Università di Verona
Dalla pro Rabirio perduellionis reo
alla causa Horatiana:
riflessioni su attestazioni storiche
e storiografiche del giudizio duumvirale
SOMMARIO: 1. Introduzione: il recente interesse per Orazio, Rabirio e i
processi per perduellio. – 2. Il processo contro l’Orazio superstite e il processo contro Rabirio: le
ascendenze cesariane e ciceroniane della narrazione di Tito Livio. – 3. Dall’annalistica
al processo contro Rabirio, dal processo contro Rabirio a Tito Livio. – 4. La persecuzione dell’Orazio
per violazione della patria potestas. – 5. Il giudizio duumvirale tra ‘fatto’ e ‘sfondo istituzionale’. – 6. Il parricidium mancato
di Saturnino. – 7. La sublatio iudicii imputata a Cicerone da Labieno. – 8. Un processo indicta causa
e contra leges. – 9. L’indole ‘politica’ dell’accusa contro Rabirio e
l’ideologia repubblicana di Tito Livio.
– 10. Annalistica e principio di legalità
nel 63 a.C. – 11. Il processo contro Orazio tra Livio e Dionigi. – 12. Causa Horatiana: qualche
riflessione di sintesi e qualche congettura sulla versione di Tito Livio.
– Abstract.
Negli ultimi anni è stato oggetto di un rinnovato e intenso interesse da parte della romanistica italiana l’oscuro e affascinante giudizio duumvirale, in una con le sue interconnessioni, sul piano del diritto sostanziale, con le fattispecie integranti gli estremi della perduellio, sul piano del diritto processuale, con la provocatio ad populum (non ancora elevata a ius in età regia, ma concessione graziosa), nonché, sul piano delle origini storiche, con il testo della lex horrendi carminis.
Pur seguendo strade metodologiche differenti e pur perseguendo obiettivi concreti non identici, tre recenti studi si sono dedicati a gettare luce sui molti aspetti controversi non solo dell’incriminazione dell’eroe sororicida e della sua vicenda processuale sotto il re Tullo Ostilio[1], ma anche delle «controverse tribolazioni di C. Rabirio» e, insieme a queste, di uno «dei più intricati misteri giudiziari della tarda repubblica»[2] che vide contrapposti, rispettivamente come difensore e come accusatore, Cicerone e Labieno, un tribuno della plebe dietro le cui scelte processuali non ci si inganna a rinvenire l’eminenza grigia di Gaio Giulio Cesare[3].
In questi studi, ora è stato enfatizzato l’ingegno innovativo – e quindi anche ‘falsante’ – dello storico patavino rispetto ai filoni narrativi precedenti (quali quelli ritenuti confluiti nelle pagine di Dionigi di Alicarnasso), rintracciandosi, per altro, ascendenze ‘cesariane e ciceroniane’ nella peculiare rappresentazione contenuta nel libro ab Urbe condita[4]. Ora – sulla scorta di una lettura incrociata della versione liviana sul processo all’Orazio superstite non solo con il discorso di difesa pro Rabirio perduellionis reo scritto dall’arpinate, ma anche con altre testimonianze sia in tema, sia tangenti il tema o assai lontane dal tema – si è cercato di delineare il percorso delle tradizioni storiografiche anteriori al II-I secolo a.C., supponendo tanto una derivazione ciceroniana del resoconto liviano su fatti e misfatti dell’Orazio superstite (nonché delle conseguenze di tali fatti e misfatti), quanto una ispirazione ‘annalistica’ della vicenda processuale che vide Rabirio accusato di perduellio secondo il rito duumvirale e Cicerone non solo patronus di quest’ultimo, ma anche consul tanto spregiudicato nel metter mano d’imperio alla giustizia penale quanto l’avversario politico Gaio Giulio Cesare nel riesumare riti ancestrali pre-repubblicani[5]. Ora si è inteso valorizzare tradizioni della celeberrima causa Horatiana alternative rispetto a quella emergente da Tito Livio (quale, ad esempio, è quella attestata da Verrio Flacco per il tramite di Festo nella voce ‘sororium tigillum’)[6].
È a valle di queste ultime importanti ricerche – capaci, per la densità e profondità di pensiero, di stimolare considerazioni e dibattiti, oltre che rimeditazioni e approfondimenti – che intendo versare in questo mio scritto alcune note personali che possano mettere a frutto le – pur eterogenee – recenti linee di interpretazione tracciate a margine della causa Horatiana attraverso sia la rilettura dell’orazione ciceroniana pro Rabirio perduellionis reo, sia la considerazione delle versioni alternative a quella liviana del celeberrimo episodio collocato sotto il regno di Tullo Ostilio subito dopo la vittoria dell’Orazio superstite sui Curiazi di Alba Longa.
In un contributo che riprende, puntualizza, chiarifica ed espande un suo precedente e fondamentale studio sui cd. duumviri perduellionis[7], Bernardo Santalucia ha sottoposto a critica rigorosa e minuziosa la ‘versione liviana’ del processo all’Orazio per ribadire e precisare le conclusioni raggiunte quasi quarant’anni prima. Secondo lo studioso, infatti, «la lex perduellionis e il correlativo procedimento duumvirale non facevano parte fin dalle origini della storia dell’Orazio»; tutt’al contrario, la legge non compariva nella versione tradizionale del processo dell’Orazio, in quanto «era venuta alla luce per la prima volta in occasione del processo di Rabirio, quando Giulio Cesare, pontefice massimo, l’aveva scovata negli archivi della Regia per farne uso contro l’anziano senatore». Se, inoltre, è «in Livio che per la prima volta troviamo innestati nel processo dell’Orazio la lex perduellionis e il procedimento duumvirale», allora, sempre a seguire Santalucia, è congetturabile non solo che il patavino sia venuto a sapere dell’esistenza della legge proprio attraverso il processo di Rabirio ma anche che, nel procedere alla rielaborazione del processo dell’Orazio, lo storico non abbia «compulsato direttamente la legge (o una copia della stessa)», ma più verosimilmente abbia conosciuto «l’antico testo normativo attraverso i riferimenti contenuti nell’arringa di Cicerone»[8].
Livio, in altre parole, avrebbe modificato la storia tradizionale del processo dell’Orazio rispecchiata fedelmente, anzitutto, nella narrazione di Dionigi (dove, per l’appunto, mancano riferimenti ai duumviri, alla provocatio e alla perduellio, discorrendosi solo di processo regio deferito al popolo e di omicidio) elevando, nella sua personale rielaborazione della causa Horatiana, il processo di Rabirio a «eccellente modello»[9].
Secondo quanto sostenuto da Santalucia nelle sue ultime pagine dedicate al tema, infatti, nel 63 a.C. il vecchio senatore accusato di perduellione da Labieno e condannato a morte da uno dei duumviri estratto a sorte, aveva bloccato l’esecuzione della agghiacciante condanna soltanto grazie all’esercizio di una provocatio imposta ad personam (e non ex lege) da Cicerone, il quale, così facendo, attuava, come console dotato di maior potestas rispetto ai duumviri[10], una autentica e inopinata sublatio iudicii, ossia un sovvertimento del giudizio, un intervento d’autorità che non poteva che scatenare le ire di Labieno. I duumviri, sia nel testo della legge, sia nella realtà storica del I secolo a.C., costituivano «un tribunale speciale, incaricato di procedere straordinariamente e senza partecipazione del popolo» e il procedimento facente loro capo e previsto nell’antico testo reperito da Cesare si celebrava indicta causa, ossia sommario ed esente da provocatio, volto a una repressione immediata tale per cui il iudicatus non avrebbe avuto alcuna possibilità «di esporre le proprie ragioni, discolpandosi o quanto meno attenuando la propria colpa»[11].
Tutto ciò precisato, lo studioso tira le fila del discorso per concludere che l’omicidio perpetrato dall’Orazio in conformità al racconto tradizionale si prestava a essere convertito facilmente – come in concreto fece Livio – in un’ipotesi di perduellio (piuttosto che di omicidio), proprio perché l’eroe romano aveva sostituito alla giustizia del re la propria giustizia, «rendendosi a sua volta colpevole di tradimento»[12]. La provocatio, insomma, pur non contemplata dalla originaria lex horrendi carminis quale diritto dell’iudicatus nel processo duumvirale[13] e imposta da Cicerone, veniva inserita da Livio nel testo stesso della lex horrendi carminis riprodotto (falsamente verbatim) nel libro primo della sua storia di Roma: il patavino – a giudizio di Santalucia – imprimeva così a questo mezzo processuale, simbolo per eccellenza dell’età repubblicana, il «carattere di mezzo istituzionale di salvaguardia della libertà, a cui ogni cittadino poteva far richiamo fin dall’età più remota»[14].
In un articolo tanto denso, interessante e suggestivo, quanto complicato e congetturale, Roberto Fiori ha approfondito più che gli aspetti processuali della vicenda dell’Orazio superstite, il problema – storico e giuridico – della configurazione, emergente da un filone di fonti antiche non univoco, in termini di perduellio dell’uccisione della cd. ‘Camilla’ quale civis indemnata (e ciò similmente all’uccisione di Saturnino ascritta a Rabirio da Labieno e da Cesare) e non, invece, di parricidium o di ‘uccisione non giustificata’, come invece altri testi antichi diversamente suggeriscono.
La convinzione circa la verisimiglianza dell’influenza, non a senso unico, ma reciproca tra la – stratificata – vicenda ‘annalistica’ dell’Orazio e quella ‘storica’ di Rabirio è uno dei motori dell’ampia ricerca condotta da Fiori. Da un lato, lo studioso – in parziale adesione all’orientamento che ritiene la causa Horatiana il modello del processo contro Rabirio[15] – assume alquanto probabile che già prima del 63 a.C. la condotta tenuta dall’Orazio fosse qualificata nei resoconti storiografici circolanti dall’età arcaica in termini di perduellio e «che sia stato il ricordo dell’accusa più antica a fornire il modello per quella più recente»[16]: nella versione diffusasi a Roma tra II e I secolo a.C., più precisamente, si sarebbe parlato per la caedes della civis indemnata di perduellio (non di parricidio) e di un giudizio popolare (non di processo duumvirale), mentre nel giudizio intentato contro Rabirio si sarebbe ripetuta l’accusa di perduellio per un analogo comportamento (aggiungendo il procedimento scoperto nella lex horrendi carminis, quale legge che prevedeva solo un giudizio indicta causa e sine provocatione) e si sarebbe ammessa la provocatio ad populum «forse proprio sulla base dell’esempio di Orazio», comparendo la provocatio ad populum «non solo nel racconto liviano, ma in tutti i resoconti»[17]. Dall’altro, nel saggio si immagina come probabile – sulla scorta dell’orientamento fatto proprio dallo stesso Santalucia – sia che l’uso del giudizio duumvirale nel processo di Rabirio sia stato «il risultato di un’operazione di archeologia giuridica del partito di Cesare finalizzata a dimostrare l’incompatibilità dei procedimenti sommari … con le garanzie del cittadino proprie della costituzione repubblicana»[18], sia, dunque, che la lex horrendi carminis (e quindi la procedura esitante definitivamente nella iudicatio dei duumviri) sia stata innestata da Livio nella pregressa tradizione di Orazio (in cui, appunto, si discorreva di giudizio popolare, ma non di processo duumvirale), proprio «sulla suggestione del processo di Rabirio»[19].
Lo scopo– attraverso la valorizzazione di molteplici indizi qua e là sparsi nelle fonti[20] – è quello di precisare, lungo un articolato percorso argomentativo, le tappe della diacronia del racconto, dalla sua formazione alla sua trasformazione nei secoli che vanno dal VI al I a.C. Solo nell’annalistica dell’ultima età repubblicana – a seguire le conclusioni dello studioso – le narrazioni si sarebbero sdoppiate: da una parte, si sarebbe mantenuto per il sororicidio la qualifica di perduellio, «per quanto scorretta e verisimilmente … giustificata solo per l’antichità degli eventi», basandosi su questa versione «sia il racconto di Livio, sia l’imitazione compiuta nel processo di Rabirio – con la sola aggiunta della lex horrendi carminis riscoperta dai giuristi e gli eruditi della cerchia di Cesare»; dall’altra «più correttamente dal punto di vista giuridico ma con minore rispetto della tradizione» l’uccisione della sorella sarebbe stata qualificata come parricidium, «divenendo questa versione la maggioritaria»[21].
Nei più recenti saggi scritti da Luigi Garofalo sull’episodio dell’Orazio superstite (considerato meritevole di un «particolare approfondimento … al di là della sua attendibilità storica»)[22], si rinviene una sottile lettura capace di innestarsi nel quadro delle interpretazioni proposte in dottrina ora allineata alle opinioni più diffuse e ortodosse, ora innovativamente eversiva ancorché sempre saldamente radicata al dettato degli autori antichi.
Ai principali interrogativi di indole giuridica che suscita il racconto di Livio (perché all’Orazio viene imputata la perduellio e non il reato di omicidio doloso? Se già la lex horrendi carminis muniva del ius provocationis l’Orazio, perché costui lo esercita solo grazie all’intervento del re? Come conciliare l’attribuzione al popolo di un ruolo giudicante in ambito criminale?)[23], le risposte più convincenti – ma non per questo tutte meritevoli di piena adesione – sarebbero, per Garofalo, le seguenti: «l’Orazio è perseguito a titolo di perduellio in quanto, uccidendo la sorella, colpevole di aver pianto un nemico, si è arbitrariamente sostituito ai titolari della potestà punitiva pubblica»; «la lex horrendi carminis non prevedeva il ius provocationis da parte di colui che i duumviri giudicassero reo di perduellio», atteso che «la clausola si a duumviris provocarit, provocatione certato» sarebbe solo «un’inserzione posteriore al conio della legge in parola» tanto che «l’Orazio … chiede la rimessione della causa al popolo spintovi da Tullo, per il quale i verba del disposto normativo non precludono l’accoglimento dell’istanza»; «il coinvolgimento del popolo in veste di organo decidente», ciò rappresentando «un precedente a valenza paradigmatica non privo di legittimità»[24].
Ciò precisato, l’autore tenta una rideterminazione della colpa dell’Orazia per la cui punizione immediata il fratello viene accusato di un reato lesivo di interessi comunitari, la perduellio[25], nella convinzione che sia poco prudente «trascinare nel campo dell’illecito la comploratio dell’Orazia», atteso che Livio non la qualifica come giuridicamente riprovevole e neppure «la attrae nell’orbita di un qualche reato, proditio o altro: semplicemente ne fa il movente dell’ira letale del fratello»[26]. Nel perseguimento di questo fine, la narrazione del patavino viene integrata – come già si ricordava di sfuggita – alla luce della voce festina ‘sororium tigillum’[27] e viene così riscolpita non solo la violazione per cui l’Orazia viene uccisa, ma anche la violazione – se non il nomen iuris del reato – imputabile all’Orazio in ragione della commissione di una caedes ingiustificata oltre che manifesta ed atrox.
Se «sottraendosi all’osculum richiestole … l’Orazia non viene semplicemente meno a un atto di cortesia», ma «viola un vero e proprio diritto soggettivo di matrice consuetudinaria, appunto il ius osculi, spettante a ogni maschio nei confronti delle femmine che gli fossero parenti o affini entro il sesto grado»[28], allora sono solo il pater familias o il titolare della manus sia a godere di prerogativa giurisdizionale in materia «delle mancanze di ordine per così dire privatistico commesse dalle donne assoggettate a loro» (tra le quali non può essere escluso «il rifiuto del bacio al titolare del ius osculi»), sia a provvedere alla sanzione, graduando la pena in relazione alle circostanze del caso concreto, e senza escludere «l’applicabilità di quella capitale»[29]. È facilmente intuibile la conseguenza di questa ricostruzione sulla natura dell’illecito per cui Orazio viene raptus in ius, poi iudicatus dai duumviri, poi – a seguito della provocatio e dell’intervento in sua difesa del pater (che proclama ‘se filiam iure caesam iudicare; ni ita esset, patrio iure in filium animadversurum fuisse’– assolto dal popolo admiratione magis virtutis quam iure causae: «l’Orazio superstite, ammazzando la sorella perché colpevole di averne respinto l’osculum, usurpa un potere del padre», sicché «essendosi appunto sovrapposto all’unico organo cui la civitas riconosceva giurisdizione in materia, dell’uccisione, che a tutti appariva quale atrox facinus, risponde a titolo di perduellio»[30].
Dopo la rapida – e si auspica il più possibile fedele – presentazione dei punti più salienti dei tre recentissimi studi presi in esame e riportati nelle pagine precedenti, è opportuno riassumere, in vista di una ritrattazione critica della materia, il cuore delle rispettive ricostruzioni considerate: e ciò almeno limitatamente a quanto, tra i numerosissimi profili problematici propri della storia del giudizio duumvirale, nel contesto del presente articolo maggiormente interessa.
Per Santalucia, il nesso ‘perduellio – iudicatio duumvirale – provocatio ad populum’ all’insegna della celebre lex regia dal carmen horrendum, non sarebbe che un’invenzione storiografica degli ultimi decenni del I secolo a.C. (ispirata ampiamente dalle recenti ed eccezionali vicende processuali che videro opposti, nel quadro dell’accusa di Labieno contro Rabirio, Cesare e Cicerone), sostitutiva del più antico nesso ‘parricidium – processo popolare’. Per Fiori, l’antichissimo nesso storiografico ‘perduellio – processo popolare mediante provocatio’ sarebbe esitato in quello ‘perduellio – iudicatio duumvirale – provocatio ad populum’ agli inizi del I secolo a.C., attestato, prima che da Livio, dall’operazione ‘archeologica’ cesariana di recupero della lex horrendi carminis e dalla contro-mossa ciceroniana di concessione ex imperio, a favore di Rabirio, della provocatio ad populum. Per Garofalo, una volta reinterpretato il reato di ‘perduellio’ dell’Orazio alla luce della nuova ipotesi di violazione ascritta alla sorella (grazie ad una lettura che integra i fatti narrati da Livio con quanto emerge da Festo), la scansione ‘giudizio duumvirale – provocatio ad populum’ sarebbe ancora una volta letta come il risultato, sul piano della rielaborazione della vicenda, di una falsificazione della lex horrendi carminis priva della clausola ‘si a duumviris provocarit’.
A mente di tutto ciò, non resta che premettere all’analisi versata nelle prossime pagine una cursoria, ma non insignificante, precisazione: è all’insegna di un ripensamento del rapporto tra ‘rappresentazione storiografica’ (come re-invenzione o come descrizione di fatti e di istituti) e ‘storicità’ (come connotato di fatti e istituti solo teoricamente autonomo e astratto dall’opera dell’uomo) che le questioni attinenti al giudizio duumvirale nei suoi controversi presupposti sostanziali (parricidium/perduellio) e nei suoi dubbi aspetti rituali (provocabilità/definitività della sentenza) verranno riprese e approfondite con riguardo alle sue due uniche manifestazioni di I secolo a.C., vale a dire il ‘fatto’ del processo subìto da Rabirio e l’‘istituto’ emergente dalla narrazione liviana della vicenda dell’Orazio superstite.
Rimane più che probabile che i primi libri dell’opera di Livio furono redatti a partire dal 25 a.C., vale a dire poco meno di quaranta d’anni dopo che Cicerone – nella prima metà del 63 a.C.[31] – aveva pronunciato la sua oratio in difesa di Rabirio, reus perduellionis e che l’uso dell’antichissima procedura duumvirale così come l’intervento consolare aveva suscitato grande scalpore. Tuttavia, e ciò nonostante, mi pare poco credibile che lo storico patavino, suggestionato dalle peculiarità della causa Rabiriana, si sia spinto a reinventare pressoché in toto la tradizione attraverso una rielaborazione dell’episodio dell’Orazio sulla scorta della vicenda processuale di Rabirio condannato dai duumviri, sia aderendo alla sussunzione della caedes civis indemnati nel reato di perduellio, sia innestando in un contesto monarchico l’istituto repubblicano della provocatio, sia inventando il testo della lex horrendi carminis.
A voler così ipotizzare, infatti, sarebbe giocoforza ritenere, in primis, che solo in occasione del processo del 63 a.C. sarebbe stato innovativamente configurato come perduellio un fatto ‘pacifico’ di parricidium (il cagionamento della morte di Saturnino imputato a Rabirio)[32]. Ma, se così fosse stato davvero, allora non si spiegherebbe affatto il silenzio di Cicerone, lungo tutto il suo discorso in difesa di Rabirio, circa una abnormità giuridica di tal fatta: l’Arpinate indugia – con picchi di retorica smaccata e pesante[33], ma abile nel ripetere e capovolgere a sostegno degli optimates gli slogan dei populares[34] – sulla crudele procedura regia scelta da Labieno[35] e sulla contrarietà della stessa sia ai valori repubblicani sottesi alla libertas e incarnati nelle leges sia allo spirito tribunicio della carica ricoperta dall’accusator[36]. Non una sola parola, invece, spende Cicerone, consul et patronus, sulla sussunzione sostanziale dei fatti ascritti al suo assistito, di cui, per l’appunto, chiede l’assoluzione o perché egli non avrebbe commesso la caedes[37] o perché il fatto materiale della caedes, anche se commesso, sarebbe stato comunque scriminato[38]: mai, neppure implicitamente o parenteticamente, si contesta la tesi dell’accusa secondo cui la condotta sarebbe stata riconducibile, in astratto oltre che in concreto, a una ipotesi di perduellio.
Del resto, lo stesso dibattito senatorio che precede la promozione del giudizio duumvirale – per come viene riprodotto, ma senza troppa precisione e linearità, da Cassio Dione (scrittore di avanzata età imperiale il cui pubblico era ellenofono)[39]– pare non aver mai riguardato quella che – per la tesi qui avversata – dovrebbe essere la stravagante sussunzione dell’uccisione di Saturnino nella perduellio: anzi, data per incontroversa tale questione sostanziale, i senatori si confrontano solo sul tipo di ‘procedura’ (κρίσις) e sul tipo di ‘tribunale’ (δικαστήριον)[40].
Ciò precisato in merito alla plausibilità giuridica della integrazione degli estremi del reato di perduellio mediante la commissione di una caedes intenzionale di indole politica[41], non credo sostenibile sulla scorta di taluni dati dell’orazione ciceroniana il ritenere che il testo della lex horrendi carminis (citato da Livio come comprensivo del tratto ‘si a duumviris provocato, provocatione certato’) originariamente e, quindi, anche nel contesto applicativo del processo contro Rabirio – a seguito del discoprimento dello stesso da parte di Cesare[42] – ne fosse privo, di talché il processo duumvirale avrebbe dovuto ritenersi – prima, senza lo straordinario intervento consolare di Cicerone; poi, senza la riscrittura della tradizione da parte di Livio – definitivo e non gravabile.
In modo apparentemente chiuso a obiezioni, infatti, è stato rilevato come la indebita sublatio iudicii lamentata da Labieno e giustificata da Cicerone in nome dei valori della res publica – quale soppressione del giudizio da identificarsi proprio nella concessione ‘ultra legem’ della provocatio ad populum – non si spiegherebbe affatto, se il testo di legge dedotto a fondamento dell’accusa avesse previsto un giudizio popolare oltre la iudicatio dei duumviri[43]. L’argomento è robusto, ma non invincibile, in quanto la sua forza presuppone un’equazione nient’affatto certa[44]: vale a dire che la sublatio del giudizio duumvirale di cui Cicerone era stato ripetutamente ‘incriminato’ dal tribuno della plebe, non foss’altro che l’atto consolare con cui si sarebbero costretti i duumviri, magistrati inferiori[45], a sottoporre la causa al comizio centuriato del popolo romano.
Va premesso che, a mio modo di vedere, risulta più che verisimile, anzi pressoché certo, che l’orazione ciceroniana sia stata pronunciata dinanzi le centurie a seguito della provocatio di Rabirio (e non in un autonomo processo tribunizio capitale o multaticio instaurato da Labieno). E ciò sia atteso che Dione e Svetonio – pur non concordando sul possibile esito della votazione (bloccata anticipatamente dall’intervento dell’augure e pretore Metello Celere)[46] – configurano la vicenda processuale di Rabirio come unica e come caratterizzata dalla sequenza ‘iudicatio duumvirale– provocatio ad populum – certatio apud populum’[47]; sia atteso che Cicerone – se non un suo più tardo editore – intitola pro Rabirio perduellionis reo, e non altrimenti[48], l’orazione scritta per sostenere nel 63 a.C. l’impiego ‘ottimate’ del senatus consultum ultimum – tanto quello a copertura del console Mario e del cavaliere Rabirio nel 100 a.C., quanto l’istituto in sé e per sé considerato – contro gli attacchi diretti e indiretti di Labieno; sia atteso che il riferimento fatto dall’arpinate alla multae inrogatio non sarebbe necessariamente da intendere come riferimento ad un processo in corso[49].
In questo contesto ricostruttivo (comune rispetto a quello in cui anche la tesi avversata si inserisce), però, la sublatio iudicii di cui viene accusato Cicerone ben può essere letta, a mente di alcuni dati assai importanti che emergono dall’orazione, differentemente.
L’oratore, infatti, dopo aver ricordato che ‘de perduellionis iudicio, quod a me sublatum sse criminari soles, meum crimen est, non Rabiri’ e che tale crimen per lui altro non è che ‘proprium testimonium laudis’, sembra sovrapporre la sua sublatio del iudicium semplicemente al ‘carnificem de foro, crucem de campo sustulisse’, per poi contrapporre la acerbitas e la crudelitas dei supplicia di età regia – voluti da Labieno e da Cesare – alla lenitas legum munita dell’età repubblicana la cui libertà, messa a rischio da un ritorno odioso al regno, sta difendendo come magistrato e come patrono[50]. Non si rinviene un solo autentico cenno, invero, alla provocatio ad populum. Cicerone ammette la sublatio e se ne vanta: egli è sì intervenuto extra ordinem, ossia nella sua autorità di console[51], a difesa di Rabirio e di Roma stessa, ma non per introdurre surrettiziamente una provocatio non prevista legislativamente, bensì per impedire tout court l’esecuzione della iudicatio duumvirale tanto prima quanto dopo la provocatio ad populum, che – se Svetonio, attraverso il participio ‘provocanti’, e Dione, attraverso il sostantivo ‘ἔφεσις’, menzionano senz’altro, dandola per certa – Livio documenta come oggetto di previsione legislativa[52]. Cicerone non si sarebbe limitato, cioè, a paralizzare momentaneamente il supplizio more maiorum (cosa che, per l’appunto, avrebbe permesso già la provocatio elevata da Rabirio senz’altro), ma ne avrebbe esclusa la attuazione anche dopo l’eventuale iussus popolare di conferma della iudicatio duumvirale. Rabirio, anche se giudicato perduellis non solo da Cesare ma anche dal popolo, non sarebbe stato messo a morte secondo quel rito raccapricciante degno del Superbo: o i comizi cui aveva provocato lo avrebbero assolto o lo avrebbero condannato ad altra pena rispetto a quella descritta nella lex horrendi carminis[53].
Di poi, se la sublatio si è risolta, come appena supposto, in una radicale soppressione della pena già pronunciata da un duumviro e da eseguirsi dall’altro[54] in caso di iussus del popolo centuriato contrario a Rabirio, e se, come si ricava da Livio[55], la certatio dinanzi al popolo, a seguito di iudicatio duumvirale e provocatio del iudicatus non può essere che tra i primi e il secondo[56], allora è ben spiegabile – il che invece non è se si accede alla lettura qui avversata – nell’orazione ciceroniana tanto l’assenza di richiami diretti a Gaio Giulio Cesare e Lucio Giulio Cesare, ossia ai due duumviri (come invece avrebbe dovuto essere in ipotesi in cui la provocatio si fosse regolarmente opposta in concreto al supplizio more maiorum), quanto il fatto che la difesa di Rabirio sia indirizzata costantemente a Labieno come accusator[57] e che proprio a questi – evidentemente quale presidente dell’assemblea – sia criticamente imputata dall’arpinate la concessione di solo mezz’ora per sostenere le finali ragioni del reus perduellionis[58].
La sublatio ciceroniana del supplicium cui Lucio Giulio avrebbe dovuto provvedere – a valle della pronuncia di Gaio Giulio – aveva avuto, insomma, ripercussioni anche sul rito giudiziale che la provocatio ad populum suscitava. Se, infatti, non era più questione di applicazione della pena duumvirale, allora non erano più i duumviri a dover certare per vincere; e fu così che Labieno, il tribuno della plebe, instaurò il giudizio comiziale per vedere applicata la pena sostitutiva sospesa; e fu così che Cicerone, patronus di Rabirio, compose contro questi, e non contro i duumviri, la sua arringa.
A quanto evidenziato nei precedenti paragrafi, si aggiunga che contro la regolare provocabilità della iudicatio duumvirale non mi paiono decisivi né il riferimento all’essere indicta causa del processo promosso da Labieno né la contrarietà di quest’ultimo – per come lamentata da Cicerone – alla lex Porcia de tergo civium e alla lex Sempronia de capite civis[59].
In primo luogo, la critica concernente l’essere indicta causa del giudizio duumvirale ben può appuntarsi alla sola assenza di formale istruttoria – e, quindi, di anquisitiones – prima della solenne pronuncia di condanna[60], e non anche all’assenza del ius provocationis (il cui esercizio, invece, attiene al momento successivo alla iudicatio). In secondo luogo, posto che la lex Sempronia voluta da Gaio Gracco nel 123 a.C. – pur retroattiva per colpire il console Popilio Lenate e il suo collega, in quanto diressero ex senatus consulto i processi extra ordinem del 132 a.C. contro i seguaci e i clienti di Tiberio Gracco[61]– era tesa a limitare per il futuro l’istituzione di quaestiones capitali solo in forza di un previo iussus populi[62] (e non, invece, a subordinare l’esecuzione capitale a un successivo iussus populi)[63], allora l’appunto ciceroniano ben può comprendersi senza immaginare una critica alla procedura duumvirale per l’esclusione della provocatio ad populum: fondata su una legge regia i cui contenuti erano stati disvelati ex annalium monumentis atque ex regum commentariis[64], nonché autorizzata, dopo viva discussione, dal senato[65], la procedura prescelta da Labieno – riteneva Cicerone – era in contrasto con la lex Sempronia, proprio perché messa in moto in assenza di una previa autorizzazione mediante lex popolare[66]. Quanto alla lex Porcia de tergo civium – che essa abolisse la verberatio come provvedimento autonomo o prevedesse per i cives la provocatio contro l’ordine magistratuale di fustigazione[67] –, ancora una volta mi pare chiaro come le censure, enfatizzate con estrema vis rhetorica da Cicerone e rivolte a Labieno, non si appuntassero affatto al profilo della supposta ‘non provocabilità’, ma ancora una volta concernessero le modalità dell’esecuzione: se ai consoli è fatto divieto – assoluto o relativo – di usare, per il tramite del lictor, le virgae, a più forte ragione, riteneva la difesa, non può essere consentito a un magistrato speciale inferiore come il duumviro addirittura di ordinare ad un carnifex di eseguire la sanzione capitale mediante flagella[68] (laddove l’accusa, verisimilmente, escludeva la violazione della lex Porcia, sia perché quest’ultima era volta a comprimere per il futuro i soli poteri di coercitio magistratuale, capitale o corporale, e non l’esecuzione presupponente una iudicatio capitale ammessa da una legge precedente).
Ciò detto, non va infine sottovalutato un aspetto di strategia processuale a favore della tesi – a mio credere da preferire – secondo cui la procedura duumvirale, applicata nel 63 a.C. e stereotipata dalla tradizione nell’episodio dell’Orazio superstite, prevedeva ex lege, ossia già in forza della stessa lex horrendi carminis, la provocatio ad populum[69]. Se è vero che il processo contro Rabirio era anche un palcoscenico per sferrare, da parte della fazione cesariana, un colpo plateale contro l’uso spregiudicatamente politico (che si era fatto nel passato e che, nel futuro imminente, v’era sentore che si sarebbe ancora fatto) del senatus consultum ultimum[70], allora la scelta dell’impressionante ed esotico rito dissotterrato – grazie all’entourage di Cesare – dagli strati più profondi del regno antico acquista un senso ben preciso per indebolire la posizione degli ottimati. Un’actio regia – sembrano sottendere Labieno e Cesare – è di per sé stessa, per quanto macabra, più popularis dei rimedi pretestuosi per assassinare gli avversari politici privandoli del giudizio popolare; Rabirio tolse la vita a Saturnino, ancorché sotto la custodia di Mario, senza l’approvazione del popolo, e adesso – sembrano concedere il tribuno e il duumviro –deve scegliere tra il subire il supplizio capitale senza ricorrere al popolo (la cui volontà nel passato ha già trascurato) e l’umiliarsi – andando contro le sue convinzioni – a provocare ad populum. Reputare, all’opposto, che – da un lato – Cesare avesse riesumato una procedura di età regia sine provocatione proprio per denunciare la messa a morte sine iudicio dei populares e che – dall’altro – Cicerone avesse di imperio permesso la provocatio ad populum nel tentativo di giustificare la giustizia sommaria fondata su evocationes consolari e senatus consulta ultima, mi parrebbe attribuire all’una e all’altra parte posizioni non solo poco coerenti con i fini perseguiti e gli ideali presupposti, ma anche assai – anzi, troppo – facilmente aggredibili e vincibili dalle obiezioni dei rispettivi avversari.
A ciò si deve aggiungere una considerazione ulteriore circa la ‘ideologia’ liviana. Contrario allo stesso spirito che animano i libri ab Urbe condita, infatti, ritengo sia il supporre che lo storico patavino sia stato ispirato dal presunto intervento ciceroniano nel processo contro Rabirio – immaginato di per sé, come oltremodo noto, sine provocatione –, per eliminare la definitività della iudicatio duumvirale, e che abbia aggiunto alla vicenda dell’Orazio il riferimento (duplice in quanto innestato nel testo della lex horrendi carminis e presentato come concessione graziosa di Tullo Ostilio) alla provocatio ad populum[71]. Ebbene se la tradizione, per come affiora nelle opere ciceroniane e nei dati storiografici sui primi secoli della storia romana, presenta la provocatio ad populum non solo come patrona della civitas, ma altresì come arx, vindex, e praesidium della libertas repubblicana[72] (e ciò proprio in opposizione al regnum ove non vi è res populi e ove il populus non è in sua potestate, ossia liber, ma è in potestate del rex, ossia schiavo)[73], allora l’ipotetica falsificazione della lex operata da Livio insieme alla riconduzione della provocatio all’età regia – storiograficamente eversiva in quanto mai prima d’allora avvenuta – sfugge a una convincente spiegazione che risulti, in definitiva, idonea a giustificare, entro il piano ‘evolutivo’ consacrato nei libri ab Urbe condita, un’operazione al contempo così ardita (per la profonda alterazione della versione tradizionale del processo duumvirale) e così contraddittoria (per il dissidio con il solidissimo impianto ‘ideologico’ di connessione tra libertà e repubblica all’insegna della provocatio).
Alla luce delle considerazioni svolte nelle pagine precedenti, il confronto tra la pro Rabirio e la versione liviana del processo all’Orazio superstite non mi sembra provante per sostenere l’originale esclusione della provocatio dal giudizio dei duumviri e, quindi, dal testo della lex horrendi carminis, con la conseguenza che non posso neppure condividere l’idea secondo cui espressione della tradizione più antica e dominante sarebbe stata la narrazione dionisiana, articolata in ‘commissione dell’illecito di φόνος (e non di perduellio) – giudizio del βασιλεύς (e non dei duumviri) – κρίσις del δῆμος (senza alcuna provocatio)’[74]. Parimenti, non credo sia condivisibile la tesi che ha recentemente tentato di sezionare diacronicamente l’iter esitato nel libro primo della storia liviana ritenendo originaria la versione dell’accusa di perduellio e più recente quella configurante l’illecito di Orazio come parricidium. Come già si è più sopra rilevato, infatti, il giudizio duumvirale intentato contro Rabirio sotto più aspetti sarebbe stato modellato – secondo questa scuola di pensiero – sulla scorta della tradizione più recente della vicenda processuale dell’Orazio superstite: da un lato, il rito prescelto da Labieno avrebbe trovato fondamento giuridico sulla lex horrendi carminis (sine provocatione), dall’altro, la qualificazione dei fatti ascritti a Rabirio in termini di perduellio (e non di parricidium) avrebbe avuto un addentellato nella tradizione annalistica del I secolo a.C.
Questa ricostruzione implica, espressamente, che la sussunzione nella perduellio dell’ipotesi di caedes di un homo indemnatus avrebbe rappresentato nel 63 a.C. un errore sul piano giuridico: l’annalistica nel suo evolversi ed aggiornarsi avrebbe mantenuto fermo il riferimento formale originario alla perduellio nonostante il mutamento, nel corso dei secoli, dei fatti via via imputati all’Orazio (ossia: prima la violazione della disciplina militare, poi l’abuso di potere magistratuale, infine la uccisione della sorella da privato), con la conseguenza che la più recente elaborazione – a differenza delle due più antiche tradizioni succedutesi nel tempo – sarebbe stata del tutto scollata dalla realtà giuridica dell’epoca (realtà secondo cui «l’uccisione di un civis indemnatus da parte di un privatus … costituiva parricidium, e non perduellio»[75]). Dunque, anche questa tesi – come e anche più di quella che ipotizza che la versione annalistica più antica presentasse per l’Orazio l’accusa di omicidio – implica che il processo intentato da Labieno contro Rabirio si sia fondato, a livello di diritto sostanziale, su una errata qualificazione dei fatti materiali, con prevalenza del modello storiografico sul dettato e sullo spirito normativo.
Anche qui, mi pare alquanto implausibile che Cesare e Labieno si arrischiassero a promuovere un processo ‘farsa’ non solo ritualmente radicato su una lex regia, ma addirittura ispirato ad una fallace – almeno sub specie iuris – configurazione annalistica dei fatti materiali imputati al vecchio senatore, al fine di promuovere la ‘causa popolare’ e attaccare la fazione degli ottimati: così si sarebbero irrimediabilmente esposti non solo alle critiche demolitorie degli avversari, ma anche a una perdita di consenso e di credibilità presso il popolo (con inevitabili ripercussioni sul piano personale della carriera politica). E se per un attimo si accettasse che ciò fosse avvenuto (contro i più basilari principi di astuzia politica), mi parerebbe impossibile che non si dovesse rinvenire nell’orazione pro Rabirio – e prima ancora nel dibattito senatorio di cui dà un impreciso e fugace ragguaglio Dione – un qualche cenno di censura e di scherno, au coté des optimates, della temerarietà spregiudicata di Cesare e di Labieno, ossia di due populares che avrebbero inteso ineffabilmente processare un ottimate non solo per fatti poco chiari avvenuti circa quarant’anni prima, e non solo in assenza di quel quadro di legge che tanto era caro agli slogan dell’epoca, ma anche all’insegna di recenti narrazioni annalistiche per di più contrarie alla legge[76].
A chiosa del discorso sin qui sviluppato, v’è da segnalare, da ultimo, che trovano alcuni punti di criticità sia l’idea di una relativa recenziorità della versione ‘liviana’ rispetto a quella ‘dionisiana’ (nel senso sia che la prima è supposta, rispetto alla seconda, come invenzione del tutto personale ed eccentrica), sia l’idea di una maggior correttezza giuridica – nonché minor consentaneità alla tradizione – della seconda versione rispetto alla prima, anche al di là delle considerazioni già svolte nelle pagine precedenti sul rapporto tra perduellio, duumviri e provocatio.
Se si tiene in debito conto che i Valerii vengono costantemente presentati come esponenti di una gens filo-popolare il cui nome è legato al sommo baluardo della libertà repubblicana, vale a dire la provocatio ad populum[77], e se al contempo si osserva come gli Horatii – portatori simbolici non solo di una funzione guerriera, ma anche di una costante promozione della concordia[78] – siano sovente descritti in – più o meno accesa – competizione con i primi per la primazia della vicinanza al popolo romano[79], il plot della causa Horatiana emergente innanzitutto da Dionigi (ossia: giudizio regio convertito in popolare per l’avere l’eroe di Roma contro Alba ucciso la sorella ἄκριτον) ben può essere spiegato come resa ‘alternativa’ rispetto alla ben più complessa e stravagante trama consacrata nei libri ab Urbe condita (ossia: giudizio duumvirale in sostituzione di quello regio per perduellio, provocatio, giudizio popolare). Come noto, gli autori che per lo storiografo greco erano fonte privilegiata per gli avvenimenti dell’età regia e della prima età repubblicana erano Valerio Anziate e Licinio Macro[80], sicché è più che plausibile che il lineare racconto della vicenda processuale dell’Orazio superstite sia dipeso dagli annales di uno di questi due. Ebbene, se si suppone che la fonte dionisiana sul punto sia l’Anziate, allora diviene lecito altresì supporre che fosse interesse di quest’ultimo, proprio per non indebolire il legame tra la sua gens di appartenenza e la promozione della libertas repubblicana, estromettere i riferimenti alla provocatio di età regia e, così, nascondere lo scomodo collegamento – indiretto, ma non irrilevante – di questo istituto con la sola gens Horatia, così come l’ascrizione – diretta – a un rex (e non a un magistrato del popolo Romano[81]) della paternità della più fondamentale delle garanzie processuali, altrimenti vanto e gloria per la schiatta dei Valerii.
Un processo prima regio e poi comiziale di un Horatius, eroe ma anche delinquente, senza riferimenti alla provocatio ad populum (così da preservarne le origini repubblicane e ‘Valeriae’), in definitiva, ben si inquadra – seppur solo congetturalmente – nelle possibili opere di falsificazione dell’annalistica filo-valeria, che, epurata la storia dall’accusa di perduellio, gettava le basi per la qualificazione in termini di parricidium della uccisione della soror indemnata.
D’altra parte, senza poter qui entrare nella questione dell’impiego da parte di Livio delle sue fonti per ri-comporre e ri-elaborare il quadro di eventi successivi alla vittoria romana del duello tra Orazi e Curiazi[82], a mente del rilievo secondo cui tanto l’uccisione della sorella da parte dell’eroe romano quanto quella di Saturnino da parte di Rabirio – parallela e similare sul piano non solo del tipo di reato perpetrato, ma anche della repressione criminale nella sua articolazione[83]– vengono a-problematicamente e pacificamente riferiti al reato di perduellio da assoggettare al medesimo rito, come scriveva Watson «a principle akin to difficilior lectio creates a presumption supporting the Livian tradition», dal momento che «we cannot so easily assert that later writers invented absurd details which inserted into the tale and accepted»[84].
Quindi, per quanto sin qui rilevato, non solo non vedo ostacoli a considerare il giudizio duumvirale provocabile già in forza del tenore della lex horrendi carminis (di modo che, cioè, Rabirio, anche senza la necessità di un intervento straordinario del console Cicerone, potesse ottenere ex lege il deferimento ai comizi centuriati della causa). Non solo credo sia da escludere tanto che la versione liviana trovi la propria matrice, a livello di qualificazione sostanziale e di scansione dell’iter processuale, nel processo intentato contro Rabirio, quanto che quest’ultimo sia stato concepito non in forza della legge, ma in ossequio alla tradizione storiografica (a livello di reato da reprimere). Non solo propendo a ritenere che la versione dionisiana possa rappresentare una variante ‘anziate’ di altra pregressa tradizione consacrata nella rielaborazione augustea di Livio. Non solo credo tutto ciò, ma sono altresì convinto che si fondino su una astrattamente corretta qualificazione giuridica della caedes hominis indemnati in termini di perduellio ‘manifesta’[85]– e non di mero ‘omicidio’ a-politico – sia l’accusa nei confronti di Rabirio mossa dal tribuno della plebe Labieno (e formalizzata dal duumvir Gaio Giulio Cesare nella sua iudicatio), sia la analoga persecuzione dell’Orazio superstite[86]: per questo caso, ovviamente, qui prescindendosi sia dal problema della ‘storicità’ dell’episodio, sia da quello della esatta determinazione dell’epoca della sua eventuale creazione artificiale[87].
Invero, anche a voler intendere i dati emergenti dalla lettura del patavino come oggetto di elaborazione annalistica (vuoi con riguardo all’intera sequenza narrativa, vuoi con particolare riguardo o alla figura criminosa ascritta al campione romano, o al tipo di rituale seguito o al solo tenore della lex horrendi carminis), la versione dei fatti è stata concepita e rappresentata, a mio credere, così da poter essere letta e compresa – almeno nella Roma repubblicana del I secolo a.C. – come verisimile (se non autentica) e comunque rilevante per lo sfondo istituzionale implicato, nonché per l’ideologia e il senso veicolati[88].
Ed eccoci infine giunti nuovamente, dopo aver indugiato soprattutto sul processo del 63 a.C. contro Rabirio, là dove questo saggio era partito: il racconto della causa Horatiana incluso nel primo libro della storia di Roma di Tito Livio.
Durante il regno di Tullo Ostilio, a seguito del duello tra i campioni di Alba Longa (i tre fratelli Curiatii) e quelli di Roma (i tre fratelli Horatii) si decreta la fine delle ostilità tra le due città nonché la supremazia della seconda sulla prima[89]; il solo superstite, il princeps Horatius, di ritorno in patria, trigemina spolia prae se gerens, si imbatte ante portam Capenam nella propria soror la quale, desponsa uni ex Curiatiis, si scioglie i capelli in segno di lutto e invoca flebiter nomine sponsum mortuum così scatenando il furor del giovane eroe che, stricto gladio, transfigit puellam[90]. L’Orazio superstite, ritenuto dal padre non sanzionabile – al livello dell’ordinamento ‘famigliare’ – per l’uccisione della sorella[91], viene considerato autore – al livello del diritto cittadino – di un atrox facinus, di un illecito lesivo di interessi collettivi e, quindi, dedotto dinanzi al tribunale del rex Tullo Ostilio; benché processabile direttamente da quest’ultimo, in applicazione della lex horrendi carminis ha inizio un procedimento duumvirale e l’Orazio viene proclamato, da parte dei due ‘ausiliari’ regi, perduellis; indi, così iudicatus, in forza di una clemente interpretazione del testo della legge – che ne supera il tenore lessicale – avanzata dal rex stesso, l’Orazio ‘provocat’ per essere quindi assolto, admiratione magis virtutis quam iure causae, dal popolo romano suddiviso per curiae (popolo, di cui nessuna esplicita menzione si rinviene – giova qui, seppur incidentalmente, precisare – nel testo della lex riprodotta da Livio): … tamen raptus in ius ad regem. Rex ne ipse tam tristis ingratique ad volgus iudicii ac secundum iudicium supplicii auctor esset, concilio populi advocato ‘Duumviros’ inquit, ‘qui Horatio perduellionem iudicent secundum legem facio’. Lex horrendi carminis erat: ‘Duumviri perduellionem iudicent; si a duumviris provocarit, provocatione certato; si vincent, caput obnubito; infelici arbori reste suspendito; verberato vel intra pomerium vel extra pomerium’. Hac lege duumviri creati, qui se absolvere non rebantur ea lege ne innoxium quidem posse, cum condemnassent, tum alter ex iis ‘Publi Horati, tibi perduellionem iudico’ inquit. ‘I, lictor, colliga manus’. Accesserat lictor iniciebatque laqueum. Tum Horatius auctore Tullo, clemente legis interprete, ‘Provoco’ inquit. Itaque provocatione certatum ad populum est … Non tulit populus nec patris lacrimas nec ipsius parem in omni periculo animum, absolveruntque admiratione magis virtutis quam iure causae[92].
Innegabilmente la provocatio nel brano di Livio costituisce un problema, atteso che essa sia si presenta all’interno del testo della legge (si a duumviris provocarit, provocatione certato), sia costituisce oggetto di una benigna concessione regia (tum Horatius auctore Tullo, clemente legis interprete, ‘Provoco’ inquit). Le alternative non sono che le seguenti. O si evita di affrontare il problema posto dalla fonte[93], o si taccia Livio non solo di falsificazione della lex, ma anche di evidente incoerenza narrativa[94], o si assume che dalla lex, intesa come autentica, si sia costruita la leggenda esposta dallo storico[95], o si tenta di salvarne la coerenza immaginando l’inserzione ex novo ad opera di Tullo Ostilio (più ‘arrangiatore’ che ‘interprete’, invero) della clausola sulla provocatio nel testo già esistente della lex[96], o si intende armonizzare le informazioni del testo nel senso di una elevazione della provocatio da parte di Orazio in forza sì della legge, ma anche con l’autorevole appoggio del re[97].
Questi approcci al problema della compresenza all’interno del testo liviano, da un lato, del riferimento alla provocatio nella lex regia e, dall’altro, della interpretatio benigna del rex a fondamento dell’attivazione da parte dell’Orazio della provocatio ad populum non credo siano, e per più ragioni, appaganti.
A mente dei rilievi sopraesposti, non vedo, infatti, la necessità di escludere l’autenticità della clausola di previsione della provocatio stessa e, quindi, del tenore della stessa lex horrendi carminis[98]. A ben vedere, infatti, l’esatta menzione, nel citato testo legislativo, non è di una ‘provocatio al popolo’, bensì di una ‘provocatio (e basta)’ a valle della iudicatio dei duumviri. Quindi, il richiamo liviano alla clemenza interpretativa e alla autorità di Tullo Ostilio (auctore … clemente interprete) – oltrepassando letture banalizzanti che, pur prestando fede alla autenticità della lex, si limitano a vedere nell’auctoritas e nell’interpretatio regie un inutile suggerimento o un pleonastico favore – non escludo che possa essere allusivo di una ‘interpretazione innovativa e integrativa’ della littera legis in riferimento al verbum ‘provocare’[99].
La lex horrendi carminis, solo a seguito della graziosa ingerenza regia, e non in forza di una sua applicazione letterale, sarebbe stata intesa come concessiva della provocatio quale atto prodromico – in opposizione alla iudicatio con cui i duumviri proclamavano l’Orazio ‘perduellis’ – al giudizio del populus con efficacia sospensiva dell’esecuzione del supplicium more maiorum[100]. Se, insomma, è vero che il testo legislativo difettava di qualsivoglia menzione dei comitia, mentre contemplava, expressis verbis, la provocatio senz’altro (ossia in assenza della precisazione dell’autorità presso la quale celebrare la susseguente fase processuale), l’invocazione di questo ius da parte del iudicatus, a prescindere da qualsivoglia clemens interpretatio del re, permetteva di evitare, momentaneamente, l’arresto da parte del littore e la suspensio alla arbor infelix. In altre parole, il verbo provocare nella lex horrendi carminis – prima dell’intervento interpretativo di Tullo Ostilio – avrebbe indicato l’atto con cui il iudicatus ‘si opponeva alla solenne proclamazione duumvirale di responsabilità’ e con cui, al contempo, implicitamente ‘chiedeva che si ricorresse a un organo giudiziario diverso e superiore’. Atteso – come poc’anzi evidenziato – che la lex horrendi carminis non precisava affatto dove la ‘sfida’ tra iudicatus e duumviri dovesse avvenire, si può giungere a ipotizzare che con l’invocazione del iudicatus ‘provoco’ (non semplicemente ‘io [vi] sfido’[101], ma ‘alla vostra condanna io mi oppongo’) si sospendesse l’esecuzione della pena e si aprisse una certatio esitante in un giudizio che non poteva che essere ‘regio’. Insomma, in virtù della iudicatio duumvirale, al reo flagrante viene formalmente ascritto lo status di perduellis; il iudicatus, quindi, ‘provocat a duumviris’ e, di seguito, ‘certat (dinanzi al re)’; il re proclama la parte vittoriosa; si duumviri vincent si applica il supplicium more maiorum, sospeso a seguito della provocatio[102].
Con la clemente interpretatio di Tullo Ostilio (che rinunciava così, almeno limitatamente al caso di specie, alla sua competenza), per la prima volta[103], la certatio conseguente alla provocatio sarebbe avvenuta non ad regem (presso il re), bensì ad populum (presso il popolo in qualità di giudice supremo)[104]: il processo all’Orazio, prototipo mitico del processo popolare repubblicano, si impone, in modo del tutto singolare, prima ancora che come icona della legge che cede all’oratoria del pathos e dell’ethos, che soccombe dinanzi argomentazioni extra-legali, che si disapplica in nome di valori e interessi altri, come plastica rappresentazione della graziosa e benigna interpretatio creativa del testo legislativo[105]; interpretazione che, per ragioni da individuare tutte nelle pieghe della fattispecie, prevale sull’applicazione letterale del testo e addirittura sulla sua mens e dà voce, fluidamente, ad istanze che la legge, nella sua fissità, non è in grado di assecondare: la legge pubblica, anche quella criminale – sembra insegnare la storia dell’Orazio –, è quindi in primis uno spunto più autoritativo che normativo, un argomento tra i plurimi, una premessa non totalizzante (e, talora, neppure determinante), ancorché imprescindibile, del ragionamento retorico e giuridico.
After an introduction concerning
the recent interest in the perduellio trials and the so-called duumviral
judgments, the essay focuses on the 'mythical' trial against the surviving
Horatius and the 'historical' trial against Rabirius, in an attempt to bring
out the annalistic traditions relating to the former and, with regard to the
latter, to specify the institutional, ideological and political background of
Labienus' accusation, as well as the role played by Caesar.
[1] Secondo la versione liviana il princeps Orazio, dopo l’uccisione dei tre fratelli Curiazi, campioni di Alba Longa, con le spoglie della vittoria torna a Roma solo, dopo la morte dei due fratelli occorsa durante il duello risolutore della guerra tra le due città. Nei pressi della porta Capena, si imbatte nella sorella; la giovane, fidanzata ad uno dei Curiazi, ne riconosce il mantello e, rotta in pianto disperato, invoca il nome dell’amato ucciso. Allora l’Orazio, pieno di sdegno e ancora in preda al furore guerriero, le rivolge parole di disprezzo, per poi trafiggerla con la spada. L’eroe è quindi trascinato in giudizio dinanzi al re Tullo Ostilio: questi non vuole assumersi la responsabilità di una decisione e rimette la causa a due magistrati nominati ad hoc, affinché giudichino l’Orazio dell’atto scellerato secondo il tenore terribile della legge. Dopo che i duumviri hanno pronunciato la iudicatio, il littore si appresta ad eseguire la sentenza quando Orazio, auctore Tullo, clemente legis interprete, dice ‘Provoco’. Il popolo, non dimentico della recente vittoria grazie alle virtù guerriere dell’Orazio sui Curiazi, viene impietosito dalle parole del padre e assolve l’imputato per questo più che iure causae, imponendo tuttavia il compimento di sacrifici espiatori (Livius 1.26.5 ss.: … tamen raptus in ius ad regem. Rex ne ipse tam tristis ingratique ad volgus iudicii ac secundum iudicium supplicii auctor esset, concilio populi advocato ‘Duumviros’ inquit, ‘qui Horatio perduellionem iudicent secundum legem facio’. Lex horrendi carminis erat: ‘Duumviri perduellionem iudicent; si a duumviris provocarit, provocatione certato; si vincent, caput obnubito; infelici arbori reste suspendito; verberato vel intra pomerium vel extra pomerium’. Hac lege duumviri creati, qui se absolvere non rebantur ea lege ne innoxium quidem posse, cum condemnassent, tum alter ex iis ‘Publi Horati, tibi perduellionem iudico’ inquit. ‘I, lictor, colliga manus’. Accesserat lictor iniciebatque laqueum. Tum Horatius auctore Tullo, clemente legis interprete, ‘Provoco’ inquit. Itaque provocatione certatum ad populum est … Non tulit populus nec patris lacrimas nec ipsius parem in omni periculo animum, absolveruntque admiratione magis virtutis quam iure causae). Accanto alla narrazione liviana (che è fatta propria solo in Auctor, vir. ill. 4.9: quare apud duumviros condemnatus ad populum provocavit), agli inizi dell’età augustea è pervenuta notizia, attraverso Dionigi di Alicarnasso, di un differente resoconto, in cui si discorre solo di un giudizio regio (per violazione delle norme che vietavano di ‘ἄκριτον ἀποκτείνειν’) seguito da un giudizio popolare in cui l’Orazio viene assolto dall’accusa di φόνος: Dionysios Halicarnasseus 3.22.3-6: προσέρχονται τῶν πολιτῶν ἄνδρες οὐκ ἀφανεῖς τὸν Ὁράτιον ἄγοντες ὑπὸ δίκην, ὡς οὐ καθαρὸν αἵματος ἐμφυλίου διὰ τὸν τῆς ἀδελφῆς φόνον: καὶ καταστάντες μακρὰν διεξῆλθον δημηγορίαν τοὺς νόμους παρεχόμενοι τοὺς οὐκ ἐῶντας ἄκριτον ἀποκτείνειν οὐθένα καὶ τὰ παρὰ τῶν θεῶν ἁπάντων μηνίματα ταῖς μὴ κολαζούσαις πόλεσι τοὺς ἐναγεῖς διεξιόντες. ὁ δὲ πατὴρ ἀπελογεῖτο περὶ τοῦ μειρακίου κατηγορῶν τῆς θυγατρὸς καὶ τιμωρίαν οὐ φόνον εἶναι τὸ πραχθὲν λέγων δικαστήν τε αὑτὸν ἀξιῶν εἶναι τῶν ἰδίων κακῶν, ἀμφοτέρων γενόμενον πατέρα. συχνῶν δὲ λόγων ῥηθέντων ὑφ’ἑκατέρων πολλὴ τὸν βασιλέα κατεῖχεν ἀμηχανία, τί τέλος ἐξενέγκῃ περὶ τῆς δίκης [ ... ]. ἀπορούμενος δὲ τί χρήσεται τοῖς πράγμασι τελευτῶν κράτιστον εἶναι διέγνω τῷ δήμῳ τὴν διάγνωσιν ἐπιτρέπειν. γενόμενος δὲ θανατηφόρου κρίσεος τότε πρῶτον ὁ Ῥωμαίων δῆμος κύριος τῇ γνώμῃ τοῦ πατρὸς προσέθετο καὶ ἀπολύει τοῦ φόνου τὸν ἄνδρα. Queste due narrazioni alternative sono state oggetto di fusione. In Festo, Orazio viene accusato di parricidium, ma è giudicato dai duumviri perduellionis, contro la cui sentenza si eleva la provocatio (Festus, De verb. sign., v. Sororium tigillum, p. 380 L.: et quamquam a patre absolutus sceleri erat, accusatus tamen parricidi apud duumviros, dampnatusque provocavit ad populum). In Valerio Massimo (dove non si fa mai menzione dei duumviri e della perduellio), ora Orazio è giudicato dal popolo senz’altra precisazione, ora è condannato dal re e ricorre alla provocatio (Valerius Maximus 6.3.6: quemhoc nomine reum apud populum actum pater defendit; Valerius Maximus 8.1 abs. 1: M. Horatius interfectae sororis crimine a Tullo rege damnatus ad populum provocato iudicio absolutum est; cfr. Zonaras 7.3 [φόνου ἐκρίθη. ἐς δὲ τὸν δῆμον ἔκκλητον αἰτήσας ἀφείθη], che qualifica il giudizio per omicidio e richiama la provocatio; v., inoltre, Florus 1.3.6 [citavere leges nefas, sed abstulit virtus parricidas et facinus infra gloriam fuit], che qualifica il crimine come parricidio, senza cenni sulla vicenda processuale). Diversamente Cicerone, nel discorso del 52 a.C. pro Milone (accusato di omicidio per l’uccisione di Clodio), tenta di contrastare le accuse rivolte all’assistito e – nel delineare il problema fondamentale tra fatto criminoso e fatto scriminato – si limita a ricordare il giudizio dell’Orazio quale primo esempio di giudizio capitale dinanzi all’assemblea del popolo: non menziona né il re solo (o il re e i duumviri), né la provocatio (o la translatio iudicii regia al popolo), interessato non tanto a qualificare giuridicamente la condotta illecita dell’eroe e a esporre i dettagli della vicenda, quanto a descrivere fattualmente un contegno (nel caso concreto: ‘sua manu sororem esse interfectam’) per poi sostenere che, pur in ipotesi di incontrovertibilità dei fatti materiali, è sempre necessario valutarne la legittimità o meno: negant intueri lucem esse fas ei qui a se hominem occisum esse fateatur. In qua tandem urbe hoc homines stultissimi disputant? Nempe in ea, quae primum iudicium de capite vidit M. Horati, fortissimi viri, qui nondum libera civitate tamen populi Romani comitiis liberatus est, cum sua manu sororem esse interfectam fateretur (Cicero, pro Mil. 3.7; cfr. Cicero, inv. 2.26.78-79; Quintilianus, Inst. or. 3.6.76, 4.2.7; v., però, anche Scholia Bobiensia, ad Cic. pro. Mil. 7 p. 113 S., in cui si riporta come Orazio fosse stato accusato di parricidium e condannato nel processo realizzato davanti al re).
[2] C. Venturini, Processo penale e società politica nella Roma repubblicana, Pisa 1996, 318.
[3] Nel 63 a.C. il vecchio senatore Gaio Rabirio veniva accusato di perduellio dal tribuno della plebe Tito Labieno, vale a dire il futuro legato di Giulio Cesare in Gallia: secondo la tesi dell’accusa trentasette anni prima – ossia nel 100 a.C. – l’allora giovane cavaliere Rabirio (cfr., per tutti, T.P. Wiseman, New Men in the Roman Senate 139 B.C. - A.D. 14, Oxford 1971, 255 e C. Nicolet, L’ordre équestre à l’époque républicaine, II, Prosopographie des chevaliers romains, Paris 1974, 999), ritenendosi coperto sia dal senatus consultum ultimum (che dava al console Gaio Mario pieni poteri e piena libertà d’azione per affrontare la sanguinosa lotta intestina in nome della salvezza della repubblica), sia dall’evocatio consolare (l’atto con cui i cittadini Romani erano chiamati alle armi contro gli hostes rei publicae), avrebbe ucciso il tribuno della plebe Lucio Apuleio Saturnino (un tempo alleato di Mario e ora pericolo per la salus di Roma stessa); l’uccisione, per nulla scriminata, sarebbe stata perpetrata non nel corso di quel burrascoso tumulto cui lo stesso Saturnino insieme al pretore Glaucia avevano dato origine, bensì all’esito dello stesso, quando cioè l’eversivo tribuno si era ormai arreso e il pericolo era cessato: la sfrontatezza politica e la presunzione di impunità sarebbero state tante che Rabirio – si narrava – avrebbe portato la testa di Saturnino in giro per diversi banchetti in segno di scherno. All’accusa Labieno era certamente indotto anche da ragioni di natura personale (atteso che attraverso l’incriminazione e la condanna di Rabirio sarebbe stata vendicata anche la morte di Quinto Labieno, zio del tribuno del 63 a.C. e seguace di quello del 100 a.C.); tuttavia, chi muoveva i fili del processo – è oggi communis opinio – era lo stesso Giulio Cesare il quale, senza troppo esporsi in prima persona, tentava servendosi di Labieno di ribaltare le sorti politiche di un anno (il 63 a.C.) iniziato sotto segni celesti infausti e all’insegna di un tesissimo conflitto sociale poco promettente per i populares: Cesare voleva censurare l’abuso politico del senatus consultum ultimum fatto dagli ottimati per coprire come giusto l’assassinio dei rivali populares (E.G. Hardy, Some Problems in Roman History: Ten Essays Bearing with the Administrative and Legal Work of Julius Caesar, Oxford 1924, 102 ss.), riabilitare come eroe popolare Mario figura che le narrazioni degli ottimati dipingevano come il vero responsabile delle morti di Saturnino e dei suoi uomini, così promuovendo la propria carriera (E.J. Phillips, The Prosecution of C. Rabirius in 63 B.C., in Klio 56, 1974, 99 ss.), colpire e screditare il consolato di Cicerone e i patres denunciandone le indebite ingerenze politiche nell’amministrazione della giustizia (C. Loutsch, Cicéron et l'affaire Rabirius [63 av. J.-C.], in Museum Helveticum 39, 1982, 305 ss.). Il rito prescelto da Labieno è quello, atroce, della lex horrendi carminis e Gaio Giulio Cesare insieme a Lucio Giulio Cesare vengono scelti dal pretore come duumviri: contro la iudicatio Rabirio provoca, per essere poi assistito da Ortensio e da Cicerone, ma il popolo non si pronuncia in quanto il processo viene interrotto dall’iniziativa di Metello Celere. Le fonti principali sono: Cicero, Rab. perd., Suetonius, Caes. 12 e Dio Cassius 37.26-28. Per il contesto del processo e per la profilazione dei suoi protagonisti, le pagine tanto dense quanto lievi di L. Fezzi, Cesare. La giovinezza del grande condottiero, Milano 2020, meritano la lettura.
[4] B. Santalucia, La versione liviana del processo dell’Orazio, in Iura 65, 2018, 43 ss., nonché in Lingua e Istituzioni. Aspetti comunicativi, intellettuali, storico-giuridici, religiosi, a cura di F. Bruni e L. Garofalo, Venezia 2020, 209 ss. (da cui si cita); cfr. A.H.M. Jones, The Criminal Courts of the Roman Republic and Principate, Oxford 1972, 43 s.; J.D. Cloud, Livy’s Source for the Trial of Horatius, in Liverpool Classical Monthly 2, 1977, 207 ss.; J.P. Brisson, Mythe, histoire et droit dans le ‘procès’ d’Horace (Tite Live, I, 26), in Hommages à H. Bardon, édité par M. Renard et P. Laurens, Bruxelles 1985, 47 ss.
[5] R. Fiori, Il crimen dell’Orazio superstite, in Iura 68, 2020, 36 ss.
[6] Cfr., sul solco di M. Bettini, La storia di Orazia, in Primordia urbium. Forme e funzioni dei miti di fondazione del mondo antico, Como 1988, 9 ss., L. Garofalo, Disapplicazione del diritto e status sanzionatori in Roma arcaica. In dialogo con A.L. Prosdocimi, Napoli 2020, passim; v., altresì, Id., Sull’Orazio sororicida, in Storia mitica del diritto romano, a cura di A. McClintock, Bologna 2020, 65 ss. (cfr., inoltre, Id. - C. Pelloso, Orazio e Appio Claudio. Un eroe e un antieroe a giudizio, Milano 2019, passim).
[7] B. Santalucia, Osservazioni sui duumviri perduellionis e sul procedimento duumvirale, in Du châtiment dans la cité. Supplices corporels et peine de mort dans le monde antique. Table ronde de Rome (9-11 novembre 1982), Rome 1984, 439 ss.
[8] B. Santalucia, La versione liviana, cit., 227.
[9] B. Santalucia, La versione liviana, cit., 229.
[10] B. Santalucia, La versione liviana, cit., 224. Cfr., analogamente, già L.R. Taylor, Roman Voting Assemblies, Ann Arbor 1966, 103.
[11] B. Santalucia, La versione liviana, cit., 224 s.
[12] B. Santalucia, La versione liviana, cit., 229, in cui si sviluppa, in definitiva, la tesi secondo cui la storia originaria avrebbe fatto riferimento a un ‘omicidio’, mentre l’annalistica avrebbe più tardi inserito il riferimento alla perduellio, per poter così descrivere il processo duumvirale e la provocatio (cfr. C.H. Brecht, Perduellio. Eine Studie zu ihrer begrifflichen Abgrenzung zum römischen Strafrecht bis zum Ausgang der Republik, München 1938, 125 ss., 133 ss., 139 ss., 148 ss.; G. Crifò, Alcune osservazioni in tema di provocatio ad populum, in Studia et documenta historiae et iuris 29, 1963, 290 s.; v., inoltre, E. Tassi Scandone, Leges Valeriae de provocatione. Repressione criminale e garanzie costituzionali nella Roma repubblicana, Napoli 2008, 120, 129 ss., 143 s., 149 ss.); J. Bleicken, Ursprung und Bedeutung der Provocation, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung. Romanistische Abteilung 76, 1959, 334, nt. 21.; W. Kunkel, Untersuchungen zur Entwicklung des römischen Kriminalverfahrens in vorsullanischer Zeit, München 1969, 22, nt. 50; W.B. Tyrrell, The Duumviri in the Trial of Horatius, Manlius and Rabirius, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung. Romanistische Abteilung 91, 1974, 109 s.; cfr. inoltre, nel senso di un intervento annalistico di tal fatta con interpretazione del sororicidio dell’Orazio in termini di perduellio per uso illegittimo della potestà statale punitrice, J. Rubino, Untersuchungen über römische Verfassung und Geschichte, Cassel 1839, 495 ss.; E. Brunnenmeister, Das Tötungsverbrechen im altrömischen Recht, Leipzig 1887, 212 s.). V., inoltre, B. Santalucia, Osservazioni sui duumviri perduellionis, cit., 448 s., dove si considera plausibile semplicemente che, per l’annalistica, Orazio sia stato processato per perduellio perché, uccidendo da privato la sorella damnanda ma indemnata, avrebbe usurpato competenze statali: cfr., in tal senso, già R.M. Ogilvie, Commentary on Livy, Books 1-5, Oxford 1965, 114 s.; A. Magdelain, Rémarques sur la perduellio, in Historia 22, 1973, 409, (nonché in Jus imperium auctoritas. Études de droit romain, Rome 1990), anche se, più esattamente, lo studioso si limita a precisare che il crimine dell’Orazio «n’est pas un parricidium, mais une perduellio, parceque c’est un meurtre politique»; A. Giovannini, Les origines des magistratures romaines, in Museum Helveticum 41, 1984, 21 s., 23; D. Briquel, Sur le mode d’exécution en cas de parricide et en cas de perduellio, in Mélanges de l'École française de Rome. Antiquité 92, 1980, 97; E. Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e a Roma. Origini e funzioni della pena di morte nell’antichità classica, Milano 2011, 191 ss.; J.E. Gaughan, Murder was not a Crime. Homicide and Power in the Roman Republic, Austin 2010, 13; v., tra gli autori meno recenti, C.G. Haubold, De legibus maiestatis populi Romani latis ante legem Iuliam, in Opuscula academica, Lipsiae 1825, 138 s.; C.R. Köstlin, Die perduellio unter den römischen Königen, Tübingen 1841, 66 s.; W. Rein, Das Criminalrecht der Römer, Leipzig 1844, 467; A.W. Zumpt, Das Criminalrecht der römischen Republik, I.1, Berlin 1865, 96. Diversamente, sulla scorta di J. Baron, Commentatio ad causam Horatianam, Berolini 1870, 10 s., W.A. Oldfather, Livy I, 26 and the supplicium de more maiorum, in Transactions of the American Philological Association 39, 1908, 49, nt. 1, riteneva che «whereas the crime was certainly parricidium … the ‘clemency’ of Tullius … consisted in his treating it as though it were perduellio, where the condemned had the right of appeal»; in senso non esattamente coincidente cfr. T. Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig 1899, 527 s., 528, nt. 1, 537 ss.; Id., Römisches Staatsrecht, II, 3a ed., Leipzig 1887, 617, nt. 3 (secondo cui l’annalistica avrebbero convertito il parricidium in perduellio per far intervenire i duumviri, in assenza – durante il regno primitivo – dei quaestores).
[13] B. Santalucia, La versione liviana, cit., 222 ss., 225 ss., 228 ss. (v., inoltre, Id., Osservazioni sui duumviri perduellionis, cit., 440 s.); cfr. W.B. Tyrrell, The Trial of C. Rabirius in 63 B.C., in Latomus 32.2, 1973, 290 (nonché Id., The Duumviri, cit., 107, 114 ss.); B. Liou-Gille, La perduellio: les procès d’Horace et de Rabirius, in Latomus 53.1, 1994, 19 s., 21 s.; C. Venturini, Processo penale, cit., 80, nt. 221; Id., Pomponio, Cicerone e la provocatio, in Nozione, formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al Professor F. Gallo, II, Napoli 1997, 550, nt. 70; Id., Variazioni in tema di provocatio ad populum, in Index 37, 2009, 78 e nt. 33 (nonché in Scritti di diritto penale romano, I, Padova 2016, 119 e nt. 33); J. Bleicken, Ursprung, cit., 333 ss.; W. Kunkel, Untersuchungen, cit., 22.
[14] B. Santalucia, La versione liviana, cit., 229.
[15] V.,
anzitutto, T. Mommsen, Römisches
Strafrecht, cit., 155; Id., Römisches
Staatsrecht, II, cit., 615; cfr. P.E.
Huschke, Die multa und das sacramentum in ihre
verschiedenen Anwendungen. Zugleich in ihrem grundleglichen Zusammenhange mit
dem römischen Criminal und Civil-processe dargestellt, Leipzig 1874, 515;
A.H.J. Greenidge, The Legal
Procedure of Cicero’s Times, Oxford 1901, 355; E. Meyer, Caesars Monarchie und das Principat des Pompejus,
3a ed., Stuttgart 1922, 556; T.R. Holmes,
The Roman Republic and the Founder of the Empire, I, Oxford 1923, 452; A. Boulanger, Ciceron Discours. Sur la loi Agraire pour C. Rabirius, Paris 1932, 124 s.; E.G.
Hardy, Some Problems in Roman History, cit., 112; C.H. Brecht, Perduellio, cit., 170; J. Van Ooteghem, Pour une lecture
candide du Pro C. Rabirio, in Les Études Classiques 32, 1964, 240; A. Watson, La mort d’Horatia et le
droit pénal archaïque à Rome, in Revue historique de droit français et
étranger 57, 1979, 5 ss.; Id., The
Death of Horatia, in Classical Quarterly 29, 1979, 436 s.; B. Liou-Gille, La perduellio,
cit., 6. Contro questo orientamento v., già, W.B. Tyrrell, The Trial of C.
Rabirius, cit., 291, secondo cui «Livy’s account of Horatius, in which prouocatio is so prominent, could not
have been the pattern for the trial of Rabirius» (ma v., anche, W.B. Tyrrell, Legal and Historical
Commentary to Cicero’s Oratio pro C. Rabirio perduellionis reo, Amsterdam
1978, 35 ss.; cfr., inoltre, R.M.
Ogilvie, Commentary on Livy, Books 1-5, cit., 114; A.H.M. Jones, The Criminal Courts,
cit., 35).
[16] Una discussione delle due versioni della leggenda ‘oraziana’ e dell’ipotesi che nella versione più antica l’accusa sarebbe stata di parricidium si rinviene in R.A. Bauman, The Duumviri in the Roman Criminal Law and in the Horatian Legend, Wiesbaden 1969, 22 ss. (propenso a ricostruire nel senso di una assoluzione domestica per parricidium e per una incriminazione pubblica a titolo di perduellio, così come sarà anche Y. Thomas, Parricidium, I. Le père, la famille et la cité (La lex Pompeia et le système des poursuites publiques), in Mélanges de l'École française de Rome. Antiquité 93, 1981 684 s., e così come fu, prima, D. Daube, Review of C.H. Brecht, Perduellio, cit., in Journal of Roman Studies 31, 1941, 183).
[17] R. Fiori, Il crimen dell’Orazio superstite, cit., 45.
[18] R. Fiori, Il crimen dell’Orazio superstite, cit., 44.
[19] R. Fiori, Il crimen dell’Orazio superstite, cit., 44.
[20] R. Fiori, Il crimen dell’Orazio superstite, cit., 46 s., 47 ss., 55 ss., 60 ss., 65 ss., 67 ss.: si tratta della cerimonia del tigillum sororium, l’accostamento a celebri ‘terzi’ come Fabio Ambusto e Fabio Rulliano nella cornice di una nuova lettura del rapporto tra l’Orazio e Tullo Ostilio in senso di inferiorità gerarchica del primo, dell’ovatio dell’eroe e non del rex, del passaggio dal furor eroico alla disciplina militaris, dell’aggiunta dell’episodio della sorella uccisa sulla scorta della incomprensione etimologica dell’epiteto di Ianus e di Iuno Sororia, della permanenza della qualifica in termini di perduellio grazie al ricordo della qualità magistratuale originaria dell’Orazio dopo la previsione Porcia di una gravis poena per l’uccisione da parte di un magistrato di un civis indemnatus, dell’affermarsi di una ultima versione in cui Orazio è un privato processato a titolo di perduellio per la morte della sorella dinanzi al popolo.
[21] R. Fiori, Il crimen dell’Orazio superstite, cit., 76.
[22] Così, a mente di L. Prosdocimi, Forme di lingua e contenuti istituzionali nella Roma delle origini, I, Napoli 2016, 317 s., lo studioso ritiene che la narrazione liviana sia rilevante per il suo «sfondo istituzionale»: l’episodio dell’Orazio, infatti, «al di là della sua attendibilità storica – di cui può non essere dotato, ma che interessa solo chi è incatenato alla vetusta e ingenua dicotomia tra realtà vera e invenzione annalistica –, veicola un’“ideologia”, che investe “la posizione del pater rispetto al rex, il rex rispetto alla lex (horrendi carminis) ‘già’ esistente, la provocatio”: veicola cioè un “senso”, capace di incidere sulla rappresentazione dei fatti» (L. Garofalo, Disapplicazione, cit., 9). Meritano di essere ricordate, a tal proposito, anche le parole di B. Liou-Gille, La perduellio, cit., 6: «Que le procès d’Horace soit une légende ou un fait historique nous importe d’ailleurs assez peu pour le moment: le procès d’Horace est une fiction, soit! Mais cette fiction, elle, est authentique, en ce sens que le récit s’en est transmis à travers les âges dans la mémoire des Romains. Authentique, même, au point de servir de modèle à un procès bien réel et historique, le procès intenté contre Rabirius en 63 avant J.-C., à l’instigation de Jules César, sous le consulat de Cicéron. Ce qui compte c’est que le procès de Rabirius se conforme constamment au schéma juridique que la tradition rapportait au procès d’Horace. Tout au long de l’affaire Rabirius, l’imitation du procès d’Horace est systématique et délibérée. Par conséquent, lorsqu’on étudie le procès d’Horace, l’important c’est, non pas l’authenticité des faits eux-mêmes, mais le récit qu’on en a fait: les faits sont légendaires, c’est bien entendu, mais la légende, elle, est ancienne et, en tant que légende, authentique» (v., sulla verisimiglianza o sulla esemplarità dell’episodio, anche G. Crifò, Alcune osservazioni, cit., 290; cfr., inoltre, L. Garofalo, Il processo edilizio. Contributo allo studio dei iudicia populi, Padova 1989, 8, nt. 3 s.; A. Pesch, De perduellione, crimine maiestatis et memoria damnata, Aachen 1995, 71 ss.; C. Venturini, Per una riconsiderazione della provocatio ad populum. A proposito della lex Valeria del 300 a.C., in Index 36, 2008, 355, nt. 40).
[23] L. Garofalo, Disapplicazione, cit., 12 s.
[24] L. Garofalo, Disapplicazione, cit., 13 s. Sul punto lo studioso, in alcune pagine successive, manifesta qualche lievissimo dubbio circa la presenza della clausola ‘si a duumviris provocarit’ (Id., Disapplicazione, cit., 26), ancorché – evidentemente in linea con Santalucia – rimanga propenso a crederla assente e oggetto di benevola concessione di Tullo Ostilio. Quanto al profilo della individuazione dell’illecito commesso dall’Orazia e al tipo di violazione ascritto all’Orazio, la lontananza da R.M. Ogilvie, Commentary on Livy, Books 1-5, cit., 114 s. (per cui la perduellio sarebbe stata commessa in ragione dell’usurpazione di competenze statali da parte di un privato) – come si avrà modo di vedere nel testo a breve – è macroscopica.
[25] Garofalo, che definisce la perduellio come «reato di alto tradimento … implicante la violazione del dovere di fedeltà verso la civitas e le sue istituzioni», ancorché diretto al tempo stesso contro gli dei protettori della civitas e contro la compagine sociale (L. Garofalo, Disapplicazione, cit., 10, 88, nt. 172; cfr. P. de Francisci, Primordia civitatis, Roma 1959, 276; B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, 2a ed., Milano 1998, 13 s. e nt. 27; cfr., inoltre, A. Magdelain, Rémarques sur la perduellio, cit., 405 ss.), con le parole di Prosdocimi, rammenta che l’uccisione della sorella per mano dell’Orazio superstite è «un fatto che riguarda tutta la comunità, il che indica che non è il pater (che pure entra nella vicenda: più accentuatamente in Dionigi) che ha pertinenza sulla questione, ma è la comunità espressa dai duumviri perduellionis» (L. Prosdocimi, Forme di lingua, cit., 141). Contro la definizione di perduellio come ‘alto tradimento’ e con maggior propensione a evidenziare del reato in oggetto il carattere, variamente interpretato, della procurata ‘guerra intestina’, cfr. U. Brasiello, voce Crimina, in Novissimo Digesto italiano V, Torino 1960, 2; C. Gioffredi, I principi del diritto penale romano, Torino 1970, 10; B. Liou-Gille, Une lecture ‘religieuse’ de Tite-Live I. Cultes, rites, croyances de la Rome archaïque, Rome 1998, 231; Ead., La perduellio, cit., 27; v., inoltre O. Karlowa, Intra pomoerium und extra pomoerium, in Festgabe F. von Baden, Heidelberg 1896, 63 ss., 68; R. von Jhering, Geist des römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, I, 6a ed., Leipzig 1907, 257, nt. 159; E.T. Merrill, Some Remarks on Cases of Treason in the Roman Commonwealth, in Classical Philology 13, 1918, 34. Non ha riscosso adesione la tesi di chi ha scorto nella perduellio antica un tipo di ‘rituale’ (v., in questo senso, G. Grosso, Provocatio per la perduellio, cit., 213 ss.), né pare superare lo stadio della fantasia la tesi che vede nella perduellio originaria l’omicidio di un superiore, per poi passare a indicare l’atto incostituzionale, e nella provocatio, quale duello mortale di due contro uno che esita in una sfida orale, la primitiva pena (v. G. Sabbatini, Appunti di preistoria del diritto romano, Torino 2012, 217; né quello della congettura la tesi secondo cui dal procedimento duumvirale discenderebbe la sacertà (W.B. Tyrrell, The Duumviri, cit., 107 ss., 122 ss.).
[26] L. Garofalo, Disapplicazione, cit., 15.
[27] In questa voce «è detto che l’Orazio superstite, mentre è sulla via del ritorno, incontra la sorella, la quale, avendo appreso che egli aveva ammazzato il fidanzato (cognita morte sponsi, sui fratris manu occisi), rifiuta di baciarlo (aversata est eius osculum): e proprio in ragione di ciò (quo nomine), il fratello la uccide (Horatius interfecit eam), subendo poi, nonostante l’assoluzione del padre (quamquam a patre absolutus sceleri erat), una condanna per parricidio – inteso nel senso ampio di omicidio – inflittagli da non meglio precisati duumviri, poi cancellata dal popolo adito tramite provocatio (accusatus tamen parricidi apud duumviros, dampnatusque provocavit ad populum. Cuius iudicio victor …)» (L. Garofalo, Disapplicazione, cit., 16). Tra gli autori che hanno di recente valorizzato il ius osculi dell’Orazio vi è anche A. Koptev, Three Brothers at the Head of Archaic Rome: the King and his ‘Consuls’, in Historia 54.4, 2005, 382 ss.
[28] L. Garofalo, Disapplicazione, cit., 16 s.
[29] L. Garofalo, Disapplicazione, cit., 21.
[30] L. Garofalo, Disapplicazione, cit., 25. Convinto parimenti che l’uccisione perpetrata da Orazio già di per sé potesse essere ritenuta lesiva della intera civitas quale usurpazione delle prerogative di un pater (e non del rex), è A. Watson, La mort d’Horatia, cit., 5 ss.; Id., The Death of Horatia, cit., 436 ss.
[31] La
cronologia del 63 a.C. non è cristallina, ma la collocazione della pro
Rabirio può essere ipotizzata sulla base di una lettera di Cicerone del 60
a.C. (Att. 2.1.3) in cui si apprende che l’oratio fu la quarta
delle consulares, preceduta dalla pro Othone e seguita da quella
relativa ai figli dei proscritti e da quella di rinuncia alla provincia della
Gallia Cisalpina. Atteso che l’attribuzione delle province avveniva prima delle
elezioni consolari e pretorie e che le elezioni del 63 a.C. si tennero – come
sempre – nel mese di luglio, il processo di Rabirio va collocato nella prima
metà dell’anno (W.B. Tyrrell, A
Legal and Historical Commentary, cit., 51, pensa a giugno o addirittura
luglio). Va precisato che, pur essendo vero che Velleius Paterculus 2.43.3 e
Suetonius, Caes. 13 (contra Dio Cassius 37.37) attestano come
Cesare fosse stato eletto pontefice massimo prima di essere eletto alla
pretura, lo stesso Suetonius, Caes. 13 e Dio Cassius 37.37 paiono porre
il processo contro Rabirio qualche tempo prima dell’elezione di Cesare a
pontefice massimo (avvenuta prima della congiura dei catilinari: cfr.
Plutarchus, Caes. 7): non credo, quindi, sia da seguire B. Santalucia, La versione liviana,
cit., 220 e nt. 35 che – sulla scorta di J. Carcopino,
Giulio Cesare, trad. it., Milano 2001, 244, nt. 156 (il quale
congettura per l’elezione al massimo sacerdozio la data del 6 marzo 63 a.C.) –
dà per certo che, quando il processo contro Rabirio fu instaurato, Cesare già
rivestisse la carica di pontifex maximus (analogamente, v. R. Fiori, Il crimen
dell’Orazio superstite, cit., 44, nt. 42). Merita qui ricordare G. Zecchini, Cesare e il mos
maiorum, Stuttgart 2001, 38: «nella primavera del 63 Cesare fu eletto pontefice
massimo dai comizi tributi, superando clamorosamente Q. Lutazio Catulo, console
nel 78, censore nel 65, prestigioso esponente degli ottimati. Il ribaltamento
dei pronostici e delle gerarchie fu certamente dovuto all'abilità e alla
popolarità di Cesare (si pensi solo ai fastosi giochi, che egli aveva
organizzato e offerto da edile nel 65), ma, a mio avviso, non solo a questi
fattori: si attribuirebbe eccessiva rozzezza ai comizi, se si ritenesse che
fosse sufficiente essere un demagogo per diventare capo supremo della religione
romana. In questa prospettiva altri fattori poterono avere un certo peso: le
presunte origini divine della sua stirpe, a cui Cesare mostrava di riservare un
grande peso, i suoi precedenti sacerdotali (era stato flamine designato), le vicende
"edificanti" del suo matrimonio confarreato, che indicavano un
singolare rispetto per la tradizione, infine da ultimo la riesumazione
dell'antichissimo istituto della perduellio nell’accusa mossa a C.
Rabirio proprio all’inizio del 63, che, al di là del suo contenuto
provocatorio, rivelava la conoscenza e per così dire il gusto per forme
arcaiche di diritto, quali ben si addicevano a un pontefice massimo». Cfr., sul punto, persuasivamente, J.L. Strachan-Davidson, Problems of
Roman Criminal Law, I, Oxford 1912, 199; E.J.
Phillips, The Prosecution of C. Rabirius, cit., 99.
[32] Cfr. Y. Thomas, Parricidium, cit., 679, secondo cui non potrebbe parlarsi di parricidium in quanto quest’ultimo coinciderebbe nell’uccisione del padre.
[33] Cfr., per
esempio, A. Guarino, Senatus
consultum ultimum, in Sein und Werden im Recht. Festgabe für Ulrich von
Lübtow zum 70. Geburtstag, Berlin 1970, 289, nt. 47; D. Stockton, Cicero, Oxford 1971,
97; E.J. Phillips, The
Prosecution of C. Rabirius, cit., 99; W.B.
Tyrrell, The Trial of C. Rabirius, cit., 294; C.
Loutsch, Cicéron et l’affaire Rabirius, cit., 305 ss. Tuttavia,
va evidenziato come in genere il caso contro Rabirio sia considerato un mero
‘pretesto’: cfr., per tutti, M. Gelzer,
Caesar. Politician and
Statesman, Oxford 1968, 46 (contra, v. A.W. Lintott, Violence in Republican
Rome, Oxford 1968, 169; E.J.
Phillips, The Prosecution of C. Rabirius, cit., 94 ss.).
[34] Cfr. W.B.
Tyrrell, The Trial of C. Rabirius, cit., 294.
[35] Cfr., per tutti, C.
Wirzubski, Libertas as a Political Idea at Rome during the Late
Republic and Early Principate, Cambridge 1960, 64.
[36] Cf. Cicero, Rab. perd. 13: Namque haec tua,
quae te, hominem clementem popularemque delectant, ‘I lictor, conliga manus’,
non modo huius libertatis mansuetudinisque non sunt, sed ne Romuli quidem aut
Numae Pompili; Tarquini, superbissimi atque crudelissimi regis, ista sunt
cruciatus carmina quae tu, homo lenis ac popularis, libentissime commemoras:
‘Caput obnubito, arbori infelici suspendito’, quae verba, Quirites, iam pridem
in hac re publica non solum tenebris vetustatis, verum etiam luce libertatis
oppressa sunt; 17: quam ob rem fateor atque etiam, Labiene, profiteor et
prae me fero te ex illa crudeli, importuna, non tribunicia actione sed regia,
meo consilio, virtute, auctoritate esse depulsum. qua tu in actione quamquam
omnia exempla maiorum, omnis leges, omnem auctoritatem senatus, omnis
religiones atque auspiciorum publica iura neglexisti, tamen a me haec in hoc
tam exiguo meo tempore non audies; liberum tempus nobis dabitur ad istam
disceptationem; cfr. Cicero, Rab. perd. 5, 9-10, 12. Il che,
ovviamente, non significa affatto, come è stato invece preteso da alcuni autori
moderni, che il processo ideato da Cesare fosse – e fosse percepito come – una
farsa, una commedia, un’invenzione: «Moreover Caesar, whose instincts of
showmanship here got the better of his discretion, gave the proceedings a
dramatic turn which in effect reduced them to a farce» (M. Cary, Rome in
the Absence of Pompey, in CAH 9, Cambridge 1932, 489); «le procès
d’Horace est une légende, celui de M. Manlius Capitolinus est douteux, et enfin
celui de Rabirius est une comédie» (A.
Magdelain, Rémarques, cit., 407); «it could be argued that the
linkage to the gruesome ritual leading to provocatio and Horatius the
sororicide is a very late invention, perhaps composed to provide Julius Caesar
with the justification for the procedure employed in trying Rabirius for perduellio
in 63 BC» (J.D. Cloud,
The Origin of provocatio, in Revue de Philologie 72, 1998,
27). Persuasivamente,
v., contra, W.B. Tyrrell, The
Trial of C. Rabirius, cit., 285 s.; B. Liou-Gille, La perduellio’, cit., 6 s., secondo
cui «les acteurs principaux de ce procès sont des gens de grand renom, qui ne
se seraient jamais prêtés à une bouffonnerie».
[37] Cf.
Cicero, Rab. perd. 18: nunc de Saturnini crimine ac de clarissimi
patrui tui morte dicemus. arguis occisum esse a C. Rabirio L. Saturninum. at id
C. Rabirius multorum testimoniis, Q. Hortensio copiosissime defendente, antea
falsum esse docuit; ego autem, si mihi esset integrum, susciperem hoc crimen,
agnoscerem, confiterer. Vtinam hanc mihi facultatem causa concederet ut possem
hoc praedicare, C. Rabiri manu L. Saturninum, hostem populi Romani,
interfectum! nihil me clamor iste commovet sed consolatur, cum indicat esse
quosdam civis imperitos sed non multos. numquam, mihi credite, populus Romanus
hic qui silet consulem me fecisset, si vestro clamore perturbatum iri
arbitraretur. quanto iam levior est acclamatio! quin continetis vocem indicem
stultitiae vestrae, testem paucitatis! Sulla ricostruzione dei fatti del
100 a.C. – anche alla luce di Appianus, Bell. civ. 1.145 e Florus 2.4.6
– v. E.G. Hardy, Some Problems
in Roman History, cit., 105 ss.; E.J.
Phillips, The Prosecution of C. Rabirius, cit., 94 ss.
[38] Cf.
Cicero, Rab. perd. 18-19: libenter, inquam, confiterer, si vere
possem aut etiam si mihi esset integrum, C. Rabiri manu L. Saturninum esse
occisum, et id facinus pulcherrimum esse arbitrarer; sed, quoniam id facere non
possum, confitebor id quod ad laudem minus valebit, ad crimen non minus.
confiteor interficiendi Saturnini causa C. Rabirium arma cepisse. quid est,
Labiene? quam a me graviorem confessionem aut quod in hunc maius crimen
exspectas? nisi vero interesse aliquid putas inter eum qui hominem occidit, et
eum qui cum telo occidendi hominis causa fuit. si interfici Saturninum nefas
fuit, arma sumpta esse contra Saturninum sine scelere non possunt; si arma iure
sumpta concedis, interfectum iure concedas necesse est. V., inoltre,
Cicero, Rab. perd. 21: cum ad arma consules ex senatus consulte
vocavissent ... quid tandem C. Rabirium facere convenit?; 22: cum ...
consules ad patriae salutem ac libertatem vocarent...; 23: idcircone
oportuit C. Rabirium ... consulum voci atque imperio non oboedire? 27: quid
ego de eis omnibus qui consulari imperio paruerunt loquor? 31: neminem
esse dico ... quin arma ceperit, quin consules secutus sit. Omnes ei... abs te
capitis C. Rabiri nomine citantur; Quintilianus, Inst. or. 7.1.16: coniuncta
defensio est, qualis pro Rabirio: ‘si occidisset, fecisset, sed non occidit’. Cfr.
C. Loutsch, Cicéron et
l’affaire Rabirius, cit., 315: «Cicéron ne se contente pas de contester la
seule matérialité des faits reprochés à Rabirius (non fecit), mais
défend de surcroît la légalité de la conduite incriminée (si occidisset,
recte fecisset) ce qui lui permet de soutenir que tous ceux qui répondent
l’appel des consuls sont mis en cause par Rabirius interposé».
[39] Dio
Cassius 37.27: … σπουδαί τε οὖν ταραχώδεις καὶ φιλονεικίαι ἀφ᾽ ἑκατέρων περί τε τοῦ δικαστηρίου, τῶν μὲν ὅπως μὴ συναχθῇ, τῶν δὲ ἵνα καθιζήσῃ δικαιούντων, καὶ ἐπειδὴ τοῦτο διά τε τὸν Καίσαρα καὶ δι᾽ ἄλλους τινὰς ἐνίκησε, περί γε τῆς κρίσεως αὖθις συνέβησαν.
[40] Cfr. J. Lengle, Die staatsrechtliche Form
der Klage gegen C. Rabirius, in Hermes 68, 1933, 333 s.; W.B. Tyrrell, The Trial of C.
Rabirius, cit., 292; E.J. Phillips, The Prosecution
of C. Rabirius, cit., 88; C. Loutsch,
Cicéron et l’affaire Rabirius, cit., 310.
[41] Del resto anche con riguardo al caso dell’Orazio non paiono emergere dubbi circa il tipo di reato commesso dall’eroe: «il popolo considera l’appellante reo di perduellio, mostrandosi insensibile al ragionamento condotto in punto di diritto dal padre»; tuttavia il giudizio finale «è di segno contrario a quello dei duumviri, frutto di una patente disapplicazione del diritto vigente, certo non consentita ai giudici del grado precedente, per una ragione ritenuta di ordine superiore, data dall’eccellenza del comportamento dell’Orazio duellante, provvidenziale per l’intera collettività cittadina e perciò meritevole di riconoscenza» (L. Garofalo, Disapplicazione, cit., 26 s.). Per un caso ulteriore in cui - seppur non con nettezza - l'uccisione politica sarebbe potuta essere qualificata come perduellio, cfr. il caso che interessò nel 436 a.C. Spurio Melio e Servilio Ahala (Livius 4.21.3-4; Cicero, dom. 86).
[42] Sul punto v., ampiamente, B. Santalucia, La versione liviana, cit., 215 ss., nonché B. Liou-Gille, La perduellio, cit., 7 ss. (ma, comunque, alla luce della non incontrovertibilità della carica di pontefice massimo rivestita da Cesare all’alba del processo contro Rabirio).
[43] Cicero, Rab. perd. 9-10: Illam alteram partem de nece Saturnini nimis exiguam atque angustam esse voluisti; quae non oratoris ingenium sed consulis auxilium implorat et flagitat. Nam de perduellionis iudicio, quod a me sublatum esse criminari soles, meum crimen est, non Rabiri. Quod utinam, Quirites, ego id aut primus aut solus ex hac re publica sustulissem! Utinam hoc, quod ille crimen esse vult, proprium testimonium meae laudis esset. Quid enim optari potest quod ego mallem quam me in consulatu meo carnificem de foro, crucem de campo sustulisse? Sed ista laus primum est maiorum nostrorum, Quirites, qui expulsis regibus nullum in libero populo vestigium crudelitatis regiae retinuerunt, deinde multorum virorum fortium qui vestram libertatem non acerbitate suppliciorum infestam sed lenitate legum munitam esse voluerunt.
[44] A
questa interpretazione della sublatio accede pianamente anche R. Fiori, Il crimen dell’Orazio
superstite, cit., 45 e nt. 45. Invero l’intervento di Cicerone ha infatti
destato non pochi dibattiti. Da una parte, in accordo a un primo, seppur
variegato, filone il giudizio duumvirale (non definitivo) sarebbe stato seguito
da quello popolare. Secondo una prima scuola di pensiero, infatti, dopo la iudicatio
dei duumviri, il processo esecutivo per perduellio sarebbe stato
bloccato dalla provocatio ad populum, ma – grazie all’intervento di
Cicerone – il processo sarebbe stato invalidato, sicché l’orazione pro
Rabirio a noi pervenuta sarebbe stata pronunciata in un successivo giudizio
tribunizio multaticio, sempre promosso da Labieno nei confronti di Rabirio
(cfr. T. Mommsen, Römisches
Strafrecht, cit., 588 ss., nt. 1; Id.,
Römisches Staatsrecht, II, cit., 298, nt. 3, 615, nt. 2; P.E. Huschke, Die multa, cit.,
516, 527 s.; B.G. Niebuhr, M.
Tulli Ciceronis pro M. Fonteio et pro C. Rabirio fragmenta, Rome 1820, 69
s.; W.E. Heitland, Pro C.
Rabirio, Perdvellionis reo, oratio ad Quirites with Notes, Introduction, and
Appendices, Cambridge 1882, 33 ss.; L. Lange,
Römische Alterthümer, II, 3a ed., Berlin 1879, 564; Id., Römische Alterthümer, III,
2a ed., Berlin 1876, 240 ss.). Ad avviso di altri autori, il giudizio
centuriato contro Rabirio sarebbe stato promosso, in forza di provocatio,
dopo l’intervento di Cicerone – in una con il senato – volto a impedire
d’imperio il supplizio more maiorum e a sostituirlo con una pena
alternativa, come una multa o l’esilio (E.H. Renkema,
De iudicio perduellionis sublato, in Mnemosyne 55, 1927, 399 ss.;
E. Ciaceri, Cicerone e i suoi
tempi, I, Milano 1939, 225, 230; P.
Venini, Pro Rabirio perduellioni reo, Torino 1970, XIX; A.H.J. Greenidge, The Legal Procedure of
Cicero’s Times, cit., 355, 357 s.; E.
Meyer, Caesars Monarchie, cit., 550 s.; A.W. Zumpt, Das Criminalrecht der römischen Republik,
I.2, cit., 390 ss.). Diversamente, si è anche ipotizzato un nuovo processo
tribunizio: vuoi dopo l’intervento di Cicerone («die Aufhebung die
Perduellionsverfahren») volto a bloccare sia l’esecuzione della condanna della
corte duumvirale sia la prosecuzione del giudizio davanti ai comizi centuriati
(J. Lengle, Die
staatsrechtliche Form der Klage gegen C. Rabirius, cit., 329 ss.; cfr. J. Rubino, Untersuchungen, cit.,
312 ss.); vuoi dopo la paralisi della sola esecuzione della condanna atroce
prevista dalla lex horrendi carminis (A.
Boulanger, Ciceron Discours, cit., 128; J. Van Ooteghem, Pour une lecture candide, cit., 241
ss.). E ancora si è pensato che, dopo che Cicerone aveva spinto il senato ad
abrogare in toto la procedura duumvirale, una nuova accusa tribunizia in
Foro per reati minori sarebbe stata promossa dinanzi al concilio plebeo
(poi convertita in una capitale di perdeuellio), cui sarebbe addirittura
seguito un ulteriore ‘appello’ dinanzi le centurie (E.G. Hardy, Some Problems in Roman History, cit., 30
s., 34, 118 s.; cfr. T.R. Holmes,
The Roman Republic, I, cit., 251, 454; v., inoltre, J.L. Strachan-Davidson, Problems of
Roman Criminal Law, I, cit., 189, che discorre di processi «parallel and
simultaneous»). Per Bauman, invece, il processo duumvirale, nel cui grado di
appello sarebbe stata pronunciata l’orazione ciceroniana, avrebbe avuto luogo
dopo il giudizio tribunizio per perduellio bloccato da Meltello Celere
(R.A. Bauman, The Duumviri,
cit., 9 ss., 18 ss.). Dall’altra parte, in accordo a un secondo filone, si è
negata fiducia alla provocabilità della pronuncia dei duumviri. Per Tyrrell «Cicero intervened … before its execution and
crushed the judgment and with it the duumviral proceedings»; quindi «Labienus …
renewed the prosecution as a tribunician action for perduellio before
the centuriate assembly», e «Cicero delivered his speech in the final contio
on the day of the voting» (W.B.
Tyrrell, The Trial of C. Rabirius, cit., 292; v., inoltre, W.B. Tyrrell, Legal and Historical
Commentary, cit., 44; cfr. J.
Bleicken, Ursprung, cit., 337 s., nt. 33). Secondo Phillips – che
cerca di conciliare i racconti di Svetonio e di Dione, ma che tralascia di
approfondire la questione della sublatio e che, all’inizio del saggio,
scrive che «the duumviral procedure … deprived the accused of a hearing before
appeal and involved archaic formulae of condemnation, a cross and an
executioner» – alla iudicatio duumvirale sarebbe seguito, in forza della
provocatio (apparentemente quale facoltà del iudicatus prevista ex
lege), un processo popolare poi esitato in una assoluzione di Rabirio (come
si ricaverebbe da Svetonio); indi, sarebbe stato intentato un nuovo giudizio
tribunizio da Labieno «and, owing to more careful preparation by Labienus, a
conviction, as Dio says, appeared imminent, when the trial was brought to an
abrupt end by Metellus Celer lowering the Ted flag on the Janiculum, thus
leaving Rabirius still an innocent man in the eyes of the law»; per Phillips,
dato che «in his speech Cicero makes it quite clear that Rabirius was charged
with killing Saturninus … it may be simply that the charge was one of maiestas
instead of perduellio» (E.J. Phillips,
The Prosecution of C. Rabirius, cit., 91; cfr. R.A. Bauman, The Crimen Maiestatis in the Roman
Republic and Augustan Principate, Johannesburg 1967, 32 s.; E. Costa, Cicerone giureconsulto,
II, Bologna 1927, 88 s.).
[45] Sulla magistratualità ‘prototipica’ dei duumviri di
età regia, cfr. A. Bernardi, Dagli
ausiliari del rex ai magistrati della respublica, in Athenaeum
30, 1952, 3 ss.; R.A. Bauman, The
Duumviri, cit., 22 ss.; J.L. Murga,
Possibles bases mitologicas de la magistratura binaria romana, in Estudios
clasicos 16, 1972, 1 ss.; W.B.
Tyrell, The Duumviri, cit., 106 ss.; A. Alfoldi, Die Struktur des voretruskischen Romerstaates,
Heidelberg 1974, 151 ss.
[46] Infatti, Svetonio, «sull’onda di una chiara tradizione anticesariana» (C. Venturini, Processo penale, cit., 319), sostiene che se il popolo avesse votato, la sentenza sarebbe stata di assoluzione, sicché l’intervento di Celere teso a sciogliere l’assemblea – attraverso l’espediente dal vessillo rosso issato sul Gianicolo – sarebbe da leggere in senso favorevole all’accusa di Labieno e alla iudicatio di Cesare; di contro, Dione è convinto che Rabirio sarebbe stato condannato dal popolo, se Celere non fosse intervenuto (ossia se non avesse agito in senso favorevole a Cicerone). A ben vedere si tratta di supposizioni dei due storici che celano forse l’incertezza dell’esito del giudizio.
[47] Dio
Cassius 37.27: καὶ ἦν γὰρ αὐτὸς ἐκεῖνος
καὶ μετὰ τοῦ
Καίσαρος
τοῦ Λουκίου
δικάζων
οὐ γὰρ
ἁπλῶς, ἀλλὰ
τὸ δὴ λεγόμενον
περδουελλίωνος
ὁ Ῥαβίριος
ἐκρίθη, κατεψηφίσαντο
αὐτοῦ, καίτοι
μὴ πρὸς
τοῦ δήμου
κατὰ τὰ
πάτρια, ἀλλὰ πρὸς αὐτοῦ
τοὺ στρατηγοῦ. οὐκ
ἐξὸν αἱρεθέντες. καὶ
ἐφῆκε μὲν ὁ Ῥαβίριος, πάντως
δ᾽ἂν
καὶ παρὰ τῷ
δήμῳ ἑάλω, εἰ
μὴ ὁ
Μέτελλος
ὁ Κέλερ οἰωνιστής
τε ὢν
καὶ στρατηγῶν
ἐνεπόδισεν;
Suetonius, Caes. 12: Subornavit (Caesar) etiam qui C. Rabirio
perduellionis diem diceret, quo praecipuo adiutore aliquot ante annos L.
Saturnini seditiosum tribunatum senatus coercuerat, ac sorte iudex in reum
ductus tam cupide condemnavit, ut ad populum provocanti nihil aeque ac iudicis
acerbitas profuerit. Così
non pare da seguire E.J. Phillips,
The Prosecution of C. Rabirius, cit., 91, là ove ritiene che «Cicero’s
reference in the In Pisonem to Rabirius as perduellionis reus»
non possa essere «taken as proof that he was on trial for perduellio at
the time that Cicero delivered the Pro Rabirio, since in this passage
Cicero may merely be referring to his earlier opposition to the duumviral
trial».
[48] Cicero, in Pis. 4: ego in C. Rabirio perduellionis reo XL annis ante me consulem interpositam senatus auctoritatem sustinui contra invidiam atque defendi. Ritengono l’informazione non provante contro la tesi secondo cui l’orazione ciceroniana sia stata pronunciata in un contesto processuale diverso da quello determinato dalla accusa per perduellio, T. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II, cit., 398, n. 3; P.E. Huschke, Die multa, cit., 526; E.J. Phillips, The Prosecution of C. Rabirius, cit., 91; contra, v. E. Meyer, Caesars Monarchie, cit., 553, A. Boulanger, Ciceron Discours, cit., 122.
[49] Cicero, Rab. perd. 8: nam quid ego ad id longam orationem comparem quod est in eadem multae inrogatione praescriptum, hunc nec suae nec alienae pudicitiae pepercisset. A. Boulanger, Ciceron Discours, cit., 126 s.; E. Ciaceri, Cicerone e i suoi tempi, I, cit., 225 s.; W.B. Tyrrell, The Trial of C. Rabirius, cit., 292, nt. 12; contra, v. P.E. Huschke, Die multa, cit., 515 s.; E.J. Phillips, The Prosecution of C. Rabirius, cit., 90; J. Lengle, Die staatsrechtliche Form der Klage gegen C. Rabirius, cit., 337 ss. Sulle accuse mosse contro Rabirio, citate al § 8, cfr. R.A. Bauman, The Duumviri, cit., 11 s.; A.H.M. Jones, The criminal courts, cit., 8; E. Meyer, Caesars Monarchie, cit., 554; E.G. Hardy, Some Problems in Roman History, cit., 117 s.; E.J. Phillips, The Prosecution of C. Rabirius, cit., 89.
[50] Cfr. Cicero, Rab. perd. 10, 15, 17.
[51] Per un intervento congiunto console-senato, cfr., ex plurimis, E. Meyer, Caesars Monarchie, cit., 553; E.G. Hardy, Some Problems in Roman History, cit., 117 s.; W.B. Tyrrell, The Trial of C. Rabirius, cit., 292, nt. 12; per un intervento consolare giustificato dalla maior potestas, cfr., ex plurimis, J. Lengle, Die staatsrechtliche Form der Klage gegen C. Rabirius, cit., 330; L.R. Taylor, Roman Voting Assemblies, cit., 103.
[52] Livius 1.26.6-12.
[53] Cicero, Rab. perd. 5, 16. Cf. W.B.
Tyrrell, The Trial of C. Rabirius, cit., 288: «Rabirius is nowhere
threatened with the punishment for perduellio, scourging, but rather
with infamy and exile, the consequences of failure to pay an exorbitant fine»;
cfr. E.J. Phillips, The
Prosecution of C. Rabirius, cit., 89: «the most likely explanation is that
he persuaded the Senate to replace the death penalty with exile by passing a Senatus
Consultum to this effect».
[54] Cfr. Suetonius, Caes. 12: sorte index in
reum ductus. E. Meyer, Caesars
Monarchie, cit., 560 n. 1 (diversamente, v. T. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II, cit., 617, 618
nt. 1; A.H.J. Greenidge, The
Legal Procedure of Cicero’s Time, cit., 356; B. Liou-Gille, La perduellio, cit., 13, nt. 32.
[55] Livius
1.26.6: … si vincent …
[56] E.J. Phillips, The Prosecution of C. Rabirius, cit., 90: «as
Livy’s account of Horatius’ trial makes clear, the duumuiri themselves
presided at the appeal which followed a duumviral condemnation and the appeal hearing
took the form of a dispute between them and the condemned party, while Cicero’s
speech is addressed entirely to Labienus, who, since he was able to impose a
time limit of half an hour on Cicero, must have presided at the hearing»; cfr. W.B. Tyrrell, The Trial of C.
Rabirius, cit., 288.
[57] Cicero, Rab. perd. 4: rem ... a tribuno pl. susceptam; Cicero, Rab. perd. 6: accusatoris condicioni; cfr. Cicero, Rab. perd. 11, 12, 17, 20-21, 23-25, 28, 30, 35, 38. Il dato è ben segnalato da C. Venturini, Processo penale, cit., 323, che, tuttavia, pensa a un processo tribunizio in cui Labieno era sia accusatore sia presidente dell’assemblea: secondo lo studioso, infatti, questi dati costituirebbero «altrettanti ostacoli contro la riferibilità del discorso ad una provocatio». Come emerge dal testo, ritengo, invece, che le fonti non siano interpretabili se non nel senso opposto. Del resto, pensare nel caso di specie a un processo tribunizio capitale per perduellio (Cicero, Rab. perd. 1, 26) celebrato dinanzi le tribù in concilium (C. Venturini, Processo penale, cit., 326), significa aderire a una tesi dottrinale che ‘svilisce’ il precetto decemvirale de capite civis per postulare l’esistenza di giudizi ‘capitali’ apud plebem anche dopo il 451 a.C.: sul punto, v., amplius, B. Santalucia, Sacertà e processi rivoluzionari plebei: a proposito di un libro recente, in Studi per G. Nicosia, VIII, Milano 2007, 255 ss., nonché Sulla legge decemvirale de capite civis, in Le Dodici Tavole. Dai Decemviri agli Umanisti, a cura di M. Humbert, Pavia 2005, 401 ss. (ripubblicati in Altri studi di diritto penale romano, Padova 2009, 139 ss., 163 ss.).
[58] Cicero, Rab. perd. 6, 9, 38.
[59] Cicero, Rab. perd. 12: Popularis vero tribunus pl. custos defensorque iuris et libertatis! Porcia lex virgas ab omnium civium Romanorum corpore amovit, hic misericors flagella rettulit; Porcia lex libertatem civium lictori eripuit, Labienus, homo popularis, carnifici tradidit; C. Gracchus legem tulit ne de capite civium Romanorum iniussu vestro iudicaretur, hic popularis a duumviris iniussu vestro non iudicari de cive Romano sed indicta causa civem Romanum condemnari coegit.
[60] Cfr., paradigmaticamente, C.H. Brecht, Perduellio, cit., 179 ss.; E. Meyer, Caesars Monarchie, cit., 557 s.; J. Bleicken, Ursprung, cit., 341, nt. 39.
[61] Scholiasta Gronovianus ad Cic. in Catilinam 4.10 p. 289 S.: lege Sempronia iniussu populi non licebat quaeri de capite civis Romani; Cicero, Cat. 4.10; Scholia Ambrosiana p. 271 S.; Plutarchus, C. Gracch. 4.1-2; Plutarchus, Tib. Gracch. 20.4; Cicero, de am. 37; Sallustius, Bell. Iug. 31.7; Velleius Paterculus 2.7.3; Valerius Maximus 4.7.1.
[62] Cfr., conformemente, E. Gruen, Roman Politics and the Criminal Courts, 149-78 B.C., Cambridge 1968, 80 ss.; J.L. Strachan-Davidson, Problems of Roman Criminal Law, I, cit., 240 ss.; W. Kunkel, Untersuchungen, cit., 28, n. 89; B. Santalucia, Diritto e processo penale, cit., 122 s.
[63] Cfr., in tal senso, T. Mommsen, Römisches Staatsrecht, III.1, 3a ed., Leipzig 1887, 353 s.; Id., Römisches Strafrecht, cit., 42, 163, 258; C.H. Brecht, Perduellio, cit., 171; J. Bleicken, Ursprung, cit., 339, 364 ss.
[64] Cicero, Rab. perd. 15: Hic se popularem dicere audet, me alienum a commodis vestris, cum iste omnis et suppliciorum et verborum acerbitates non ex memoria vestra ac patrum vestrorum sed ex annalium monumentis atque ex regum commentariis conquisierit.
[65] Dio Cassius 37.27.
[66] Posto che il iussus (populi) menzionato due volte in Cicero, Rab. perd. 12 non può riferirsi ad una sentenza dei comizi centuriati (come invece pretende C.H. Brecht, Perduellio, cit., 180, 186 e nt. 3; contra v. D. Daube, Review, cit., 183; J. Bleicken, Ursprung, cit., 339 nt. 35); posto che iniussu vestro non può avere due diversi significati nelle due occorrenze del testé citato passo ciceroniano, come pretende R.A. Bauman, The Duumviri, cit., 15 ss. (che pensa sia che abbia avuto luogo la nomina dei duumviri a valle di un plebiscito, sia che Labieno abbia poi agito iniussu populi, ossia ‘non in conformità ai termini di legge’; cfr., nel senso di un plebiscito, J.L. Strachan-Davidson, Problems of Roman Criminal Law, I, cit., 153, 96; contra, v. E. Ciaceri, Cicerone e i suoi tempi, I, cit., 231, e A.H.M. Jones, The Criminal Courts, cit., 41). Per T. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II, cit., 616, nt. 4, data la nomina pretoria attestata da Cassio Dione, con inussu vestro Cicerone censurerebbe la mancata diretta elezione popolare dei duumviri. E.G. Hardy, Some Problems in Roman History, cit., 116, convinto che il secondo iniussu vestro vada con condemnari non vede ostacoli a ritenere che Labieno abbia approvato una legge istitutiva del tribunale duumvirale. Per l’esclusione di una lex previa, cfr. E.H. Renkema, De iudicio perduellionis sublato, cit., 396, nt. 4; W.B. Tyrrell, The Duumviri, cit., 119 ss.; E.J. Phillips, The Prosecution of C. Rabirius, cit., 88.
[67] B. Santalucia, Diritto e processo penale, cit., 71 ss. Sallustius, Bell. Cat. 51.21; Livius 10.9.4; Festus, De verb. sign., v. Pro scapulis, p. 266 L. In generale, v., circa il problema delle ‘leges Porciae’, C. Venturini, Processo penale, cit., 20 e nt. 14.
[68] Cfr. W.A. Oldfather, Livy I, 26 and the supplicium
de more maiorum, cit., 49 ss.; D.
Briquel, Sur le mode d’exécution en cas de parricide et en cas de perduellio,
in Mélanges de l'École française de Rome. Antiquité 92, 1980, 97
ss.; E. Cantarella, I supplizi
capitali, cit., 204 s.
[69] Cfr. T. Mommsen, Römisches Strafrecht,
cit., 155; Id., Römisches
Staatsrecht, II, cit., 615; P.E.
Huschke, Die multa, cit., 515; A.H.J. Greenidge, The Legal Procedure of Cicero’s Times,
cit., 355; E. Meyer, Caesars
Monarchie, cit., 556; T.R. Holmes,
The Roman Republic, I, cit., 452; E.G.
Hardy, Some Problems in Roman History, cit., 112 ss.; A. Boulanger, Ciceron Discours,
cit., 124 s.; C.H. Brecht,
Perduellio, cit., 146 ss., 170, 180 ss.; J.
Van Ooteghem, Pour une lecture candide, cit., 240; A. Watson, La mort d’Horatia,
cit., 5 ss.; Id., The Death of
Horatia, cit., 436 s., 442; A.
Giovannini, Les origines des magistratures romaines, cit., 22
ss.; R.A. Bauman, The Duumviri,
cit., 13 ss.; v., inoltre, G. Grosso,
Provocatio per la perduellio, provocatio sacramento e ordalia,
in Bullettino dell’Istituto di Diritto romano 63, 1960, 213 ss.; L. Garofalo, Il processo edilizio,
cit., 8, nt. 3 s.; E. Tassi Scandone,
Leges Valeriae de provocatione, cit., 129 ss. Oltre a Santalucia,
assumono invece che la lex horrendi carminis liviana sia il risultato di
manipolazioni e che, dunque, anche il riferimento alla provocatio ad populum
a duumviris sia una aggiunta posteriore (in questo ultimo senso v. già A. Pagliaro, La formula paricidas
esto, in Studi in onore di L. Castiglioni, II, Firenze 1960, 714 s.;
cfr., inoltre, W.B. Tyrrell, The
Duumviri, cit., 114 ss.; C.
Venturini, Variazioni, cit., 78 e nt. 33; ad avviso di B. Liou-Gille, La perduellio, cit.,
11 ss., 14, 20 ss., invece, la lex horrendi carminis sarebbe stata
priva, prima di Tullo Ostilio, della clausola sulla provocatio. Contro
l’autenticità di singole parti della legge, v. J. Bleicken, Ursprung, cit., 334 s., che sospettava
della clausola duumviri perduellionem iudicent, in quanto ricalcata
sulla formula d’accusa impiegata dai magistrati repubblicani sine imperio;
v. K. Latte, voce Todesstrafe,
in Realenzyclopädie, Supplementband VII, Stuttgart 1940, 1614), secondo
cui la clausola finale ‘verberato vel intra pomerium vel extra pomerium’
sarebbe specchio di una non originaria distinzione fra imperium domi ed imperium
militiae. Sul punto v., anche, W. Kunkel, Untersuchungen, cit.,
22, nt. 50; A. Magdelain, Remarques,
cit., 412; contra, v. Watson,
The Death of Horatia, cit., 444.
[70] Cfr. Cicero, Rab. perd. 2-3, 34; Dio Cassius
37.26; Sallustius, bell. Cat. 29 e Caesar, Bell. civ. 1.5. Sul
punto v. E.G. Hardy, Some
Problems in Roman History, cit., 102 ss.; J. von Ungern-Sternberg, Untersuchungen zum
spätrepublikanischen Notstandsrecht. Senatus consultum ultimum und hostis-Erklarung,
Munich 1970, 83 s.; B. Straumann,
Crisis and Constitutionalism. Roman Political Thought from the Fall of the
Republic to the Age of Revolution, Oxford 2016, 93 ss.
[71] Contro la ricostruzione di Santalucia si è espresso anche R. Fiori, Il crimen dell’Orazio superstite, cit., 43 s.: secondo lo studioso, non solo sarebbe probabile «che il reato di Orazio fosse qualificato come perduellio già prima del processo di Rabirio, e che sia stata il ricordo dell’accusa più antica a fornire il modello per quella più recente», ma sarebbe anche improbabile che la provocatio ad populum «sia stata inserita da Livio sulla scorta del processo di Rabirio», in quanto essa «non compare solo nel racconto liviano, ma in tutti i resoconti». Tale critica, condivisibile nelle premesse e negli esiti, non mi pare da seguire nel merito, in quanto sia omologa due figure distinte, ossia quella del processo comiziale (che tale può essere a prescindere da previa provocatio dell’accusato) e quella della provocatio ad populum, sia trascura che le fonti che menzionano il processo popolare conseguente a provocatio ben potrebbero essere dipendenti dalla narrazione Livio.
[72] Cfr. Cicero, de orat. 2.199 (patrona); Livius 3.45.8 (arx tuendae libertatis); 3.55.4 (unicum praesidium libertatis); 3.56.6 (vindex libertatis).
[73] Cfr., paradigmaticamente, D. 49.15.7.1 (Proculus libro octavo epistularum); Varro, Ling. lat. 9.6; Cicero, off. 1.124; Cicero, de orat. 2.167; Seneca, ep. 14.7; v., inoltre, Cicero, rep. 1.25.39 e Tacitus, Ann. 1.1.1.
[74] Dionysios Halicarnasseus 3.22.3-6.
[75] Così, sulla base di Paulus-Festus, De verb. sign., v. Parrici<di> quaestores, p. 247 L.: ... nam parricida non utique is, qui parentem occidisset, dicebatur, sed qualecumque hominem indemnatum), R. Fiori, Il crimen dell’Orazio superstite, cit., 42 (ritenendo che la tradizione annalistica attestata in Dionigi sia più precisa giuridicamente di quella liviana, configurando l’uccisione della sorella da parte dell’Orazio in termini di parricidium, e non discorra – erroneamente sub specie iuris – di perduellio). Diversamente v. B. Santalucia, La versione liviana, cit., 212, secondo cui in Festo – sulla scorta della tradizione confluita in Dionigi – «Orazio è accusato di parricidium (inteso nel senso lato di ‘uccisione di un parente’)» (ritenendo che la tradizione annalistica più antica sia quella di Dionigi rispetto a quella ‘eversiva’ liviana). Questa duplice lettura contemporanea dell’uccisione della sorella rispecchia l’ambivalenza già avvertita in antichità del vocabolo parricidium. Da un punto di vista etimologico, infatti, gli autori antichi non condividono le stesse convinzioni. Da una parte, Priscianus, Inst. 2.25.24-26, K (par paris parrĭcida, quod vel a pari componitur vel, ut alii, a patre: ergo si est a pari, ‘r’ euphoniae causa additur, sin a patre, ‘t’ in ‘r’ convertitur; quibusdam tamen a parente videtur esse compositum et pro parenticida per syncopam et commutationem ‘t’ in ‘r’ factum parricida), 2.177.18-24 (‘parricida’. hoc enim ipsum per se compositum quaerentes ex quibus dictionibus est, invenimus divisione facta eas per se intellegendas: dicimus enim a parente et a verbo caedere, quae utraque per se integra sunt et intellectum habent plenum, quod in decompositis fieri non potest) suggerisce una derivazione da par o, in alternativa, da pater se non da parens (cfr., a sostegno della prima derivazione, Isidorus, Orig. 10.225, mentre in un altro lavoro, cioè Diff. 1.432, il vescovo di Siviglia suggerisce la seguente differenza tra parricida e paricida: parricidam dicimus qui occidit parentem, paricidam qui socium atque parem); analogamente, Lydus, Mag. 1.26 collega due aree semantiche allo stesso sostantivo, a seconda della quantità della prima ‘a’: parricida starebbe sia per ‘persona che uccide părentes-genitori’, sia per ‘persona che uccide pārentes-sudditi-cittadini’: παρρικίδας δὲ Ῥωμαίοι ὁμωνύμως τούς τε γονέων τούς τε πολιτῶν φονέας ἀποκαλοῦσι, παρέντες ἑκατέρους προσαγορεύντες. διαφορὰν δὲ ἐπὶ τῆς ἐπωνυμίας ταύτην παρέχουσίτινα· συστέλλοντες γὰρ τὴν πρώτην συλλαβὴν καὶ βραχεῖαν ποιοῦντες τοὺς γονέας, ἐκτεινόντες δὲ τοὺς ὑπηκόους σημαίνουσιν. D’altra parte, Quintilianus, Inst. or. 8.6.35 sostiene che il termine significhi ‘uccisione di fratelli e madri’ esclusivamente per via della catachresi (v. Donatus 4.400.1-2, K; Charisius 1.273.3-4, K; Diomede 1.458.5-6, K; Servius 4.430.5-5, K; Pomponius 5.306.14-18, K; cfr., inoltre, Cicerone, che, in Rosc. Am. 70, pro Mil. 7.17, Fil. 3.7.18, Tusc. 5.2.6, conferma il supposto rapporto tra i termini parricidium e pater come parens). Cfr. J.D. Cloud, Parricidium, from the Lex Numae to the Lex Pompeia de Parricidiis, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung. Romanistische Abteilung 88, 1971, 7 ss. (che, con riguardo alla lex Numae, pensa che il re intendesse «to assimilate the murderer of a Roman citizen to the murder of a kinsman with a view to regulating or abolishing vendetta»), e Y. Thomas, Parricidium, cit., 660 ss. (che sostiene che il termine parricidium in origine significasse solo ‘uccidere il padre’ e che la lex Numae fosse un falso inutile per la ricostruzione dell’istituto); contra v. A. Magdelain, Paricidas, in Du châtiment dans la cité, cit., 549 ss. Al contrario, Pomponius, Comm. artis Donati 5.306.14-23 K, attesta come apud maiores il termine parricida avesse il valore semantico poi attribuito ad ‘omicida’ (quamquam et maiores nostri voluerunt aliud esse ‘parricidam’ [‘parricida’ est qui parentem occidit. nam idcirco dictum est ita addita una littera ‘r’, ‘parricida’, quod parentem interimat]. apud maiores enim nostros ‘homicidas’ raro legistis, ‘parricidas’ autem semper. idcirco etiam parricidas patriae vocamus qui cives interimunt). Allo stesso modo, i quaestores parricidii sarebbero stati magistrati incaricati di indagare sull’omicidio di un homo liber, e, soprattutto, sulla mens rea dell’omicida (cfr., per l’età regia, Tacitus, Ann. 11.22.4; D. 1.13.1 pr. (Ulpianus libro singulari de officio quaestoris); Lydus, Mag. 1.24; implicitamente, Zonaeus 7.13; Varro, Ling. lat. 5.81; al contrario, v. Plutarchus, Popl. 12.3 e D. 1.2.2.22-23 (Pomponius libro singulari enchiridii), dove i quaestores sono considerati solo un’istituzione repubblicana (cfr. L. Garofalo, Appunti sul diritto criminale nella Roma monarchica e repubblicana, Padova 1997, 71 ss.). Tutto ciò implica che, per quanto riguarda la qualifica di ‘quaestores parricidii’, essa includesse il termine parricidium per coprire qualsiasi forma di omicidio: come Festo esplicita dopo aver riportato la lex Numae stessa: ‘si qui hominem liberum dolo sciens morti duit, paricidas esto’ (cfr. Plutarchus, Rom. 22.4 (πᾶσαν ἀνδροφονίαν πατροκτονίαν προσειπεῖν; v., inoltre, Pomponius 5.306.18-23 K). È idea diffusa che paricidas e parricida siano etimologicamente interconnessi (cfr. M. Mancini, Una premessa filologico-linguistica all‘etimologia di Lat. paricidas, in Ce qui nous est donné, ce sont les langues. Studi linguistici in onore di Maria Pia Marchese, a cura di M. Ballerini, F. Murano, L. Vezzosi, Alessandria 2017, 49 ss.; Id., Stravaganze supreme sull’etimologia di lat. Pārĭcīdas, in Lingua e istituzioni, cit., 143 ss.), e che tra il III e il II secolo a.C. la parola parricidium iniziasse ad indicare ogni omicidio volontario di un parente, quando omicidio iniziò a coprire la sfera semantica originale del primo (v., sul punto, F. Carlà-Uhink, Murder Among Relatives. Intrafamilial Violence in Ancient Rome and Its Regulation, in Journal of Ancient History 5.1, 2017, 26 ss., 35; B. Biscotti, What Kind of Monster or Beast Are You? Parricide and Patricide in Roman Law and Society, in Parricide and Violence Against Parents throughout History. World Histories of Crime, Culture and Violence, eds. M. Muravyeva and R.M. Toivo, London 2018, 13 ss.; C. Pelloso, Sew It up in the Sack and Merge It into Running Waters! Parricidium and Monstrosity in Roman Law, in Monsters and Monstrosity. From the Canon to the Anti-Canon: Literary and Juridical Subversions, ed. D. Carpi, Berlin - New York 2019, 45 ss., 49 ss., ntt. 6 ss.; sulla recenziorità alternativa della forma paricidas rispetto a parricida, v. A.L. Prosdocimi, Forme di lingua, cit., 198 ss.; L. Garofalo, Disapplicazione, cit., 59). Questa teoria, che sostiene uno sviluppo lineare da paricidas a parricida, è, in certa misura, a mio credere poco convincente. In primis, è indubbio come paricidas esto rappresenti, nella lex Numae, la conseguenza prevista se la morte di un homo liber vien perpetrata (la formula in questione atterrebbe, dunque, alla gamma delle regole secondarie); al contrario, parricida non si riferisce mai a conseguenze o a sanzioni, essendo l’etichetta giuridica di un fatto materiale illecito (questo sostantivo, cioè, riguarderebbe la sostanza). Non sorprendentemente questa divergenza semantica e il presunto slittamento da un livello all’altro rimangono senza spiegazione. In secondo luogo, le due opposte interpretazioni di Cloud e Magdelain, supponendo che paricidas esto o copra il concetto di ‘persona assimilata all’omicida di un parente’, o tautologicamente significhi ‘chiunque uccida un homo liber’) non prendono in considerazione idee alternative sul significato originario del termine paricidas. Per esempio, se si concepisse paricidas esto come paricidatus esto, essa alluderebbe all’autorizzazione della vendetta privata o alla punizione compiuta dalla civitas. Se si pensasse ad un particolare status arcaico (come sacer e come damnas), né il profilo della punizione capitale, né quello dell’omicidio di parenti sarebbero implicati. Un collegamento tra la lex Numae e il più recente parricidium potrebbe, invece, essere supportato suggerendo un collegamento linguistico tra paricidas e pera, cioè culleus di modo che la poena cullei sarebbe stata originariamente inflitta a qualsiasi omicida di persona libera, mentre solo in seguito sarebbe stata collegata all’omicidio di un genitore o di un parente stretto (su tutto ciò, con ampi richiami di letteratura, v. M. Falcon, Paricidas esto. Alle origini della persecuzione dell’omicidio, in Sacertà e repressione criminale in Roma arcaica, a cura di L. Garofalo, Napoli 2013, 191 ss.). Queste osservazioni rendono, a mio modo di vedere, plausibile che, nonostante la loro somiglianza linguistica (il che avrebbe portato gli scrittori antichi – scambiando fatto materiale con sanzione – a proporre interpretazioni etimologiche del termine parricidium come sinonimo di ‘omicidio generico e volontario’), paricidas non sarebbe stato legato a parricidium, e che non si sarebbe verificato alcuno shift semantico a metà dell’era repubblicana. Il nomen actionis ‘parricida’, quindi, sarebbe una più recente forma linguistica (che appare in Plautus, Pseud. 362 e in Rud. 651 come ‘uno che uccide il proprio padre e la propria madre’), probabilmente usato come sinonimo del meno comune termine parenticida che Plauto, alla fine del III secolo a.C., già collegava al culleus. Se così fosse, allora, a dover valutare la messa a morte dell’Orazia secondo le categorie e le norme vigenti all’età di Tullo Ostilio, non sarebbe tanto questione di valutare se è stato commesso propriamente parricidium o perduellio, ma se l’Orazio (ritenendo lui dolo sciens, nonostante il dolo d'impeto, e sua sorella un homo liber, nonostante il suo status di alieni iuris e il suo essere di sesso femminile) ha integrato la fattispecie descritta nella protasi della lex Numae (di modo che, data la sua condotta, sia da attuare l’imperativo della apodosi ‘paricidas esto’), o se, attesa la condotta libera della perduellio e la possibilità che il contegno tenuto da un soggetto dolo sciens di morti dare aliquem rientri, ferma la necessità di un quid pluris, nella (fattispecie complessa della) perduellio.
[76] Analogamente, la presunta ispirazione annalistica alla base dell’ammissione della provocatio ad populum nel processo del 63 a.C. avrebbe non poco indebolito la causa ottimate (v. R. Fiori, Il crimen dell’Orazio superstite, cit., 45, nt. 46): se si accetta che lo scopo autentico del processo contro Rabirio fosse l’attacco popularis all’uso politico del senatus consultum ultimum contro tribuni e seguaci, mentre la difesa ciceroniana dovesse rappresentare le ragioni degli optimates, del consolato e dei patres, allora, Cicerone, ispirato dalla tradizione, avendo obbligato come consul i duumviri a concedere a Rabirio la provocatio ad populum, avrebbe fatto il gioco degli avversari, sostenendo la necessità del iussus del popolo de capite civis. L’esecuzione immediata di Rabirio – sulla scorta della lex horrendi carminis – sarebbe molto meglio servita allo scopo: quindi, dando per vere le ipotetiche premesse di partenza (ossia: scopo politico del processo; definitività della iudicatio duumvirale), mi pare improbabile che Cicerone, non ancora patronus di Rabirio ma solo consul, sia stato così ingenuo. Ma, come si è visto, sono le stesse premesse ad essere controvertibili.
[77] Cfr. paradigmaticamente, P. Valerius Publicola (509 a.C.): Livius 1.58.6, 1.59.2, 2.2.11, 2.6.6, 2.7.3-9.1, 2.11.4, 2.11.7, 2.15.1, 2.16.7. M. Valerius (494 a.C.): Livius 2.30.4-31.11; L. Valerius Potitus (449 a.C.): Livius 3.39.2, 3.41.1-4, 3.49.3-5, 3.51.12, 3.52.5-55.15, 3.57.9, 3.60.1-61.10. V. R.M. Ogilvie, A Commentary on Livy, Books 1-5, cit., 14, 224, 232, 241, 250 s.; P.G. Walsh, Livy, His Historical Aims and Methods, Cambridge 1961, 88 s.; T.P. Wiseman, Clio’s Cosmetics, Leicester 1979, 115.
[78] G. Dumézil, Horace et les Curiaces, Paris 1942, passim; Id., Heur et malheur du guerrier, Paris 1985, 16 ss.; E. Montanari, Il mito degli Horatii e Curiatii, in Studi e materiali di storia delle religioni 41, 1970-1972, 229 ss., 254 ss.; S. Arcella, Religiosità e presenza politica degli Orazi fra il VI e il IV secolo a.C., in Ricerche sulla organizzazione gentilizia romana, a cura di G. Franciosi, II, Napoli 1988, 169 ss.; D. Briquel, Le règne de Tullus Hostilius et l’idéologie indo-européenne des trois fonctions, in Revue de l'histoire des religions 214, 1997, 5 ss.; in particolare sulla funzione ‘mitica’ dell’episodio ‘fondativo’ degli Orazi e dei Curiazi, cfr. F. Mencacci, Orazi e Curiazi: uno scontro fra trigemini gemelli, in Materiali e discussioni per l'analisi dei testi classici 18, 1987, 17 ss.
[79] Il primo personaggio della gens Horatia di età repubblicana è M. Horatius Pulvillus, consul suffectus nel 509 a.C.: le fonti gli attribuiscono la dedica del tempio di Giove Capitolino e, con alcune discrepanze, narrano del conflitto insorto fra gli Orazi e i Valeri per la dedica. (cfr. Livius 2.7.9, 2.8.4-5, 2.9.6-9, 7.3.7; Polibius 3.22.1; Valerius Maximus 5.10; Dionyios Halicarnasseus 4.85.3-4, 5.35.3; Plutarchus, Popl. 14.2; Tacitus, hist. 3.72. Nel 477 (o 475) a.C. si registra un C. Horatius console con T. Menenius, nell’anno in cui, si verifica la strage del Crémera (cfr. Dionysios Halicarnasseus 9.18; Livius 2.51.1). È del 457 (o 455) a.C. il consolato di M. Horatius Pulvillus e di Q. Minucius, durante il quale i tribuni plebis costringono il patriziato ad elevare a dieci il loro numero (cfr. Livius 3.30.1-7; Dionysios Halicarnasseus 10.26). Per l’anno 453 a.C. Dionigi attesta P. Horatius (P. Curiatius in Livio) quale console insieme a S. Quintilius (Dionysios Halicarnasseus 10.53; Livius 3.32.1; cfr., inoltre, analogamente, per l’anno del primo decemvirato: Livius 3.33.3; Dionysios Halicarnasseus 10.56.2.). Contro il decemvirato l’opposizione di L. Valerius Potitus e di M. Horatius Barbatus diviene ‘proverbiale’: Livio e Dionigi attribuiscono al secondo un discorso che mette in campo l’esempio degli antenati avversi alla tirannide e fondamentale diviene la mediazione promossa da Valerio e Orazio in seguito alla secessione sul Monte Sacro (Livius 3.39.3-10, 3.49, 3.53-3.57; Dionysios Halicarnasseus 11.5; Diodorus Siculus 2.26). Cfr., per le leges Valeriae-Horatiae nel consolato di Valerio e Orazio del 449 a.C., v. Livius 3.55.1-15, 3.63.11; Cicero, rep. 2.31.53 (cfr. Livius 3.53.3). Gli ultimi Horatii degni di menzione sono L. Horatius Pulvillus nel 386 a.C. e M. Horatius nel 378 a.C., entrambi tribuni militum consulari potestate, mentre dopo più di tre secoli di silenzio è registrato un legato in Africa nel 43 a.C. (Livius 6.6.3, 6.31.1; Cicero, ep. ad fam. 12.30.7).
[80] Cfr. M. Voigt, Über die leges regiae, in Abhandlungen der philologisch-historischen Classe der königlich sächsischen Gesellschaft der Wissenschaften 6, 1876, 128 ss.; in senso adesivo O. Hirschfeld, Die Monumenta des Manilius und das Ius Papirianum, Berlin 1903, 244); R.M. Ogilvie, A Commentary on Livy, Books 1-5, cit., 7 ss. Cfr., inoltre, sul racconto liviano dell’episodio del duello tra Orazi e Curiazi, E. Burck, Die Erzählungskunst des T. Livius, 2a ed., Berlin - Zürich 1964, 150 ss.; A.D. Walker, Enargeia and the Spectator in Greek Historiography, in Transactions of the American Philological Association 123, 1993, 363 ss.; S.P. Oakley, Dionysius of Halicarnassus and Livy on the Horatii and Curiatii, in Ancient Historiography and Its Contexts: Studies in Honour of A.J. Woodman, edited by C.S. Kraus, J. Marincola and C. Pelling, Oxford 2010, 118 ss. Sulle inclinazioni politiche quale aspetto della vita di Valerio Anziate e di Licinio Macro, è da consultare The Fragments of the Roman Historians, edited by T.J. Cornell, I, Introduction, Oxford 2013, 293 ss., 320 ss.
[81] Questa ipotesi, ovviamente, non comporta di necessità
adesione all’idea – combattuta da A. Watson,
The Death of Horatia, cit., 445 – di una «falsification of the annals …
to satisfy the pride of the family of the Horatii who competed with the gens
Valeria for the honour of being responsible for the provocatio ad populum»:
sempre con Watson, infatti, si può rilevare che «Horatian family pride would
not seem to be boosted by the claim that a Horatius, slayer of his sister, was
even the first – not stated in any surviving version of the story – to make use
of a right of appeal invented by another. A further difficulty is the lack of
distinction or power of the Horatii – hence their inability to affect the
tradition of the annalists – after 300 B.C.».
[82] Cfr. P.G.
Walsh, Livy, His Historical Aims and Methods, cit., 110
ss.; J.B. Solodow, Livy and
the Story of Horatius, 1.24-6, in Transactions of the American Philological Association 109, 1979,
251 ss.; A. Feldherr, Spectacle
and Society in Livy’s History, Berkeley 1998, 123 ss.
[83] Sulla specularità dei due processi, v. T. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 155; Id., Römisches Staatsrecht, II, cit., 615; P.E. Huschke, Die multa, cit., 515; A.H.J. Greenidge, The Legal Procedure of Cicero’s Times, cit., 355; E. Meyer, Caesars Monarchie und das Principat des Pompejus, 3a ed., Stuttgart 1922, 556; T.R. Holmes, The Roman Republic, I, cit., 452; E.G. Hardy, Some Problems in Roman History, cit., 112; A. Boulanger, Ciceron Discours, cit., 124 s.; C.H. Brecht, Perduellio, cit., 170; J. Van Ooteghem, Pour une lecture candide, cit., 240; A. Giovannini, Les origines des magistratures romaines, cit., 22 ss.; A. Watson, The Death of Horatia, cit., 436 s.; B. Liou-Gille, La perduellio, cit., 6. Come Orazio viene accusato di violazione di un interesse della comunità ancorché coperto dalla ‘scriminante’ invocata dal pater, così a Rabirio viene imputata l’uccisione di Saturnino col pretesto e con lo schermo del perseguimento di un interesse generale. Più esattamente, nel suo discorso all’accusa, Cicerone giustifica l’uccisione di Saturnino, invocando l’autorità del senato e la chiamata alle armi dei consoli, nonché lo status di hostis di Saturnino che giustificava la sua messa a morte da parte di chicchessia (per analoga argomentazione a sostegno dell’operato del console Opimio che nel 121 a.C., coperto dal senato, aveva proceduto a uccidere Caio Gracco e i suoi seguaci, cfr. Cicero, de orat. 2.106, 132, 134 e Cicero, part. or. 106, con le note di B. Straumann, Crisis and Constitutionalism, cit., 57 ss. e di L. Garofalo, In tema di iustitium, in Piccoli scritti di diritto penale romano, Padova 2008, 77 ss.). Questo argomento della difesa ricalca quello speso dal padre di Orazio davanti al popolo: l’uccisione della sorella da parte dell’eroe di guerra era incontestabile, ma era comunque avvenuta iure ad avviso del pater, anche se, giusta il tenore della lex horrendi carminis, come scrive Id., Disapplicazione, cit., 25 a commento del tratto liviano ‘duumviri … se absolvere non rebantur ea lege ne innoxium quidem posse’, «i duumviri perduellionis nominati da Tullo Ostilio … non avrebbero potuto assolvere il perseguito neppure se egli fosse stato reputato innocente dal padre, in quanto imputato di un illecito considerato lesivo degli interessi della comunità e perciò non rientrante nella sfera di competenza dell’avente potestà» (sul significato di innoxius come «innocent dans le sen que son acte est considéré comme légitime ou excusable», v. già A. Giovannini, Les origines des magistratures romaines, cit., 24, nt. 35; contra, v. W.B. Tyrrell, A Legal and Historical Commentary, cit., 19 ss.; Id., The Trial of C. Rabirius, cit., 287, sulla scorta di C.H. Brecht, Zum römischen Komitialverfahren, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung. Romanistische Abteilung 59, 1939, 278 ss., 313 ss.; B. Santalucia, Osservazioni sui duumviri perduellionis, cit., 451; A. Watson, The Death of Horatia, cit., 441, 443; B. Liou-Gille, La perduellio, cit. 19, 21). Forse anche in ciò si risolveva l’atrocità del giudizio duumvirale (tanto nel caso di Orazio, quanto in quello di Rabirio): l’irrilevanza di ‘cause di giustificazione’ a favore del perduellis per l’esclusione del supplicium more maiorum.
[84] A. Watson, The Death of Horatia,
cit., 436; similmente, cfr. La leggenda di Roma, III, La costituzione,
a cura di A. Carandini, morfologia e commento di P. Carafa, M. Fiorentini e U.
Fusco, Milano 2011, 373. V., inoltre, contro l’ipotesi che Livio abbia falsificato
la lex horrendi carminis inserendo nella procedura duumvirale la provocatio
e contro quella della scorrettezza giuridica della sussunzione della caedes
di un homo indemnatus tanto nel contesto della vicenda ‘oraziana’ (per
come dipinta da Livio) quanto in quello degli accadimenti del 100 a.C. fatti
valere da Cesare e Labieno nel 63 a.C. (per come valutati da Cicerone), A. Giovannini, Les origines des
magistratures romaines, cit., 25, nt. 37: «il me parait du reste absolument
exclu qu’une telle fabrication ait pu être acceptée au dernier siècle de la
République et même dans les siècles précédents. A partir du moment où les XII tables étaient accessibles
à tous, il n’était plus possible d’inventer des lois nouvelles que les
jurisconsultes n’auraient pas manque de démasquer. La critique de la tradition
annalistique est justifiée, mais elle a certaines limites».
[85] Cfr. B. Santalucia, Osservazioni sui duumviri perduellionis, cit., 439 ss. (Id., Diritto e processo, cit., 14, 22 ss., 54, 76, 78), secondo cui esiste una distinzione, quanto a pena e giudizio, tra perduellio flagrante e non flagrante, l’una forma di reato essendo repressa mediante il procedimento duumvirale, ossia il procedimento condotto da magistrati atti a «proclamare la responsabilità dell’imputato ... e metterlo immediatamente a morte», l’altra mediante ordinario giudizio comiziale (cfr., conformemente, sulla natura del processo duumvirale, C. Venturini, Variazioni, cit., 78 e nt. 33; cfr., altresì, C.H. Brecht, Zum römischen Komitialverfahren, cit., 311 ss.; J. Bleicken, Ursprung, cit., 340; E.G. Hardy, Some Problems in Roman History, cit., 113; E. Meyer, Caesars Monarchie, cit., 561, 588).
[86] Le tesi della integrazione da parte dell’Orazio del reato di ‘omicidio volontario’ ritengo – come già ho avuto modo di scrivere: C. Pelloso, Provocatio ad populum e poteri magistratuali dal processo all’Orazio superstite alla morte di Appio Claudio decemviro, in Studia et documenta historiae et iuris 82, 2016, 243 s. e nt. 52 – non siano seguibili. Anzitutto, va precisato che, alla luce della lex Numae (Paulus-Festus, De verb. sign., v. Parrici<di> quaestores, p. 247 L.: … ita fuisse indicat lex Numae Pompili regis his composita verbis: ‘Si qui hominem liberum dolo sciens morti duit, paricidas esto’), escluderei i casi di cagionamento doloso della morte di ‘chi non appartiene direttamente al populus Romanus’, ossia, data l’originaria identificazione tra ‘popolo’ ed ‘esercito’, di ‘chi non è un maschio pubere atto alle armi’ (cfr., sulla nozione di liber, L. Garofalo, L’homo liber della lex Numae sull’omicidio volontario, in Philia. Scritti per G. Franciosi, a cura di F.M. D’Ippolito, II, Napoli 2007, 1031 ss., nonché in Piccoli scritti di diritto penale romano, cit., 5 ss.; condivide l’idea che nel liber di Numa sia da riconoscere l’appartenente alla comunità politica anche M. De Simone, Studi sulla patria potestas. Il filius familias designatus rei publicae civis, Torino 2017, 131 s., 138 e 165 ss.; in critica alla lettura che fa A.L. Prosdocimi, Forme di lingua, cit., 214 s., della lex Numae, nonché in replica a De Simone che reputa «incauta» e basata su un «grave fraintendimento» la tesi secondo cui – all’epoca numana – non tutti i cittadini erano liberi, attesa, anzitutto, l’assunta esclusione dei filii, cfr. C. Pelloso, Ricerche sulle assemblee quiritarie, Napoli 2018, 42 s., nt. 72, 49 ss., nt. 84; v., inoltre, L. Garofalo, Disapplicazione, cit., 65 ss.). Homo liber (essere umano appartenente al popolo) non era, in concreto, la sorella dell’Orazio e l’uccisione di un membro femminile del proprio gruppo di appartenenza doveva essere esclusa dalla sfera di applicabilità della legge di Numa, benché giudicabile in ambito ‘domestico’ come, in parte, la tradizione mostra di ricordare (cfr. Livius 1.26.9; Festus, De verb. sign., v. Sororium tigillum, p. 380 L.; v. Y. Thomas, Parricidium, cit., 681 ss., 685, per cui sia la lex Numae concernerebbe solo la «meurtre du père», non applicandosi alla «meurtre de la soeur», sia il caso dell’Orazio sarebbe emblematico di una «translation de pouvoirs de la famille à la cité», imponendosi come «un récit exemplaire de la fondation du droit pénal public»; B. Liou-Gille, La perduellio, cit., 10 s., nt. 19). Più esattamente, il fatto commesso dall’Orazio pare rilevante sia sul piano domestico (in quanto l’Orazio cagiona la morte di un membro di sesso femminile del proprio gruppo di appartenenza, anche se l’uccisione, in concreto, viene ritenuta dal pater ‘iure’ e, dunque, non passibile di animadversio in conformità al ius patrium: v. L. Garofalo, Disapplicazione, cit., 17 ss., 21 ss.), sia su quello cittadino (in quanto col provocare la morte della sorella l’Orazio ha – in qualche modo – commesso altresì contro la civitas di appartenenza illecito meritevole di pubblica repressione, ossia perduellio). In definitiva, non integrando la caedes manifesta compiuta dall’Orazio gli estremi del reato sanzionato da Numa, la fattispecie concreta – oltre che rilevare anche a livello domestico – per il diritto del regnum primitivo latino-sabino non poteva, date sue peculiarità strutturali, che essere sussunta entro la magmatica figura a condotta libera del reato – a struttura complessa – della perduellio. La critica mossami da R. Fiori, Il crimen dell’Orazio superstite, cit., 43, nt. 36, secondo cui la tesi della equivalenza numana ‘liber - appartenente al populus’ sarebbe «inverosimile» perché avrebbe lasciato fuori dalla sfera del parricidium (o, più esattamente, dalla applicazione della norma numana implicante il paricidas esto) «non solo le donne, ma anche gli uomini minori di 17 anni o più anziani di 60» non mi pare dirimente, atteso che – come per l’omicidio delle donne non risultavano neglette forme di repressione domestica – anche per i casi in cui vittime fossero stati i maschi esclusi dal popolo-esercito ben potevano esistere vie alternative di giustizia.
[87] Per la completa inautenticità, oltre a T. Mommsen, Römisches Strafrecht, cit., 918, nt. 1 (che pensa ad una leggenda), e a C.H. Brecht, Perduellio, cit., 131, 149, 189 (che discorre di «einmalige Fiktion eines alten Scribenten»), v. anche W. Kunkel, Untersuchungen, cit., 22, nt. 50, 43, nt. 102, per il quale «unhistorisch ist der Horatier-Prozess, nicht nur, – was sich von selbst versteht –, als individueller Vorgang, sondern auch als Specimen des Perduellionsverfahrens und der Provokation»; ad un falso pensano pure, ex plurimis, A. Magdelain, Rémarques, cit., 407; J.B. Solodow, Livy and the Story of Horatius, cit., 264.
[88] In questi termini, cfr., a mente delle osservazioni di Prosdocimi, L. Garofalo, Disapplicazione, cit., 9, il quale altrove ben metteva in luce che «tutta la narrazione di Livio, ma in particolare quella che occupa la prima deca, … è volta all’ammaestramento, anche nel campo giuridico: più che il severo accertamento dei fatti teso a espungere dalla memoria il non autentico, proprio della storiografia scientifica, a Livio interessava la riproposizione, mediante una forma letteraria bella e accattivante, di vicende educative dall’angolo della virtù etica e dello spirito civico, al quale non sentiva estraneo il diritto» (Id., Il diritto di Roma arcaica: tra Livio e David, in Echi del diritto romano nell’arte e nel pensiero, Pisa 2018, 20 s.).
[89] Cfr., per un quadro sintetico in merito al contesto dello scontro tra le due potenze, L. Garofalo - C. Pelloso, Orazio e Appio Claudio, cit., 35 ss.
[90] Livius 1.26.1-4.
[91] Livius 1.26.9: … P. Horatio patre proclamante se filiam iure caesam iudicare; ni ita esset, patrio iure in filium animadversurum fuisse.
[92] Livius
1.26.5 ss.; v., altresì, Auctor, vir. ill. 4.
[93] A. Giovannini, Les
origines des magistratures romaines, cit., 21 ss.
[94] B. Santalucia, La versione liviana, cit., 229 s.
[95] C.H. Brecht, Perduellio, cit., 125 ss., 146 s.; cfr., nel senso di una costruzione della vicenda a partire dal tenore della lex, anche W.B. Tyrrell, The Duumviri, cit., 110, che tuttavia esclude la autenticità del testo liviano.
[96] B. Liou-Gille, La perduellio, cit., 21. ma v., anche B. Santalucia, Osservazioni, cit., 448: «se la lex horrendi carminis concedeva senz’altro la provocatio, che senso ha parlare di ‘clemente intervento’ del re? La provocatio sarebbe stata un diritto, non il frutto di una concessione graziosa del sovrano. Alla frase può essere dato un senso solo a patto di ritenere che la formula della vetusta legge non contenesse alcun accenno all’appello al popolo e che fosse stato Tullo Ostilio a manipolarla in modo favorevole all’Orazio, introducendo in essa la clausola relativa alla possibilità di provocare»; Livio, quindi, avrebbe seguito gli annalisti che «nell’intento di dimostrare che l’illustre istituto già esisteva in epoca monarchica … immaginarono che Tullo Ostilio inserisse nel testo (autentico) della lex horrendi carminis la clausola» (cfr. C. Venturini, Variazioni, cit., 78 e nt. 33).
[97] A. Watson,
The Death of Horatia, cit., 442; W.B.
Tyrrell, The Trial of C. Rabirius, cit., 287.
[98] Del resto, è lo stesso Cicerone che precisa come la lex horrendi carminis – che dal testo liviano risulta ineluttabilmente provvista della clausola sul ius provocationis del iudicatus – sia stata rispolverata nel 63 a.C. grazie a ricerche condotte su documenti antichissimi oggetto di archiviazione sacerdotale (Cicero, Rab. perd. 15: ex annalium monumentis atque ex regum commentariis). Cicerone, cioè, richiama monumenta di natura annalistica conservati nella Regia risalenti ad un’epoca precedente a quella del mos di affiggere annualmente la tabula dealbata da parte del pontefice massimo (v. G. D’Anna, La testimonianza di Cicerone sugli Annales Maximi, in Ciceroniana 7, 1990, 226, nt. 9; diversamente cfr. B. Liou-Gille, La perduellio, cit., 7 ss., che reputa il riferimento sia agli annales maximi, che però – va notato – non risalivano al di là del 400 a.C.; in generale, sulla documentazione sacerdotale, inoltre, S. Tondo, Leges regiae e paricidas, Firenze 1973, 20 ss.; F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I, Libri e commentarii, Sassari 1983, 115, nt. 2); e nella medesima documentazione che servì a Labieno e Cesare per processare Rabirio vi erano riferimenti a provocationes dell’età regia (Cicero, rep. 2.31.54; Cicero, Tusc. 4.1.1; Seneca, ep. 108.31).
[99] Nel senso che la clemenza del sovrano non consistette nel concedere un diritto già esistente, ma nell’interpretare in senso favorevole all’eroe il testo della legge si esprime anche E. Tassi Scandone, Leges Valeriae de provocatione, cit., 129 ss.: Tullo avrebbe graziosamente concesso la provocatio nonostante la flagranza dell’illecito commesso. Ma la tesi, così concepita, o presuppone erratamente il giudizio duumvirale anche nel caso di ipotesi non flagranti di perduellio o – limitandosi la procedura duumvirale ai casi di reato manifesto – implica il nonsense dell’inutilità radicale della clausola ‘si a duumviris provocarit’. Tali osservazioni, ovviamente, si collocano a valle del problema della ‘datazione’ di tale lex nel senso di una sua emanazione in un momento precedente al caso dell’Orazio, come si inferisce sia dalla notazione che Tullo Ostilio è clemens interpres, e non creatore, sia dal nesso secundum legem che nel passo liviano sembra indicare un provvedimento già in vigore (che possa essere stata emanata da Romolo o Numa, come non esclude B. Liou-Gille, La perduellio, cit., 22, invece mi pare impossibile alla luce di Cicero, Rab. perd. 13: Namque haec tua, quae te, hominem clementem popularemque delectant, ‘I lictor, conliga manus’, non modo huius libertatis mansuetudinisque non sunt, sed ne Romuli quidem aut Numae Pompili). Peraltro, il testo liviano nel tratto ‘Duumviros … qui Horatio perduellionem iudicent secundum legem facio’ si presta a due diverse letture: la prima implica la ‘nomina regia dei duumviri in conformità alla lex’ affinché essi giudichino Orazio; la seconda implica la nomina regia dei duumviri ‘affinché essi giudichino Orazio in conformità alla lex’. Alla seconda si potrebbe aderire per la superfluità di una menzione della lex da parte del rex per l’esercizio di un suo potere di nomina, nonché per i acontenuti stessi della lex riprodotta da Livio (la quale, appunto, non prescrive o autorizza la nomina regia dei duumviri, ma attribuisce agli stessi poteri di iudicatio); alla prima, invece, si potrebbe aderire per il successivo richiamo liviano alla creatio dei duumviri avvenuta ‘hac lege’ (cfr. C.H. Brecht, Perduellio, cit. 142 s.).
[100] Sul punto mi permetto di rinviare a C. Pelloso, Provocatio ad populum, cit., 251 ss.; Id., Brevi note sul diritto del cittadino al processo popolare dalla caduta del regno al decemvirato legislativo, in Revue internationale des droits de l’antiquité 62, 2015, 323 ss.
[101] ‘Provocare’, originariamente, avrebbe significato effettivamente «‘call forward or forth’ or ‘challenge’ in a literal or metaphorical way» e non si sarebbe riferito, dunque, a un «‘calling out of the people’» (così, in generale, J.D. Cloud, The Origin of provocatio, cit., 31 ss., sulla scorta dell’etimo, delle fonti letterarie più antiche, nonché di quelle giuridiche). Assumere come plausibile questa ipotetica sfera semantica, non implica, di necessità, anche l’aderire alla rilevanza dell’ordalia nel primitivo diritto romano e della natura ordalica della provocatio come vuole G. Grosso, Provocatio per la perduellio, cit., 213 ss., sulla scorta di R. Dekkers, Des ordalies en droit romain, in Revue internationale des droits de l’antiquité 1, 1948, 55 ss. (cfr. R. Fiori, Ordalie e diritto romano, in Iura 65, 2017, 1 ss., 106 ss.). Sulla certatio, v. C. Venturini, Pomponio, cit., 550, nt. 70.
[102] Livius 1.26.6.
[103] Cfr. Cicero, pro Mil. 3.6-7; Livius 8.83.3.
[104] Di qui l’origine di quella prassi ulteriore attestata da Cicerone e Seneca secondo cui durante il regnum primitivo si verificarono casi di ‘provocationes a regibus’, ossia ‘ricorsi al popolo’ a seguito di pronunzia non duumvirale, ma addirittura regia (v. Cicero, rep. 2.31.54; Cicero, Tusc. 4.1.1; Seneca, ep. 108.31). Una prassi, peraltro, che assume ancora più senso alla luce delle recenti osservazioni di L. Garofalo, Disapplicazione, cit., 27: «quale che sia la via, legislativa o meno, attraverso la quale il re consente all’Orazio di interporre la provocatio, ciò che mi pare evidente è che questo mezzo nella fattispecie viene utilizzato al fine di chiamare in causa l’unico organo che avrebbe potuto valorizzare la virtus del sororicida al punto da neutralizzare le istanze di cui consta il diritto. Solo al popolo, invero, il re riconosce il potere di far tacere l’imperiosa e invincibile voce del diritto: non a se stesso, tanto da declinare la competenza sul caso a favore di due suoi ausiliari, né, come detto, a questi e neppure all’Orazio padre, al quale nega risolutamente la giurisdizione sull’operato del figlio, proibendo altresì ai duumviri di accodarsi al suo eventuale giudizio, e unicamente gli concede di parlare in difesa dell’imputato davanti al popolo».
[105] Se etimologicamente interpretatio è attività di mediazione, negoziazione, e compromesso tesa a tradurre per un fruitore un enunciato in un altro, ossia eminentemente attività di traduzione (M. Bettini, Elogio del politeismo, Bologna 2014, 65 ss.; Id., Vertere. Un’antropologia della traduzione nella cultura antica, Torino 2012, 88 ss.), è chiaro come, almeno sub specie iuris, essa sia qualcosa di più. Se il ius civile vero e proprio è quod sine scripto in sola prudentium interpretatione consistit (D. 1.2.2.12 [Pomponius libro singulari enchiridii]), sicché qui interpretatio è giuridicizzazione del caso (al contempo mediante qualificazione e attribuzione di significato: cfr., in generale, R. Guastini, La sintassi del diritto, Torino 2014, 375 ss.), anche senza il medio di un testo, anche nel campo del diritto pubblico – e di quello criminale in particolare – il filtro della legge tra fatto e fruitore si sostanzia, per mezzo della interpretatio, non solo nell’oggetto di una pura attività di esegesi o di versione, ma anche in una attività di reinvenzione e, quindi, di vera costituzione: attraverso l’interpretazione la disposizione si separa dalla norma, il diritto ontologicamente supera sé stesso e, anche al livello semantico, fa sì che così abbia luogo una tale differenziazione poiché, se mediante la traduzione tra il dato interpretato e il dato interpretante vi è trasformazione, allora, la traduzione non è tanto restituire un significato del primo, ma produrre un significato (v. M. Cacciari, Icone della legge, Milano 1985, 63 ss.).