Università di Bari – Professore Onorario
Già Preside Facoltà Giurisprudenza
Taranto
Πειρατής.
Roma Antica e la pirateria
SOMMARIO: 1. Navi e navigazione. – 2. Lex Rhodia. – 3. Prevenzione dei naufragi. – 4. Repressione della pirateria. – 5. I pirati. -6. Conseguenze della pirateria.
Intendo qui soffermarmi su alcuni aspetti della normativa concernente la navigazione nel diritto romano, con precipuo riguardo alla pirateria[1].
Va fatta, in proposito, una considerazione preliminare: i Romani furono tra gli ultimi ad intraprendere la navigazione nel Mediterraneo, nel quale erano diffuse regole formatesi molti secoli prima del loro arrivo e, perciò, radicate negli usi dei popoli rivieraschi.
In esse si imbatterono i Romani quando a loro volta si trasformarono in potenza marittima e si dedicarono al relativo commercio.
Per loro le regole della navigazione in uso furono un motivo di incontro e anche di scontro, perché apparivano improntate a criterî e principî completamente diversi da quelli che avevano caratterizzato il diritto civile delle città di Roma.
Questo comportò l’introduzione di nuove forme contrattuali, completamente differenti da quelle formatesi nell’ámbito del diritto della Città (ius civile). Esempio rilevante fu la nuova figura di prestito marittimo (fenus nauticum), il quale era ad altissimo interesse, diversamente dal prestito civile (mutuum), che era gratuito.
La problematica relativa alla navigazione richiese uno sforzo di concettualizzazione e di classificazione, cui attesero soprattutto i giureconsulti, a partire dal come configurare la ‘nave’. La nave non ebbe una considerazione a sé stante ma fu filtrata dalle distinzioni operate in via generale riguardo alle res (alle cose). Essa non fu ritenuta una università di fatto o iuris (universitas facti o iuris), come avvenne ad opera della Pandettistica. Generalmente era classificata tra le cose mobili, ma in una posizione particolare: secondo una sentenza del giurista tardo-repubblicano Aulo Cascellio[2], si ritenne che andasse considerata cosa sí mobile ma connessa (connexa), cioè fatta di cose tra loro unite in modo funzionale[3] e contraddistinte dalla finalità della destinazione alla navigazione. Questa finalità essenziale esigeva una rigorosa organizzazione che era ripartita tra l’exercitor, (l’armatore), il magister, responsabile dell’attività economica connessa alla navigazione, il gubernator, responsabile delle funzioni tecniche legate al comando della nave. Ad essi si affiancavano diversi lavoratori subordinati, come i nautae[4] (i marinai), i mesonautae (i marinai destinati ai lavori di sottocoperta), i remiges (i rematori), i nautaepibatai (passeggeri che si pagavano il trasporto lavorando sulla nave), i custodes navium, addetti alla sorveglianza della nave, i diaetarii, con funzioni di contabili per le operazioni commerciali, i naupegi (i carpentieri), il proreta o ducator, avvistatore di rotta che vigilava segnalando pericoli o l’avvistamento di scogli o ostacoli diversi.
Punto focale della riflessione e della conseguente normativa diventò la preoccupazione di proteggere chi chiedeva il trasporto (cioè i viaggiatori) e di tutelare le aspettative di chi consegnava le proprie merci all’imprenditore marittimo (exercitor navis) affinché venissero trasportate.
Al riguardo, in linea di massima era previsto che l’armatore fosse responsabile solo delle obbligazioni contratte dal magister, nascendo la sua responsabilità dal solo fatto che egli poneva costui a capo della nave[5], mentre di norma non era responsabile delle obbligazioni assunte dagli altri membri dell’equipaggio; a meno che si trattasse di delitto, perché rientrava negli obblighi dell’armatore garantire che nessun membro dell’equipaggio commettesse azioni delittuose[6]; si trattava di una culpa in eligendo unita ad una culpa in vigilando presunta, la quale forse configurava una responsabilità obiettiva, dato che, come ricordano le stesse fonti romane, l’armatore non era presente durante la navigazione[7].
Orbene, di fronte a questo apparato, il singolo che volesse richiedere il trasporto delle proprie merci era in parte indifeso in parte fiducioso che il trasporto sarebbe andato a buon fine. Se però avesse dovuto affrontare i rischi connessi alla navigazione probabilmente non avrebbe più affidato le proprie merci al navigator. Si ritenne, di conseguenza, opportuno dargli assicurazione che egli non avrebbe condiviso i rischi della navigazione. All’uopo fu creato una specie di contratto di garanzia attraverso l’esplicito ed esclusivo accollamento da parte dell’armatore della responsabilità della navigazione.si ritiene che egli promettesse: salvas res fore recipere.
Questa garanzia con il tempo diventò un elemento naturale del negozio e nasceva dal solo fatto di accettare le cose a bordo della nave: si parlò perciò di receptum, cioè di negozio nascente dal ricevimento (della merce)[8]. In tal modo il deponente era indenne da ogni rischio[9] e fino agli inizi del Principato persino da quelli derivanti da forza maggiore, come il naufragio e l’assalto dei pirati. Però proprio tra la fine della Repubblica e gli inizi del Principato il giurista Antistio Labeone espresse l’opinione, poi seguita quasi unanimemente, che l’armatore non fosse responsabile se avesse potuto provare che il perimento delle merci era stato causato da forza maggiore[10].
Risulta evidente come il rischio collegato alla navigazione fosse l’elemento centrale ed il perno della normativa concernente la navigazione.
Il rischio era consustanziale alla navigazione sia per le vicende del mare sia per i pericoli creati dagli uomini (come si è visto, anche per opera degli armatori e in generale della gente di mare)[11]. Su di esso da tempo remoto si era formato un corpo di regole, di natura consuetudinaria, applicate in tutto il Mediterraneo e note come lex Rhodia de iactu[12]: quando durante la navigazione fosse stato necessario alleggerire la nave gettando in mare parte o tutte le merci (iactus mercium) il danno che ne conseguiva andava ripartito tra tutti i proprietari delle merci imbarcate. Chi aveva subíto la perdita delle proprie merci poteva rivolgersi al magister attraverso l’azione di locazione, mentre questi poteva rivolgersi ai proprietari delle merci salvate con l’azione di conduzione.
Un altro punto della legge doveva concernere i dazi portuali prevedendo l’esenzione per la nave e le merci naufragate o gettate in mare.
Infine punto assai controverso era l’appartenenza del relitto e delle merci gettate in mare, per le quali la dottrina contemporanea discute se fossero di chi se ne impossessasse dopo il naufragio o restassero di proprietà del precedente proprietario oppure potessero venire confiscati[13].
Scopo principale della lex Rhodia era quello di favorire la navigazione, salvaguardando dai grandissimi rischi ad essa connessi sia gli imprenditori marittimi sia coloro che consegnavano merci per il trasporto. Si ritenne che essa recepiva un valore di carattere universale e, perciò, fu accolta ed osservata anche nell’esperienza del diritto romano.
Il punto risulta chiaro da un discusso testo in greco del giurista Volusio Meciano, nel quale, di fronte alla richiesta rivoltagli da Eudemone Nicomedeo, l’imperatore Antonino[14] dà ragione al postulante riconoscendo l’applicabilità della legge di Rodi[15] e quindi del diritto del mare anche a scapito del diritto romano.
D. 14.2.9, Volusius Maecianus ex lege Rhodia: Ἀξ ωσις Εὐδα μονος Νικομηδἑως πρὸς Ἀντωνῖνον βασιλέα· Κύριε βασιλεῦ Ἀντωνῖνε, ναυφράγιον ποιήσαντες ἐν τῇ Ἰταλ ᾳ (=Ἰκαρ ᾳ?) διηρπάγημεν ὑπὸ τῶν δημοσ ων (=δημοσιωνῶν?) τῶν τὰς Κυκλὰδας νήσους οἰκούντων. Ἀντωνῖνος εἷπεν Εὐδα μονι· ἐγὼ μὲν τοῦ κόσμου κύριος, ὁ δὲ νόμος τῆς ϑαλασσης. Tῷ νόμω τῶν Ῥοδ ων κρινἑσϑω τᾧ ναυτικῷ, ἐν οἷς μήτις τῶν ἡμετἑρων αὐτῷ νόμος ἐναντιοῦται. Tοῦτο δὲ αὐτὸ καὶ ὁ ϑειότατος Αὔγουστος ἔκρινεν.
Il passo[16] ha sollevato diversi e discussi problemi esegetici[17]. In questa sede mi limito a sottolineare l’universalità della ‘legge del mare’, nella specie quella di Rodi, la quale deve valere per tutto il Mediterraneo allo scopo di assicurare sicurezza ai traffici marittimi. L’imperatore Antonino Caracalla, seguendo una linea ininterrotta che già Augusto aveva confermato, riconosce la priorità di quella legge rispetto alle sue prescrizioni. Egli, cioè, dice che pur essendo il ‘Signore del mondo’[18], non può prescindere dalla legge del mare, la quale ha una vigenza che gli preesisteva e non poteva essere sovvertita. In altri termini l’imperatore non ritiene di modificare una materia che aveva bisogno di uniformità, per non compromettere i traffici commerciali via mare, creando insicurezza con disposizioni specifiche non universalmente conosciute ed applicate; ciò pur non rinunciando in via di principio ad affermare la priorità del diritto romano: infatti, egli aggiunge che comunque anche la legge del mare non deve contrastare con il diritto romano. Ma proprio qui mi pare consista la sottigliezza della costruzione giuridica riflessa dal brano: il diritto romano è prioritario ed universale, ma proprio per questa sua caratteristica non modifica ed anzi recepisce il diritto marittimo (in gran parte frutto di tradizioni di lungo periodo) che, a causa della sua diffusione, era necessario per assicurare omogeneità e sicurezza alla navigazione ed ai traffici marittimi.
Nacque da questa concezione universalistica della sicurezza dei mari lo sforzo di reprimere ogni possibile forma di inganno o di violenza contro la navigazione.
In tal senso furono articolate discipline significative.
Intanto si fece in modo che il fisco non traesse vantaggio dalle disgrazie altrui[19]; poi si cercò di impedire che qualcuno si arricchisse a spese dei malcapitati: all’uopo si escluse dall’usucapione i beni finiti in mare a causa del naufragio o gettati per alleggerire la nave, in caso di pericolo di naufragio[20]. Poiché per antiche usanze i relitti diventavano di proprietà dell’occupante[21], i pericoli di per sé già enormi dei naviganti venivano accresciuti da delittuosi espedienti che tendevano a causare i naufragi al solo scopo di impadronirsi delle navi. A quanto pare alcuni pescatori solevano attirare in secco le navi con efficaci ‘furbate’: di notte, approfittando del favore delle tenebre, accendevano fuochi su spiagge dai bassi fondali in modo da far credere alle imbarcazioni che lì ci fosse un porto al quale potersi dirigere. Di modo che indirizzandosi verso questi fuochi facevano naufragio ed i ‘gentiluomini’ che li avevano attirati in secco si impadronivano delle navi naufragate e dei loro carichi. Occorreva porre un freno: i giuristi (e, come è da presumere, con loro gli imperatori)[22] intervennero appropriatamente, esortando ad eliminare in radice la causa di siffatte mascalzonate.
D. 47.9.10, Ulpianus l. 1 opinionum: Ne piscatores nocte lumine ostenso fallant navigantes, quasi in portum aliquem delaturi, eoque modo in periculum naves et qui in eis sunt deducant sibique execrandam praedam parent, praesidis provinciae religiosa constantia efficiat[23].
Significative appaiono le espressioni usate dal giurista che parla di fermezza ‘religiosa’ e bolla come ‘preda esecranda’ i guadagni conseguibili da tanto delittuoso artificio.
Essa riflette l’orientamento estremamente severo nei confronti di chi avesse approfittato del naufragio altrui, specie se con violenza.
Le sanzioni erano sia di natura economica (prevedendo il pagamento del quadruplo delle cose sottratte) sia personali, come la fustigazione, la condanna all’esilio o ai lavori nelle miniere (che equivaleva ad una condanna a morte certa):
D. 47.9.1 pr., Ulpianus libro quinquagensimo sexto ad edictum: Praetor ait: ‘In eum, qui ex incendio ruina naufragio rate nave expugnata quid rapuisse recepisse dolo malo damnive quid in his rebus dedisse dicetur: in quadruplum in anno, quo primum de ea re experiundi potestas fuerit, post annum in simplum iudicium dabo. Item in servum et in familiam iudicium dabo’[24].
D. 47.9.4.1, Paulus libro quinquagensimo quarto ad edictum: Divus Antoninus de his, qui praedam ex naufragio diripuissent, ita rescripsit: ‘Quod de naufragiis navis et ratis scripsisti mihi, eo pertinet, ut explores, qua poena adficiendos eos putem, qui diripuisse aliqua ex illo probantur. Et facile, ut opinor, constitui potest: nam plurimum interest, peritura collegerint an quae servari possint flagitiose invaserint. Ideoque si gravior praeda vi adpetita videbitur, liberos quidem fustibus caesos in triennium relegabis aut, si sordidiores erunt, in opus publicum eiusdem temporis dabis: servos flagellis caesos in metallum damnabis. Si non magnae pecuniae res fuerint, liberos fustibus, servos flagellis caesos dimittere poteris’[25].
I brani denotano lo sforzo dei Romani di reprimere nella maniera più severa possibile i delitti connessi alla navigazione.
Questa repressione venne attuata con i mezzi ordinari facendo ricorso alla normale procedura, prevedendo, tuttavia, un aggravio dell’ammontare della pena.
Ma questo ritenuto, sufficiente in via ordinaria, in casi particolari non bastava.
Soprattutto risultava inadeguato nei confronti della pirateria.
La pirateria era una vera piaga dei mari, contribuendo pesantemente a diminuire la sicurezza della navigazione nel Mediterraneo.
I Cretesi, i Fenici, i Greci e gli Etruschi attaccavano le navi nemiche per depredarle.
L’incursione dei pirati[26] avveniva essenzialmente in due modi
1) attraverso l’assalto alle navi da trasporto per rubarne le merci, che venivano poi o utilizzate o vendute nei porti;
2) con il rapimento di ostaggi, che rilasciavano dietro pagamento di riscatto[27].
Lunghe e tormentate sono state le vicende della pirateria nel mondo romano.
Fra il IV e il I secolo a.C., Roma, che doveva usare le navi per procurare ai suoi cittadini tutte le merci di cui avevano bisogno (non solo cibo e bevande, ma anche profumi, spezie, tappeti, belve per gli spettacoli), si trovò ad affrontare incursioni condotte da navi di tiranni siciliani, navi di Anzio, di Calcide, di Sparta, di flotte al soldo di Filippo V di Macedonia e Antioco III di Siria, degli Illiri, dei Liguri.
È opinione comune che, tuttavia, i Romani sino al I sec. a. C. non si siano preoccupati o non furono capaci di condurre una seria lotta alla pirateria, insediata soprattutto nelle coste della Cilicia, a Creta, nell’Etolia e nell’Illirico[28], a meno che la lotta alla pirateria non fosse funzionale all’espansione del controllo sul Mediterraneo. È il caso della prima guerra illirica scoppiata nel 229 a. C., quando fu dichiarata guerra agli Ardiaei per assicurarsi le rotte commerciali molto redditizie che collegavano Brundisium alla sponda orientale dell'Adriatico, addebitandone la causa alla necessità di combattere la pirateria[29], secondo la giustificazione riflessa dagli storici antichi[30].
Una più recente lettura del fenomeno ha posto in evidenza il fatto che in realtà non si trattò di incapacità o di cattiva volontà, bensì di un mirato calcolo, perché la pirateria era consustanziale alla politica di molte zone sia dell’Oriente sia dell’Occidente, costituendo l’asse portante della politica di molte popolazioni. Essa serviva, tra l’altro, ad approvvigionare le città degli schiavi necessari all’economia del tempo; inoltre i Romani pensarono di sfruttare la pirateria “quale mercenariato, senza una paga”; specie perché «il ceto politico sarebbe rimasto per lungo tempo ideologicamente legato all'economia terriera e non avrebbe quindi avuto interesse a colpire il fenomeno della pirateria, da cui traeva linfa per l'utilizzazione di manodopera a basso costo»[31].
Pertanto la pirateria fu tollerata e sfruttata fino a quando non divenne conflittuale con le mire espansionistiche di Roma e con l’esigenza di dare sicurezza ai mari nel nuovo ordine realizzato con l’Impero. Perciò troviamo un significativo e radicale impegno contro i pirati delle Baleari «quando cominciò a farsi strada l'esigenza di colpire il fenomeno piratesco, divenuto ormai poco compatibile con la posizione egemone che Roma andava assumendo nel Mediterraneo: tanto è vero che alla sconfitta di quei pirati, avvenuta nel 123 a.C., seguì la colonizzazione delle isole, al fine evidente di radicare sul territorio la popolazione e di ridurne l'antica tendenza a inseguire l'avventura per i mari»[32].
La situazione diventò intollerabile sul finire dell’età repubblicana, quando, stando a quanto narra lo storico Appiano (Mithr. 63; 92), che, pur scrivendo molto tempo dopo, in genere era ben informato, i pirati, organizzati in forti squadre comprendenti non solo piccoli e veloci vascelli, ma anche triremi e biremi, comandati da capi, veri e propri comandanti militari, ostacolavano gravemente i traffici commerciali marittimi. Essi, inoltre, ponevano regolari assedi alle città costiere, spargendo dappertutto tra le popolazioni il terrore di essere avviate al gran mercato di schiavi di Delo, che soltanto attraverso questi rifornimenti, poteva funzionare con regolarità.
Fu allora che i pirati organizzarono un embrione di impero marittimo, costituendo dei veri e propri Stati rivieraschi in tutto il Mediterraneo fino alle colonne d'Ercole (App., Mithr. 92-93), tanto da svolgere un ruolo anche nella storia politica, come quando vennero impiegati nell'88 e nel 74 da Mitridate contro Roma[33].
Per far fronte alla pirateria a Roma intorno all’anno 100 e comunque prima del 96 a. C., fu approvato un apposito plebiscito, conosciuto come lex piratica, giunto a noi attraverso iscrizioni epigrafiche provenienti da Delfi[34] e da Cnidos[35]. Il provvedimento, tra l’altro, previde una multa fissa contro i pirati con legittimazione popolare, abbastanza vicina a quella delle azioni popolari, esperibile da parte di qualsiasi cittadino (da quivis de populo) di là dall’esistenza di un proprio interesse personale e diretto[36]. Nell’originale greco[37] è presente un involontario obbligo per il console eletto per primo (qui primus electus sit) di inviare lettere agli alleati per chiedere di adoperarsi a rendere sicura la navigazione e si invitavano i re dell'entroterra ad intensificare la lotta contro i pirati, per fare in modo che i cittadini romani e gli alleati latini d'Italia potessero svolgere i propri affari, negli stati e nelle isole dell'Oriente, senza pericolo, navigando in sicurezza. Inoltre ad alcuni re del Mediterraneo (nello specifico, d’Egitto, Cirene e Siria) era espressamente richiesto di partecipare alla lotta contro i pirati[38].
Nel 79 a. C. fu allestita una flotta la quale, sotto il comando del console P. Servilio conquistò o distrusse molte delle basi costiere utilizzate dai pirati.
Poco dopo si pensò di completare l’annientamento della pirateria conferendo all’uopo nel 74 a. C. il comando straordinario a M. Antonio Cretico, la cui potente flotta cancellò dal mare l'insidia dei pirati da tutta la costa spagnola levantina passata così saldamente in mano agli ottimati. Ma alla fine la sua campagna nel Mediterraneo non si concluse felicemente e subì pesanti sconfitte da parte dei pirati[39].
Nel frattempo si erano verificati clamorosi casi di assalti ad ambasciatori e consoli, che avevano scosso la classe dirigente romana. Invero la lunga situazione di instabilità politica e militare che imperversava nello stato romano aveva creato problemi di ordine pubblico e provocato un aumento esponenziale della illegalità. In particolare la politica di Sertorio e le pressioni belliche di Mitridate avevano favorito lo sviluppo incontrollato della pirateria. Questi pirati provenivano prevalentemente dalla Cilicia, la zona sudorientale della Turchia, e da Cipro. I pirati imperversavano nel Mediterraneo, avevano saccheggiato Ostia distruggendo le navi romane attraccate, ed erano sbarcati a più riprese sulle coste della Campania, spingendosi fino alle coste meridionali della Spagna: il prezzo del grano salì alle stelle. Era messo in serio pericolo persino l’approvvigionamento di Roma, di modo che incombeva la minaccia della carestia. Urgeva una soluzione: vincendo le accese resistenze del senato restío a conferire poteri che potevano sfuggire al suo controllo si decise di affidare poteri straordinari a Pompeo Magno. Nel 67 a. C. su proposta di A. Gabinio (personaggio molto discusso e senza scrupoli) fu approvata una legge con la quale si affidava a Pompeo il comando militare senza limiti, paragonabile al comando senza limiti (imperium infinitum) esistito agli inizi della storia di Roma[40]. Attraverso la “legge Gabinia concernente la guerra partica” (lex Gabinia de bello partico) detta anche “per la nomina di un solo comandante contro i pirati” (de uno imperatore contra praedones constituendo) Pompeo ebbe poteri che si sovrapponevano a quelli dei governatori delle province (imperium maius). All’uopo la legge mise a disposizione di Pompeo venti legioni ed una flotta di cinquecento navi e gli stanziò una somma enorme: 600 talenti attici, con l’autorizzazione di attingere dalle casse pubbliche (dall’erario) quanto ritenesse necessario e con la facoltà di richiedere alle province adeguati tributi e di pretendere l’aiuto degli stati sottoposti all’egemonia romana. Il potere conferito in via eccezionale aveva la durata di tre anni senza limiti territoriali, andando dall’Oriente alle colonne d’Ercole (Gibilterra) e nel retroterra fino a 50 miglia dal lido[41].
L’eccezionalità del provvedimento fu premiata dal risultato, poiché Pompeo in pochi anni sradicò definitivamente la pirateria dal Mediterraneo, distruggendo le flotte corsare e dando sicurezza ai mari.
La sua campagna fu caratterizzata da sorprendente velocità: in soli 40 giorni ristabilì l'ordine sulle coste occidentali del Mediterraneo, poi, mandati i legati in avanscoperta, si diresse verso oriente, e in 49 giorni distrusse i covi dei pirati cilíci, aggiungendo all'azione militare quella diplomatica. Furono uccisi 10.000 pirati, 800 navi vennero catturate e 120 fortezze distrutte. Il Mediterraneo fu liberato momentaneamente dalla pirateria e i commerci poterono riprendere.
Dal punto di vista tattico, Pompeo procedette dividendo il mare in zone che affidò a sub-comandanti di sua nomina[42], poiché la legge Gabinia aveva previsto che il comandante[43] avesse anche la facoltà di organizzarsi articolando le forze attraverso la nomina di ventiquattro comandanti, di rango senatorio, in singoli settori delle operazioni. In tal modo procedette a distruggere le flotte ed i covi dei pirati l’uno dopo l’altro consolidando la sicurezza delle zone liberate e costringendo i pirati a rintanarsi nella loro base principale di Caracesio in Cilicia[44]. Inoltre dette a molti pirati la possibilità di rientrare in una vita normale abbandonando la pirateria: questo contribuì alla velocità delle sue operazioni e costituisce un significativo esempio di politica del ‘pentimento’, rimproverata a Pompeo dai suoi avversari[45], ma che sta a dimostrare che qualsiasi azione, per radicale e profonda che sia, non può avere effetti stabili se all’azione militare non venga affiancata una soluzione politica.
I restanti ricevettero un colpo dal quale non si ripresero, sebbene nel 40 a. C. si posero sotto il comando di Sesto Pompeo e dalla Sicilia tentarono di impedire i rifornimenti provenienti dall’Africa[46], ma invano perché l’avvento del Principato di Augusto, con le vittorie navali riportare da Marco Agrippa, assicurò la definitiva sicurezza del mare. Ciò segnò la definitiva scomparsa della pirateria, durata almeno per i successivi due secoli, quando la sicurezza delle rotte mediterranee erano garantite dalle potenti flotte permanenti di Ravenna, che vigilava sull’Oriente, e di Miseno, che controllava la parte occidentale; le quali erano coadiuvate dalle flotte ausiliarie stanziate in Cirenaica, Egitto e Siria.
Nel terzo secolo la crisi dell’impero dette nuove occasioni ai pirati i quali, malgrado i provvedimenti straordinari di Alessandro Severo[47] ripresero le loro scorrerie, alimentate soprattutto da Sarmati e Goti, provenienti dal Mar Nero «infestarono tutto il Mediterraneo orientale, preannunciando le invasioni barbariche»[48].
In conclusione di questo sguardo sulla pirateria sorge una domanda: chi erano i ‘pirati’ per il diritto romano?
Pomponio ed Ulpiano, tra la fine del II sec. d. C. e gli inizi del terzo, ci danno importanti indicazioni, dalle quali emerge che, a differenza dei ‘nemici’ contro i quali si fosse in guerra, i pirati non potevano essere considerati come un popolo, cioè come persone appartenenti ad un ordinamento politico-giuridico con il quale sarebbero state possibili relazioni.
D. 50.16.118, Pomponius l. 2 ad Quintum Mucium: ‘Hostes’ hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus:ceteri latrones aut praedones sunt[49].
D. 49.15.24, Ulpianus l. 1 institutionum: Hostes sunt quibus publice populus Romanus decrevit vel ipsi populo Romano: ceteri latrunculi vel praedones appellantur[50].
Considerato che la dichiarazione di guerra realizzava un caso di perduellio, già Cicerone, alla fine della Repubblica, aveva osservato:
Cicero, de officiis 3.107: pirata non est ex perduellionis numero definitus, sed communis hostis omnium[51].
Deriva da questa qualifica della pirateria l’irrilevanza degli ‘accordi’ raggiunti con i pirati durante la prigionia. Questo in deroga al principio radicato nel costume e nel diritto romano che esigeva il rispetto dei patti (pacta) perché lo imponeva la fides, categoria essenziale del diritto romano[52].
Inoltre mentre il prigioniero di guerra diventava schiavo di chi o del popolo che lo aveva catturato, la persona catturata dai pirati veniva considerata sempre libera; poteva fare testamento e se moriva prima di rientrare in patria era valido il testamento già fatto[53]. Mentre, poi, i beni dei Romani presi dai nemici avevano il regime di praeda e cessavano di appartenere al romano proprietario, le cose prese dai pirati non potevano avere tale status e continuavano ad essere considerate del proprietario originario[54].
Corrispondeva alla considerazione particolare e negativa della pirateria il fatto che, mentre colui per il quale fosse stato pagato un riscatto (per essere liberato dal nemico che lo avesse catturato) restava assoggettato al suo liberatore sino a quando non avesse rifuso l’ammontare del riscatto pagato (al quale, nel caso di morte sua, erano tenuti i suoi eredi), chi fosse stato catturato dai pirati non restava in nessun modo legato al suo liberatore[55].
Qualora poi si fosse pagato un riscatto per il rilascio della nave si applicava una norma analoga a quella prevista per il lancio delle merci in mare ed in generale per il naufragio; pertanto la somma pagata per il riscatto veniva ripartita tra tutti i partecipanti alla spedizione marittima[56].
Emerge in tutta chiarezza l’assoluto disprezzo e la volontà di ridurre alla totale irrilevanza giuridica gli atti della pirateria, così come tutti quelli commessi con violenza.
Un’ultima considerazione credo sia da aggiungere riguardo alla persecuzione dei pirati ed alle pene comminate nei loro confronti.
In primo luogo, per tutta l’età repubblicana, era concesso a chiunque di inseguire, catturare ed uccidere senza indugio o necessità di processo i pirati: l’episodio di Giulio Cesare, il quale dopo aver pagato il riscatto tornò ad uccidere i suoi rapitori, ne è un esempio.
Nell’età imperiale si poteva agire extra ordinem cioè con le procedure sorte intorno all’ordinamento imperiale, attraverso le quali potevano essere condannati a pene severissime, rimesse alla valutazione del giudice. Tali pene prevedevano la condanna ai lavori forzati nelle miniere o all’esilio in qualche isola e nel caso di recidiva potevano arrivare sino alla pena di morte. Inoltre i pirati famosi potevano essere appesi alla forca nei luoghi delle loro scorrerie, affinché la loro vista servisse da deterrente[57].
Tale sistema repressivo risultò efficace?
Certamente si. Esso era conseguenza della mobilitazione a tutto campo, che coinvolse l’opinione pubblica, come si è visto per la legge Gabinia. La quale forse contribuì a sradicare riprovevoli comportamenti, quale quello dei padroni che ordinavano al proprio schiavo di praticare la pirateria. Di essa e della sua diffusione (sul finire dell’età repubblicana) è prova una sentenza di Servio Sulpicio Rufo, nella quale il giurista affermava che lo schiavo comandato dal proprio padrone di praticare la pirateria restava comunque responsabile di essa, così come di ogni altra forma di violenza, e non era giustificato dal fatto di avere eseguito l’ordine del padrone:
D. 44.7.20, Alfenus l. 2 digestorum: Servus non in omnibus rebus sine poena domino dicto audiens esse solet, sicuti si dominus hominem occidere aut furtum alicui facere servum iussisset. Quare quamvis domini iussu servus piraticam fecisset, iudicium in eum post libertatem reddi oportet. Et quodcumque vi fecisset, quae vis a maleficio non abesset, ita oportet poenas eum pendere[58].
Alfeno, il quale riproduceva le decisioni del suo maestro Servio, rivela che vi era stata nell’età repubblicana il rincorso al facile guadagno conseguito attraverso la pirateria, fatta praticare dai propri schiavi. Ma dimostra anche che ad essa vi fu una reazione diffusa, dettata dal rifiuto di ogni forma di violenza e, di conseguenza, non inquadrata in forme speciali di repressione, bensì nella generale lotta contro ogni tipo di violenza. Di ciò è prova l’uso di solet: esso rinvia ad una prassi giuridica diffusa, la quale aveva condotto alla formulazione di un principio radicato, accolto da Servio, ma non enunciato da lui per la prima volta[59], secondo il quale, nelle soluzioni giuridiche, non si doveva indulgere in nessun modo alla violenza; lo lascia trasparire l’affermazione di carattere generale, attraverso la quale il giurista passava dalla concreta fattispecie all’enunciazione di un principio: Et quodcumque vi fecisset, quae vis a maleficio non abesset, ita oportet poenas eum pendere[60].
Da quel principio i giuristi trassero soluzioni rigorose, assimilando la pirateria allo stesso naufragio[61] o al caso o alla forza maggiore, cioè agli eventi contro la cui violenza non era possibile resistere, ed esonerando da responsabilità chi avesse subíto l’assalto dei pirati[62].
La perdita dei beni causata dai pirati fu anche occasione di sofisticate decisioni riguardo all’obbligo di restituzione, eventualmente a carico di chi avesse subíta la spoliazione. Ne è testimonianza un brano di Gaio riguardo alla responsabilità del comodatario, la quale, pur costituendo la forma più severa di responsabilità contrattuale[63], poteva essere esclusa nel caso di assalto dei pirati[64].
In sintesi mi sembra che la pirateria, sebbene vista da alcuni come fonte di arricchimento, fu combattuta, a causa della violenza che necessariamente comportava e dette luogo a problematiche tese a neutralizzarne gli effetti. Ad essa i giuristi contrapposero articolate soluzioni, volte ad assimilarla al caso fortuito ed alla forza maggiore (quindi anche al naufragio), allo scopo di non aggravare la condizione di chi fosse stato vittima dei pirati.
Quando la pirateria arrivò a minacciare la rete di interessi e di scambi dei Romani e, più in generale la loro padronanza del Mediterraneo, si provvide a predisporre rimedi eccezionali: essi furono di natura militare, ma furono affiancati da proposte di soluzione di natura politica; le quali, a cominciare dal perdono accordato ai pentiti, assicurarono la riuscita della lotta alla pirateria.
Fu in virtù di tale concorso che la pirateria venne debellata e scomparse per gran parte del Principato.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind. Continuano ad essere valutati i fuori ruolo delle Università italiane; mentre per gli studiosi stranieri valutazione solo se richiesta.]
[1] In gran parte riprendo qui il mio articolo Navi e naviganti nell'antico Mediterraneo, in Diritto@Storia (riv. on line), vol. 5 - N. Serie (2006), ispirato al mio precedente Aspetti della sicurezza marittima nelle fonti del diritto romano, in Aa.Vari, Sicurezza marittima. Un impegno comune. Gli aspetti strategici, operativi e tecnologici, giuridici ed economici, ambientali e le testimonianze delle Autorità Marittime internazionali. Maritime Security. A common commitment. Strategic, operational and technogical, juridical and economic, environmental aspects and the experience of International Maritime Authorities, vol. I, Mottola 2005, 293-320. Volume della Fondazione Marittima Ammiraglio Michelagnoli. Il presente articolo, tradotto in Bulgaro, sarà pubblicato a Sofia, in Ius romanum. Ad essi ha fatto séguito un approfondimento sulla pirateria: S. Tafaro, Roma e la pirateria, in Nuove piraterie e ordinamenti giuridici interni e internazionali [cur. A. Uricchio], Bari 2011, 43-64.
[2] Di essa è testimonianza in Macrobius, Saturnalia 2.6.2 e Quintilianus, Institutio oratoria 6.3.87.
[3] V. D. 41.3.30 pr., Pomponius l. 30 ad Sabinum: ..... alterum, quod ex contingentibus, hoc est pluribus inter se cohaerentibus constat, quod sunymmenon vocatur, ut aedificium navis armarium (Pomponio l. 30 del commento a Sabino: un altro tipo di ‘corpi’ consiste nelle cose collegate, cioè in una pluralità di cose connesse tra loro, come le navi).
[4] Al singolare il termine nauta ha diversi significati e può indicare anche l’armatore.
[5] Attraverso la preposizione del magister l’armatore assumeva la totale responsabilità degli obblighi assunti da questi. Ciò in virtù di un’apposita azione creata dal Pretore e chiamata actio exercitoria che obbligava il preponente, che spesso era un padrone che affidava la nave ad un suo sottoposto (per lo più uno schiavo): cfr. D. 14.1.1 pr. – ss., Ulpianus l. 28 ad edictum.
[6] D. 14.1.1.2, Ulpianus l. 28 ad edictum: ... quamquam ex delicto cuiusvis eorum, qui navis navigandae causa in nave sint, detur actio in exercitorem: alia enim est contrahendi causa, alia delinquendi, si quidem qui magistrum praeponit, contrahi cum eo permittit, qui nautas adhibet, non contrahi cum eis permittit, sed culpa et dolo carere eos curare debet (sebbene per il delitto di chiunque stia sulla nave per consentire la navigazione si concede di perseguire l’armatore: tuttavia diverso è il caso del contratto da quello del delitto, poiché chi prepone un magister acconsente a che si contratti con lui, mentre chi ingaggia marinai non dà il consenso a negoziare con essi tuttavia deve preoccuparsi che essi non commettano dolo o colpa), sul quale v. L Ménager, 'Naulum' et 'receptum salvam fore'. Contribution a l'étude de la responsabilité contractuelle dans les transports maritimes en droit romain, in RHD, 38, 1960, 177-213; 385-411.
[7] Cfr. C. Moschetti, v. Nave (dir. romano), in ED xxvii, 1977, 565 ss. ed ivi bibl. Vale la pena ricordare che l’organizzazione dell’impresa marittima poteva assumere tre forme essenziali. La prima era quella nella quale il dominus assumeva direttamente l’esercizio della nave assommando le funzioni di magister e di gubernator; la seconda concerneva aziende di una certa rilevanza destinate esclusivamente al carico e scarico di un determinato tipo di merce, per lo più prese in considerazione in ragione del loro peso o delle loro dimensioni. In tal caso il dominus non si imbarcava sulle navi ma affidava il compito di assumere e consegnare le merci al solo gubernator (nocchiero) senza assumere anche un magister. La terza tipologia concerneva le imprese più complesse destinate ad attività ampie e non predefinite, le quali richiedevano una molteplicità di operazioni, in ragione delle quali era necessario affidare le attività economiche ad un magister, di norma affiancato ad un gubernator. Da ciò appare chiaro che solo nel primo caso il dominus armatore poteva sapere e controllare direttamente l’operato dei marinai; negli altri casi ciò era del tutto impensabile. Di conseguenza la responsabilità penale per i delitti dei marinai era di natura oggettiva o poggiava su presunzione assoluta.
[8] V. F.M. De robertis, Receptum nautarum, in Annali Fac. Giur. Università di Bari, 12, 1953, 5 ss., Id., La responsabilità dell’armatore in diritto romano, in Rivista dir. navig., 3-4. Sottolineo che, in base a quanto ho anche ricordato, l’armatore a sua volta avrebbe riversato la responsabilità della perdita delle merci trasportate sui sovvenzionatori, in virtù della clausola con la quale egli riceveva il prestito marittimo.
[9] Cfr. G. Longo, Disciplina armatoriale e imprenditizia nel diritto romano, in Ann. Fac. Giur. Univ. Macerata, N.S. IV [in onore di A. Moroni] Tomo III, Milano, 1982, 1397 ss.
[10] Cfr. D. 4.9.3.1, Ulp. 14 ad edictum: ait praetor: " nisi restituent, in eos iudicium dabo". ex hoc edicto in factum actio proficiscitur. sed an sit necessaria, videndum, quia agi civili actione ex hac causa poterit: si quidem merces intervenerit, ex locato vel conducto: sed si tota navis locata sit, qui conduxit ex conducto etiam de rebus quae desunt agere potest: si vero res perferendas nauta conduxit, ex locato convenietur: sed si gratis res susceptae sint, ait Pomponius depositi agi potuisse. miratur igitur, cur honoraria actio sit inducta, cum sint civiles: nisi forte, inquit, ideo, ut innotesceret praetor curam agere reprimendae improbitatis hoc genus hominum: et quia in locato conducto culpa, in deposito dolus dumtaxat praestatur, at hoc edicto omnimodo qui receperit tenetur, etiam si sine culpa eius res periit vel damnum datum est, nisi si quid damno fatali contingit. inde labeo scribit, si quid naufragio aut per vim piratarum perierit, non esse iniquum exceptionem ei dari. idem erit dicendum et si in stabulo aut in caupona vis maior contigerit (Ulpiano l. 14 del commento all’editto: Il pretore dice: “se non restituiscono darò un’azione”, perciò da questo editto nasce un’azione in fatto. Bisogna vedere se essa sia necessaria, poiché per i motivi descritti si può agire con un’azione civile: che è quella di locazione-conduzione se interviene la mercede; ma se è locata l’intera nave, il conduttore può agire anche per le cose che mancano; se poi l’armatore si impegnò a consegnare le cose, sarà convenuto con l’azione di locazione; mentre se le cose sono state prese gratuitamente, Pomponio dice che si poteva agire per il deposito. Pertanto, stupisce che sia stata introdotta un’azione onoraria, mentre vi sono azioni civili: a meno che, dice, affinché questo genere di uomini abbia presente che il pretore si preoccupa di reprimere le scorrettezze: e poiché nella locazione e conduzione si presta la colpa, nel deposito solo il dolo, invece in base a questo editto chi ha preso sarà tenuto in ogni caso, anche se la merce perì senza sua colpa ovvero fu danneggiata, salvo che intervenga un danno fatale. Pertanto Labeone scrive che se alcunché avvenne per naufragio o per la violenza dei pirati non è iniquo dare a lui (all’armatore) un’eccezione. Lo stesso va detto se la forza maggiore si verificò in una stalla o in una osteria). Sul brano, cfr.: L. Menager, 'Naulum' et 'receptum salvam fore', cit.; Chr.H. Brecht, Zur Haftung der Schiffer im antiken Recht [Münchener Beiträge zur Papyrusforschung und antiken Rechtsgeschichte, Heft 45], 1962, 163; F.M. De Robertis, La disciplina della responsabilità contrattuale nel sistema della compilazione giustinianea, Vol. III, Bari 1966, 683; A. Doll, Von der vis maior zu höheren Gewalt. Geschichte und Dogmatik eines haftungsentlastenden Begriffs, Frankfurt/M., Bern, New York, 1989.
[11] G. Purpura, Studi romanistici in tema di diritto commerciale marittimo, Palermo 1976, 286: «L’incertezza della navigazione antica e le frodi frequenti dei marinai dovevano contribuire a rendere l’eventualità della scomparsa della nave non rara».
[12] Su di essa vi è una cospicua bibliografia, dalla quale segnalo: W. Osuchowski, Appunti sul problema del «iactus» in diritto romano, in IVRA 1, 1950, 292 ss.; F. Wieacker, «Iactus in tributum nave salva venit» D.14.2.4 pr. Esegesi della «lex Rhodia de iactu», in Nuova Riv. Dir. Comm. Dir. Dell'Econ. Dir. Soc. 4, 1951, 287 ss.; Idem, Iactus in tributum nave salva venit. (D.14.2.4 pr.). Exegesen zur lex Rhodia de iactu, in Studi in memoria di Emilio Albertario, Milano 1953, 513; F.M. De Robertis, Lex Rhodia. Critica e anticritica su D.14.2.6, in St. Arangio-Ruiz, 3, Napoli 1953, 155 ss.; A. Wilinski, D.19.2.31 und die Haftung des Schiffers im altrömischen Seetransport, in Annales Univ. Mariae Curie-Sklodowska 7, 1960, 353 ss.; S.A.B. Meira, A Lex Rhodia de iactu. Sua repercussao no direito brasileiro, in Revista do Tribunal Regional do Trabalho, 1969, 12 ss.; J.A.C. Thomas, Juridical Aspects of Carriage by Sea and Warehousing in Roman Law, in Recueils Soc. J. Bodin 32, Bruxelles 1974, 117 ss.; W. Ahburner, Nomos Rhodiôn Nautikos. The Rhodian Sea Law, Aalen 1976; H. Honsell, Ut omnium contributione sarciatur quo pro omnibus datum est. Die Kontribution nach der Lex Rhodia de iactu, in Ars boni et aequi. Festschrift für W. Waldstein, Stuttgart 1993, 141 ss.; F. De Martino, Lex Rhodia. Note di diritto romano marittimo, in Diritto, economia e società nel mondo romano, I, Napoli 1995, 285 ss.; H. Wagner, Die lex Rhodia de iactu, in Rida. 44, 1997, 357 ss.; A. Pókecz Kovács, Les problémes du 'iactus' et de la 'contributio' dans la pratique de la lex Rodia, in A bonis bona discere. Festgabe für Janós Zlinszky zum 7. Geburtstag, Miskolc 1998, 171 ss.
[13] Su questi due punti v., in particolare, quanto chiarito da Purpura, citato in precedenza.
[14] È discusso se si tratti di Antonino Pio o di Marco Aurelio, ma la migliore dottrina propende per il primo: v. F.M. De Robertis, Lex Rhodia, cit., 319 s.; G. Purpura, op. cit., 329 s.
[15] Su di essa e, più in generale sugli aspetti concernenti il trasporto marittimo v., da ultimo, M. Ignatovic’, I fondamenti del diritto marittimo, Nis 2021, 66 ss.
[16] (Volusio Meciano riguardo alla legge Rodia: Petizione di Eudemone di Nicomedia all’imperatore Antonino: Signore imperatore Antonino, avendo noi fatto naufragio in Icaria, siamo stati spossessati a causa dei tributi portuali (portoria) dei preposti alle isole Cicladi. Antonino risponde ad Eudemone: Io sono il signore del mondo, ma vi è la legge del mare. Si giudichi secondo la legge Rodia nautica nella misura in cui nessuna legge delle nostre si contrappone ad essa. Lo stesso giudicò anche il molto divino Augusto). Per la traduzione mi avvalgo dell’indicazione di Purpura (op. cit., 302), integrata dai suggerimenti del Manfredini, da lui, ivi richiamato alla nt. 60.
[17] Mi pare sufficiente rinviare ai citati lavori di De Robertis e di Purpura, i quali discutono anche la letteratura suscitata dal brano.
[18] L’espressione è apparsa sospetta di influenza cristiana, quando l’Imperatore fa derivare i suoi poteri da Dio e pertanto li riferisce a tutto il pianeta (come rappresentante in terra del Signore che sta nei cieli). In realtà nel significato corrente durante il Principato, dove di kòsmou kúrioj si parlava in vario modo per diversi imperatori a partire da Nerone, e sta ad indicare la dimensione e la concezione universale dell’Impero: in tal senso v. F.M. De Robertis, Lex Rhodia, cit., 320 ss.
[19] D. 39.4.16.8, Marcianus l. singulari de delatoribus: Si propter necessitatem adversae tempestatis expositum onus fuerit, non debere hoc commisso vindicari divi fratres rescripserunt. (Marciano libro unico sui delatori: Se l’oggetto del tributo sia costituito da cose naufragate i divini fratelli in un rescritto confermarono che non si dovesse pagare nessun dazio). C. 11.6.1, Antoninus: Si quando naufragio navis expulsa fuerit ad litus vel si quando reliquam terram attigerit, ad dominos pertineat: fiscus meus sese non interponat. quod enim ius habet fiscus in aliena calamitate, ut de re tam luctuosa compendium sectetur? (Se una nave fu spinta sul lido per un naufragio o se il relitto arrivò a terra, spetterà ai suoi padroni: il fisco non deve pretendere nulla. Infatti che diritto può avere il fisco nella sventura altrui, fino a trarre vantaggio da un evento tanto luttuoso?).
[20] D. 41.2.21.1-2 Iavolenus l. 7 ex Cassio: Quod. ex naufragio expulsum est, usucapi non potest, quoniam non est in derelicto, sed in deperdito. Idem iuris esse existimo in his rebus, quae iactae sunt: quoniam non potest videri id pro derelicto habitum, quod salutis causa interim dimissum est. (Giavoleno l. 7 del commentario a Cassio: Ciò che è portato via dal naufragio non si può usucapire, poiché non si tratta di cose abbandonate, bensì di cose perdute. Ritengo che la stessa regola debba applicarsi alle cose lanciate in mare, poiché non si può sostenere che siano state abbandonate le cose buttate via per conseguire la salvezza).
[21] Sul punto cfr. J. Rougé, loc.cit.
[22] Il brano che riporto apparteneva ad Ulpiano il quale non fu solo un grande giurista, ma rivestì cariche elevatissime sino ad essere stato, per un certo periodo, il vero gestore dell’impero, in qualità di tutore del giovane ed imberbe imperatore Alessiano: v., con ivi bibl., il mio: Debito e responsabilità, Bari 2000, 70 s.
[23] (Ulpiano l. 1 delle opinioni: La religiosa fermezza del preside della provincia impedisca che i pescatori inducano in inganno i naviganti accendendo luci che lascino credere loro di potere arrivare in porto, ponendo così in pericolo le navi e naviganti al solo scopo di procacciarsi una preda esecranda).
[24] (Ulpiano l. 46 del commento all’editto: Il pretore dice: “nei confronti di chi in occasione di incendio, disastro, naufragio, di assalto ad una nave o zattera abbia rapito alcunché o abbia ricevuto dolosamente qualcosa o abbia causato qualche danno in queste cose, darò un’azione per il quadruplo, se esperita entro un anno, oppure, dopo l’anno, nel solo valore delle cose. L’azione poi la darò anche nei confronti del servo e della famiglia”).
[25] (Paolo l. 54 del commento all’editto: Il divino Antonino, riguardo a coloro che commisero saccheggi in occasione di un naufragio, emise un rescritto di questo tenore: “In riferimento a quello che mi domandasti riguardo ai naufragi della nave e della zattera, capisco che vuoi sapere cosa penso in merito alla pena da comminare a coloro dei quali sia provato che sottrassero delle cose. E, credo, che si possa decidere facilmente: infatti interessa molto sapere se presero cose destinate a perire oppure invasero ignominiosamente quelle che si sarebbero potuto salvare. Pertanto se appaia afferrata con violenza una preda considerevole, gli uomini liberi dopo essere stati bastonati li dovrai confinare per tre anni e se si tratta di persone turpi li condannerai per lo stesso tempo al servizio pubblico; gli schiavi dopo averli flagellati li condannerai ai lavori delle miniere (ai lavori forzati). Se la cosa non fu di grande valore potrai frustrare i liberi e flagellare gli schiavi”).
[26] Il termine deriva dal greco πειρατής, sostantivo derivante dal verbo πειράω, il quale significa ‘tentare’ e ‘assalire’: cfr. G. Devoto, Dizionario etimologico, Firenze 1968.
[27] Famoso è rimasto il rapimento di Cesare, preso in ostaggio dai pirati, ancora giovane, durante un viaggio a Rodi dove intendeva seguire le lezioni del retore Apollonio Morone. Egli dapprima si offese per l’esiguità del riscatto che questi intendevano chiedere per lui e ne pattuì egli stesso l’ammontare consono alla sua persona ed al suo valore. Però promise di fargliela pagare e mantenne la promessa, tornando per catturarli ed impiccarli, come a loro stessi aveva giurato (però, per la mitezza e signorilità del suo carattere, li uccise prima di impiccarli): cfr. Svet., De vita duodecim Caesarum libri VIII, Caesaris Vita 74; Plut., Caesar 2.
[28] Cfr. N. Ronzitti, v. Pirateria (storia), in ED xxxiii, 1983, 873 ss. ed ivi bibl.
[29] Va tenuto presente che per i Romani la guerra doveva essere adeguatamente motivata (bellum iustum) altrimenti sarebbe stata nefasta (bellum nefandum) attirando l’ira degli dei: v. F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, Napoli 1966, 15, 52. Per la visione della guerra v., anche per la considerazione negativa riflessa da Virgilio, adde: F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio ed il problema del “diritto internazionale antico”, Sassari 1991, partic. 187 ss.
[30] Polyb. II.4-8. Flor. 1.21.1-4; App., Illyr. 7; Dio Cass. fr. 49; Zonara 8.19; Oros. 4.13.2; Eutr. 3.4. Sul punto, cfr. W.V. Harris, War and Imperialism in Republican Rome (327-70 BC), Oxford 1979. Nel contesto Polibio da rilievo specifico alle vicende della regina Teuta, costretta alla resa anche per il tradimento di uno dei suoi generali: Demetrio di Faro. La letteratura su Teuta è numerosa. In questa sede ci si limita a rinviare a M.A. Levi – P. Meloni, Storia romana dagli Etruschi a Teodosio, Milano-Varese 1960, 116. Per Polibio, v. Polibio, Storie, II, 4, 8, Rizzoli, Milano 2002. Trad.: M. Mari.
[31] L. Monaco, Persecutio piratarum. 1. Battaglie ambigue e svolte costituzionali nella Roma repubblicana, Napoli 1996; sul punto, 53.
[32] V. Mannino, Rc. a L. Monaco, Persecutio piratorum, in SDHI 65, 1999, 443.
[33] N. Ronzitti, v. Pirateria (storia), in ED xxxiii, 1983, 874.
[34] Del frammento di Delfi v. la versione latina dell'originale greco ad opera di J.C. Naber, in FIRA I. 9, 122 s.
[35] Il ritrovamento di una copia altra copia sempre frammentaria e sempre in greco della lex, a Cnido ed edita nel 1974 da Crawford e Reynolds ha suggerito di abbandonare il nome di lex de piratis persequendis e di sostituirlo con quello (più preciso riguardo al contenuto) di lex de provinciis praetoriis: v. Roman Statutes (a cura di Crawford), London 1996, vol. I, 231 ss. nr. 12 con l'edizione critica del testo greco e una nuova trad. latina oltre ad una amplissima bibliografia.
[36] L. Monaco, Persecutio, cit., 113.143. Verosimilmente, il relativo processo si doveva svolgere dinanzi ad una giuria (recuperatores) di 15 membri, estratti da un albo di 300 persone.
[37] Cit. alla nt. 35, da 239 sec. (linn. 28 ss.) e nella nuova trad. latino da 249 sec.
[38] ... consul qui primus electus sit, litteras ad populos omnes quibus amicitia et armorum societas est cum populo romanorum, mittat, quibus illos facere iubebit ut cives romanorum et socii ex italia latini, non modo sua negotia quotquot opus sit per orientis civitates et insulas sine periculo faciant, sed etiam per mare tuto navigare possint; et ciliciam ob has ipsas causas a marco antonio imperatore proconsule obtentam esse admoneat. Item etiam ad regem qui cypro in insula regnat et ad regem qui alexandriae et in aegypto regnat et ad regem qui cyrenis regnat et ad reges qui in syria regnant, quibus omnibus amicitia et armorum societas cum populo romanorum est, litteris datis declaret non modo iustum esse illos curare ne ex eorum regno neve ex agro vel finibus pirata quisquam egrediatur neve magistratus vel praesidiorum duces, quos illi statuerint, piratas excipiant sed etiam curare, quantum in eorum potestate sit, ut populus romanus ad omnium salutem sedulos illos habeat adiutores. (Il console, eletto per primo, mandi una lettera a tutte le genti con le quali vi è alleanza di amicizia e d'armi con il popolo romano con la quale chieda loro di fare in modo che i cittadini romani e i soci latini italici possano svolgere senza restrizioni e senza pericolo i propri affari o qualsiasi attività attraverso le città dell’oriente e le isole e, inoltre, possano navigare in un mare sicuro; inoltre, per gli stessi motivi, ammonisca la Cilicia conquistata dal proconsole Marco Antonio. Parimenti anche al re che regna nell'isola di Cipro, e al re che regna in Alessandria e in Egitto, e al re che regna in Cirene, e ai re che regnano in Siria, con i quali tutti vi è amicizia, e alleanza d'armi con il popolo romano, nelle lettere inviate, dichiari che non solo è giusto che abbiano cura che nessun pirata esca dal loro regno, né alcun pirata dai loro territori o territori, né che accolgano come magistrati o generali delle guarnigioni, da essi previsti, i pirati ma si preoccupino anche, per quanto è in loro potere, che il popolo romano li abbia diligenti aiutanti per la salvezza di tutti).
[39] La sua flotta fu annientata e lui pare essersi salvato con un vergognoso compromesso: Diodoro Siculo XL.1.
[40] In un primo tempo Gabinio tentò di ottenere il provvedimento dal senato, ma per poco non ci rimise la pelle, tanto tenaci erano le resistenze dei senatori: v. F. De Martino, Storia della costituzione romana, III, Napoli 1966, 132 ss.
[41] V. F. De Martino, Storia della costituzione romana, III, cit., 135. Cui adde: J.P. de Jorio, La pirateria marittima. Storia di ieri storia di oggi. - Inquadramento giuridico di un fenomeno che è tornato di attualità dall’Oceano Indiano al Mar Mediterraneo, Napoli 2019, partic. Cap I, dove l’A. si sofferma sulla diffusione ed il contrasto alla pirateria nell’antichità, anche con riferimento specifico all’esperienza romana (7-11).
[42] App., Mithrid. 94-96.
[43] Che non era menzionato, ma tutti sapevano che si trattava di Pompeo.
[44] Regione costiera a ridosso delle montagne dell’attuale Turchia.
[45] Sull’intera materia, v. J. Rougé, Navi e navigazione nell’antichità, Firenze 1977, 110. Cfr.: App., Mithr. 96; Plutarcus, Pompeius 27-28; Cicero, De officiis 3.11.49.
[46] App., civ. 77-80.
[47] Cfr. M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell’impero romano, Firenze 1963, 504 ss.
[48] N. Ronzitti, in ED xxxiii, cit., 875.
[49] (Pomponio l. 2 a Quinto Mucio: ‘Nemici’ vanno ritenuti coloro che pubblicamente ci hanno dichiarato guerra o ai quali noi abbiamo dichiarato guerra: gli altri sono ladroni o predoni).
[50] (Ulpiano l. 1 delle istituzioni: Nemici sono coloro ai quali il popolo Romano pubblicamente ha dichiarato guerra o che hanno dichiarato guerra al popolo Romano: gli altri vanno chiamati ladruncoli o predoni).
[51] (Tr.: Il pirata non rientra tra i nemici pubblici, ma tra i comuni nemici di tutti). I nemici comuni di tutti erano coloro che, fuori da ogni possibile consorzio civile e di là da ogni regola, costituivano una calamità assimilabile alle tempeste del mare.
[52] Sul punto vi è una letteratura molto vasta. Ricordo che il pretore aveva predisposto appositi strumenti (come l’exceptio doli e l’exceptio pacti conventi) per consentire il rispetto dei patti, nell'edictum de pactis et conventionibus, in cui era contenuta la generale previsione: pacta conventa, quae neque dolo malo, neque adversus leges plebis scita senatus consulta edicta decreta principum ne qua fraus cui eorum riai facta erunt, servabo (darò attuazione ai patti che siano stati conclusi non dolosamente, né contro le leggi, i plebisciti, i senatoconsulti, gli editti e i decreti degli imperatori, né in modo tale da esser in frode a tali provvedimenti normativi). Cfr. M. Talamanca, Istituzioni, cit., 606 ss.; G. Pugliese, Istituzioni, cit., 646 ss.; M. Marrone, Istituzioni, cit., 509; F. Sturm, Il pactum e le sue molteplici applicazioni, in Contractus e Pactum – Tipicità e libertà negoziale nell’esperienza tardo-repubblicana. Atti del convegno di diritto romano e della presentazione della nuova riproduzione della littera Florentina [cur. F. Milazzo], Napoli 1990, 149 ss.
[53] D. 49.15.24, Ulpianus l. 1 institutionum: et ideo qui a latronibus captus est, servus latronum non est (di conseguenza chi è stato rapito dai pirati non diventa loro schiavo); D. 50.15.19.2, Paulus l. 26 ad Sabinum: A piratis aut latronibus capti liberi parmanent (Ulpiano l. 1 delle istituzioni: le persone catturate dai pirati o dai ladroni restano libere); D. 28.1.13 pr., Marcianus l. 4 institutionum: Qui a latronibus capti sunt, cum liberi manent, possunt facere testamentum (Marciano l. 4 delle istituzioni: Coloro che siano stati catturati dai ladroni possono fare testamento, perché restano liberi). Sul punto, come su tutta la tematica dei pirati, e sui brani v. L. Damati, Civis ab hostibus captus. Profili del regime classico, Milano 2004, 11, 41, 26, 36 s.
[54] cfr. N. Ronzitti, v. Pirateria, cit., 879.
[55] Cfr. N. Ronzitti, v. Pirateria, cit., 880.
[56] D. 14.2.2.3, Paul l. 34 ad edictum; N. Ronzitti, v. Pirateria, cit., 881.
[57] V. D. 48.19.28.10 e 15, Callistratus l. 6 de cognitionibus: cfr. N. Ronzitti, v. Pirateria, cit., 882.
[58] (Alfeno l. 2 dei digesti: Il servo non suole essere esentato dalla pena per tutto ciò che ha fatto per ordine del padrone, come quando il padrone abbia comandato al servo di commettere un omicidio o di rubare. Di conseguenza sebbene il servo si dette alla pirateria per ordine del padrone, sarà ugualmente perseguito dopo - l’eventuale - acquisto della libertà. E qualsiasi cosa abbia commesso con violenza comportante un delitto comporta la pendenza delle pene).
[59] Che, nel frammento, dovesse essere stato enunciato da Servio un principio già ampiamente affermato lo sostiene F. Horak, Rationes decidendi. Entscheidungsbegründungen bei den älteren römischen Juristen bis Labeo, Innsbruck 1969, 106 s. ed ivi ntt. 15-21, cui si rinvia anche per la bibliografia.
[60] Il principio che vietava ai padroni di comandare cose illecite ed ai servi di obbedire all’ordine ricevuto si radicò profondamente nell’esperienza romana, come dimostra una tassativa enunciazione di Seneca: Sen., de benef. 3.20.2: Nec enim aut nos omnia iubere possumus aut in omnia servi parere coguntur: contra rem publicam imperata non facient, nulli sceleri manus commodabunt (Né noi possiamo comandare tutto o i servi devono obbedire: quello che è ordinato contro l’interesse pubblico non dovranno farlo, non dovranno – cioè – prestare mano a nessun delitto).
[61] Per un articolato riferimento al naufragio, v., da ultimo, S. Galeotti, «Exitio est avidum mare nautis»: la «miserrima naufragorum fortuna» nell’antico Mediterraneo, in Jus- online 4, 2020, issn 1827-7942 Rivista di Scienze Giuridiche, a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano; in partic. Il § 4 4. Brevi cenni sulle misure adottate dai Romani «ad nautas ex maris periculis servandos».
[62] Indicativo in tal senso è il frammento di Ulpiano di D. 4.9.3.1, dal quale risulta l’accostamento, operato da Labeone (tra la fine dell’ultima Repubblica e gli inizi del Principato), tra naufragio e pirateria (v. il brano sopra alla nt. 10). Accostamento che dovette essere riconosciuto unanimemente: ne è conferma il frammento gaiano di D. 13.6.18 pr. (v. nt. successiva).
[63] La particolare severità era dovuta al fatto che dal contratto derivava un vantaggio esclusivamente al depositario: v. il mio: Regula e ius antiquum in D. 50.17.23. Ricerche sulla responsabilità contrattuale, Bari 1984, 123 ss., 215 ss.
[64] Emblematico è un frammento di Gaio, giurista della seconda metà del II sec. d.C.: D. 13.6.18 pr. Gaius l. 9 ad edictum provinciale: In rebus commodatis talis diligentia praestanda est, qualem quisque diligentissimus pater familias suis rebus adhibet, ita ut tantum eos casus non praestet, quibus resisti non possit, veluti mortes servorum quae sine dolo et culpa eius accidunt, latronum hostiumve incursus, piratarum insidias, naufragium, incendium, fugas servorum qui custodiri non solent. Quod autem de latronibus et piratis et naufragio diximus, ita scilicet accipiemus, si in hoc commodata sit alicui res, ut eam rem peregre secum ferat: alioquin si cui ideo argentum commodaverim, quod is amicos ad cenam invitaturum se diceret, et id peregre secum portaverit, sine ulla dubitatione etiam piratarum et latronum et naufragii casum praestare debet. Haec ita, si dumtaxat accipientis gratia commodata sit res, at si utriusque, veluti si communem amicum ad cenam invitaverimus tuque eius rei curam suscepisses et ego tibi argentum commodaverim, scriptum quidem apud quosdam invenio, quasi dolum tantum praestare debeas: sed videndum est, ne et culpa praestanda sit, ut ita culpae fiat aestimatio, sicut in rebus pignori datis et dotalibus aestimari solet (Gaio l. 9 all'ed. provinciale: Nei comodati si deve prestare una diligenza uguale a quella che ogni diligentissimo padre di famiglia usa nelle proprie cose, in modo che non presti solo quegli eventi fortuiti ai quali non potesse resistere. come le morti degli schiavi che accadono senza dolo e colpa, le incursioni dei predoni o dei nemici, le insidie dei pirati, il naufragio, l'incendio, le fughe dei servi che non sogliono essere custoditi. Quel che dicemmo dei briganti e dei pirati varrà se la cosa fu comodata ad uno perché la portasse con sé all'estero: diversamente pertanto se avessi comodato ad uno dell'argento - vasellame d'argento, perché diceva che avrebbe invitato degli amici a cena, e – invece - egli lo portò con sé all'estero, senza nessun dubbio deve prestare anche l'evento fortuito dei pirati e dei briganti e del naufragio. Ciò vale se il comodato fu fatto solo nell'interesse dell'accipiente - del comodatario. Invece se - fu fatto - nell'interesse di entrambi - i contraenti, come nel caso che avessimo invitato a cena un amico comune e tu ti fossi fatto carico di essa mentre io ti avessi comodato l'argento - il vasellame d'argento, per vero trovo scritto presso alcuni che devi prestare quasi solo il dolo: ma bisogna vedere se non si debba prestare anche la colpa, in modo che vi sia la stima della colpa allo stesso modo che si suole stimare nei confronti dei pegni e dei beni dotali).