Contributi

 

 

PROFILI PUBBLICISTICI DI TUTELA DELLE LINGUE MINORITARIE E REGIONALI

 

 

ANDREA AREDDU

Università di Sassari

 

 

 

 

 

SOMMARIO: 1. Introduzione al tema della tutela delle lingue: problemi e criticità attuali. – 2. La tutela delle lingue minoritarie nel contesto internazionale e nell’Unione europea. Cenni al diritto comparato. – 3. La tutela delle lingue nell’ordinamento giuridico italiano. I principi costituzionali. – 3.1. (Segue) La l. n. 482/1999 sulla tutela delle minoranze linguistiche storiche. – 4. Lo sviluppo della normativa regionale e le pronunce della Corte costituzionale in materia di potestà legislativa. – 4.1. (Segue) Recenti interventi legislativi regionali in tema di lingue, dialetti e minoranze linguistiche. – 5. Alcune questioni giuridiche in tema di salvaguardia del patrimonio linguistico. – 6. Brevi considerazioni conclusive: prospettive di tutela e valorizzazione. – Abstract.

 

 

 

1. – Introduzione al tema della tutela delle lingue: problemi e criticità attuali

 

Il patrimonio linguistico rappresenta uno dei beni del patrimonio culturale e costituisce un diritto culturale appartenente agli individui, ai gruppi e alle comunità[1]. Spetta ai pubblici poteri predisporre adeguate misure per proteggere e salvaguardare il patrimonio linguistico, al fine di garantire il pluralismo e di promuovere la partecipazione democratica di tutti gli individui.

La tutela giuridica del patrimonio linguistico comporta rilevanti problemi e criticità, nonostante siano state adottate diverse normative in ambito internazionale, nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea, e nel contesto nazionale e regionale italiano.

Le problematiche si riscontrano anche a livello attuativo: in alcuni casi manca una disciplina di dettaglio; in altri casi mancano costanti politiche sociali e culturali; in altri casi ancora mancano appositi apparati amministrativi.

Il tema della tutela delle lingue intercetta gli effetti negativi della globalizzazione[2], che, come è noto, riguarda vari ambiti: economico (si pensi al continuo mutamento dei rapporti economici internazionali; ai numerosi scambi commerciali e alla circolazione dei capitali; allo sviluppo dei trasporti); tecnologico (si pensi alla diffusione dei mezzi telematici, delle telecomunicazioni e delle banche dati); politico (si pensi ai mutamenti degli equilibri politici mondiali); e, non da ultimo, culturale (si pensi, in particolare, all’omologazione dei comportamenti, degli usi e dei costumi su scala mondiale, accentuato dal fenomeno delle migrazioni).

È proprio l’ambito culturale quello più vulnerabile: se è vero che una maggiore trasmissione di informazioni e della tecnologia consente (potenzialmente) una più ampia diffusione delle culture, è anche vero che l’omologazione dei comportamenti avvantaggia le culture più “forti” (e diffuse) su quelle più “deboli” (a rischio di estinzione).

I processi di globalizzazione e lo sviluppo della società rendono pertanto necessario preservare anche il patrimonio culturale, compresa la lingua e le espressioni culturali[3].

Scopo del presente contributo è affrontare la questione della tutela delle lingue minoritarie e regionali in Italia, tenendo in considerazione le attuali esigenze emergenti nella società. In ragione dei richiamati processi di globalizzazione, e del continuo evolversi della società, dovuto anche ai costanti fenomeni migratori, è necessario non solo tutelare e salvaguardare le minoranze linguistiche “storiche” e regionali, ma anche preservare le neo-minoranze linguistiche presenti nel territorio italiano. Il fenomeno evolutivo rende quindi necessario assicurare la preservazione di tutte le lingue, con lo scopo di garantire la massima partecipazione democratica di tutti i soggetti che fanno parte della società. Anche l’italiano deve essere preservato come lingua ufficiale della Repubblica italiana[4]. Come si vedrà, infatti, la lingua italiana è costantemente messa in difficoltà a causa della “contaminazione” dovuta dall’utilizzo improprio della terminologia straniera in luogo di quella italiana.

Al fine di contestualizzare la tematica, una prima parte del lavoro sarà dedicata a un inquadramento generale del tema della tutela delle lingue sia in ambito internazionale sia nell’Unione europea, con brevi cenni comparativi. La seconda parte del lavoro sarà dedicata alla ricognizione delle principali norme a tutela delle lingue minoritarie storiche previste nell’ordinamento giuridico italiano, e di quelle più rilevanti che consentono la salvaguardia e la valorizzazione delle lingue e dei dialetti regionali. Per comprendere le potenzialità delle normative vigenti nell’ordinamento giuridico italiano, nella trattazione sarà utilizzato un metodo ricognitivo e descrittivo, senza tralasciare le esigenze di sintesi. La terza parte del lavoro sarà infine dedicata alle criticità e ai problemi aperti in tema di salvaguardia del patrimonio linguistico, in considerazione dell’evolversi della società e delle esigenze delle nuove minoranze linguistiche e del patrimonio linguistico italiano, nonché alle prospettive di tutela e di valorizzazione.

 

 

2. – La tutela delle lingue minoritarie nel contesto internazionale e nell’Unione europea. Cenni al diritto comparato

 

La tutela del patrimonio linguistico rappresenta un obiettivo dichiarato nel vasto panorama della normativa internazionale, dell’Unione europea, oltre che nazionale e regionale[5]. L’evoluzione della normativa in tema di patrimonio linguistico e culturale riflette anche lo sviluppo del concetto di cultura: infatti, in seno al diritto assumono sempre più importanza e considerazione gli aspetti che riguardano la dimensione antropologica e identitaria della cultura[6].

La partecipazione dell’Italia agli organismi internazionali e alla Comunità europea (oggi Unione europea) ha agevolato l’assimilazione dei principi volti a garantire una maggiore tutela e salvaguardia delle lingue.

Sono numerosi i riferimenti normativi internazionali che tutelano le lingue minoritarie e le espressioni linguistiche[7]. Per la tutela del patrimonio linguistico, in generale, sono altresì importanti le più recenti Convenzioni UNESCO. Tale organismo internazionale, superando la concezione materiale del patrimonio culturale contenuta nel testo della Convenzione sul patrimonio mondiale culturale e naturale (1972), ha dedicato attenzione anche alla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale[8] e alla tutela della diversità culturale: ci si riferisce alla Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (2003)[9], e alla Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali (2005)[10].

Si pensi inoltre alla Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società (2005), meglio nota come Convenzione di Faro[11].

Tra i documenti maggiormente significativi vi è anche la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie del Consiglio d’Europa (1992)[12], che consente di salvaguardare appunto le lingue minoritarie e regionali degli Stati firmatari.

Anche l’Unione europea dispone di una ricca normativa per la salvaguardia del patrimonio linguistico[13]. I principi fondamentali sono contenuti nel Trattato sull’Unione Europea (TUE) e nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Caposaldo di tali principi è il rispetto della diversità culturale e linguistica[14]. In particolare, «l’Unione contribuisce al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali, evidenziando nel contempo il retaggio culturale comune»[15]. La tutela della diversità culturale e linguistica emerge anche nella prospettiva dello sviluppo dell’istruzione e in tema di politica commerciale comune[16]. Con il Trattato di Lisbona la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000) è divenuta giuridicamente vincolante per l’Unione europea: sono proibite le discriminazioni fondate sulla lingua e deve essere rispettata la diversità linguistica[17].

Il patrimonio linguistico peraltro è salvaguardato fin dagli albori dell’Unione europea. Infatti è ancora in vigore il Regolamento del 15 aprile 1958, n. 1, istitutivo del regime linguistico della Comunità europea, che consente di riconoscere le lingue ufficiali dell’Unione europea, ed è stato aggiornato in occasione delle varie adesioni dei Paesi membri[18]. In virtù di tale Regolamento, ogni cittadino dell’Unione europea ha il diritto di rivolgersi a qualsiasi organo o istituzione della stessa Unione europea in una delle lingue ufficialmente riconosciute, nonché il diritto di ricevere una risposta nella medesima lingua. In merito agli atti dell’Unione europea, i Regolamenti a portata generale devono essere redatti in tutte le lingue ufficiali riconosciute. Anche i testi diretti dalle istituzioni a uno Stato membro o a una persona appartenente alla giurisdizione di uno Stato membro sono redatti nella lingua del medesimo Stato.

Tra gli obiettivi dell’Unione europea vi sono il rispetto della diversità culturale e la creazione di un dialogo interculturale nel territorio europeo, volto a consentire la mobilità dei cittadini e la conoscenza di più lingue. È peraltro singolare che anche dopo la c.d. Brexit la lingua inglese continui ad essere una lingua ufficiale dell’Unione europea, e tra le lingue più parlate in Europa[19].

Numerose sono anche le politiche per consentire e agevolare l’apprendimento delle lingue: si pensi alla Raccomandazione del Consiglio del 22 maggio 2019, che consente un approccio globale all’insegnamento e all’apprendimento delle lingue; si pensi anche ai vari programmi d’azione, che consentono un interscambio culturale, tra cui spicca il programma Erasmus +.

Un ruolo importante è svolto anche dal Parlamento europeo, che svolge la propria azione nel rispetto della diversità linguistica e del multilinguismo: si pensi alla Risoluzione del 24 marzo 2009 che riconosce pari rilevanza alle lingue. Particolare attenzione viene data anche al sostegno delle lingue minoritarie: numerose sono le risoluzioni che sensibilizzano l’adozione di adeguate politiche a tutela delle lingue minoritarie a rischio di estinzione, da ultimo la Risoluzione del 17 dicembre 2020.

La questione linguistica assume, senza dubbio, un ruolo fondamentale per il rispetto del pluralismo, della democrazia, e per la salvaguardia del multilinguismo[20].

Nonostante le numerose disposizioni normative, non mancano delle criticità. Come evidenziato da una parte della dottrina[21], più volte si sono riscontrati dei problemi di traduzione[22] derivanti dallo stesso multilinguismo. La terminologia di una lingua spesso non coincide in maniera precisa con quella di un’altra lingua. Ancora. Il multilinguismo dell’Unione comporta degli elevati costi di traduzione: infatti «viene spesso usato l’argomento dei costi del multilinguismo per suggerire una riduzione delle lingue di lavoro o addirittura delle lingue ufficiali dell’Unione europea»[23]. Al costo della traduzione, si deve sommare anche il problema del tempo occorrente per effettuare la stessa. Non da ultimo, «accanto al regime linguistico delle istituzioni, organi ed organismi dell’Unione europea, il tema del multilinguismo ha anche rilevanza in merito al diritto ed alle politiche dell’integrazione. In particolare, c’è da ricordare la necessità di mediare i possibili conflitti tra, da una parte, il diritto nazionale relativo all’uso delle lingue e, dall’altra, sia le libertà di circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali, sia il divieto di discriminazione in base alla nazionalità»[24].

Più recentemente, altra parte della dottrina ha analizzato l’evoluzione della questione linguistica nell’ambito dell’Unione europea, soffermandosi sulle criticità che sono emerse nel corso degli ultimi anni[25]. Oltre ai già richiamati costi di traduzione che rendono oneroso l’utilizzo delle lingue ufficiali riconosciute in tutti gli atti dell’Unione europea, e che costringono a razionalizzare le risorse disponibili e il numero di “lingue di lavoro” utilizzate, sembrerebbero esserci dei “freni” all’effettivo riconoscimento di tutte le lingue. Il nodo della questione risiede, secondo questa dottrina, nel «risultato della originaria “decisione di non decidere” dei Padri fondatori. In tale settore, le parti si sono lasciate guidare dagli assiomi del costituzionalismo liberale di più risalente epoca. Il legame apparentemente indissolubile tra i concetti di Stato, nazione e lingua ha portato ad un multilinguismo perfetto rispettoso delle diverse sovranità nazionali». Di conseguenza, il processo di integrazione europea verrebbe limitato e compromesso, in quanto vi è la tendenza a riconoscere solo le lingue nazionali dei Paesi facenti parte l’Unione europea, e non anche le lingue minoritarie e regionali[26]. Secondo questa dottrina, «La chiave di volta potrebbe trovarsi se gli attori riuscissero a mutare il perno del sistema, passando dalla tutela del principio ipostatizzato dell’identità nazionale alla valorizzazione del concetto, ben più duttile, delle tradizioni costituzionali comuni. In questo modo, principi fondamentali come uguaglianza, solidarietà e tutela della dignità dell’uomo potrebbero integrare e dare nuovo significato al rispetto delle identità nazionali e della diversità linguistica, così come alla garanzia delle minoranze»[27].

Ad ogni modo, a prescindere da quest’ultima interessante analisi, si verifica una situazione paradossale: da un lato, l’Unione europea considera il principio del multilinguismo come un principio fondamentale da garantire tramite le proprie politiche, dall’altro lato, talvolta non rende effettivo lo stesso principio a causa dei costi e dei tempi di traduzione.

In tema di utilizzo del linguaggio giuridico nell’Unione europea, sia in termini di redazione di atti e documenti ufficiali sia in termini di traduzione dei medesimi, una parte della dottrina ha analizzato altre tendenze e criticità[28]. Secondo tale analisi, emerge un passaggio dalle esigenze di “uniformità” del linguaggio giuridico che “vira” sempre più alla ricerca delle formule linguistiche volte alla “compatibilità” dei termini utilizzati: più precisamente, «L’ordinamento comunitario ha ormai cessato di imporre l’uniformità delle discipline, assestandosi piuttosto sulla ricerca di formule compatibili, e presupponendo pertanto un certo grado di compatibilità tra le regole operative e le tradizioni costituzionali degli Stati membri». Tale ricerca della compatibilità dei termini richiede tuttavia la conoscenza approfondita del diritto comparato: infatti, «La necessità di muoversi su piani ordinamentali e linguistici diversi implica un approccio culturale al fenomeno della polisemia giuridica. È chiaro, infatti, che solo la consapevolezza comparativa del portato culturale dei concetti giuridici può consentire di risolvere insidie terminologiche (e dunque concettuali)»[29]. Secondo tale analisi, è necessario quindi insistere sul metodo comparato e su una effettiva considerazione della peculiarità linguistica di ciascuno Stato membro[30].

A proposito di comparazione[31], prima di analizzare la tutela delle lingue nell’ordinamento giuridico italiano, è opportuno sottolineare che molti Paesi europei dispongono di importanti principi costituzionali per la tutela del patrimonio linguistico[32]. In linea di massima, tali principi costituzionali sono volti alla salvaguardia del plurilinguismo[33].

Tra le realtà più complesse e rilevanti da un punto di vista comparativo, spicca senz’altro il sistema normativo spagnolo[34]. La Costituzione spagnola considera il castigliano come lingua ufficiale dello Stato, fermo restando che le Comunità autonome possono individuare la propria lingua ufficiale conformemente ai propri Statuti. Il pluralismo linguistico spagnolo viene considerato parte del patrimonio culturale[35], ed è oggetto di particolare protezione e rispetto (art. 3). Tale patrimonio linguistico assume rilevanza costituzionale anche in riflesso ai principi di libertà di espressione, con la particolare necessità di garantire il pluralismo e l’uguaglianza nei mezzi di comunicazione pubblici (art. 21).

La Costituzione spagnola riconosce altresì autonomia e indipendenza alle Comunità autonome per individuare misure volte all’insegnamento della lingua del proprio territorio (art. 148, comma 1, numero 17). La Comunità autonoma che vanta una maggiore autonomia in tema di patrimonio linguistico è la Catalogna[36]. Lo Statuto di tale Comunità autonoma prevede infatti numerose disposizioni sui diritti e sui doveri linguistici[37]. Il fulcro della disciplina è contenuto nell’articolo 6 dello Statuto: il catalano è indicato come lingua ufficiale della Catalogna, da utilizzare in preferenza nell’ambito delle pubbliche amministrazioni, dei mezzi di comunicazione e come veicolo di apprendimento nell’istruzione (comma 1). Un riconoscimento importante è conferito anche al castigliano, lingua ufficiale dello Stato: i cittadini della Catalogna hanno diritto e il dovere di conoscere sia il catalano che il castigliano, e l’utilizzo di una o dell’altra lingua non può essere motivo di discriminazione alcuna (comma 2). I diritti e i doveri linguistici riconosciuti dallo Statuto sono molteplici: il diritto di non discriminazione (art. 32); il diritto di utilizzare la lingua preferita nelle relazioni con le istituzioni, con le organizzazioni e con la pubblica amministrazione nel territorio della Catalogna (art. 33); il dovere, da parte dei giudici, magistrati, pubblici ministeri, notai, dei conservatori dei registri immobiliari e delle imprese, nonché dei dipendenti in servizio presso le amministrazioni della giustizia, e dei dipendenti dell’amministrazione statale con sede in Catalogna, di attestare un adeguato livello di conoscenza della lingue ufficiali, al fine di essere idonei all’esercizio delle mansioni nei rispettivi uffici (art. 34); i diritti e i doveri linguistici nell’ambito dell’istruzione scolastica, che riguardano sia il catalano sia il castigliano (art. 35); il riconoscimento del dialetto aragonese, con i relativi diritti e doveri (art. 36).

Anche l’esperienza delle Comunità autonome, dunque, consente di individuare numerosi strumenti di tutela volti alla preservazione del relativo patrimonio linguistico, consentendo una partecipazione democratica effettiva.

Tali esperienze potrebbero offrire spunti per sviluppare modelli di tutela e salvaguardia del patrimonio linguistico anche negli altri Stati membri dell’Unione europea, al fine di rendere effettivi il principio del pluralismo e il riconoscimento del multilinguismo nel territorio comunitario. È certo che la richiamata normativa dell’Unione europea dovrebbe innanzitutto essere adeguatamente attuata da parte dei medesimi Stati membri. Non bisogna dimenticare che il motto dell’Unione europea è “Uniti nella diversità”.

 

 

3. – La tutela delle lingue nell’ordinamento giuridico italiano. I principi costituzionali

 

Nell’ordinamento giuridico italiano la tutela del patrimonio linguistico si concentra prevalentemente sulle minoranze linguistiche[38], tramite l’art. 6 della Costituzione e la relativa legge di attuazione, che sarà analizzata successivamente. Buona parte delle disposizioni a tutela del patrimonio linguistico sono state adottate dalle regioni.

Procedendo con ordine, la tutela delle lingue minoritarie è garantita dall’art. 6 Cost.: «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche»[39].

La dottrina ha ampiamente analizzato il concetto di minoranza[40] da un punto di vista terminologico e storico: in un primo momento, il concetto di “minoranza” era inteso solo nell’accezione di “minoranza religiosa”. Successivamente, il medesimo concetto è stato esteso anche alle minoranze linguistiche[41].

Da un punto di vista terminologico, non vi è dubbio che «una minoranza è un gruppo di persone che si distingue per qualche aspetto da tutti gli altri»[42]. Il concetto di minoranza, inteso in senso dinamico, assume diversi significati nei vari ambiti scientifici: per quel che a noi interessa, si è affermato che «sul piano giuridico tendono tuttavia ad assumere rilievo solo quei gruppi minoritari ai quali l’ordinamento riservi un trattamento speciale, di favore o di sfavore»[43]; si è precisato, inoltre, che «con il termine “minoranza” ci si riferisce però per lo più a gruppi di persone accomunati da una razza, lingua o religione diverse da quelle prevalenti nella comunità statale di appartenenza e che si identificano, o vengono riconosciuti, come minoranze da tutelare»[44].

Da un punto di vista storico, la salvaguardia delle lingue minoritarie ha assunto maggiore rilevanza a seguito del riconoscimento tra i principi fondamentali della Costituzione italiana.

È opportuno considerare il profilo soggettivo e oggettivo dell’art. 6 Cost., anche grazie all’ausilio dei lavori dell’Assemblea Costituente[45].

In merito al profilo soggettivo, l’art. 6 Cost. affida alla Repubblica la tutela delle minoranze linguistiche. Fin dai lavori preparatori il termine Repubblica è stato inteso in senso ampio, comprensivo non solo dello Stato ma anche delle Regioni e delle autonomie locali, sicché tutte le componenti della Repubblica debbono necessariamente tutelare e salvaguardare le minoranze linguistiche[46]. Tale dato è peraltro confermato dall’attuale Titolo V della Costituzione[47].

Dal punto di vista oggettivo l’art. 6 Cost. ha come obiettivo tutelare e salvaguardare le lingue minoritarie presenti nel territorio italiano.

In un’ottica sistematica emergono collegamenti con altri principi costituzionali: si pensi all’art. 2 Cost., in cui «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità […]»[48]: ed è proprio il luogo in cui si sviluppano le formazioni sociali che è necessario garantire i diritti inviolabili, tra i quali è ricompreso senz’altro il diritto di esprimere la propria identità e di utilizzare la propria lingua; si pensi all’art. 3 Cost., in relazione a principio di uguaglianza formale e sostanziale[49]: infatti, «1. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. 2. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese»; si pensi all’art. 111 Cost., comma 3, che riconosce alla persona accusata di un reato la garanzia di essere assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo[50]: tale principio è un caposaldo dell’ordinamento giuridico italiano, e si completa con le disposizioni contenute nel Codice di procedura civile (artt. 122 – 123)[51] e nel Codice di procedura penale (art. 109)[52]; si pensi inoltre all’art. 21 Cost., in riferimento alla libertà (e alle diverse modalità) di manifestazione del pensiero tramite la parola[53]; si pensi anche all’art. 33 Cost., in riferimento ai profili dell’istruzione[54]. Pertanto, la Repubblica dovrebbe consentire il più ampio utilizzo e riconoscimento delle lingue parlate nel proprio territorio. Più in generale, l’utilizzo della lingua costituisce infatti un diritto culturale universale, e il suo riconoscimento favorisce l’integrazione sociale e lo sviluppo della personalità dei singoli, dei gruppi e delle comunità, in un’ottica di pluralismo[55]. Questa concezione si può apprezzare anche tramite una lettura evolutiva dell’art. 9 Cost., che attribuisce alla Repubblica la promozione e lo sviluppo della cultura e la tutela del patrimonio culturale, ivi comprese le espressioni linguistiche[56].

 

 

3.1. – (Segue) La l. n. 482/1999 sulla tutela delle minoranze linguistiche storiche

 

Se è vero che la Costituzione italiana è aperta al multilinguismo, è anche vero che maggiore attenzione viene data alla tutela delle minoranze linguistiche, che è ricompresa tra i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano. Tuttavia, si è dovuto attendere diversi anni per una normativa di attuazione dell’art. 6 Cost.[57]. Ci si riferisce principalmente alla legge 15 dicembre 1999, n. 482, recante “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche[58], che fornisce le basi normative per un’efficace tutela a livello nazionale e regionale, in conformità altresì ai principi di salvaguardia riconosciuti in ambito internazionale e dell’Unione europea[59].

Per comprendere appieno le potenzialità di tale legge, è opportuno analizzare sommariamente i contenuti.

Innanzitutto si afferma che «La lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano» (art. 1, comma 1), rendendo esplicito un principio sottointeso nella Costituzione italiana[60].

La legge affida alla Repubblica la tutela e la valorizzazione della lingua italiana, nonché la valorizzazione delle ulteriori lingue e culture tutelate dalla medesima: «la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo» (artt. 1 e 2).

La legge assegna ai pubblici poteri non solo la tutela delle lingue in senso stretto, ma altresì quella delle culture delle relative popolazioni. Il fulcro della l. n. 482/1999 è rappresentato dall’art. 3, il quale disciplina il procedimento di riconoscimento delle minoranze linguistiche e delimita l’ambito spaziale delle misure di protezione[61].

Il riconoscimento delle minoranze linguistiche comporta, in primo luogo, la possibilità di introdurre una deroga all’insegnamento esclusivo in lingua italiana nei comuni interessati (art. 4, comma 1). Gli istituti scolastici possono pertanto stabilire un programma di salvaguardia linguistica in base all’esercizio della propria autonomia organizzativa e didattica. Un ruolo importante è assunto dai genitori degli alunni, i quali, tramite apposite richieste, possono concordare con gli istituti tempi e modalità di svolgimento delle attività di insegnamento della lingua e delle tradizioni culturali delle comunità locali (comma 2). L’offerta formativa può essere estesa anche in favore degli adulti, i quali possono beneficiare di appositi corsi (comma 3).

Il Ministero dell’Istruzione può realizzare dei progetti nazionali e locali nel campo dello studio delle lingue e delle tradizioni culturali di una minoranza linguistica riconosciuta (art. 5). Le università e le regioni interessate possono invece istituire dei corsi di lingua (e cultura delle lingue) finalizzati alla ricerca scientifica e alla promozione delle attività culturali (art. 6). Per quanto riguarda l’attività istituzionale dei pubblici uffici, l’art. 7 consente ai membri dei consigli comunali e degli altri organi a struttura collegiale dell’amministrazione l’utilizzo della lingua minoritaria riconosciuta (comma 1). Tale previsione è estesa ai consiglieri delle comunità montane, delle province e delle regioni, i cui territori ricomprendano comuni nei quali è riconosciuta la lingua ammessa a tutela, che complessivamente costituiscano almeno il 15% della popolazione interessata (comma 2). Sullo sfondo di tali misure, vi è anche la necessità di preservare il patrimonio linguistico italiano: infatti, qualora uno o più componenti dei citati organi collegiali «dichiarino di non conoscere la lingua ammessa a tutela, deve essere garantita una immediata traduzione in lingua italiana» (comma 3). La preminenza della lingua italiana emerge anche in merito agli atti destinati ad uso pubblico: infatti, qualora tali atti siano redatti nelle due lingue (lingua minoritaria e italiano), producono effetti giuridici solo gli atti redatti in lingua italiana (comma 4).

Negli uffici delle amministrazioni pubbliche è consentito l’uso orale e scritto della lingua ammessa a tutela (art. 9, comma 1), così come nei procedimenti davanti al giudice di pace, fermo restando quanto previsto dall’art. 109 c.p.p. (art. 9, comma 2).

Sono previste anche disposizioni per la toponomastica: infatti, «i consigli comunali possono deliberare l’adozione di toponimi conformi alle tradizioni e agli usi locali». Anche in questo caso, però, si evince la preminenza della lingua italiana, in quanto l’utilizzo della toponomastica originaria è consentito «in aggiunta ai toponimi ufficiali» (art. 10)[62].

L’ambito territoriale riconosciuto dall’art. 3 della l. n. 482/1999 diviene di particolare importanza in merito al ripristino dei cognomi e dei nomi originari modificati prima dell’entrata in vigore della medesima legge: infatti, tale richiesta può essere effettuata solo dai cittadini residenti che fanno parte di una minoranza linguistica riconosciuta (art. 11).

La tutela delle lingue minoritarie può riguardare anche il servizio radiotelevisivo pubblico (art. 12) e privato (art. 14), al fine di garantire le trasmissioni televisive e radiofoniche nelle lingue riconosciute. Le regioni e le province interessate possono inoltre creare appositi istituti per la tutela delle tradizioni linguistiche e culturali, oppure favorire la costituzione di sezioni autonome delle istituzioni culturali locali già esistenti (art. 16). La valorizzazione delle lingue minoritarie riconosciute assume anche carattere sovranazionale, in virtù di apposite convenzioni e/o intese stipulate dallo Stato italiano con gli altri Paesi interessati (art. 19).

In merito al rapporto tra Stato e regioni, la l. n. 482/1999 interviene con due apposite disposizioni per consentire alle regioni di adottare misure di adeguamento in riferimento alla presente legge o, in alternativa, per derogarvi a condizioni di maggior tutela (artt. 13 e 14).

Come si vedrà, la l. n. 482/1999, stante la sua buona struttura e configurazione, potrebbe essere uno dei modi per ampliare il ventaglio delle lingue (minoritarie) tutelate, in considerazione delle neo minoranze presenti nel territorio italiano in conseguenza dei fenomeni migratori e dalla costante evoluzione della società.

 

 

4. – Lo sviluppo della normativa regionale e le pronunce della Corte costituzionale in materia di potestà legislativa

 

La questione della tutela delle lingue è ancora più complessa in ambito regionale: infatti, le regioni tutelano e salvaguardano il proprio patrimonio linguistico tramite normative che riguardano la propria lingua e/o i propri dialetti. Vi sono inoltre alcune regioni che tutelano anche le minoranze linguistiche riconosciute dalla l. n. 482/1999 presenti nel proprio territorio. Ci si riferisce, in particolare, alle regioni a Statuto speciale (e alle province autonome) del nord Italia che ospitano le lingue delle minoranze storiche[63]. Buona parte delle regioni ha comunque provveduto ad inserire almeno un riferimento alla tutela delle minoranze linguistiche e/o della propria lingua e/o dei propri dialetti nello Statuto[64].

Lo sviluppo della normativa regionale in tema di minoranze linguistiche è stato condizionato (ed è tutt’oggi condizionato) dal mancato riparto di competenze legislative tra Stato e regioni in tema di tutela e valorizzazione delle minoranze linguistiche: l’art. 117 Cost. non individua infatti una potestà legislativa specifica[65].

Alcuni interventi legislativi delle regioni (e delle province autonome) in materia di tutela delle minoranze linguistiche sono stati sottoposti al giudizio della Corte costituzionale per dirimere i (potenziali) contrasti di competenza con lo Stato.

L’indirizzo della Corte costituzionale si può riassumere in tre fasi[66]: nella prima fase viene riconosciuta una competenza legislativa statale esclusiva (sentenze n. 32/1960; n. 1 e 46 del 1961; n. 128 del 1963 e n. 14 del 1965); nella seconda fase viene riconosciuta sia una competenza legislativa statale che una competenza legislativa regionale, sia pur nel rispetto della normativa e delle competenze statali (sentenze n. 312/1983 e n. 289/1987); nella terza fase viene riconosciuta nuovamente una potestà legislativa esclusiva statale in tema di individuazione e tutela delle lingue, fermo restando che le regioni possono predisporre adeguati interventi di valorizzazione per i dialetti e gli idiomi locali (sentenze n. 159/2009; n. 170/2010 e n. 88/2011).

Nella prima fase la Corte costituzionale affermò fin da subito l’esclusiva competenza dello Stato in tema di tutela delle lingue minoritarie, tramite la sentenza n. 32/1960. Il Giudice delle leggi, accogliendo il ricorso dell’allora Presidente del Consiglio dei Ministri, dichiarò l’illegittimità costituzionale della legge approvata nella seduta del 29 maggio 1959 dal Consiglio provinciale di Bolzano, in tema di “Uso delle lingue da parte degli organi ed uffici provinciali”, con riguardo all’utilizzo della lingua tedesca e italiana. Gli stessi contenuti della sentenza della Corte costituzionale n. 32/1960 furono ribaditi nelle successive pronunce n. 1 e 46 del 1961, n. 128 del 1963, n. 14 del 1965, nelle quali il legislatore statale veniva “abilitato”, in maniera esclusiva, a dettare norme sulla tutela delle minoranze etnico-linguistiche.

Nella seconda fase la Corte costituzionale superò il primo orientamento tramite le sentenze n. 312/1983 e n. 289/1987, nelle quali si discuteva, ancora una volta, della competenza in tema di minoranze linguistiche e di uso della lingua nei pubblici uffici del Trentino Alto Adige. In tali pronunce si affermò, da un lato, la “rilevanza nazionale” della tutela delle lingue minoritarie e, dall’altro lato, la possibilità delle regioni di sviluppare una propria normativa, sia pur nel rispetto di quella statale (e delle competenze statali). Pertanto, per la prima volta, le regioni erano legittimate ad adottare normative di salvaguardia delle lingue minoritarie.

Tale apertura della Corte costituzionale conferì una maggiore “legittimazione” alle regioni: le prime iniziative riguardarono l’utilizzo della lingua nei pubblici uffici, il rinnovamento della toponomastica (secondo la terminologia linguistica appropriata delle minoranze locali), l’insegnamento, nonché le misure per i musei e le biblioteche[67].

Nella terza fase la Corte costituzionale ha espresso un ulteriore indirizzo in tema di potestà legislativa, andando ad incidere nuovamente sull’equilibrio dei rapporti tra Stato e regioni. Come anticipato, in tale fase viene riconosciuta allo Stato una potestà legislativa esclusiva in tema di individuazione e tutela delle lingue, mentre alle regioni viene riconosciuta una potestà legislativa limitata agli interventi di valorizzazione dei dialetti e degli idiomi locali.

In merito a tale fase, la questione del riparto di competenze è tornata d’attualità in occasione dell’approvazione della l. r. Friuli Venezia Giulia del 18 dicembre 2007, n. 29, rubricata “Norme per la tutela, valorizzazione e promozione della lingua friulana”. La qualificazione arbitraria di “lingua” friulana ad opera del legislatore regionale e il travisamento di alcune disposizioni della stessa l. r. n. 29/2007 in riferimento ai principi della l. n. 482/1999, sono stati alla base del ricorso presentato dall’allora Presidente del Consiglio dei Ministri innanzi la Corte costituzionale, la quale, tramite la sentenza n. 159/2009, ha dichiarato l’illegittimità delle medesime disposizioni[68].

Per capire meglio l’indirizzo espresso dalla Corte costituzionale, è opportuno sottolineare alcuni principi enunciati nelle considerazioni in diritto: in primo luogo, si fa presente che la tutela delle minoranze linguistiche costituisce un principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale; in secondo luogo, si afferma che la Costituzione riconosce implicitamente l’italiano come unica lingua ufficiale, ma allo stesso tempo si ribadisce che la tutela delle minoranze linguistiche costituisce uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione, dal momento che non soltanto ad essa è dedicato l’art. 6, ma questa speciale tutela concretizza il principio pluralistico ed il principio di eguaglianza; in terzo luogo, viene sostanzialmente riconosciuta una potestà legislativa statale in materia di minoranze linguistiche[69].

In sintesi: se da una parte si riconosce la possibilità delle regioni di attuare la l. n. 482/1999, dall’altra si deve riconoscere la (preminente) potestà legislativa statale che, in una concezione unitaria, garantisce una migliore tutela e salvaguardia delle lingue minoritarie[70].

La Corte costituzionale ha espresso invece una posizione favorevole in merito alla normativa regionale che consente la valorizzazione dei dialetti e degli idiomi locali[71]. Si pensi alla l. r. Friuli Venezia Giulia 17 febbraio 2010, n. 5, rubricata “Valorizzazione dei dialetti di origine veneta parlati nella regione Friuli Venezia Giulia”, che è stata oggetto di ricorso governativo presentato innanzi alla Corte costituzionale per dirimere presunte violazioni di alcune disposizioni della l. n. 482/1999. Tramite la pronuncia n. 88/2011, il Giudice delle leggi ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, relativo agli “Interventi nel settore della toponomastica e della cartellonistica”. Tale disposizione è stata ritenuta conforme alla Costituzione, anche con riguardo ai principi contenuti nell’art. 9 Cost.

Dall’analisi dell’ultimo orientamento della Corte costituzionale emerge quindi che l’individuazione e la tutela delle minoranze linguistiche è di competenza esclusiva statale. Alle regioni viene invece concessa la possibilità di salvaguardare e valorizzare il proprio patrimonio linguistico, tramite apposite leggi e atti normativi che, tuttavia, non debbono andare a discapito della lingua italiana, ritenuta lingua ufficiale dello Stato dalla l. n. 482/1999.

Considerata l’interdisciplinarietà del tema della tutela delle minoranze linguistiche in relazione ad alcune materie elencate nell’art. 117 Cost., appare inevitabile la sovrapposizione di competenze in merito agli interventi legislativi di salvaguardia e valorizzazione dello Stato e delle regioni. Al fine di evitare conflitti sulla titolarità della potestà legislativa, è auspicabile un’azione congiunta dello Stato e delle regioni interessate tramite la stipula di intese e/o l’utilizzo di appositi strumenti di coordinamento.

 

 

4.1. – (Segue) Recenti interventi legislativi regionali in tema di lingue, dialetti e minoranze linguistiche

 

Un significativo contributo per la tutela delle lingue deriva dalla legislazione regionale. Di recente alcune regioni hanno adottato delle leggi che mirano a tutelare adeguatamente il proprio patrimonio linguistico: in particolare, ci si riferisce alle leggi regionali della Sardegna, del Trentino Alto Adige e del Veneto.

La Regione Sardegna ha adottato la l. r. 3 luglio 2018, n. 22, rubricata “Disciplina della politica linguistica regionale[72], che considera l’identità linguistica del popolo sardo come un bene primario da salvaguardare in tutte le sue molteplici declinazioni (art. 1). Più precisamente, «la lingua sarda, il catalano di Alghero e il gallurese, sassarese e tabarchino, costituiscono parte del patrimonio immateriale della Regione, che adotta ogni misura utile alla loro tutela, valorizzazione, promozione e diffusione» (art. 2). La l. r. n. 22/2018 sottolinea la differenziazione tra la lingua sarda e il catalano di Alghero rispetto agli altri idiomi regionali, di guisa che solo le prime vengono riconosciute come lingue delle minoranze storiche, in conformità a quanto previsto dalla l. n. 482/1999 (art. 10).

Le competenze della Regione e degli enti locali sono ben delimitate: per quanto concerne la Regione, essa «definisce gli obbiettivi, programma gli interventi e ne garantisce l’attuazione» (art. 3). Le autonomie locali devono innanzitutto adeguare i propri Statuti e regolamenti alla l. n. 482/1999 e alla l. r. n. 22/2018 (art. 4). Esse inoltre coadiuvano la Regione all’attuazione della programmazione degli interventi, potendo attivare collaborazioni con le altre pubbliche amministrazioni, con gli organismi e le istituzioni pubbliche e private, nazionali e sovranazionali, al fine di diffondere l’utilizzo del proprio patrimonio linguistico (art. 4-5).

La legge si caratterizza per la possibilità di creare una rete di relazioni con altre minoranze linguistiche, sia in ambito nazionale che internazionale, tramite appositi accordi volti alla condivisione delle esperienze e al raggiungimento di obiettivi di tutela comuni (art. 7).

Si tratta inoltre di una legge regionale innovativa in quanto consente un’ampia partecipazione pubblica tramite l’organizzazione annuale di una “conferenza aperta”, volta a definire le linee di indirizzo e a valutare i risultati conseguiti (art. 6)[73].

Di particolare importanza è l’adeguamento dell’organizzazione della pubblica amministrazione ai fini perseguiti dalla legge: la disciplina delle funzioni amministrative prevede la creazione di sportelli linguistici territoriali e la disciplina di utilizzo della lingua negli uffici pubblici e nella comunicazione istituzionale (artt. 10-12). I soggetti interessati possono conseguire una certificazione linguistica rilasciata da soggetti pubblici e privati abilitati (art. 9). Sono previsti inoltre interventi nell’ambito della toponomastica e cartellonistica (art. 13), nei settori dell’istruzione (artt. 15-21), dell’informazione, dell’editoria e delle nuove tecnologie (artt. 22-23), nonché alcune misure di collaborazione con le università (art. 24). Sono previste anche politiche di sviluppo locale: la Regione può infatti pubblicare appositi bandi per finanziare eventi culturali e turistici (art. 14).

Il Trentino Alto Adige ha approvato la l. r. 24 maggio 2018, n. 3, rubricata “Norme in materia di tutela e promozione delle minoranze linguistiche cimbra, mòchena e ladina della Regione autonoma Trentino Alto Adige-Südtirol”. La Regione, nell’ambito delle sue competenze e in coordinamento con le Province autonome di Trento e di Bolzano, promuove iniziative finalizzate alla valorizzazione dei gruppi linguistici riconosciuti e, in generale, la diversità linguistica e culturale che caratterizza il suo territorio (art. 1). Tale legge si distingue per la possibilità di individuare appositi soggetti rappresentativi delle minoranze linguistiche (art. 2), nonché per le numerose misure necessarie per attuare la legge (art. 3)[74]. La concessione dei finanziamenti è affidata alla valutazione di un comitato tecnico (art. 4), che consente di realizzare le iniziative con i fondi pubblici appositamente stanziati dal bilancio regionale (art. 5). Sono importanti altresì due attività che hanno cadenza annuale: la programmazione degli interventi tramite un apposito Piano approvato dalla Giunta (art. 6) e il rapporto e la valutazione delle attività presentato dalla stessa Giunta al Consiglio regionale (art. 7).

Più recentemente, il Veneto ha approvato la l. r. 25 ottobre 2021, n. 30, rubricata “Promozione delle minoranze linguistiche presenti nella Regione del Veneto”, che considera le comunità etniche e linguistiche storicamente presenti nel territorio regionale come fattore di arricchimento culturale, e riconosce la garanzia dei diritti linguistici e culturali come misura di promozione del sistema dei diritti umani. La Regione consente l’utilizzo delle lingue minoritarie nelle sedi istituzionali; promuove e sostiene le iniziative finalizzate alla valorizzazione delle minoranze linguistiche riconosciute, nonché del patrimonio storico-culturale delle comunità etniche; predispone inoltre iniziative di conservazione, recupero e sviluppo dell’identità culturale e linguistica di tali comunità, come contributo ad una società regionale pluralistica e democratica (art. 1).

Per le numerose misure di tutela e valorizzazione (art. 2)[75] sono previste diverse modalità attuative: la Regione può agire direttamente oppure mediante la concessione di contributi ad enti pubblici, associazioni ed organismi culturali senza scopo di lucro, e anche alle federazioni e agli organismi rappresentativi delle minoranze (art. 3). Le modalità di erogazione dei contributi sono decise dalla Giunta regionale che dovrà inoltre presentare al Consiglio regionale un rapporto annuale di valutazione delle attività (art. 4).

Le leggi regionali richiamate costituiscono un modello di riferimento non solo per le regioni che non hanno ancora adottato una normativa a tutela del proprio patrimonio linguistico, ma anche per quelle che l’hanno adottata in maniera inadeguata.

 

 

5. – Alcune questioni giuridiche in tema di salvaguardia del patrimonio linguistico

 

Il quadro normativo descritto consente di affermare che i pubblici poteri dispongono di molteplici strumenti normativi multilivello per la tutela e la valorizzazione del patrimonio linguistico.

Nonostante ciò le lingue continuano ad essere “minacciate” per diversi motivi: in primo luogo, vi è la parziale e/o incompleta attuazione della suddetta normativa: in alcuni casi vi è l’assenza di una disciplina di dettaglio; in altri casi mancano politiche sociali e culturali costanti; in altri casi ancora manca la predisposizione e/o l’adeguamento degli apparati amministrativi.

Un’altra problematica deriva dagli effetti negativi della globalizzazione: si registra infatti una “prevaricazione” delle lingue più “forti” (e diffuse) a discapito di quelle più “deboli” (e in via di estinzione)[76]. L’aspetto maggiormente ambiguo riguarda il processo di internazionalizzazione, ossia la necessità di adeguarsi all’utilizzo delle lingue straniere più diffuse (principalmente l’inglese, ma anche il francese, lo spagnolo, il cinese mandarino, il russo, l’hindi, l’arabo) nei vari contesti sociali. Se da un lato esso consente di colmare le distanze con le altre nazioni e popolazioni e, di conseguenza, raggiungere una maggiore interconnessione su scala mondiale, dall’altro lato rappresenta una minaccia per gli altri idiomi che vengono sempre meno utilizzati. In tal modo si impedisce o si limita la compiuta trasmissione del relativo patrimonio linguistico alle generazioni future. Il problema riguarda non solo le lingue minoritarie storiche e le lingue e i dialetti regionali, ma anche le lingue delle “nuove minoranze” presenti nel territorio nazionale e la lingua italiana.

Il fenomeno dell’internazionalizzazione ha interessato con il tempo anche contesti istituzionali: l’Università; l’istruzione scolastica degli altri ordini e gradi; e gli uffici della pubblica amministrazione.

Nel caso delle Università il problema sembra essere superato a seguito dell’intervento della Corte costituzionale.

Come è noto, le problematiche dell’internazionalizzazione delle Università sono sorte a seguito della scelta di alcuni Atenei di sviluppare dei corsi di studio interamente in lingua inglese[77]. Nello specifico, la disciplina di riferimento è l’art. 2, comma 2, lettera l), della legge 30 dicembre 2010, n. 240, recante “Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario”, nella quale si dispone il «rafforzamento dell’internazionalizzazione anche attraverso […] l’attivazione, nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, di insegnamenti, di corsi di studio e di forme di selezione svolti in lingua straniera». In base a tale disposizione, il Politecnico di Milano ha attivato dei corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca interamente in lingua inglese, affiancando un piano per la formazione degli studenti e dei docenti[78]. Il provvedimento amministrativo fu annullato tramite la sentenza del TAR del 23 maggio 2013, n. 1348, a seguito del ricorso di alcuni docenti dell’Ateneo milanese. Sicché la sentenza di primo grado fu impugnata dal Politecnico di Milano e dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca (MIUR) innanzi al Consiglio di Stato, il quale, a sua volta, ritenne opportuno sollevare una questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, lett. l), della richiamata legge 30 dicembre 2010, n. 240, per presunta violazione degli artt. 3, 6 e 33 Cost.

La Corte costituzionale si è espressa in merito alla questione tramite la sentenza del 21 febbraio 2017, n. 42, nella quale ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Consiglio di Stato. Pur riconoscendo la preminenza della lingua italiana, considerata peraltro «bene culturale in sé»[79], il Giudice delle leggi facoltizza le Università a perseguire gli obiettivi di internazionalizzazione, purché accanto ai corsi di studio in lingua straniera ve ne sia uno corrispondente in lingua italiana.

Il tema dell’internazionalizzazione degli Atenei ha stimolato il dibattito della dottrina, la quale si è espressa in maniera controversa[80]. Ad ogni modo, in merito a tale diatriba, si può affermare che l’internazionalizzazione rientra tra gli obiettivi perseguiti dagli Atenei, che si attivano attraverso l’aggiornamento dei propri Statuti e della propria offerta formativa.

La soluzione adottata dalla Corte costituzionale pare dunque essere condivisibile in quanto contempera le due esigenze della tutela della lingua italiana e dell’internazionalizzazione dei corsi di studio universitari, ed è coerente con i principi enunciati dalla giurisprudenza costituzionale[81].

La maggior parte degli Atenei prevede l’inserimento nei piani di studio di appositi insegnamenti in lingua straniera, in modo tale da garantire una corretta internazionalizzazione dei corsi di laurea.

Anche gli altri ordini e gradi dell’istruzione scolastica prediligono tale soluzione, garantendo agli studenti un’adeguata offerta formativa e preparazione linguistica.

È necessario quindi individuare un punto di equilibrio che tenga in considerazione non solo le esigenze di internazionalizzazione, ma anche la salvaguardia della lingua italiana (in sé e per sé considerata), nonché, ove presenti, delle lingue minoritarie e delle lingue e dialetti regionali[82].

In tema di istruzione pubblica, se è vero che l’insegnamento delle lingue straniere più utilizzate dovrebbe riguardare le scuole di ogni ordine e grado di tutto il territorio nazionale, è anche vero che l’insegnamento delle altre lingue minoritarie e regionali dovrebbe essere garantito chiaramente nei territori in cui effettivamente sono conosciute e parlate[83].

In merito al problema dell’internazionalizzazione dei pubblici uffici, la questione sembra invece molto più complessa, ed è condizionata dall’evolversi della società.

Quel che è certo è che dal 1° gennaio 2000 i bandi di concorso devono prevedere la conoscenza di (almeno) una lingua straniera da parte dei candidati[84]. Anche di recente la giurisprudenza amministrativa ha dichiarato l’illegittimità di un bando di concorso privo di tale requisito[85].

Ad ogni modo, gli uffici pubblici sono chiamati ad interagire in maniera crescente con gli stranieri[86], nonché a dover conoscere la normativa internazionale e dell’Unione europea. Tale normativa non sempre è disponibile in lingua italiana, e spesso viene tradotta in modo errato: ecco che diviene importante la conoscenza delle lingue straniere, al fine di poter consultare (e all’occorrenza applicare) l’atto secondo il significato della lingua originale[87].

Alcune disposizioni normative regionali richiedono ai dipendenti pubblici anche ulteriori competenze, come la conoscenza della lingua minoritaria e/o di quella regionale del territorio interessato[88].

È chiaro che diviene sempre più difficile per il personale della pubblica amministrazione - soprattutto per quello in servizio da diversi anni - disporre di tali competenze linguistiche: bisogna infatti considerare che la richiesta di tali competenze linguistiche varia in relazione al costante mutamento e sviluppo della società.

 

 

6. – Brevi considerazioni conclusive: prospettive di tutela e valorizzazione

 

Come è emerso in rassegna, il tema della tutela e valorizzazione delle lingue non può prescindere da alcune riflessioni: la necessità di garantire una maggiore tutela delle lingue minoritarie e, più in generale, di tutto il patrimonio linguistico; l’esigenza di attuare la normativa internazionale; la necessità di rimarcare la dimensione culturale del patrimonio linguistico; l’auspicio che le regioni possano adottare una propria normativa a tutela del patrimonio linguistico presente nel proprio territorio, anche in sinergia con lo Stato; e, infine, la possibilità di trarre dei benefici dalle nuove tecnologie.

Per quanto riguarda la necessità di garantire una maggiore tutela del patrimonio linguistico, nel corso degli ultimi decenni è emerso il bisogno di salvaguardare non solo le minoranze linguistiche storiche, ma anche gli altri idiomi: la lingua italiana; le lingue dei migranti da tempo stabiliti nel nostro territorio, che non trovano riconoscimento ufficiale nella l. n. 482/1999 (ad es. sinti e rom[89]); le lingue delle nuove minoranze[90]; e, infine, le lingue e i dialetti regionali.

A fronte di questa esigenza, manca una normativa compiuta per tutelare il patrimonio linguistico: il limite della l. n. 482/1999 è infatti di non tenere in considerazione altri idiomi rispetto a quelli elencati all’art. 2 della medesima legge, con la conseguente creazione di un sistema di tutela “elitario”[91].

Le alternative per soddisfare le attuali esigenze di tutela potrebbero essere le seguenti: estendere ed integrare l’elenco delle lingue salvaguardate dalla l. n. 482/1999 [92], che rappresenta ancora un testo normativo valido[93]; oppure, in alternativa, creare un nuovo testo normativo comprensivo di tutte le lingue che necessitano di salvaguardia (non solo le lingue delle minoranze storiche già riconosciute, ma anche la lingua italiana, le lingue delle minoranze linguistiche non ancora riconosciute, le lingue degli immigrati, le lingue e i dialetti regionali, ecc.).

In dottrina vi è chi si chiede, tra l’altro, se l’art. 6 Cost. possa considerarsi ancora attuale[94].

In merito alla normativa internazionale e dell’Unione europea, numerosi sono gli atti normativi recepiti dall’ordinamento giuridico italiano. Tuttavia, è doveroso sottolineare che l’Italia non ha ratificato la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie del Consiglio d’Europa. Tale documento è importante in quanto consentirebbe di tutelare un più ampio ventaglio di idiomi, con adeguati strumenti di tutela[95].

Secondo una parte della dottrina, gli atti normativi internazionali volti alla salvaguardia delle lingue sono strumenti deboli per affrontare le esigenze di salvaguardia del multilinguismo[96]. Tuttavia, bisogna ammettere però che essi hanno contribuito (e contribuiscono) alla sensibilizzazione del tema sulla necessità di salvaguardare e tutelare il patrimonio culturale, allo sviluppo di un’attenta legislazione a tutela e promozione delle lingue in generale, delle minoranze linguistiche e del rispetto della diversità culturale. In quest’ottica, diviene fondamentale quindi l’attività degli Stati aderenti alle varie convenzioni, trattati, ecc., i quali debbono attuare con appropriate politiche[97] e atti normativi gli impegni sottoscritti.

Non pare inutile rimarcare anche la “dimensione culturale” della lingua. In ambito internazionale essa è ormai ricompresa nel patrimonio culturale: si pensi alle richiamate Convenzioni UNESCO 2003 e 2005, nelle quali vengono tutelate le espressioni orali, nonché alla Convenzione di Faro del 2005 sul valore dell’eredità culturale per la società.

A livello nazionale l’introduzione dell’art. 7-bis nel Codice dei beni culturali e del paesaggio[98], in attuazione delle richiamate Convenzioni UNESCO[99], consente di annoverare la lingua tra i beni del patrimonio culturale[100]. Come evidenziato in rassegna, anche la Corte costituzionale considera ormai la lingua italiana come «bene culturale in sé»[101].

Una parte della dottrina ha avuto il merito di riconoscere anzitempo l’ampiezza della dimensione del patrimonio culturale[102]. Tale concezione consente di annoverare tra i beni culturali anche le espressioni culturali intangibili, tra cui sono ricomprese anche gli idiomi, che necessitano di apposite e specifiche forme di tutela e salvaguardia[103].

Per quanto riguarda il (mancante) riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni in materia di tutela di lingue minoritarie già si è detto. Diverse pronunce della Corte costituzionale hanno riconosciuto una competenza esclusiva dello Stato in merito all’individuazione e alla tutela delle minoranze linguistiche. Alle regioni viene invece concessa la possibilità di valorizzare il proprio patrimonio linguistico, tramite apposite leggi e atti normativi che comunque non debbono andare a discapito della lingua italiana, ritenuta lingua ufficiale dello Stato dalla l. n. 482/1999. Ad ogni modo, per evitare (potenziali ed eventuali) conflitti di competenze tra Stato e regioni, è opportuno e auspicabile il raggiungimento di un’intesa e/o il coordinamento tra i soggetti interessati, in virtù di quanto previsto dalla Costituzione.

Una nuova frontiera della salvaguardia e promozione delle lingue potrebbe essere rappresentata dalle nuove tecnologie[104]. Tra queste spiccano in particolare le TIC - Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (anche note con l’acronimo ICT – Information and Communications Tecnology)[105], che vengono utilizzate nei processi di apprendimento scolastico mediante alcuni progetti europei: si pensi, ad esempio, ai progetti PETALL (PanEuropean Task-based Activities for Language Learning)[106] e Safer Internet Centre Italia – Generazioni connesse[107], che sembrano avere buone ricadute sui processi di apprendimento[108].

Altre forme di salvaguardia e promozione derivano dall’utilizzo (sempre più costante) delle piattaforme digitali[109]. È certo che il patrimonio linguistico necessita, come tutte le manifestazioni del patrimonio culturale immateriale, di apposite misure di salvaguardia[110].

In definitiva, per quanto concerne le prospettive di tutela e valorizzazione, in primo luogo, sarebbe opportuno estendere ed integrare l’elenco delle lingue salvaguardate dalla l. n. 482/1999. Una valida alternativa sarebbe quella di adottare un (nuovo) testo normativo che tenga in considerazione tutte le lingue che necessitano di essere salvaguardate; in secondo luogo, si auspica che la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie del Consiglio d’Europa venga ratificata dall’Italia, in quanto contiene numerose disposizioni utili a perseguire una maggiore salvaguardia e valorizzazione del patrimonio linguistico. Anche gli altri atti internazionali richiamati in rassegna costituiscono un buon punto di partenza per garantire adeguati livelli di tutela, fermo restando il ruolo fondamentale della Repubblica per la loro effettiva attuazione. In terzo luogo, si auspica che tutte le Regioni interessate possano sviluppare una normativa per tutelare il patrimonio linguistico del proprio territorio, anche grazie alla collaborazione dello Stato. Non da ultimo, al fine di migliorare la salvaguardia e la promozione delle lingue, sarebbe opportuno sfruttare le potenzialità delle nuove tecnologie.

È necessario dare risposte alle esigenze di tutela del multilinguismo: fermo restando che è ormai imprescindibile l’internazionalizzazione dell’istruzione pubblica e della pubblica amministrazione, è fondamentale garantire misure idonee alla salvaguardia della lingua italiana[111], delle lingue minoritarie, nonché delle lingue e dei dialetti regionali. È necessario, dunque, un punto di equilibrio tra le esigenze di internazionalizzazione e la tutela delle lingue[112], che richiede una maggiore dinamicità delle politiche e della normativa settoriale, e la predisposizione di un apparato organizzativo adeguato a fronteggiare le molteplici esigenze di salvaguardia. I pubblici poteri devono garantire congrue misure di tutela e valorizzazione del patrimonio linguistico, anche al fine di rendere effettivo il principio del pluralismo e, di conseguenza, consentire una maggiore integrazione e partecipazione democratica nella società[113].

 

 

Abstract

 

This article deals with the analysis of the main measures for the protection of minority and regional languages, in a multilevel perspective. The critical issues and open problems regarding the safeguarding of linguistic heritage, also in consideration of the needs of a constantly evolving society, make it necessary to identify further protective measures, in order to make the principle of pluralism effective and to guarantee greater integration and democratic participation.

 

Il presente articolo ha come oggetto l’analisi delle principali misure di tutela delle lingue minoritarie e regionali, in una prospettiva multilivello. Le criticità e i problemi aperti in tema di salvaguardia del patrimonio linguistico, anche in considerazione delle esigenze della società in continua evoluzione, rendono necessario individuare ulteriori misure di tutela, al fine di rendere effettivo il principio del pluralismo e di garantire una maggiore integrazione e partecipazione democratica.

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] I diritti culturali sono definiti da una parte della dottrina «como aquellos derechos que garantizan el desarrollo libre, igualitario y fraterno de los seres humanos en esa capacidad singular que tenemos de poder simbolizar y crear sentidos de vida que podemos comunicar a otros». Così J. PRIETO DE PEDRO, Derecho cultural y desarrollo umano, en Pensar Iberoamérica: revista de cultura 7, 2004. In tema di diritti culturali, in una prospettiva internazionale, cfr. anche H. Cunha Filho, Teoria dos dereitos culturais. Fundamentos e finalidades, 2018; J. Prieto de Pedro, El derecho de la cultura, Lecciones y materiales para el estudio del derecho administrativo / coord. por Tomás Cano Campos, 8, Tomo 2, 2009 (Los sectores regulados), 261-288; ID., Diversidad y derechos culturales, Una discusión sobre la gestión de la diversidad cultural / Óscar Pérez de la Fuente (ed. lit.), 2008, 13-22; ID., La enseñanza del “derecho de la cultura”: un enfoque global del conjunto de regulaciones jurídicas que afectan a los asuntos culturales, en Seminario internacional: la formación en gestión y políticas culturales para la diversidad cultural y el desarrollo: Girona, del 30 de agosto al 2 de septiembre de 2004, coord. por Alfons Martinell, 2007, 177-182.

[2] Globalizzazione è «un termine che si è affermato entro la cultura economica, politica, sociologica e multimediale nell’ultimo ventennio del Novecento». Essa rappresenta «il processo sociale - fortemente influenzato dall’innovazione tecnologica e informatica – che ha dato vita a una vera e propria rete mondiale di connessioni spaziali e interdipendenze funzionali. Questa “rete” mette in contatto fra di loro un numero crescente di attori sociali e di eventi economici, politici, culturali e comunicativi, un tempo disconnessi a causa delle distanze geografiche o di barriere cognitive e sociali di vario tipo» Così D. Zolo, voce Globalizzazione, in Digesto delle discipline pubblicistiche, II agg., Torino 2005, 378-379. In tema di globalizzazione cfr. inoltre A. Marra, S. Dal Negro (a cura di), Lingue minoritarie tra localismi e globalizzazione, Milano 2020; L. Antonini, Globalizzazione e nuove sfide del costituzionalismo, in Diritto pubblico 2, 2019, 319-340; N. Volontè, Dossier - La globalizzazione “uccide” venticinque idiomi all’anno, in losbuffo.com 14 maggio 2018; G. Del Zanna (a cura di), Geopolitica delle lingue, Santarcangelo di Romagna (RN) 2018; L. Casini (a cura di), La globalizzazione dei beni culturali, Bologna 2010; F. Galgano, La globalizzazione nello specchio del diritto, Bologna 2005.

[3] Lo sviluppo della società registra una crescente utilizzazione di alcune lingue straniere (in particolare l’inglese, ma anche il francese, lo spagnolo, il cinese mandarino, il russo, l’hindi, l’arabo, ecc.), a discapito delle altre lingue e degli altri idiomi. Se da un lato il processo di internazionalizzazione linguistica comporta la possibilità di stare “al passo coi tempi” e di ridurre le distanze con le altre nazioni, dall’altro lato il medesimo processo crea un rischio per la sopravvivenza delle lingue minoritarie e regionali, utilizzate sempre meno nei relativi contesti sociali.

[4] Art. 1, legge 15 dicembre 1999, n. 482, rubricata “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”.

[5] In tema di diritti linguistici, in un prospettiva multilivello, cfr. E. Palici di Suni, I diritti linguistici oggi: Italia e Unione europea a confronto, in Diritto Pubblico Comparato Europeo 2019, fasc. spec., 537-554; D.E. Tosi, L’Unione europea e la questione linguistica a dieci anni dal Trattato di Lisbona: ancora in cerca della stella polare, in Federalismi.it 19, 17 giugno 2020, 73-108; E. Happacher, I diritti delle minoranze e l’Iniziativa dei Cittadini europea – sviluppi recenti, in Diritti Comparti 3 novembre 2016; M.J. Gálvez Salvador, La diversidad lingüística comunitaria, Valencia 2011; G. Poggeschi, I diritti linguistici. Un’analisi comparata, Roma 2010; D.-U. Galetta, J. Ziller, Il regime linguistico della Comunità, in M.P. Chiti, G. Greco (dir.), Trattato di Diritto amministrativo europeo, Parte speciale, Milano 2007, 1067-1113; E. Pons i Parera, El principi de respecte de la diversitat lingüística i la seva projecció sobre les institutions de la Unió Europea, en Revista juridica de Catalunya fasc. 2, 2007, 387-414; A. Ortolani, Lingue e politica linguistica nell’Unione europea, in Rivista critica del diritto privato 20, 1, 2002, 127-168; V. Piergigli, Diritti dell’uomo e diritti delle minoranze nel contesto internazionale ed europeo: riflessioni su alcuni sviluppi nella protezione dei diritti linguistici e culturali, in Rassegna parlamentare 1, 1996, 33-105; C.R. Fernandez Liesa, Derecho lingüísticos y derecho internacional, Madrid 1999; A. Forrest, The politics of language in the European Union, in European Review 6, 3, 1998, 299-319; J. Prieto de Pedro, Lenguas, lenguaje y derecho, Madrid 1991.

[6] Per un’analisi approfondita dell’evoluzione del concetto di cultura in chiave antropologica si rinvia senz’altro a H. Velasco Maillo, La cultura, noción moderna, en Patrimonio cultural y derecho 10, 2006, 11-34. In ambito giuridico cfr., ex multis, G. Famiglietti, Diritti culturali e diritto della cultura, Torino 2010; J. Prieto de Pedro, Cultura, culturas y Constitución, Centro de Estudios Constitucionales y Cortes Generales, 2004; ID., voz Cultura (D.º Administrativo), en la obra colectiva Enciclopedia jurídica básica, II, Civitas, Madrid 1995, 1872-1877; A. Pizzorusso, Diritto della cultura e principi costituzionali, in Quaderni costituzionali 2, 2000, 317 ss.; P. Rossi, voce Cultura, in Enciclopedia del Novecento, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Ernesto Treccani, I, 1975, 1143-1157. Per una ricognizione sull’evoluzione della nozione di cultura nell’ordinamento giuridico europeo cfr. L. Degrassi, Diritti, libertà e cultura. Un approccio di base, in dirittifondamentali.it 1, 2017; D. D’Orsogna, Diritti culturali per lo sviluppo umano, in Nuove Alleanze. Diritto ed economia per la cultura e l’arte, a cura di D. D’Orsogna, P.L. Sacco, M. Scuderi, Roma 2015, 7 ss.; D. Ferri, La Costituzione culturale dell’Unione europea, Padova 2008.

[7] Ci si riferisce, in particolare, ai seguenti documenti normativi internazionali: la Carta delle Nazioni Unite, adottata il 26 giugno 1945; la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948; la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nota più semplicemente come CEDU, firmata a Roma il 4 novembre 1950; il Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato il 16 dicembre 1966 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite; l’Atto finale della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, adottato a Helsinki il 1° agosto 1975 dall’Organizzazione sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE); la Dichiarazione sui diritti delle persone appartenenti alle minoranze nazionali, etniche, religiose o linguistiche, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1992.

[8] Il lungo e travagliato percorso che ha consentito il riconoscimento del patrimonio culturale immateriale nasce anche prima dell’approvazione della richiamata Convenzione UNESCO del 1972: «In una prima fase, l’interesse dell’UNESCO per la cultura tradizionale si definisce come una risposta alle critiche mosse alla definizione veicolata dalla convenzione del 1972. Lo scontento di molti Paesi fu manifesto ancor prima dell’adozione della convenzione del 1972. Quando, nel 1963, fu proposta l’idea di creare un fondo internazionale per la protezione dei monumenti, l’Australian Institute for Aboriginal Studies criticò l’inadeguatezza della definizione monumentalista di patrimonio sulla quale si basava tale programma, obiettando che questa definizione non poteva essere applicata alle espressioni culturali aborigene. […]. Successivamente, nel 1973, la Bolivia richiamò l’attenzione sulla necessità di proteggere le espressioni culturali popolari, escluse dalla convenzione del 1972 e propose di aggiungere alla Convenzione universale sul diritto d’autore del 1952 un protocollo per la protezione del folklore che attribuisse il diritto di proprietà di espressioni culturali di origine anonima o collettiva agli Stati sul territorio dei quali tali espressioni culturali fossero state elaborate […]». Così C. Bortolotto (a cura di), Il patrimonio immateriale secondo l’UNESCO: analisi e prospettive, Roma 2008, 14-15. Si rinvia alle pagine 15 ss. del medesimo contributo per l’evoluzione storico-normativa in tema di patrimonio culturale immateriale.

[9] La Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, adottata a Parigi il 17 ottobre 2003 ed entrata in vigore il 20 aprile 2006, ha lo scopo di salvaguardare il patrimonio culturale immateriale dei gruppi e degli individui interessati (art. 1). L’oggetto di tale patrimonio riguarda anche le «tradizioni ed espressioni orali, ivi compreso il linguaggio, in quanto veicolo del patrimonio culturale immateriale» (art. 2, paragrafo 2, lettera a), da preservare e valorizzare tramite apposite misure di salvaguardia. Per quest’ultime si intendono tutte «le misure volte a garantire la vitalità del patrimonio culturale immateriale, ivi compresa l’identificazione, la documentazione, la ricerca, la preservazione, la protezione, la promozione, la valorizzazione, la trasmissione, in particolare attraverso un’educazione formale e informale, come pure il ravvivamento dei vari aspetti di tale patrimonio culturale» (art. 2, paragrafo 3).

[10] La Convenzione sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali, adottata a Parigi il 20 ottobre 2005 ed entrata in vigore il 18 marzo 2007, l’UNESCO ha dato risalto alla necessità di proteggere e promuovere la diversità culturale, auspicandone il dialogo e lo scambio culturale tra i popoli (art. 1). Nel novero dei principi generali indicati all’art. 2, il “Principio del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali” stabilisce che «la protezione e la promozione della diversità culturale presuppongono il rispetto dei diritti umani, delle libertà fondamentali quali la libertà di espressione, d’informazione e di comunicazione nonché la possibilità degli individui di scegliere le proprie espressioni culturali». L’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, inoltre, consente alle Parti contraenti di «adottare misure volte a proteggere e promuovere la diversità delle espressioni culturali sul proprio territorio», che possono consistere anche in «misure che permettono l’integrazione adeguata delle attività, dei beni e dei servizi culturali nazionali nell’insieme delle attività, dei beni e dei servizi culturali esistenti sul proprio territorio nelle fasi di creazione, produzione, diffusione, distribuzione e utilizzo, comprese le misure concernenti la lingua usata in relazione alle attività, ai beni e ai servizi citati» (art. 6, paragrafo 2, lettera b).

[11] La Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, adottata a Faro il 27 ottobre 2005 ed entrata in vigore il 1° giugno 2011, riconosce l’eredità culturale delle popolazioni, e la necessità di trasmettere la medesima alle generazioni future. In particolare, l’art. 14 stabilisce delle misure di specifiche per la tutela della diversità linguistica nella società dell’informazione: «Le Parti si impegnano a sviluppare l’utilizzo delle tecnologie digitali per migliorare l’accesso all’eredità culturale e ai benefici che ne derivano: a) potenziando le iniziative che promuovano la qualità dei contenuti e si impegnano a tutelare la diversità linguistica e culturale nella società dell’informazione […]».

[12] La Carta europea delle lingue regionali o minoritarie è stata adottata a Strasburgo il 5 novembre 1992, ed entrata in vigore in data 1° marzo 1998. È stata firmata (ma non ratificata) dall’Italia. I principi espressi dalla Carta sono stati successivamente ribaditi dal Consiglio d’Europa tramite la Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, adottata a Strasburgo il 1° febbraio 1995, ed entrata in vigore il 1° febbraio 1998.

[13] Sul tema la letteratura è vasta. Cfr., ex multis, D.E. Tosi, Diritto alla lingua in Europa, Torino 2017; E. Chiti, R. Gualdo (a cura di), Il regime linguistico dei sistemi comuni europei, Milano 2008; T.H. Malloy, National Minority Rights in Europe, Oxford 2005; E. Lantschner, J. Marko, A. Petriĉušić (editors), European Integration and its Effects on Minority Protection in South Eastern Europe, Baden-Baden 2008; C. Pretto, Doppi standard di tutela: reciproca “influenza” fra “nuova” e “vecchia” Europa, in Rivista di Diritto Pubblico e Comparato ed Europeo 4, 2008; P. Carrozza, Lingua, politica, diritti: una rassegna storico-comparatistica, in Rivista di Diritto Pubblico Comparato ed Europeo 4, 1999, 1465 ss.

[14] Art. 3, comma 3, TUE.

[15] Art. 167 TFUE.

[16] Cfr. rispettivamente gli artt. 165, paragrafi 1 e 2, e 207, paragrafo 4, TFUE. Più precisamente, l’art. 165 TFUE prevede che «L'Unione contribuisce allo sviluppo di un'istruzione di qualità incentivando la cooperazione tra Stati membri e, se necessario, sostenendo ed integrando la loro azione nel pieno rispetto della responsabilità degli Stati membri per quanto riguarda il contenuto dell'insegnamento e l'organizzazione del sistema di istruzione, nonché delle loro diversità culturali e linguistiche» (paragrafo 1). Queste azioni vengono ulteriormente esplicitate nel seguente modo: «L'azione dell'Unione è intesa: a sviluppare la dimensione europea dell'istruzione, segnatamente con l'apprendimento e la diffusione delle lingue degli Stati membri […]». Per quanto riguarda l’art. 207, paragrafo 4, TFUE, esso stabilisce che «[…] Il Consiglio delibera all'unanimità anche per la negoziazione e la conclusione di accordi: a) nel settore degli scambi di servizi culturali e audiovisivi, qualora tali accordi rischino di arrecare pregiudizio alla diversità culturale e linguistica dell'Unione […]».

[17] Artt. 21 e 22 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Nello specifico, l’art. 21, paragrafo 1, della Carta stabilisce il principio di non discriminazione: «è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali». Il successivo art. 22 della Carta, stabilisce che «L’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica».

[18] Attualmente sono riconosciute 24 lingue: bulgaro, spagnolo, ceco, danese, tedesco, estone, greco, inglese, francese, irlandese, croato, italiano, lettone, lituano, ungherese, maltese, neerlandese, polacco, portoghese, rumeno, slovacco, sloveno, finlandese, svedese.

[19] Sul punto cfr. P. Zuddas, Alla ricerca di una lingua comune europea: il ruolo dell’inglese nell’UE dopo la Brexit, in Amministrazione in Cammino 3 luglio 2020.

[20] In tema di multilinguismo cfr. AA.VV., Il linguaggio giuridico nell’Europa delle pluralità. Lingua italiana e percorsi di produzione e circolazione del diritto dell’Unione europea. Atti della giornata di studio, Collana “Studi e Ricerche”, 2, Senato della Repubblica, Roma 2017, disponibile sul sito istituzionale del Senato della Repubblica; A. Venchiarutti, Il multilinguismo come valore europeo, in Europa e linguaggi giuridici, a cura di B. Pozzo, M. Timoteo, Milano 2008, 303-360; D. Fernández Vitores, Le Europa mültilingue, Granada 2011; M. Siguán Soler, L’Europa de les llengues, Barcelona 1996; MªE. Fernández-Miranda, El multilingüismo en Europa, en V Encuentros complutenses en torno a la traducción: del 22 al 26 de febrero de 1994, coord. por Rafael Martín-Gaitero, Universidad Complutense de Madrid 1995, 269-272.

[21] D.-U. Galetta, J. Ziller, Il regime linguistico della Comunità, cit.

[22] Sul problema della traduzione cfr. AA.VV., Il linguaggio giuridico nell’Europa delle pluralità. Lingua italiana e percorsi di produzione e circolazione del diritto dell’Unione europea. Atti della giornata di studio, cit., 69 ss.; B. POZZO, La traduzione dall'inglese come lingua giuridica nel contesto del multilinguismo europeo: problemi e prospettive, in Rivista di Diritto Pubblico Comparato ed Europeo 3, 2011, 651-662; D. Cosmai, Tradurre per l’Unione europea, Milano 2007; D.-U. Galetta, “Garanzia linguistica” e diritto amministrativo europeo: fra diritto ad una buona amministrazione e problemi di “cattiva traduzione”, in Rivista di Diritto Pubblico Comparato ed Europeo 2, 2005, 345-364; U. Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano 2003; G.R. De Groot, Law, Legal language and the Legal System: Reflections on the Problems of Translating Legal Text, in V. Gessner, A. Hoeland, C. Varga (eds.), Europeen Legal Cultures, Dartmouth - Aldershot 1996, 155 ss.

[23] D.-U. Galetta, J. Ziller, Il regime linguistico della Comunità, cit., 1106.

[24] ID., 1108.

[25] D.E. Tosi, L’Unione europea e la questione linguistica a dieci anni dal Trattato di Lisbona: ancora in cerca della stella polare, cit.

[26] ID., 106.

[27] ID., 107.

[28] F. Palermo, Lingua, diritto e comparazione nel contesto europeo. Profili metodologici tra opportunità e rischi, in InTRAlinea, Online Translation Journal, Special Issue: Specialised Translation II, 2011, consultabile al seguente link: https://www.intralinea.org/specials/article/1801 .

[29] I richiami sono sempre per F. Palermo, Lingua, diritto e comparazione nel contesto europeo. Profili metodologici tra opportunità e rischi, cit. L’Autore precisa inoltre che «Per la soluzione delle possibili insidie traduttologiche e concettuali non è sufficiente neppure la mera conoscenza tecnico-giuridica, nel senso della comparazione come sommatoria della conoscenza approfondita di diversi ordinamenti, quasi si potessero sommare gli ordinamenti con cui si ha (o si pensa di avere) dimestichezza. Occorre infatti approcciare la comparazione con le caratteristiche e le funzioni che le sono proprie, ossia quale strumento di conoscenza che possa, all’uopo, tradursi in vero e proprio metodo dell’interpretazione giuridica (come efficacemente sostenuto da Häberle, che lo ritiene il 5° metodo dell’interpretazione in aggiunta ai classici 4 elaborati da Savigny: letterale, storico, sistematico e teleologico), facendo della comparazione una tecnica di comprensione del diritto come fenomeno culturale e come scienza della cultura».

[30] Cfr. ancora F. Palermo, Lingua, diritto e comparazione nel contesto europeo. Profili metodologici tra opportunità e rischi, cit., ove si specifica che «Risulta in ogni caso evidente come gli sviluppi del diritto comunitario come della redazione/traduzione giuridica comunitaria abbiano sinora fatto poco e cattivo uso della comparazione e, concentrati sulla soluzione di problemi contingenti sullo sfondo della necessità di affermare l’autonomia del sistema comunitario rispetto ai sistemi nazionali, non abbia sufficientemente considerato la questione della compatibilità, che sta alla base del metodo comparato. In questo modo, così come la tendenza dello sviluppo dell’ordinamento comunitario è sinora stata prevalentemente (con un deciso calo negli ultimi tempi) nel senso dell’elaborazione di soluzioni comunitarie “proprie”, diverse da quelle nazionali e quasi a prescindere da queste, anche la politica linguistica e l’attività di redazione e traduzione in ambito comunitario sembrano aver compiuto un percorso analogo. Sia l’ordinamento sia il linguaggio giuridico comunitario hanno per molto tempo (più o meno consapevolmente) imitato soluzioni “federali”, certo basandosi sul sostrato normativo e linguistico nazionale ma senza compiere una vera operazione comparativa. Oggi, con le difficoltà del processo di integrazione e l’aumento delle lingue ufficiali e di lavoro, la parabola dell’imitazione di modelli proto-federali sembra giunta al termine (per le note tensioni istituzionali sui presupposti non chiariti dell’integrazione, e per le tensioni linguistiche date dall’impossibilità pratica di gestire 23 lingue ufficiali e 22 di lavoro), ed assume importanza cruciale la questione del rilancio del metodo comparato quale soluzione certo più complessa e forse costosa, ma unica in grado di ricomporre le aporie tra lingua e diritto in un contesto che complesso è e non può che essere. Ed anzi, appare necessario estendere il metodo comparato al raffronto tra discipline, elaborando metodi per la compenetrazione di diritto e lingua (diritti e lingue) che aumentino la “consapevolezza comparatistica” nell’analisi del diritto comunitario e nel lavoro linguistico in ambito comunitario».

[31] I contributi in tema di patrimonio linguistico in chiave comparatistica sono numerosi. Cfr., ex multis, E. Chiti, R. Gualdo, Il regime linguistico dei sistemi comuni europei. Multilinguismo e monolinguismo nell’Unione europea, Milano 2008; V. Piergigli, Art. 6, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Torino 2006, 168-169; E. Palici di Suni Prat, voce Minoranze, in AA.VV., Digesto delle discipline pubblicistiche, IX, 1994, 556-557; G. Poggeschi, I diritti linguistici. Un’analisi comparata, cit.; G. POGGESCHI, Diritti linguistici (La lingua come strumento del diritto e la lingua quale oggetto della regolamentazione giuridica), in Digesto delle Discipline Pubblicistiche, Aggiornamento, Torino, 117-124; M. Cermel (a cura di), Le minoranze etnico-linguistiche in Europa fra Stato nazionale e cittadinanza democratica, Padova 2009; L. Antoniolli, A. Benacchio, R. Toniatti (a cura di), Le nuove frontiere della comparazione, Trento 2012; F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale e comparato dei gruppi e delle minoranze, Padova 2008; R. Toniatti, Minoranze e minoranze protette: modelli costituzionali comparati, in Cittadinanza e diritti nelle società multiculturali, a cura di T. Bonazzi, M. Dunne, Bologna 1993, 273 ss.; A. Lollini (a cura di), Pluralismo linguistico e Costituzioni: un’analisi comparata, Merano 2004; A. Pizzorusso, Legislazioni europee sulle lingue minoritarie, in Lingua e Stile 2, 2001, 211-218.

[32] Come rilevato in V. Piergigli, Art. 6, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, cit., 155, in una prospettiva comparatistica, sono numerosi i riferimenti normativi di rilevanza costituzionale volti alla tutela delle lingue: Austria (art. 8); Belgio (artt. 2 e 30); Croazia (artt. 12 e 15); Estonia (art. 37); Finlandia (art. 17); Irlanda (art. 8); Lettonia (art. 114); Lituania (art. 45); Repubblica Slovacca (artt. 6, 33 e 34); Romania (artt. 6, 32, comma 3, 59, comma 2 e 127, comma 2); Slovenia (art. 11 e 64); Spagna (art. 3, commi 2 e 3); Svezia (cap. I, art. 2, comma 4, e cap. II, art. 15); e, infine, Svizzera (artt. 4, 18 e 70).

[33] Infatti, nei paesi aperti al plurilinguismo non solo viene tutelata la lingua nazionale ufficiale, ma anche le lingue minoritarie e regionali presenti nel proprio territorio.

[34] In tema cfr. ancora G. Poggeschi, Diritti linguistici (La lingua come strumento del diritto e la lingua quale oggetto della regolamentazione giuridica), cit., 117-120, al quale si rinvia anche per la bibliografia.

[35] Cfr., ex multis, J. Prieto de Pedro, Lenguas, lenguaje y derecho, cit.; ID., Cultura, culturas y Constitución, cit.; ID., voz Cultura (D.º Administrativo), cit.

[36] Per una ricostruzione completa della tutela del patrimonio linguistico della Comunità autonoma della Catalogna v. ancora G. Poggeschi, Diritti linguistici (La lingua come strumento del diritto e la lingua quale oggetto della regolamentazione giuridica), cit., 117-120.

[37] Lo Statuto della Comunità autonoma della Catalogna è stato approvato tramite referendum il 18 giugno 2006, ed è entrato in vigore il 9 agosto del medesimo anno.

[38] Sul tema della tutela della lingua in Italia in generale, cfr. da ultimo M. Ainis, M. Fiorillo, L’ordinamento della cultura. Manuale di legislazione dei beni culturali, 4a ed., Milano 2022, 81-93.

[39] Per una valida ricognizione storica e per l’analisi dell’art. 6 Cost., cfr., ex multis, A. Pizzorusso, Le minoranze nel diritto pubblico interno, Milano 1967; S. Bartole, voce Minoranze nazionali, in Novissimo Digesto Italiano, Appendice, V, Torino 1984, 44 ss.; A. Pizzorusso, Art. 6, in Commentario della Costituzione, Principi fondamentali Art. 1-12, a cura di G. Branca, Bologna-Roma 1975, 296-321; A. Pizzorusso, Minoranze e maggioranze, Torino 1993; S. Bartole, N. Olivetti Rason, L. Pegoraro (a cura di), La tutela giuridica delle minoranze, Padova 1998; V. Piergigli, Lingue minoritarie e identità culturali, Milano 2001; E. Palici Di Suni Prat, Intorno alle minoranze, 2a ed., Torino 2001; V. Orioles, Le minoranze linguistiche. Profili sociolinguistici e quadro dei documenti di tutela, Roma 2003; A. Guazzarotti, Art. 6, in S. Bartole, R. Bin, Commentario breve alla Costituzione, Padova 2008, 53 ss.; R. Medda-Windischer, Nuove minoranze. Immigrazione tra diversità culturale e coesione sociale, Padova 2010; G. Poggeschi, Diritti linguistici (La lingua come strumento del diritto e la lingua quale oggetto della regolamentazione giuridica), cit., 97 ss.; V. Piergigli, Art. 6, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, cit., 155-170; V. Piergigli, Costituzione italiana: articolo 6, Roma 2017; F. Palermo, Articolo 6, in La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo. Principi fondamentali e Parte I – Diritti e doveri dei cittadini (Articoli 1-54), a cura di F. Clementi, L. Cuocolo, F. Rosa, G.E. Vigevani, Bologna 2018, 48-52; R. Chiarelli, Profili costituzionali del patrimonio culturale, Torino 2010, 383-453; C. Consani, P. Desideri (a cura di), Minoranze linguistiche. Prospettive, strumenti, territori, Roma 2007; M. Cosulich, Lingue straniere e lingue minoritarie nell’ordinamento repubblicano, in Quaderni regionali 3, 2012, 134 ss.; F. Toso, Le minoranze linguistiche in Italia, Bologna 2008; G.A. Sacco, La tutela collettiva delle minoranze linguistiche, in Rivista di Diritto costituzionale 2, 2021, 13-32; A. Pizzorusso, Competenza legislativa in materia di uso della lingua in Alto Adige ed altri problemi costituzionali, in Rivista giurisprudenza italiana 1, 1961, 862-872; V. Piergigli, Rileggendo l’opera di Alessandro Pizzorusso sulle minoranze linguistiche. Le “nuove minoranze” tra identità e integrazione, in Nomos: le attualità nel diritto 1, 2019; R. Toniatti (a cura di), La rappresentanza delle minoranze linguistiche, Trento 2023.

[40] Per il concetto di minoranze cfr., ex multis, E. Palici di Suni Prat, voce Minoranze, in AA.VV., Digesto delle discipline pubblicistiche, cit., 546 ss.; L. Montanari, voce Minoranze (tutela delle), in Dizionario di diritto pubblico, a cura di S. Cassese, IV, 2006, 3651; S. Lariccia, voce Minoranze in Europa, in AA.VV., Enciclopedia del Diritto, V, Aggiornamento 2001, 762; G. de Vergottini, Verso una nuova definizione del concetto di minoranza, in Regione e governo locale 1-2, 1995, 9 ss.; AA.VV., voce Minoranze (diritto internazionale), in Nuovo Digesto Italiano, a cura di M. D’Amelio, A. Azara, VIII, 1939, 604-606.

[41] Cfr. V. Piergigli, Art. 6, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, cit., 155-156.

[42] Cfr. E. Palici di Suni Prat, voce Minoranze, cit., 547.

[43] ID., 547.

[44] ID., 547.

[45] Cfr. La Costituzione della Repubblica italiana. Illustrata con i lavori preparatori da VITTORIO FALZONE, FILIPPO PALERMO, FRANCESCO CONSENTINO, del Segretariato generale della Camera dei Deputati, con Prefazione di VITTORIO EMANUELE ORLANDO, Biblioteca Camera dei Deputati, 28 aprile 1949, Colombo in Roma Via Campo Marzio, disponibile sul sito istituzionale della Camera dei Deputati.

[46] In particolare, «La parola “Repubblica va intesa secondo il significato […] comprensivo dello Stato, come amministrazione centrale, e delle regioni». L’ulteriore specificazione si trova nell’art. 3 Cost., ove si fa luce sulla distinzione tra Stato e Repubblica: «Con la parola Stato ci si riferisce all’ordinamento centrale, con intento discriminatore dall’ordinamento regionale (nel quale sono compresi poi quelli provinciale e comunale); con la parola Repubblica si intende comprendere così lo Stato come le regioni (nonché le provincie e i comuni)». Così La Costituzione della Repubblica italiana. Illustrata con i lavori preparatori da VITTORIO FALZONE, FILIPPO PALERMO, FRANCESCO CONSENTINO, del Segretariato generale della Camera dei Deputati, con Prefazione di VITTORIO EMANUELE ORLANDO, cit., 25. Sull’articolazione della Repubblica e la distribuzione delle competenze in tema di cultura e patrimonio culturale cfr., ex multis, M. Cecchetti, Art. 9, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Torino 2006, 232-234.

[47] La considerazione della Repubblica intesa come comprensiva di tutte le sue articolazioni, conformemente all’attuale formulazione dell’art. 114 Cost., consente di non tralasciare il ruolo e l’importanza delle autonomie locali (art. 5 Cost.). Pertanto, la Repubblica, che è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato, deve, in base al riparto di competenze legislative (art. 117 Cost.) e ai principi stabiliti per l’esercizio dell’azione amministrativa (art. 118 Cost.), garantire la tutela e la salvaguardia delle lingue minoritarie.

[48] E. Rossi, Art. 2, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, cit., 38-51; R. Chiarelli, Profili costituzionali del patrimonio culturale, cit., 397 ss.

[49] Proprio i richiamati lavori preparatori della Costituzione, rendono chiaro il collegamento tra gli artt. 3 e 6 Cost. Nel commento dell’art. 6 Cost., infatti, si precisa che «Questa norma non figurava nel testo del progetto, in quanto, come spiegò il presidente della Commissione nella seduta del 1° luglio (A. C., pag. 5318), «vi è già nell’art. 2 (attuale art. 3), il principio di uguaglianza di tutti i cittadini, indipendentemente dalla razza e dalla lingua […]». Così La Costituzione della Repubblica italiana. Illustrata con i lavori preparatori da Vittorio Falzone, Filippo Palermo, Francesco Consentino, del Segretariato generale della Camera dei Deputati, con Prefazione di Vittorio Emanuele Orlando, cit., 28. Sempre in tema di rapporti tra principio di tutela delle minoranze col principio pluralistico e col principio di uguaglianza, autorevole dottrina ha precisato che le minoranze etniche-linguistiche beneficiano di forme di valorizzazione in quanto facenti parte di formazioni sociali, secondo il disposto dell’art. 2 Cost., senza tener presente la nazionalità: «Ne consegue, da un lato, che le minoranze etnico-linguistiche possono e debbono essere tutelate indipendentemente dal fatto che esse abbiano uno stato-patria e, dall’altro lato, che i loro eventuali vincoli verso un tale stato, liberate dalle esasperate accentuazioni derivanti dal sentimento nazionale, risultano simili a quelli che legano insieme gli appartenenti a qualunque altra comunità a carattere internazionale, come quelle sindacali o politiche o culturali, la cui legittimità è oggi pacificamente riconosciuta. Il principio di uguaglianza, dal canto suo, comporta innanzi tutto – com’è ovvio – il divieto di discriminazioni, cui consegue l’illegittimità di qualunque misura vessatoria di particolari categorie di individui e quindi anche degli appartenenti alle minoranze etnico-linguistiche». Così A. Pizzorusso, Art. 6, in Commentario della Costituzione, Principi fondamentali Art. 1-12, a cura di G. Branca, cit., 307.

[50] La disposizione è riferibile non solo al processo penale, espressamente richiamato, ma anche al processo civile, garantendo così a tutti i soggetti interessati adeguate misure di tutela innanzi ai giudici. In tema la bibliografia è ampia: cfr., ex multis, G. Sorrenti, La lingua nel e del processo: giurisdizione penale e giurisdizione civile a confronto, in Rivista AIC – Associazione italiana dei Costituzionalisti 2, 2019.

[51] In riferimento alla disciplina del Codice di procedura civile, è innanzitutto da sottolineare che l’art. 122, rubricato “Uso della lingua italiana. Nomina dell’interprete”, prevede che «In tutto il processo è prescritto l’uso della lingua italiana. Quando deve essere sentito chi non conosce la lingua italiana, il giudice può nominare un interprete». Come rilevato dalla dottrina, «La C. Cost., con sentenza 24 febbraio 1992, n. 62, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente articolo, in combinato disposto con gli artt. 22 e 23 l. 24 novembre 1981, n. 689, nella parte in cui non consentono ai cittadini italiani appartenenti alla minoranza linguistica slovena nel processo di opposizione ad ordinanze-ingiunzioni applicative di sanzioni amministrative davanti al pretore avente competenza su un territorio dove sia insediata la predetta minoranza, di usare, su loro richiesta, la lingua materna nei propri atti, usufruendo per questi della traduzione nella lingua italiana, nonché di ricevere tradotti nella propria lingua gli atti dell’autorità giudiziaria e le risposte della controparte». Così A. Lombardi, Codice di procedura civile. Annotato con la giurisprudenza, VIII ed., Molfetta 2017, 464-465. L’art. 123 del Codice di procedura civile, rubricato “Nomina del traduttore”, stabilisce invece che: «Quando occorre procedere all’esame di documenti che non sono scritti in lingua italiana, il giudice può nominare un traduttore, il quale presta giuramento a norma dell’articolo precedente». In riferimento alle richiamate disposizioni, la giurisprudenza ha affermato che «Il principio della obbligatorietà della lingua italiana, previsto dall’art. 122 cod. proc. civ., si riferisce agli atti processuali in senso proprio (tra i quali, i provvedimenti del giudice e gli atti dei suoi ausiliari, gli atti introduttivi del giudizio, le comparse e le istanze difensive, i verbali di causa) e non anche ai documenti esibiti dalle parti. Ne consegue che qualora siffatti documenti siano redatti in lingua straniera, il giudice, ai sensi dell’art. 123 cod. proc. civ., ha la facoltà, e non l’obbligo di procedere alla nomina di un traduttore, della quale può farsi a meno allorché le medesime parti siano concordi sul significato delle espressioni contenute nel documento prodotto ovvero esso sia accompagnato da una traduzione che, allegata da una parte e ritenuta idonea dal giudice, non sia stata oggetto di specifiche contestazioni della parte avversa […] – Cass. civ., sez. I, 16 giugno 2011, n. 13249 (in termini analoghi Cass. civ., sez. I, 28 dicembre 2006, n. 27593; Cass. civ., sez. III, 11 ottobre 2005, n. 19756; Cass. civ., sez. II, 19 maggio 1990, n. 4537». Cfr. ancora A. Lombardi, Codice di procedura civile. Annotato con la giurisprudenza, cit., 466. In tema la bibliografia è ampia: cfr., ex multis, B. Brunelli, Art. 122 c.p.c., in Commentario breve al codice di procedura civile, a cura di F. Carpi, M. Taruffo, Milano-Padova 2018.

[52] L’art. 109 del Codice di procedura penale, rubricato “Lingua degli atti”, dispone che: «1. Gli atti del procedimento penale sono compiuti in lingua italiana. 2. Davanti all'autorità giudiziaria avente competenza di primo grado o di appello su un territorio dove è insediata una minoranza linguistica riconosciuta, il cittadino italiano che appartiene a questa minoranza è, a sua richiesta, interrogato o esaminato nella madrelingua e il relativo verbale è redatto anche in tale lingua. Nella stessa lingua sono tradotti gli atti del procedimento a lui indirizzati successivamente alla sua richiesta. Restano salvi gli altri diritti stabiliti da leggi speciali e da convenzioni internazionali. 3. Le disposizioni di questo articolo si osservano a pena di nullità». La Cassazione penale sez. un., 24/04/2014, n. 38343, ha precisato che «L'obbligo di usare la lingua italiana si riferisce agli atti da compiere nel procedimento, non agli atti già formati da acquisire al processo, per i quali la necessità della traduzione si pone solo qualora lo scritto in lingua straniera assuma concreto rilievo rispetto ai fatti da provare, essendo onere della parte interessata indicare ed illustrare le ragioni che rendono plausibilmente utile la traduzione dell'atto nonché il pregiudizio concretamente derivante dalla mancata effettuazione della stessa […]». Cfr. Cassazione Penale 2015, 2, 426 NOTA (s.m.) (nota di: SUMMERER) CED Cassazione penale 2015, come indicato nella banca dati giuridica DeJure.it - Giuffrè Francis Lefebvre. In tema la bibliografia è ampia: cfr., ex multis, S. Sau, Le garanzie linguistiche nel processo penale. Diritto dell’interprete e tutela delle minoranze riconosciute, Padova 2010; M. Coppolella, La tutela linguistica dello straniero nel processo penale italiano, in Revista de Llengua i Dret, Journal of Language and Law 65, 2016; M. Gialuz, L’assistenza linguistica nel processo penale. Un meta-diritto fondamentale tra paradigma europeo e prassi italiana, Milano 2018.

[53] Infatti, come disposto al comma 1 dell’art. 21 Cost., «Tutti hanno diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». È chiaro che tale principio deve considerare la possibilità che la manifestazione del pensiero possa avvenire tramite diverse lingue, anche diversa dall’italiano che è la lingua ufficiale della Repubblica italiana.

[54] Cfr. G. Fontana, Art. 33, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Torino 2006, 679, in cui l’Autore fa presente che «è di tutta evidenza come il tema della promozione e diffusione della cultura siano intimamente connesse con la disciplina normativa del settore dell’informazione generalmente inteso, così come con il mantenimento delle condizioni del pluralismo informativo e delle opinioni. Risulta, del resto, fin troppo evidente il nesso che lega il sistema di istruzione scolastico, la diffusione della cultura e la qualità della democrazia se taluno ha suggestivamente definito la democrazia come il regime dell’apprendimento. Una società senza una scuola libera e di qualità, senza un’adeguata diffusione della cultura, rischia di compromettere le ragioni stesse del vivere democratico il quale si fonda sulla capacità e responsabilità dei singoli e dei gruppi di comprendere e valutare criticamente i problemi del proprio tempo. Non deve stupire, allora, che la scuola sia stata considerata organo centrale della democrazia e completamento necessario del suffragio universale».

[55] Cfr. F. Rimoli, La dimensione costituzionale del patrimonio culturale: spunti per una rilettura, in Rivista giuridica dell’edilizia 5, 2016, 505 ss., ove si propone un approccio in tema di cultura e diritti culturali che potrebbe essere utile ai pubblici poteri anche per fronteggiare le esigenze delle lingue minoritarie che rischiano di scomparire: «la misura territoriale della gestione della politica culturale dovrebbe essere affiancata da strumenti di rappresentanza del maggior numero possibile di istanze culturali, posti anche a livello centrale, creati a fini di sostegno e promozione delle culture più deboli (non necessariamente localizzate), in un’applicazione del principio di uguaglianza sostanziale che deve tener conto di una realtà in cui le espressioni più forti, ossia quelle che siano in grado di ottenere maggior riscontro di popolarità muovano dunque, direttamente o indirettamente, più denaro, finiscono inevitabilmente con il soffocare quelle più deboli, che sono tali non solo allorché siano frutto di subculture locali, ma anche quando siano fondate su codici espressivi troppo elaborati e complessi per ottenere un riscontro immediato».

[56] La dottrina configura gli idiomi minoritari come beni culturali: più precisamente, «non sembra esservi dubbio sul fatto che gli idiomi minoritari costituiscono beni culturali da salvaguardare e promuovere, oltre che elementi distintivi e caratterizzanti un dato gruppo sociale generalmente animato da richieste di impiego dei medesimi nei diversi settori della vita pubblica». Così V. Piergigli, Art. 6, in Commentario alla Costituzione, a cura R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, cit., 159. Cfr. inoltre M. Cecchetti, Art. 9, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, cit., 222-223, ove emerge che le lingue sono ricomprese sia nella concezione ampia sia nella concezione ristretta di cultura elaborate dalla dottrina. In questo senso, il linguaggio assume fondamentale rilevanza per la diffusione della cultura e delle tradizioni.

[57] In merito alle modalità attuative dell’art. 6 Cost., come osservato da una parte della dottrina, «I modi di realizzazione della tutela delle minoranze linguistiche prevista dall’art. 6 della Costituzione sono rilasciati alla discrezionalità del legislatore. In astratto la tutela delle minoranze linguistiche potrebbe essere operata con un criterio personale o territoriale, secondo un modello di separatismo linguistico o di bilinguismo e, ancora, con norme di valore generale o specificamente riferite a singoli gruppi linguistici minoritari». Così E. Palici di Suni Prat, voce Minoranze, cit., 549. Sui primissimi strumenti giuridici di tutela delle minoranze linguistiche cfr. A. Pizzoruzzo, Art. 6, in Commentario della Costituzione, Principi fondamentali. Art. 1-12, a cura di G. Branca, Bologna-Roma 1975, 310 ss.

[58] Per un breve commento su questa legge, oltre alla bibliografia precedentemente richiamata, cfr. S. Bartole, Le norme per la tutela delle minoranze linguistiche storiche, in Le Regioni 1999, 1063 ss. Cfr., amplius, D. Bonamore, Lingue minoritarie, lingue nazionali e lingue ufficiali nella legge 482/1999, Milano 2004.

[59] Alla l. n. 482/1999 ha fatto seguito il D.P.R. 2 maggio 2001, n. 345, rubricato “Regolamento di attuazione della legge 15 dicembre 1999, n. 482, recante norme di tutela delle minoranze linguistiche storiche”.

[60] Anche la Corte costituzionale si è espressa più volte in tal senso. Cfr. per tutte Corte Cost. 20 gennaio 1982, n. 28. In merito alla proposta di costituzionalizzare la lingua italiana cfr. M. Franchini, “Costituzionalizzare” l’italiano: lingua ufficiale o lingua culturale?, in Rivista AIC – Associazione italiana dei Costituzionalisti 3, 2012.

[61] Le minoranze linguistiche riconosciute possono beneficiare delle misure di tutela previste dalla medesima legge limitatamente al territorio provinciale e/o comunale interessato. Cfr. l’art. 3 della l. n. 482/1999.

[62] Sul tema del bilinguismo e della toponomastica cfr. S. Penasa, Bilinguismo e toponomastica: un punto fermo verso il bilanciamento tra primato della lingua italiana e tutela delle minoranze linguistiche? Commento alla sentenza n. 210 del 2018 della Corte costituzionale, in Le Regioni 1, 2019, 249-259.

[63] Ci si riferisce alla minoranza francofona della Valle d’Aosta (artt. 38, 39, 40 e 40-bis dello Statuto); alle minoranze tedesca e ladina del Trentino Alto Adige (artt. 2, 4, 8, 10, 15, 19, 27, 30, 31, 33, 36, 48, 48-ter, 49-bis, 50, 54, 56, 58, 61, 62, 81, 84, 89, 91, 92, 93, 94, 97, 98, 99, 100, 101, 102, 107, 111, 114 dello Statuto); alla minoranza slovena del Friuli Venezia Giulia (art. 3 dello Statuto). In merito alla normativa delle province autonome, si pensi ad es., alla Provincia Autonoma di Trento che ha approvato la legge provinciale del 19 giugno 2008, n. 6, recante norme per la “Tutela e promozione delle minoranze linguistiche locali”, che ha la finalità di promuovere «la salvaguardia, la valorizzazione e lo sviluppo delle identità, in termini di caratteristiche etniche, culturali e linguistiche, delle popolazioni ladina, mòchena e cimbra le quali costituiscono patrimonio irrinunciabile dell'intera comunità provinciale» (art. 1). Tale legge rappresenta un importante modello in cui vengono salvaguardati vari aspetti, tra cui spiccano la rappresentanza delle minoranze, la toponomastica, l’utilizzo e la promozione delle lingue minoritarie. Sul punto cfr. ancora Cfr. ancora V. Piergigli, Costituzione italiana: articolo 6, cit., 85-86.

[64] Senza alcuna pretesa di esaustività, ci si riferisce agli Statuti delle regioni Veneto (artt. 8 e 15), Piemonte (art. 7), Lombardia (art. 3), Liguria (art. 2), Emilia Romagna (art. 2), Toscana (art. 4), Marche (artt. 1 e 5), Umbria (art. 5), Campania (art. 8), Lazio (artt. 5 e 7), Abruzzo (artt. 2, 3 e 8), Molise (art. 8), Puglia (art. 4), Basilicata (art. 2) e Calabria (artt. 2 e 48).

[65] Nel novellato art. 117 Cost. la materia tutela delle lingue minoritarie non appare esplicitamente richiamata, anche se sono elencate delle materie che interessano in maniera trasversale il tema di cui ci stiamo occupando. In merito alle materie di potestà legislativa esclusiva statale, di cui al comma 2, si pensi ad es. alle norme generali sull’istruzione o alla tutela dei beni culturali. Per quanto concerne le materie di competenza concorrente, elencate nel comma 3, si pensi ad es. ai rapporti internazionali e con l’Unione europea delle regioni (in una prospettiva di integrazione) e alla valorizzazione dei beni culturali e alla promozione e organizzazione di attività culturali. Anche l’originaria formulazione dell’art. 117 Cost. non conteneva riferimenti alla tutela delle lingue minoritarie.

[66] Si trae spunto dalla ricostruzione storica di V. Piergigli, Costituzione italiana: articolo 6, cit., 77 ss.

[67] Cfr. ancora V. Piergigli, Costituzione italiana: articolo 6, cit., 77 ss.

[68] Cfr. Corte Cost. 18 maggio 2009, n. 159.

[69] Secondo la Corte costituzionale, «il legislatore statale appare titolare di un proprio potere di individuazione delle lingue minoritarie protette, delle modalità di determinazione degli elementi identificativi di una minoranza linguistica da tutelare, nonché degli istituti che caratterizzano questa tutela, frutto di un indefettibile bilanciamento con gli altri legittimi interessi coinvolti ed almeno potenzialmente confliggenti (si pensi a coloro che non parlano o non comprendono la lingua protetta o a coloro che devono subire gli oneri organizzativi conseguenti alle speciali tutele). E ciò al di là della ineludibile tutela della lingua italiana» (Corte Cost. 18 maggio 2009, n. 159).

[70] Tale orientamento della Corte costituzionale è stato ribadito anche in riferimento alla l. r. Piemonte 7 aprile 2009, n. 11, rubricata “Tutela, valorizzazione e promozione del patrimonio linguistico del Piemonte”. Anche in questo caso erano infatti previsti interventi di tutela e valorizzazione della «lingua piemontese». La qualificazione arbitraria di “lingua” ad opera della Regione, ha indotto il governo ad impugnare la l. r. n. 11/2009 innanzi alla Corte costituzionale. Sicché, tramite la sentenza n. 170/2010, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che riconoscevano la “lingua piemontese”, con la precisazione che le regioni non hanno «il potere autonomo e indiscriminato di identificare e tutelare - ad ogni effetto - una propria “lingua” regionale o altre proprie “lingue” minoritarie, anche al di là di quanto riconosciuto e stabilito dal legislatore statale». Cfr. Corte Cost. 10 maggio 2010, n. 170.

[71] Cfr. V. Piergigli, Costituzione italiana: articolo 6, cit., 93-95.

[72] La Regione Sardegna dedica una particolare attenzione alla tutela della propria cultura e delle proprie tradizioni. Anche prima dell’entrata in vigore della legge nazionale n. 482/1999, era presente una disciplina specifica a tutela del proprio patrimonio culturale, rappresentata dalla l. r. 15 ottobre 1997, n. 26, rubricata “Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna”. Tale disciplina è stata quasi totalmente abrogata dalla recente l. r. n. 22/2018: il comma 1 dell’art. 30 abroga tutte le disposizioni della l. n. 26/1997 ad eccezione dell’art. 9 (Catalogo generale del patrimonio culturale della Sardegna), dell’art. 13 (Interventi finanziari), dell’art. 22 (Centri di servizi culturali) e dell’art. 25 (Interventi a favore della cultura sarda fuori dalla Sardegna e all’estero).

[73] La partecipazione pubblica è favorita anche dall’utilizzo di strumenti consultivi (art. 6) e dalla creazione di una Consulta per definire la grafia della lingua sarda (art. 8).

[74] Tra le iniziative perseguite dalla Regione si pensi, ad es., all’utilizzo delle lingue regionali minoritarie nell’editoria e nei mezzi di comunicazione. Le varie iniziative possono essere attuate dalla Regione e/o dalla Province autonome di Trento e di Bolzano. È prevista inoltre la compartecipazione alle iniziative proposte da associazioni, enti e cooperative. È prevista, inoltre, la collaborazione con enti regionali, nazionali e internazionali che svolgono attività ispirate alla salvaguardia del patrimonio linguistico.

[75] Tra le varie le iniziative oggetto di finanziamento si pensi ad es. all’istituzione di corsi di cultura locale, alla valorizzazione della lingua e della toponomastica; all’organizzazione di eventi e manifestazioni culturali; all’utilizzo del bilinguismo nella prassi degli enti locali; ecc.

[76] Cfr. N. Volontè, Dossier - La globalizzazione “uccide” venticinque idiomi all’anno, cit., in cui vengono richiamati due importanti studi dell’Università di Cambridge e dell’Università di Chicago, secondo i quali la scomparsa delle lingue più deboli dipende da fattori economici e culturali. Più precisamente: «un recente studio dell’Università di Cambridge ha infatti rivelato che esiste effettivamente una relazione tra lo sviluppo economico di un’area e la scomparsa delle lingue cosiddette minoritarie all’interno di quello specifico territorio. […]. Ciò è dovuto principalmente a fattori pragmatici: le lingue legate alla finanza ed al commercio (inglese, arabo, cinese mandarino), tendono a diffondersi in modo capillare nei paesi con delle economie in via di sviluppo le cui popolazioni sono invogliate e -nel contempo- costrette ad impararle e parlarle per non essere escluse dal mondo lavorativo. […]. Un altro studio, condotto questa volta dai linguisti dell’Università di Chicago, ha rivelato che le regioni economicamente più potenti, quelle che contribuiscono a “trainare” il commercio e la produzione mondiali, tendono ad imporre la propria egemonia anche sulla cultura dei paesi più deboli che si omologano, lentamente, ad un modello imposto loro dall’alto, perdendo la propria identità culturale e linguistica».

[77] Il problema del crescente utilizzo della lingua inglese non riguarda solo l’Italia. Cfr. in tema G. Iannàccaro, Per una tipologia delle politiche linguistiche europee tra lingue di minoranza e lingue nazionali, in Lingue minoritarie tra localismi e globalizzazione, a cura di A. Marra, S. Dal Negro, cit., 44, ove si afferma che: «La penetrazione dell’inglese nell’università è molto avanzata, e anche in Paesi e contesti non anglosassoni fioriscono riviste scientifiche scritte solo in inglese».

[78] Ci si riferisce alla delibera del Senato accademico del Politecnico di Milano del 21 maggio 2012.

[79] Cfr. il punto 3.1 delle considerazioni in diritto, in cui la Corte, tra le varie argomentazioni, afferma che: «La lingua italiana è dunque, nella sua ufficialità, e quindi primazia, vettore della cultura e della tradizione immanenti nella comunità nazionale, tutelate anche dall’art. 9 Cost.». In argomento cfr. G. Mancini Palamoni, La lingua italiana come bene culturale in sé, in Diritto amministrativo 1, 2020, 193 ss., in cui si precisa che «[…] linguaggio e lingua, più di ogni altro, devono essere ritenuti beni culturali dinamici perché in costante evoluzione e perché riflettono certi aspetti del costume e della società di una determinata comunità di parlanti in un preciso momento storico; sono cultura in senso antropologico e, quindi, reale. Non si legano strettamente solo alla nazionalità o ad un popolo esclusivo; o meglio, la lingua può anche collegarsi in un momento iniziale, ma diventa, col tempo, patrimonio di tutti coloro che la parlano, la utilizzano e ne evitano la marginalizzazione. Cosa che accade, in generale, con il patrimonio culturale nella sua interezza che è soprattutto ricchezza dell’umanità».

[80] La dottrina si è occupata in varie occasioni del tema dell’internazionalizzazione degli Atenei e dei relativi corsi di studio. Cfr., ex multis, M. Maraschio, D. De Martino (a cura di), Fuori l’italiano dall’università? Inglese, internazionalizzazione, politica linguistica, Roma-Bari 2012; P. Caretti, A. Cardone, Ufficialità della lingua italiana e insegnamento universitario: le ragioni del diritto costituzionale contro gli eccessi dell’esterofilia linguistica, in Giurisprudenza costituzionale 2, 2013, 1223 ss.; C. Napoli, L’internazionalizzazione delle Università italiane tra previsioni legislative e discrezionalità amministrativa: il caso del Politecnico di Milano, in Federalismi.it 17, 2015, 16 settembre 2015; D. Andracchio, Il “primato” della lingua italiana tra globalizzazione, plurilinguismo e obiettivi di internazionalizzazione universitaria (Nota a sentenza: C. Cost., 24 febbraio 2017, n. 42), in Giustamm.it 8, 2017, 1 ss.; M.A. Cabiddu, La sentenza costituzionale n. 42 del 2017: difesa della lingua italiana dalla globalizzazione, in Studium iuris 11, 2017, 1324 ss.; F. Rimoli, Internazionalizzazione degli atenei e corsi in lingua straniera: la Corte accoglie l’inglese difendendo l’italiano, in Giurisprudenza costituzionale 1, 2017, 392 ss.; A. Cardone, P. Caretti, Il valore costituzionale del principio di ufficialità della lingua italiana, in Giurisprudenza costituzionale 1, 2017, 384 ss.; M. Gnes, Una d’arme, di lingua…: l’ufficialità della lingua italiana nelle università, in Giornale di diritto amministrativo 3, 2017, 324 ss.; D.-U. Galetta, Internazionalizzazione degli Atenei e corsi di studio in lingua straniera: fra conseguenze “a sistema” del contenzioso sui corsi “solo in inglese” al Politecnico di Milano e possibili scenari futuri, in Federalismi.it 4, 2018, 14 febbraio 2018.

[81] Più precisamente, «Il principio del primato della lingua italiana (come ha più volte avuto modo di precisare la Corte Costituzionale nella sua giurisprudenza) ha portata generale ed esso impone che debba essere sempre garantito che la lingua italiana non subisca trattamenti deteriori, anche quando essa sia posta in rapporto con lingue minoritarie tutelate e, a maggior ragione, nel rapporto con lingue straniere rispetto alle quali non sussistano specifiche norme di tutela. Sicché, se la lingua italiana mai può assumere un ruolo subordinato o secondario rispetto ad altre lingue tutelate come lingue minoritarie ai sensi della nostra Costituzione, a maggior ragione questa subordinazione non sarà possibile rispetto a lingue straniere quali l'inglese, che non è neppure oggetto di specifiche norme di tutela, non possedendo essa lo status giuridico di lingua minoritaria ai sensi della Costituzione». Così R. Cifarelli, La tradizione della lingua italiana e l'esigenza di internazionalizzazione: una convivenza ancora possibile?, in Giurisprudenza di merito 10, 2013, 2191-2209 - Nota sentenza TAR Lombardia Milano, Sez. III, 23 maggio 2013, n. 1348.

[82] Un approccio olistico della tutela della lingua è proposto da M. Ainis, M. Fiorillo, L’ordinamento della cultura. Manuale di legislazione dei beni culturali, III ed., Milano 2015, 147 ss.

[83] Come osservato da una parte della dottrina, «L’insegnamento scolastico in una lingua minoritaria può ad esempio organizzarsi in scuole presenti in un territorio delimitato, mentre è impensabile che in tutte le scuole del territorio nazionale siano possibili insegnamenti in ciascuna delle lingue minoritarie presenti nel Paese». Così E. Palici di Suni Prat, voce Minoranze, cit., 549.

[84] La disciplina di riferimento è l’art. 37, comma 1 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, recante “Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”.

[85] La giurisprudenza amministrativa si è espressa in varie occasioni sull’illegittimità dei bandi di concorso privi del requisito della prova della lingua straniera. Cfr. da ultimo TAR Palermo, Sez. II, 15 febbraio 2022, n. 531.

[86] Si pensi anche alle informazioni che debbono essere pubblicate nei siti istituzionali delle pubbliche amministrazioni. In tema cfr. N. Pettinari, Le “nuove” lingue minori nei siti web istituzionali in Italia. Quale ruolo per le norme? Una concettualizzazione tra norme esistenti e (possibili) sviluppi futuri, in Diritto dell’informazione e dell’informatica (Il) 3, 2018, 559 ss., ove si osserva che «Da un lato si evidenzia, a livello normativo, una mancanza di obblighi giuridicamente vincolanti circa la realizzazione di traduzioni di pagine web istituzionali nelle lingue parlate dai migranti, pur non mancando, in senso più ampio, presupposti per la tutela dei diritti dei medesimi. Dall’altro appare però rilevabile come la mancanza di protezione giuridica verso questo specifico strumento sembra essere stata superata – occasionalmente ma pur sempre in modo significativo – attraverso una certa varietà di esperienze realizzate dalle amministrazioni centrali (Ministero della Salute, etc.) e locali; esperienze che, se sottoposte a un adeguato percorso di correzione critica, e se replicate, possono dare luogo a best practices».

[87] Il processo di internazionalizzazione coinvolge ormai «pure la redazione dei testi di legge italiani, sempre più ricchi di espressioni linguistiche straniere: jobs act, spending review, child adoption, art-bonus, etc. Il linguaggio giuridico naturalmente si adatta all’evoluzione (o all’involuzione) del lessico tipico del linguaggio politico comportandone un conseguente mutamento». Così G. Mancini Palamoni, La lingua italiana come bene culturale in sé, cit.; sull’importanza della comunicazione della pubblica amministrazione cfr. anche M.A. Cortelazzo, Il Comune parla chiaro. Come semplificare le comunicazioni al cittadino, Santarcangelo di Romagna 2005; F. Guella (a cura di), Minoranze linguistiche e pubblica amministrazione. Il problema dei piccoli numeri: modello trentino e esperienze comparate, Padova 2014.

[88] Si pensi, ad es., alle disposizioni del D.P.R. 31 agosto 1972, n. 670, recante “Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige”, e del D.P.R. 26 luglio 1976, n. 752, recante “Norme di attuazione dello statuto speciale della regione Trentino - Alto Adige in materia di proporzionale negli uffici statali siti nella provincia di Bolzano e di conoscenza delle due lingue nel pubblico impiego”. In merito a tali disposizioni si è espressa recentemente la giurisprudenza amministrativa, tramite la seguente pronuncia: Cons. Stato, Sez. VI, 17 ottobre 2022, n. 8802. In tale sentenza si afferma che il bilinguismo è un requisito necessario anche per i concorsi pubblici della Polizia di Stato. Per ulteriori approfondimenti cfr. la rassegna giurisprudenziale della rivista giuridica “Il diritto amministrativo”, consultabile al seguente link: https://www.ildirittoamministrativo.it .

[89] Cfr. V. Piergigli, Costituzione italiana: articolo 6, cit., 72 ss., ove si aggiunge che le popolazioni di etnia rom e sinta «comparivano nei lavori preparatori, ma vennero estromesse nella stesura definitiva del provvedimento legislativo. Per tutte quelle situazioni, la ragione fondamentale della esclusione risiederebbe nella assenza della autoctonia, trattandosi di gruppi caratterizzati dalla presenza diffusa sul territorio nazionale, cui si aggiunge, per le cosiddette “nuove minoranze” composte da immigrati, il carattere recente della formazione che non giustificherebbe l’esistenza di un vincolo di appartenenza storica con ambiti spaziali determinati. La legge del 1999, infatti, fa dipendere la tutela positiva delle minoranze linguistiche riconosciute dal loro radicamento geografico e collega il godimento di precisi diritti linguistici e culturali alla previa delimitazione delle aree di insediamento tradizionale».

[90] Si consiglia vivamente la lettura del contributo V. Piergigli, Rileggendo l’opera di Alessandro Pizzorusso sulle minoranze linguistiche. Le “nuove minoranze” tra identità e integrazione, cit., in cui viene affrontato l’argomento delle “nuove minoranze”.

[91] Il riconoscimento e la tutela delle lingue consentirebbe anche una più efficace integrazione sociale, culturale e politica. In argomento cfr. per tutti P. Caretti, G. Mobilio (a cura di), La lingua come fattore di integrazione sociale e politica. Atti del Convegno. Firenze, 18 marzo 2016, Torino 2017.

[92] Ci sono stati recenti tentativi di estendere l’ambito di applicazione della l. n. 482/1999 ad altre minoranze linguistiche. Si pensi ad es. al disegno di legge S. 1940, presentato in Senato lo scorso settembre 2020, che propone la “Modifica all’articolo 2 della legge 15 dicembre 1999, n. 482, in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”, per il riconoscimento delle comunità galloitaliche della Sicilia.

[93] Numerosi sono infatti gli strumenti di tutela delle lingue minoritarie della l. n. 482/1999: oltre agli istituti già richiamati nel paragrafo 3.1 del presente elaborato, si pensi all’utilizzo del bilinguismo. L’art. 8 prevede infatti la possibilità di utilizzare negli atti ufficiali dello Stato, delle regioni e degli enti locali interessati, sia la lingua italiana che la lingua della minoranza riconosciuta, fermo restando che viene attribuito valore legale (dei medesimi atti) solo al testo redatto in lingua italiana. Il bilinguismo è garantito anche da altri riferimenti normativi: da un punto di vista processuale, si pensi alle disposizioni dell’art. 111 Cost., degli art. 122 e 123 c.p.c., nonché dell’art. 109 c.p.p. In ambito penalistico, in particolare, il diritto alla difesa dell’imputato alloglotta viene garantito con la piena conoscibilità dei contenuti degli atti giurisdizionali, che debbono essere redatti in formato bilingue. Cfr. ex multis G. Sorrenti, La lingua “nel” e “del” processo: giurisdizione penale e giurisdizione civile a confronto, in Rivista AIC – Associazione italiana dei Costituzionalisti 2, 2019; G. Tropea, Homo sacer? Considerazioni perplesse sulla tutela processuale del migrante, in Diritto amministrativo 4, 2008, 839-911.

[94] Cfr. sul punto V. Piergigli, Costituzione italiana: articolo 6, cit., 123-130. L’Autrice si domanda se «l’art. 6 sia suscettibile di una interpretazione evolutiva, potenzialmente in grado di includere le soggettività alloglotte non coincidenti, necessariamente ed esclusivamente, con le minoranze linguistiche autoctone». L’Autrice, in maniera condivisibile, propende per l’attualità della disposizione dell’art. 6 Cost., affermando che «In sostanza, il concetto di minoranza linguistica non si limita a quelle immaginate dal costituente o individuate dal legislatore nel 1999, in quanto il pluralismo linguistico accolto dall’ordinamento italiano dovrebbe ammettere il riconoscimento e la tutela di tutte quelle comunità volontarie, ristrette e differenziate dal resto della popolazione nazionale e formate da persone che condividono la medesima lingua e un proprio patrimonio di valori storici e culturali. In ipotesi, nell’ampia nozione di minoranza offerta dalla Corte (sent. 170/2010, punto 4 cons. dir.) potrebbero farsi rientrare anche le collettività formate da non-cittadini, come gli immigrati, stanziati e regolari, e i loro discendenti che, in base alla legislazione vigente, non possono ottenere la cittadinanza italiana prima del raggiungimento della maggiore età». Ad ogni modo, «l’assenza della cittadinanza non dovrebbe essere di ostacolo per il riconoscimento di forme di garanzia linguistica». Oltre nelle parole della sentenza della Corte costituzionale n. 170/2010, la tesi trova riconoscimento nei contributi scientifici richiamati dall’Autrice: G. De Vergottini, Verso una nuova definizione del concetto di minoranza, cit., 21; A. Anzon Demmig, La Corte apre a «nuove» minoranze, in Giurisprudenza costituzionale 2, 2011, 1309-1310; P. Bonetti, Prime note sulla tutela costituzionale contro il razzismo e la xenofobia, in Rivista trimestrale di diritto pubblico 1, 1994, 21-22; M. Cosulich, Lingue straniere e lingue minoritarie nell’ordinamento repubblicano, in Quaderni regionali 3, 2012, 143-144; C. Galbersanini, La tutela delle nuove minoranze linguistiche: un’interpretazione evolutiva dell’art. 6 Cost.?, in Rivista AIC – Associazione italiana dei Costituzionalisti 3, 2014, 7-8; G. Poggeschi, Diritti linguistici (La lingua come strumento del diritto e la lingua quale oggetto della regolamentazione giuridica), cit., 115; L. Panzeri, La tutela dei diritti linguistici nella Repubblica delle autonomie, Milano 309.

[95] Lo scorso ottobre 2020, il Senato, tramite le Commissioni Esteri e Affari generali, ha analizzato in maniera congiunta i contenuti dei disegni di legge nn. 10, 711, 842, 979, aventi ad oggetto la “Ratifica ed esecuzione della Carta europea delle lingue regionali o minoritarie, fatta a Strasburgo il 5 novembre 1992”. L’esame congiunto è stato rinviato auspicando la predisposizione di un disegno di legge a contenuto condiviso.

[96] Come è stato osservato, «Non c’è dubbio che la Convenzione sul patrimonio culturale intangibile ha avuto il merito di colmare una lacuna importante nel sistema di norme internazionali per la protezione dei beni culturali. Tuttavia, bisogna riconoscere che essa rappresenta una soluzione minimale al problema planetario della rapida sparizione di innumerevoli manifestazioni del patrimonio orale e intangibile di popoli e comunità locali, i cui costumi e la cui cultura tradizionale sono inesorabilmente travolti dalla forza della globalizzazione». Così F. FRANCIONI, voce Beni culturali (protezione internazionale dei), in Enc. dir., Annali IX, Milano, 76.

[97] In tema di politiche linguistiche cfr., ex multis, L. Pizzoli, La politica linguistica in Italia. Dall’unificazione nazionale al dibattito sull’internazionalizzazione, Roma 2018; G. Iannàccaro, Per una tipologia delle politiche linguistiche europee tra lingue di minoranza e lingue nazionali, cit.

[98] D.lgs. n. 42/2004 e s.m.i.

[99] Per i contenuti, i limiti e le criticità dell’art. 7-bis del Codice dei beni culturali cfr. D. D’Orsogna, cit., in Nuove alleanze, a cura di D. D’Orsogna, P.L. Sacco, M. Scuderi, cit., 6-7, in cui l’Autore si esprime in merito alla «querelle dottrinaria che in Italia si è registrata intorno alle forme di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale “intangibile”, e che si è concentrata quasi esclusivamente sulla possibilità di estensione al patrimonio immateriale della disciplina prevista dal Codice per la tutela dei beni culturali “materiali”». Cfr. anche A. Areddu, La tutela dei beni culturali immateriali: spunti dalla legislazione spagnola, in Il diritto dell’economia 29, 91, 3-2016, 769-802.

[100] Cfr. ancora V. Piergigli, Art. 6, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, cit., 159; G. Mancini Palamoni, La lingua italiana come bene culturale in sé, cit.; R. Chiarelli, Profili costituzionali del patrimonio culturale, cit., 424 ss.

[101] Corte cost., 21 febbraio 2017, n. 42. In argomento cfr. G. Mancini Palamoni, La lingua italiana come bene culturale in sé, cit.

[102] Ci si riferisce alla celebre elaborazione di M.S. Giannini, I beni culturali, in Rivista trimestrale di diritto pubblico 1976, I, in cui si afferma che i beni culturali sono tali in quanto rappresentano un «valore culturale», a prescindere dal fatto che siano rappresentati, o non rappresentati, da un supporto materiale.

[103] Cfr. ancora M.S. Giannini, I beni culturali, cit., 33 ss. L’elaborazione teorica del Giannini assume rilevanza anche per le riflessioni dedicate all’allora vigente legge n. 1089/1939, sulla “Tutela delle cose di interesse artistico e storico”, che consentiva la tutela delle “cose” aventi supporto materiale, ed escludeva, di fatto, la salvaguardia degli “altri beni culturali” privi di supporto materiale, ossia i beni culturali-attività. Per tali beni, già da allora, si auspicava una normazione differente. In tal senso cfr. inoltre S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in L’Amministrazione dello Stato, Milano 1976, 178-179. In tale contributo l’Autore, dopo aver sottolineato che «è difficile – per il giurista, non per l’antropologo – comprendere come del patrimonio culturale facciano parte non solo gli artefatti e il corredo materiale dell’uomo, ma anche i costumi, il sistema di valori, le credenze, le regole di comportamento, il linguaggio, le abitudini corporee o intellettuali, […]», ma che, allo stesso tempo, «nei vari settori della cultura, si va diffondendo il convincimento che il confine del concetto di patrimonio culturale deve andare oltre», richiama l’esempio della tutela del «patrimonio linguistico delle minoranze». Tale patrimonio linguistico necessita di un’ulteriore tutela rispetto a quella “classica” prevista per gli altri beni culturali: in tal caso, infatti, «l’azione di tutela dello Stato appare molto complessa: non si può limitare a identificazione, rilevazione, catalogazione e conservazione dei reperti; deve arrivare alla scuola con la formazione degli insegnanti e l’approntamento di materiali didattici che consentano la tutela dei diritti linguistici delle minoranze, e alla creazione di lettura pubblica e di centri di cultura polivalenti».

[104] F. Coulmas, Lingue minoritarie nell’era digitale. Una riflessione sull’ideologia del linguaggio, in Lingue minoritarie tra localismi e globalizzazione, a cura di A. Marra, S. Dal Negro, cit., 20, ove si riconosce l’importanza della scrittura delle “piccole lingue” tramite moduli digitalizzati: «La digitalizzazione ha infatti dato nuova forza all’argomento che la scrittura potrebbe aiutare la conservazione delle lingue a rischio di essere abbandonate. Avendo creato domini di comunicazione completamente nuovi, come reti sociali e servizi di microblogging, ed essendo anche cambiata la funzione sociale della scrittura, la digitalizzazione ha dato origine, intorno al volgere del secolo, a una nuova branca della sociolinguistica, chiamata sociolinguistica della comunicazione mediata dal computer (CMC) (Androutsopoulos, 2006). La ricerca sulla CMC ha già prodotto diversi studi sull’effetto della digitalizzazione sulle lingue (cfr. tra gli altri, McLaughlin, 1992; Gruffydd Jones & Uribe-Jongbloed, 2013; Cunliffe, 2018; Lackaff & Moner, 2016; Lexander, 2018), e grazie ad essi cominciamo ad osservare che questo nuovo mezzo porta con sé varie conseguenze per il comportamento linguistico e per le lingue utilizzate».

[105] Le tecnologie ICT sono sempre più sperimentate e applicate nell’ambito del patrimonio culturale: cfr. in argomento P. Paolini, N. Di Blas, F. Alonzo, ICT per i beni culturali. Esempi di applicazione, in Mondo digitale 3, 2005, 44-61. Come osservato dagli Autori, gli usi principali delle tecnologie ICT riguardano (o potrebbero riguardare) i seguenti ambiti dei beni culturali: gestione; studio e ricerca (catalogazione, cartografia, analisi e ricostruzioni virtuali); diagnosi; restauro; tutela; comunicazione-divulgazione; formazione; e infine, fruizione.

[106] Il progetto PETALL (PanEuropean Task-based Activities for Language Learning), come emerge dal sito http://petallproject.eu/ , ha gli obiettivi di «Promuovere l’intesa reciproca e la conoscenza della diversità linguistica e culturale attraverso l’ICT-based TBLT (l'insegnamento basato su task attraverso le TIC). Migliorare la formazione dei docenti riguardo l’ICT-based TBLT. Aiutare i docenti a migliorare le loro competenze in materia digitale»; la missione è «Promuovere il lavoro collaborativo tra insegnanti di diversi paesi e formatori di docenti attraverso la costituzione di reti regionali per lo sviluppo di task basati sulle TIC. Facilitare l’accesso a task mediati da tecnologie che funzionino bene, assicurando la qualità dello scambio comunicativo attraverso le differenze culturali e geografiche». Tra i destinatari del progetto sono indicati «docenti, futuri insegnanti e ricercatori». Lo staff è composto da «Formatori di docenti e ricercatori di dieci università europee, insieme agli insegnanti di lingue di dieci istituti di istruzione secondaria in tutta Europa». Vengono indicate le seguenti fonti: «Un task è un'attività che richiede che gli studenti usino la lingua in modo pragmatico per ottenere un risultato che sia valutabile in relazione all'appropriatezza del contenuto proposizionale trasmesso. In quest’ottica è necessario che gli studenti prestino attenzione innanzitutto al significato e facciano uso delle proprie risorse linguistiche, nonostante la struttura del task possa indurre la scelta di particolari forme grammaticali. Un task è concepito per elicitare un uso linguistico che assomigli, in maniera diretta o indiretta, all’utilizzo della lingua nella vita reale. Al pari di altre attività linguistiche, un task può coinvolgere le abilità produttive o ricettive, orali o scritte, così come diversi processi cognitivi (Ellis, 2003). […] un task pedagogico è un’attività di classe che coinvolge gli apprendenti nella comprensione, manipolazione, produzione e interazione nella lingua target, mentre la loro attenzione è focalizzata sulla rielaborazione delle conoscenze grammaticali allo scopo di esprimere un significato, e nel quale l’intenzione è trasmettere un significato piuttosto che manipolare la forma (David Nunan, 2004). […] il potenziale delle nuove tecnologie (Tecnologie per l’Informazione e la Comunicazione – TIC) per l’apprendimento delle lingue può essere riassunto come segue: - Le TIC consentono un alto grado di differenziazione. L’adattamento a necessità o abilità personali può essere ottenuto facilmente. - Lavorare con le TIC assicura un alto livello di motivazione e coinvolgimento da parte dell’apprendente. - Le TIC offrono contenuti arricchiti e consentono un processo di apprendimento più intenso e multisensoriale. - Le TIC rendono l’insegnamento più efficiente in quanto il docente può concentrarsi sul supporto agli studenti piuttosto che sul contenuto da fornire (W. Schrooten, 2006)».

[107] Il progetto “Safer Internet Centre Italia – Generazioni connesse”, come si legge nel sito www.generazioniconnesse.it/ , «è co-finanziato dalla Commissione Europea nell’ambito del programma Digital Europe, ed è membro di una rete promossa dalla Commissione Europea che si concretizza nella piattaforma online “Better Internet for Kids” gestita da European Schoolnet, in stretta collaborazione con INSAFE (network che raccoglie tutti i SIC europei) e Inhope (network che raccoglie tutte le hotlines europee). Il progetto è coordinato dal MIUR con il partenariato di alcune delle principali realtà italiane che si occupano di sicurezza in Rete: Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, Polizia di Stato, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, gli Atenei di Firenze e ‘La Sapienza’ di Roma, Save the Children Italia, Telefono Azzurro, la cooperativa EDI onlus, Skuola net e l’Ente Autonomo Giffoni Experience. Il Safer Internet Centre (noto anche come SIC) nasce per fornire informazioni, consigli e supporto a bambini, ragazzi, genitori, docenti ed educatori che hanno esperienze, anche problematiche, legate a Internet e per agevolare la segnalazione di materiale illegale online. L’obbiettivo generale è di sviluppare servizi dal contenuto innovativo e di più elevata qualità, al fine di garantire i giovani utenti la sicurezza “nell’ambiente” on line, considerando, al contempo, il connesso investimento come un’occasione ‘virtuosa’ per una crescita ‘sociale’ ed economica dell’intera collettività». Anche il progetto “Safer Internet Centre Italia – Generazioni connesse” propone l’utilizzo delle tecnologie TIC: «Con uso delle TIC nella didattica intendiamo l’utilizzo delle tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione a supporto dei processi di apprendimento, indipendentemente dal fatto che le stesse siano state pensate e progettate per usi dichiaratamente didattici. Ad esempio: il blog non nasce come strumento didattico, ma oggi se ne fa uso nelle attività educative». Tale progetto «ha reso disponibili a tutti gli istituti aderenti al progetto percorsi formativi per docenti, genitori e studenti inerenti le tematiche della sicurezza in rete e dell'uso consapevole di internet».

[108] Cfr. C. Onesti, A. Di Benedetto, D. Di Fabio, P. Marocco, Imparare l’inglese con i task. Il Task-based Language Teaching nella scuola primaria e secondaria di primo grado, Roma 2018, 44-62, ove si parla appunto dell’utilizzo della tecnologia ICT. Gli autori evidenziano che «risultati dei task implementati durante il progetto PETALL e nelle sperimentazioni ad esso successive sono la dimostrazione dell’efficacia della metodologia TBLT unita all’uso dell’ICT. Nell’ultimo ventennio abbiamo assistito alla proliferazione di progetti – sia a livello nazionale sia a livello europeo – con il focus proprio sull’introduzione delle tecnologie a scuola. Di digital literacy parlano le linee guida nazionali per tutti i livelli di scuola e le ultime riforme ministeriali ne hanno fatto terreno di intervento privilegiato e vessillo dell’innovazione. La tecnologia, quindi, è davvero “il rimedio” per curare la didattica? La risposta va data con cautela. In primo luogo, perché la didattica non è malata, in secondo luogo, perché abusare di una medicina potrebbe ottenere l’effetto opposto a quello auspicato. È d’altra parte vero che, come sostenuto dalla teoria e dimostrato dalla pratica, l’uso delle ICT ha innegabili ricadute positive sui processi di apprendimento e sulle abilità trasversali degli studenti. Ciò che va fatto è ripensare la didattica e riplasmare le attività tradizionali, integrando la tecnologia secondo un processo SAMR, in cui essa non rischia di essere – come in molti casi di introduzione forzata – scopo, né si propone come mezzo, ma diventa funzionalmente e organicamente parte del processo educativo, così come lo è già di fatto nella vita quotidiana degli studenti e dei loro docenti». Gli effetti positivi delle tecnologie ICT applicate alla didattica e all’apprendimento degli studenti, anche con riguardo al progetto PETALL, sono ampiamente argomentati anche da J. VUCO, L’insegnamento basato sui task e le nuove tecnologie nello scambio europeo di conoscenze e di buone pratiche, in Italica Belgradensia 2019(Speciale) 2019, 145-154. Per ulteriori approfondimenti si rinvia ai seguenti contributi: A. Boulton, R. Azzam-Hannachi, M. Pereiro, A. Chateau, Learning to Learn Languages with ICT – But How?, in CALL-EJ on line 2008, consultabile al seguente link: https://hal.science/hal-00273307/; F. Bruni, G. Fiorentino (a cura di), Didattica e tecnologie. Studi, percorsi e proposte, Roma 2013; A. Calvani, Educazione, comunicazione e nuovi media. Sfide pedagogiche e cyberspazio, Torino 2008; F. Caon, G. Serragiotto (a cura di), Tecnologie e didattica delle lingue. Teorie risorse sperimentazioni, Torino 2012; U. Capra, Tecnologie per l’apprendimento linguistico, Roma 2005; I. Fratter, Tecnologie per l’insegnamento delle lingue, Roma 2004.

[109] Alcune regioni confidano nelle potenzialità delle nuove tecnologie informatiche: si pensi, a titolo esemplificativo, alla l. r. 18 dicembre 2007, n. 29, del Friuli Venezia Giulia, recante “Norme per la tutela, valorizzazione e promozione della lingua friulana”, prevede l’utilizzo di internet e delle nuove tecnologie: «La Regione incentiva e sostiene la presenza della lingua friulana nell'ambito delle tecnologie informatiche, in particolare su internet, in formato testuale e audiovisivo» (art. 22). In tema di utilizzo delle nuove tecnologie per lo sviluppo del friulano cfr. A. Bier, Le tecnologie possono darci una mano a portare nel friulano nel futuro?, in Lucinis 44, 2019, 49. Più recentemente, anche la Regione Sardegna, tramite delibera n. 25-52 del 30 giugno 2021, rubricata “Sostegno e incentivazione dell’utilizzo delle lingue di minoranza parlate in Sardegna. L. r. 3.7.2018, n. 22, art. 22, commi 2 e 3, Linee di indirizzo per le annualità 2021-2022”, al fine di garantire una maggiore ed efficace diffusione della lingua sarda e delle altre lingue parlate in Sardegna, prevede l’utilizzo delle nuove tecnologie di comunicazione.

[110] Art. 2, paragrafo 3, della Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO: «Per “salvaguardia” s’intendono le misure volte a garantire la vitalità del patrimonio culturale immateriale, ivi compresa l’identificazione, la documentazione, la ricerca, la preservazione, la protezione, la promozione, la valorizzazione, la trasmissione, in particolare attraverso un’educazione formale e informale, come pure il ravvivamento dei vari aspetti di tale patrimonio culturale».

[111] Si segnala, a titolo informativo, la proposta di legge n. 734, rubricata “Disposizioni per la tutela e la promozione della lingua italiana e istituzione del Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana”, presentata alla Camera dei Deputati in data 23 dicembre 2022.

[112] In argomento cfr. anche G. Mancini Palamoni, La lingua italiana come bene culturale in sé, cit., ove si afferma che «appaiono necessarie, allo stato attuale, delle strategie compensative inglobate in una vera e propria politica linguistica caratterizzata da un obbiettivo principale (la promozione dell’uso dell’italiano) che, in un’ottica di funzionalità simbolica, ispiri anche le differenti azioni, e da un obbiettivo essenzialmente comunicativo da raggiungere attraverso l’accettazione e la conoscenza delle lingue straniere. Nel contempo, in ossequio al principio di sussidiarietà orizzontale, la comunità si trova a svolgere un ruolo fondamentale. Rendendosi cittadinanza attiva è tenuta a salvaguardare la vitalità di questo fragile bene culturale e a garantirne la fruizione alle generazioni future: non farlo significherebbe sottrarre alla memoria importanti tradizioni legate alla storia dei popoli».

[113] Come sottolineato da autorevole dottrina, «Riconoscere e governare le diversità sono gli obiettivi che le istituzioni – a livello locale, nazionale e internazionale – e la collettività nel suo complesso, in uno sforzo sinergico incessante, dovrebbero perseguire per tentare di costruire una società effettivamente aperta, inclusiva e interculturale. Un compito certamente arduo e delicato – considerato anche il carattere dinamico e sempre mutevole del contesto sociale – eppure necessario, oggi più che in passato, per non smarrire i valori dell’uguaglianza e della democrazia, ma al tempo stesso per garantire i principi dello Stato di diritto e del pluralismo, compreso quello linguistico e culturale, sui quali si fonda la Costituzione italiana e ai quali dichiara di ispirarsi l’UE». Così V. Piergigli, Costituzione italiana: articolo 6, cit., 130.