attiene all'appartenenza del mundus all'Etruscus ritus si propende per un orientamento positivo, mentre per quanto concerne il rapporto tra quadrata Roma e mundus si veda G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 630:«entre autres nombreux emprunts aux Italiotes, aient annexé, codifié et marqué de leur estampille ces vieux usages indoeuropéens». Per un esame tra le analogie tra il mundus romano ed il mandala indiano, rimando a P. CATALANO, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, cit., 464, anche se incompiute poiché lo stesso autore afferma che bisognerebbe andare ad esaminare le concezioni dell'Umbilicus terrae presso numerosissime genti.

[49] Romolo, secondo la tradizione, Ovidio, Fasti IV.819 ss.; Festo 310 L., vi avrebbe scavato una fossa per gettarvi offerte di buon auspicio, soprattutto vegetali e terra. La realtà di simili riti, è stata confermata da resti vegetali trovati a Cosa, in una fessura della roccia, al centro proprio di una piattaforma quadrangolare, dedicata quando la colonia fu fondata nel 273 a.C. I fondatori di Cosa non inventarono loro e per l'occasione il rito della fossa, ed addirittura A. MASTROCINQUE, Romolo alla luce delle nuove scoperte, cit., 56, si interroga proprio sulla base di queste indagini: «In realtà è possibile che la Roma quadrata palatina, situata davanti alla casa del principe, novello Romolo, fosse un'invenzione dell'intellighentsia augustea. Su questo punto si potrebbero fare scommesse reali: infatti, davanti alla domus di Augusto c'è un monumento di importanza capitale, che non è ancora stato indagato in profondità. Esso consiste in una zona quadrangolare, situata nella Roma quadrata palatina, la quale doveva essere talmente importante che, durante i lavori di innalzamento del sito eseguiti per realizzare la Domus Flavia, fu messa in collegamento mediante una conduttura con il livello del nuovo palazzo. Se per caso si trovassero qui, sotto il piano d'età augustea, resti vegetali (o altro) risalenti all'VIII secolo, avremmo la conferma della storicità del rito di fondazione della Roma palatina in questa zona; se invece si trovassero resti di un rito augusteo, aggiungeremmo un capitolo alla storia del principato».

[50] Festo, 144 L.: Mundo nomen impositum est ab eo mundo, qui supra nos est: forma enim eius est, ut ex is qui intravere cognoscere potui, adsimis illae.

[51] Liv. 1.7.3; Dion. Hal. 1.87.3-4, 37.1; Plut. Rom. 10.

[52] Dion. Hal. 1.88.8; Plut. Rom. 9; App. Bas. fr. 1a. 9.

[53] Durante gli scavi sul Palatino diretti da Carandini sono venute alla luce, sulle pendici settentrionali, resti di case medio-repubblicane, sotto alle quali sono stati individuati i resti di almeno quattro grosse dimore con giardino della seconda metà del VI sec. a.C.; sotto a queste sono stati rinvenuti i resti di quattro muri edificati successivamente ai piedi del Palatino, con la funzione di proteggere il colle: uno datato al 550 a.C., uno parallelo e di poco distante, databile verso il 600, uno verso il 675, ed un altro che risulta essere addirittura databile verso il 730-720 a.C. A circa quindici metri da quest'ultimo sono state ritrovate delle palizzate parallele che farebbero pensare ad A. MASTROCINQUE, Romolo (La fondazione di Roma tra storia e leggenda), cit., 94, a un primitivo pomerio, vale a dire «il pomerio che Romolo avrebbe tracciato quando fondò la sua Roma palatina». Quindi non è escluso che la tradizione sulla Roma palatina sia nata proprio sulla base da parte degli storici sull'interpretazione di queste mura recentemente scoperte. Secondo Tac. Ann. XII.24 il perimetro toccava il Foro Boario, l'ara di Conso, le curiae veteres e il sacello dei Lari, ed ergo andava dall'Ara Massima al Circo fino alla via Sacra, disegnando una sorta di trapezio, mentre App. Bas. fr. 1a 9, ci parla di un quadrato regolare. Do parola ad A. MASTROCINQUE, Romolo (La fondazione di Roma tra storia e leggenda), cit., 100: «L'idea di Roma quadrata era nata per attribuire alla città delle origini uno schema geometrico che sarà proprio delle colonie: "questa espressione è un programma di urbanismo" scrive André Magdelain (A. Magdelain, Le pomerium archaïque et le mundus, in A. MAGDELAIN e Y. THOMAS, Jus imperium auctoritas: Études de droit romain, Rome 133, 1990); ma esiste anche una, seppur remota, possibilità che fosse attribuita, attraverso speculazioni erudite, a Romolo. Roma quadrata poteva significare infatti “divisa in quattro parti” e riferirsi alla quadripartizione operata da Servio Tullio, il quale aveva creato le quattro tribù urbane». Infatti nel cosiddetto ʻpapiro di Servio Tullioʼ (Pap.Ox. 2088, 8.17) si parla del muro che fece innalzare il sesto re di Roma e di quadrata Roma e il verso di Ennio (Ann. 157) in Festo, 310 L possiamo leggere: et quis enim erat Romae regnare quadratae. nella edizione Vahlen è emendato: et qui sextus erat Romae regnare quadratae.

[54] «Il pomerium non era un templum», così P. CATALANO, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, cit., 482; Sul tema vedasi esemplarmente P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 248 nt. 2, 304, 305 ss.

[55] Secondo il linguaggio giuridico-religioso romano: Varro ling. 5.143: Oppida condebant in Latio Etrusco ritu multi, id est iunctis bobus, tauro et vacca interiore, aratro circumagebant sulcum (hoc faciebant religionis causa die auspicato), ut fossa et muro essent muniti. Terram unde exculpserant, fossam vocabant et introrsum iactam murum. Post ea qui fiebat orbis, urbis principium; qui quod erat post murum, postmoerium dictum, eo usque auspicia urbana finiuntur. Cippi pomeri stant et circum Ariciam et circum Romam. Quare et oppida quae prius erant circumducta aratro ab orbe et urvo urbes; et, ideo coloniae nostrae omnes in litteris antiquis scribuntur urbes, quod item conditae ut Roma; et ideo coloniae et urbes conduntur, quod intra pomerium ponuntur; Papin. D.18.7.5: Cui pacto venditoris pomerio cuiuslibet civitatis interdictum est, urbe etiam interdictum esse videtur. quod quidem alias cum principum mandatis praeciperetur, etiam naturalem habet intellectum, ne scilicet qui careret minoribus, fruatur maioribus.

[56] P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 292 ss.; e Id., Aspetti spaziali, cit., 480 ss.

[57] Tra le varie, I.M.J. Valeton, De templis Romanis, in Mnemosyne XXV, 1897, 93 ss. e 361 ss.

[58] Cfr. Cic., nat. deor. 3.40.94.

[59] I.M.J. VALETON, De templis Romanis, cit.,109 ss.; P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 293; Id. Aspetti spaziali, cit., 480. A questo punto sembra errato il concetto di pomerium supposto insistentemente da J. LE GALL, A propos de la muraille servienne et du pomerium, in Études d'archéologie classique 2, 1959, 49 ss.

[60] Ecco perché in alcuni casi si poteva avere un pomerio senza il muro o il muro senza il pomerio.

[61] «Si poteva dare che su una parte del pomerio non fosse costruito il muro: così in quella parte fra il Campidoglio e l'Aventino in cui l'Urbe tocca il Tevere (v. Livio 2.10.1; Dion. Hal. 5.23.2). Ciò ha il suo corrispondente nei templa, di cui la cosa consacrata spesso occupava una sola parte (ad es., se si consacrava un'ara). E tutto si comprende solo tenendo presente la struttura della richiesta augurale (si est fas): dalla risposta positiva deriva un permesso, non un obbligo», così P. Catalano, Aspetti spaziali, cit., 480-481.

[62] Ancora, i templi dedicati agli dèi originari d'Italia venivano consacrati alcuni dentro, altri fuori del pomerio, mentre quelli di dèi stranieri solo al di fuori, eccezion fatta, in età repubblicana, per il tempio della Magna Mater sul Palatino nell’anno 191 a.C.

[63] Dio. Cass. 41.43.1-3.

[64] Cic. nat. deor. 2 11: ... post autem e provincia litteras ad collegium misit, se cum legeret libros recordatum esse vitio sibi tabernaculum captum fuisse hortos Scipionis, quod, cum pomerium postea intrasset habendi senatus causa, in redeundo cum idem pomerium transiret auspicari esset oblitus; itaque vitio creatos consules esse; Cic. div. 1 33: ... qui cum tabernaculum vitio cepisset inprudens, quod inauspicato pomerium transgressus esset, comitia consulibus rogandis habuit.

[65] Per l’interpretazione di questi concetti si veda P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 201 ss., 216, 222, 225; e Id. Aspetti spaziali, cit., 481. Appare, se si segue Catalano, forse non del tutto proprio il concetto di pomerium, inteso come indipendente in toto dalle mura, da parte di P. Grimal, L'enceiente servienne dans l'histoire urbaine de Rome, Mélanges d'archéologie et d'histoire 71, 1959, 46 ss.

[66] V. Dion. Hal. 4.13.3. Si veda P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 295 ss. In senso contrario I.M.J. VALETON, De templis Romanis, in Mnemosyne XXVI 1898, la cui tesi secondo la quale per l'ampliamento del pomerio non serviva tracciamento del solco è comunque smentita da L. LAFFRANCHI, Gli ampliamenti del pomerio di Roma nelle testimonianze numismatiche, in Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma 47, 1919, 18 ss.

[67] Gell. 13.14.3; Tac. Ann. 12.23; Sen. Dial. 10.13.8.

[68] G. LUGLI, Sulle più antiche orme di Roma, in Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei serie VIII, 6, 1951, 369 ss., ritiene di poter individuare alcuni cippi del pomerio di Romolo di cui ci parla Tacito.

[69] Gell. 13.14.2.; Tac., Ann. 12.24: ... forumque Romanum et Capitolium non a Romulo, sed a Tito Tatio additum urbi credidere. Mox pro fortuna pomerium auctum.

[70] Cfr. Dion. Hal. 4.13, secondo il quale il Quirinale era già stato aggiunto da Numa.

[71] Di questo avviso P. CATALANO, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, cit., 487.

[72] Sul tema vedasi P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 296 ss.

[73] Per approfondimenti: M. LABROUSSE, Le pomerium de la Rome impériale, in Mélanges d'archéologie et d'histoire 64, 1937, 165 ss.; A. VON BLUMENTHAL, Pomerium, in Realencyclopädie der classichen Altertumswissenschaft, XXI, 2, 1952, 1874 ss.; J. LE GALL, Le Tibre fleuve de Rome dans l'antiquité, Paris 1953, 190 ss.; Id., A propos, cit., 50 ss.

[74] Sul tema vedasi CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 324 ss.

[75] I.M.J. VALETON, De templis Romanis, in Mnemosyne XXV, 1897, 132.

[76] In tal senso Dion. Hal. 4.13.3. Sulle condizioni, diverse da norme augurali rivelate per l'ampliamento del pomerio: I.M.J. VALETON, De templis Romanis, in Mnemosyne, in XXIII 1895, 78 ss., e in XXV 1897, 133; TH. MOMMSEN, Le droit public romain, IV, cit., 466 ss.; informazioni divergenti si hanno però in Tac. Ann. 12.23: Et pomerium urbis auxit Caesar more prisco quo iis qui protulere imperium etiam terminos urbis propagare datur; e in Hist. Aug.,Vopisc. Aurel. 21.10: pomerio autem neminem principum licet addere nisi eum qui agri barbarici aliqua parte Romanam rem publicam locupletaverit; e ancora in Sen. Dial. 10.13.8: quod numquam provinciali sed Italico agro adquisito proferre moris apud antiquos fuit.

[77] P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 295.

[78] E infatti, a riprova, si legge in P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 326: «È quindi da escludere la richiesta unita di exaugurazione e inaugurazione: “si est fas che in A+B sia eliminato A e si est fas che sia introdotto C”; si deve pensare piuttosto alla più semplice richiesta “si est fas che in A+B, A sia sostituito con C”: la risposta negativa impedisce quella modifica, ma non ogni modifica».

[79] Ed infatti a morire è Remo, che per natura, come narra tradizione, apparteneva più al mondo della forza che a quello civilizzato.

[80] Come noto i verbi incoativi, aventi il suffisso -sco, indicano o l'inizio o il rafforzamento di un'azione; augesco è incoativo di augeo, ove appunto la radice aug- esprime l'idea di incremento, rafforzamento accrescimento. L’espressione è usata da Pomponio nel celeberrimo passo del Liber singulari enchiriidi: D.1.2.2.7: augescente civitate; par. 2: postea aucta ad aliquem modum civitate; par. 18: populo aucto; par. 28: quod multa turba etiam peregrinorum in civitate veniret. M. BRETONE, Motivi ideologici dell'ʻEnchiridionʼ di Pomponio, in Labeo 11, 1965, 17 e nt. 28 scrive, con riferimento al “valore sostanziale ed ideologico” dello “schema eliano” utilizzato da Pomponio: «attraverso quello schema è la ʻcontinuitàʼ dell'ordinamento che cresce su se medesimo col crescere della civitas , che si trasforma ma non si nega o annulla mai, ad essere riconosciuta ed esaltata»; mentre A. WATSON, ʻIus Aelianumʼ and ʻtripertitaʼ, in Labeo 19, 1973, 26 ss.: «augescente civitate canot refer simply to the development of institutions within the state»; L. LANTELLA, Le opere della giurisprudenza romana nella storiografia (Appunti per un seminario di storia del diritto romano), 1979, 15: «l'aumento della civitas (che qui intenderei soprattutto nel senso di ʻaumento demograficoʼ) ha suggerito a Romolo di disporre come ha fatto». Questi studiosi interpretano il sintagma in esame come posto in relazione rispetto a fatti interni od esterni alla civitas. P. CATALANO, Diritto e persone, Torino 1990, XIV ss., contrappone la romana civitas augescens, virtualmente universale, agli attuali «stati nazionali incapaci di crescere umanamente», e proprio secondo quello schema, nei suoi aspetti demografici oltre che spaziali e temporali, dobbiamo collocare il favor libertatis e l'eliminazione degli status di peregrinus e di Latinus, nonché il favor per i nascituri, e cioè nello schema della civitas augescens. Si può confrontare il passo di Pomponio con delle costituzioni imperiali in cui sono presenti i concetti, più che le idee, di aumento della civitas e del populus. Nell'ottica dello schema esaminato si comprende come lo sviluppo dei fatti sia stato regolato con degli schemi giuridici: ecco così la divisione in curie operata da Romolo, lo ius Aelianum, l'istituzione del dittatore, quella dei quaestores, del praetor peregrinus (D.1.2.2.2-7-18-22-28). Così Giustiniano di fronte ad una situazione di fatto presenta la soluzione giuridica: I.1.2.5: Senatusconsultum est quod senatus iubet atque constituit. nam cum auctus est populus Romanus in eum modum ut difficile sit in unum eum convocari legis sanciendae causa, aequum visum est senatum vice populi consuli; per un confronto, D.1.2.2.9: Deinde quia difficile plebs convenire coepit, populus certe multo difficilius in tanta turba hominum, necessitas ipsa curam rei publicae ad senatum deduxit. Per un esame della Novella 5 di Valentiniano III e della 25 a proposito del favor libertatis, nonché per un confronto con Nov. Th. 5.1 del 438, e quindi a proposito di una costituzione di Costantino concernente la costruzione di nuove case a Costantinopoli, la Novella 15 di Teodosio II del 439, la seconda costituzione di Giustiniano del titolo XV del libro VII del 530, rimando a M.P. BACCARI, Il concetto giuridico di civitas augescens: origine e continuità, in SDHI LXI, 1995, 759 ss., in particolare in nt. 23, nonché a M.P. BACCARI, Cittadini, popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, Torino 1996, 60 ss. Emerge che il concetto di civitas augescens è un programma, anzi un imperativo, che lo stesso Giustiniano si prefigge di attuare, seguendo la linea dei suoi predecessori: vedasi anche la comunicazione di M.P. BACCARI, al XVI Seminario internazionale di studi storici da Roma alla Terza Roma su ʻCivitas augescensʼ: cittadinanza e sviluppo dei popoli da Roma a Costantinopoli a Mosca (Campidoglio 21-23 aprile 1996), in Index 30, 2002. Preme sottolineare poi, oltre al fatto che il processo di crescita numerica dei cives ha certamente inizio con l'asylum romuleo, passa poi fondamentalmente per la constitutio Antoniniana e trova poi il punto conclusivo in Giustiniano con l'eliminazione del concetto di straniero (v. sul tema della cittadinanza esemplarmente P. CATALANO, Linee del sistema sovrannazionale romano, I, Torino 1965, 26 ss., nonché ID., ʻIus Romanumʼ. Note sulla formazione del concetto, in La nozione di ʻRomanoʼ tra cittadinanza ed universalità, Napoli 1984, 554 ss.), che l'orientamento verso la crescita della res Romana lo troviamo già in Enn. Ann. 478: Audire est operae procedere recte qui rem Romanam Latiumque augescere vultis, ove in Cic. Balb. L'aumento è considerato dal punto di vista del foedus, e quindi verso il nemico: Illud vero sine ulla dubitatione maxime nostrum fundavit imperium et populi Romani nomen auxit, quod princeps ille creator huius urbis, Romulus, foedere Sabino docuit etiam hostibus recipiendis augeri hanc civitatem oportere; cuius auctoritate et exemplo numquam est intermissa a maioribus nostris largitio et communicatio civitatis. Anche in Sallustio troviamo il concetto di aumento e crescita della res publica: Sall. Catil. 6.7: regium imperium, quod initio conservandae libertatis atque augendae rei publicae fuerat; 10.1: ubi labore atque iustitia res publica crevit; 6.3: res eorum civibus, moribus, agris aucta. Come non citare poi Liv. 1.8: Crescebat interim urbs munitionibus alia atque alia appetendo loca, cum in spem magis futurae multitudinis quam ad id quod tum hominum erat munirent. Deinde ne vana urbis magnitudo esset, adiciendae multitudinis causa vetere consilio condentium urbes, qui obscuram atque humilem conciendo ad se multitudinem natam e terra sibi prolem ementiebantur, locum qui nunc saeptus descendentibus inter duos lucos est asylum aperit. Eo ex finitimis populis turba omnis sine discrimine, liber an servus esset, avida novarum rerum perfugit; e ove egli riporta la frase del tribuno Canuleio, Liv. 4.4.4: Quis dubitat quin in aeternum urbe condita, in immensum crescente nova imperia, sacerdotia, iura gentium hominumque instituantur?; e ancora quando parla della politica della cittadinanza nei confronti dei vinti, Liv. 8.13.16: vultis exemplo maiorum augere rem Romanam, victos in civitate accipiendo; ed ancora Livio sull'accrescimento: 1.30: Roma interim crescit Albae ruinis. Duplicatur civium numerus; Caelius additur urbi mons, et quo frequentius habitaretur eam sedem Tullus regiae capit ibique habitavit. Principes Albanorum in patres ut ea quoque pars rei publicae cresceret legit, Iulios, Servilios, Quinctios, Geganios, Curiatios, Cloelios; 1.35.6: nec minus regni sui firmandi quam augendae rei publicae memor centum in patres legit qui deinde minorum gentium sunt appellati, factio haud dubia regis cuius beneficio in curiam venerant; 1.45.1: Aucta civitate magnitudine urbis, formatis omnibus domi et ad belli et ad pacis usus, ne semper armis opes adquirerentur, consilio augere imperium conatus est, simul et aliquod addere urbi decus. Iam tum erat inclitum Dianae Ephesiae fanum; id communiter a civitatibus Asiae factum fama ferebat. Eum consensum deosque consociatos laudare mire Servius inter proceres Latinorum, cum quibus publice privatimque hospitia amicitiasque de industria iunxerat. Saepe iterando eadem perpulit tandem, ut Romae fanum Dianae populi Latini cum populo Romano facerent. Infine, sulla base di Gell. 18.7: ʻsenatum’ dici et pro loco et pro hominibus, ‘civitatem’ et pro loco et oppido et pro iure quoque omnium et pro hominum multitudine, ʻtribusʼ quoque et ʻdecuriasʻ dici et pro loco et pro iure et pro hominibus; Cic. rep. 6.13.13: nihil est enim illi principi deo qui omnem mundum regit, … acceptius quam concilio coetusque hominum ire sociati quae civitates appellantur, si nota come da un lato tutti i membri della comunità partecipino direttamente alla vita politica: questa partecipazione si ha tramite un'organizzazione giuridica. Quindi la civitas va comunque intesa in un significato in cui prevalga la concretezza. In tal senso G. LOMBARDI, Appunti di diritto pubblico romano, Roma 1940-1941, 102 ss. (l'autore esamina puntualmente i tre significati esposti da Gellio); e P. CATALANO, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, 147 ss.