Sapienza Università di Roma
Il Magister equitum. Origini storiche, prerogative e rapporto con il dictator
SOMMARIO: 1. Introduzione. Dal comandante della cavalleria di età monarchica al magister equitum. – 2. Profili caratteristici del rapporto fra dictator e magister equitum. – 2.1. La condizione sociale del magister equitum: Spurio Cassio Vecellino (501 a.C.), Gaio Licinio Calvo (368 a.C.). – 2.2. Magister equitum e ius triumphandi: Tito Ebuzio Elva (499/496 a.C.), Quinto Fabio Massimo Rulliano (325 a.C.). – 2.3. Il diritto-dovere di abdicatio del magister equitum: Aulo Cornelio Cosso (426 a.C.), Gaio Claudio Ortatore (337 a.C.), Marco Folio Flaccinatore (314 a.C.), Lucio Veturio Filone (205 a.C.). – 2.4. Magister equitum e dictator fra collegialità e subordinazione. – 2.4.1. Ancora su Quinto Fabio Massimo Rulliano (325 a.C.) e sul rapporto fra magister equitum e dictator. – 2.5. Dittatori ‘soli’. Marco Claudio Glicia (249 a.C.), Marco Fabio Buteone (216 a.C.), Caio Giulio Cesare (49 a.C.). – 2.6. Un caso di sostituzione del magister equitum: Quinto Aulo Cerretano (315 a.C.). – 2.7. Dalla lex Metilia al declino della dittatura: Marco Minucio Rufo (217 a.C.) e cenni ai successivi magistri equitum. – 3. Il magister equitum nelle fonti del I sec. a.C. – 4. Conclusioni. – Abstract.
Costituisce un’opinione ampiamente diffusa nella letteratura romanistica quella secondo cui il magister equitum fosse un subalterno o un collega ‘minor’ del dictator[1]. Tuttavia, prima di esaminare le dinamiche connesse al loro legame istituzionale – il quale, come avremo modo di osservare nel corso del nostro studio, si evolve lentamente, ma con notevoli oscillazioni, durante l’intero corso della Repubblica –, occorre condurre un breve excursus su alcuni organi costituzionali di epoca monarchica che, a nostro avviso, si rivelano utili per tentare di sciogliere l’«indovinello»[2] circa l’origine storica del magister equitum, cui è arduo risalire.
In particolare è stato ipotizzato che l’antecedente storico del maestro di cavalleria di età repubblicana fosse individuabile nella figura dell’ausiliario del rex preposto al comando della milizia a cavallo[3], la cui comparsa viene ricondotta, come si evince dai passi tratti dall’opera di Dionigi di Alicarnasso di seguito riportati, al regno di Anco Marzio:
Dion. Hal. 3.40.4: ...Ταρκύνιον δὲ τοὺς ἱππεῖς ἄγοντα ἐπὶ τοὺς ἐν προνομαῖς ἐσκεδασμένους ἐπείγεστθαι ἐκέλευε.
Dion. Hal. 3.41.4: Τὰ δὲ ἀριστεῖα καὶ ἐκ ταύτης ἔλαβε τῆς μάχης ὁ τῶν ἱππέων ἡγεμὼν Ταρκύνιος, καὶ αὐτὸν ὁ Μάρκιος ἄνδρα πάντων κράτιστον ἡγησάμενος τά τε ἄλλα σεμνύνων διετέλει καὶ εἰς τὸν τῶν πατρικίων τε καὶ βουλευτῶν ἀριθμὸν κατέγραψεν.
Dion. Hal. 4.6.4: …ἐν ὑστέρῳ μὲν γὰρ οὐκ ἂν εἴη χρόνῳ παραγεγονώς, εἴγε δὴ κατὰ τὸν ἔνατον ἐνιαυτὸν τῆς Ἄγκου δυναστείας ἱππέων ἡγούμενος ἐπὶ τὸν πρὸς Λατίνους πόλεμον ὑπὸ τοῦ βασιλέως πέμπεται, ὡς ἀμφότεροι λέγουσιν οἱ συγγραφεῖς·...
Lo storico narra del ruolo di comandante della cavalleria (‘ὁ τῶν ἱππέων ἡγεμὼν’) ricoperto da Tarquinio Prisco alla corte di Anco Marzio (3.40.4; 3.41.4), al cui cospetto giunge certamente prima del nono anno del suo regno (4.6.4): il valore militare dell’uomo è indiscusso, al punto che, prima di diventare a sua volta rex, Tarquinio viene insignito del doppio titolo di patrizio e di senatore (3.41.4).
Analizzando le informazioni sul maestro di cavalleria contenute nei testi dell’Alicarnassense che abbiamo trascritto, Valditara osserva persuasivamente che il posizionamento dell’articolo determinativo ‘ὁ’ dinanzi al sintagma ‘τῶν ἱππέων ἡγεμὼν’ suggerisce l’unicità di grado dell’officio e, di conseguenza, la sua inscindibilità fra più contitolari[4]. Una conferma dei caratteri di esclusività e autonomia del maestro di cavalleria si riceve anche dal passo seguente:
Dion. Hal. 4.3.2: Ἔτη δὲ γεγονὼς εἴκοσι μάλιστα τῆς συμμαχικῆς στρατηγὸς ἀπεδείχθη δυνάμεως, ἣν Λατῖνοι ἔπεμψαν, καὶ συγκατεκτήσατο βασιλεῖ Ταρκυνίῳ τὴν τῶν Τυρρηνῶν ἀρχήν. Ἔν τε τῷ πρὸς Σαβίνους πολέμῳ τῷ πρώτῳ συστάντι τῶν ἱππέων ἀποδειχθεὶς ἡγεμὼν ἐτρέψατο τοὺς τῶν πολεμίων ἱππεῖς καὶ μέχρι πόλεως Ἀντέμνης ἐλάσας τἀριστεῖα καὶ ἐκ ταύτης τῆς μάχης ἔλαβεν· ἑτέρας τε πολλὰς πρὸς τὸ αὐτὸ ἔθνος ἀγωνισάμενος μάχας τοτὲ μὲν ἱππέων ἡγούμενος, τοτὲ δὲ πεζῶν ἐν ἁπάσαις ἐφάνη ψυχὴν ἄριστος καὶ πρῶτος ἐστεφανοῦτο τῶν ἄλλων.
Dionigi descrive il ruolo ricoperto, al servizio di Tarquinio Prisco, da Servio Tullio: nella prima guerra contro i Sabini, costui svolge la funzione di ‘τῶν ἱππέων ἡγεμὼν’ e riesce a mettere in fuga le truppe nemiche inseguendole fino alla città di Artena, impresa che gli procura un riconoscimento al valore. Il condottiero – riferisce lo storico di Alicarnasso – prende parte ad altre battaglie contro gli stessi nemici, a volte come maestro di cavalleria e altre volte come comandante di fanteria (‘τοτὲ μὲν ἱππέων ἡγούμενος, τοτὲ δὲ πεζῶν’), fornendo sistematicamente prova di un coraggio tale da risultare sempre il primo, fra i combattenti, a ricevere gli onori di guerra.
Il riferimento all’alternanza del ruolo bellico di Servio Tullio fra comando della cavalleria e della fanteria mostra, sostiene Valditara[5], l’intento dell’Alicarnassense di testimoniare l’incumulabilità delle due cariche le quali, dunque, sono insuscettibili di simultanea assegnazione al medesimo individuo[6]. Depone, a favore di tale ipotesi, il seguente passo:
Dion. Hal. 4.85.3: Tαῦτα τὰ γράμματα λαβόντες οἱ καταλειφθέντες ὑπὸ τοῦ βασιλέως ὕπαρχοι Τῖτος Ἑρμίνιος καὶ Μάρκος Ὁράτιος ἀνέγνωσαν ἐν ἐκκλησίᾳ·…
Il testo fa parte della narrazione sulla cacciata di Tarquinio il Superbo e riguarda, in particolare, il momento del ritorno a Roma del tiranno il quale, raggiunto dalle voci preannuncianti la sua imminente detronizzazione, viene costretto ad abbandonare l’esercito durante l’assedio di Ardea lasciandovi al comando gli ὕπαρχοι Tito Erminio e Marco Orazio. La dualità dei comandanti in seconda e il loro subentro, pressoché automatico, alla guida delle truppe in sostituzione del Superbo dimostrerebbero la corrispondenza degli ὕπαρχοι alle distinte figure dell’ἡγεμὼν τῶν πεζῶν e dell’ἡγεμὼν τῶν ἱππέων, affidate al comando di differenti settori dell’esercito[7]. Ipotesi, questa, che bisogna vagliare anche alla luce delle seguenti suggestioni.
Innanzitutto, come già sottolineato da Valditara, occorre tener conto delle presunte difficoltà incontrate dallo storico di Alicarnasso nella descrizione, a distanza di circa sei secoli, degli ausiliari ‘di grado unico’ del rex, dei quali nel I sec. a.C. rimane verosimilmente ancora il ricordo – si suppone, in forma orale – ma non la precisa denominazione[8]. Lo studioso, a tal proposito, osserva che Dionigi, nella sua esposizione, «usa sempre le generiche espressioni di ἡγεμὼν τῶν ἱππέων e di ὕπαρχος, alludendo anche ad un ruolo di ἡγεμὼν τῶν πεζῶν, esercitato in più occasioni, senza però azzardarsi a fornire una più specifica definizione tecnica, non sapendo evidentemente come qualificare queste cariche di comandanti in capo di fanteria e cavalleria»[9]. Ci sembra che tale rilievo scaturisca dall’impressione che le titolature ἡγεμὼν τῶν πεζῶν e ἡγεμὼν τῶν ἱππέων, da un lato, e ὕπαρχοι, dall’altro, vengano adoperate dall’Alicarnassense come se fossero fungibili. A nostro avviso occorre contemplare la possibilità che lo storico, viceversa, si attenga ad un qualche criterio discretivo nell’uso di ‘ὕπαρχος’ o di ‘ἡγεμὼν’ per indicare gli ausiliari del re.
Il primo elemento utile alla riflessione in tal senso è costituito dallo scenario anomalo descritto in Dion. Hal. 4.85.3: Tarquinio il Superbo è prossimo alla destituzione, l’assedio di Ardea è in corso e l’improvviso venir meno del tiranno fa sì che il comando dell’esercito passi ai due ὕπαρχοι. Il contesto della nomina, evidentemente assunta in un quadro emergenziale, non è paragonabile a quello riportato dallo storico di Alicarnasso in relazione alle monarchie di Anco Marzio e Servio Tullio, nelle quali la scelta di ἡγεμὼν τῶν πεζῶν ed ἡγεμὼν τῶν ἱππέων sembra essere meditata e legata al compimento di specifiche operazioni militari. Viceversa nel caso di Tito Erminio e Marco Orazio – menzionati, del tutto genericamente, come ὕπαρχοι – la loro designazione avviene nel corso dell’assedio e con una fretta tale da non darsi luogo alla formale assegnazione a ciascuno di essi, da parte del Superbo, di una specifica tipologia di soldati. Tuttavia il complesso della narrazione di Dionigi sembra testimoniare la gestione di un esercito organizzato in due categorie di militari (pedites ed equites) affidate, in concreto, a distinti ausiliari[10]. La preferenza per il termine ‘ὕπαρχος’ oppure ‘ἡγεμὼν’ da parte dello storico, dunque, potrebbe essere legata al tipo di contingente entro il quale il rex procede alla nomina dei comandanti in seconda.
L’esame semantico dei termini ‘ὕπαρχοι’ ed ‘ἡγεμόνες’ – suggerito dagli studi di De Martino[11] e Zini[12] – confermerebbe l’esistenza di uno specifico criterio governante il loro utilizzo da parte dell’Alicarnassense. Un fondamentale elemento a sostegno di tale ipotesi è costituito dalla mancanza di sinonimia, almeno in valore assoluto, nei significati di ‘ὕπαρχος’ ed ‘ἡγεμών’. Il primo sostantivo, infatti, designa un comandante subordinato, un luogotenente[13], mentre il secondo indica un condottiero, ontologicamente e gerarchicamente sovrastante i suoi sottoposti[14]. Tito Erminio e Marco Orazio sono ὕπαρχοι del tiranno, tanto che ne prendono il posto alla guida dell’esercito soltanto nel momento in cui costui è assente. Viceversa gli ἡγεμόνες Tarquinio Prisco e Servio Tullio, come abbiamo constatato, vengono nominati dal rex per il compimento di apposite imprese militari e destinati al comando di circoscritte categorie di soldati, delle quali sono magistri.
Questa versatilità terminologica stimola una rivalutazione delle scelte lessicali di Dionigi di Alicarnasso, il cui linguaggio si rivela tecnico e calibrato in base alla prospettiva del racconto. Riteniamo, infatti, che lo storico utilizzi entrambi i sostantivi come sinonimi di ‘luogotenente del re’, ma in relazione a termini di paragone differenti: il vocabolo ‘ὕπαρχος’, da un lato, pone in risalto la posizione di inferiorità gerarchica dell’ausiliario rispetto a chi lo ha nominato (Tito Erminio e Marco Orazio, abbiamo visto, entrano in carica come ὕπαρχοι di Tarquinio il Superbo). Non è un caso che, nel prosieguo del racconto sulla cacciata del tiranno, contenuto in Dion. Hal. 4.85.3 [15], lo storico si soffermi proprio sull’insubordinazione degli ὕπαρχοι i quali – sebbene si trovino al comando dell’esercito in funzione di meri, e temporanei, sostituti del rex – dopo aver ascoltato le centurie dei soldati, accettano di fare propria la decisione di espellere il re, già assunta dai Romani nell’Urbe, e si rifiutano di accogliere il Superbo quando costui ritorna presso le schiere dell’esercito (impegnato nell’assedio ardeatino), alla ricerca di protezione.
Dall’altro lato, il sostantivo ‘ἡγεμών’ sottolinea la superiorità del magister rispetto alla frangia dell’esercito che gli viene assegnata (come nel caso di Tarquinio Prisco e Servio Tullio, nominati rispettivamente dai reges Anco Marzio e Tarquinio Prisco per il comando della cavalleria).
Non disponiamo di elementi sufficienti per affermare che gli ὕπαρχοι del rex siano stati qualificati, in un passato molto distante dall’Alicarnassense, con lemmi ad hoc (sconosciuti a Dionigi), ma d’altro canto possiamo ipotizzare che lo storico (il quale vive a cavallo fra la fine della Repubblica e l’inizio del Principato) sia portato a descrivere tali figure adoperando la terminologia ritenuta più adatta a trasmettere l’idea di ‘comandante il seconda’, senza tuttavia confonderne il ruolo con i magistrati straordinari di età repubblicana: il dictator e il magister equitum, rispettivamente, in greco, ‘δικτάτωρ’[16] e ‘ἵππαρχος’[17]. Questa riflessione giustificherebbe la traslitterazione – o la traduzione per ‘equivalente funzionale’ – degli ausiliari del rex denominati, in lingua latina, ‘magister equitum’ e ‘magister populi’, in ‘ἡγεμὼν τῶν ἱππέων’ ed ‘ἡγεμὼν τῶν πεζῶν’ (e, forse, l’indicazione di entrambi come ὕπαρχοι). Dunque, più che un segnale di disorientamento, la variatio ὕπαρχοι-ἡγεμὼν τῶν πεζῶν/ἡγεμὼν τῶν ἱππέων sembra una efficace scelta stilistica di Dionigi, il quale si ritrova a raccontare, in un contesto sociale e politico totalmente stravolto rispetto a quello di epoca monarchica, mutamenti istituzionali avvenuti circa sei secoli prima[18].
Dalle fonti sino ad ora esaminate emerge che ‘ἡγεμὼν τῶν ἱππέων’, in età monarchica, è la carica straordinaria ricoperta da un ausiliario del rex, nominato da quest’ultimo[19] allo scopo di comandare la cavalleria durante specifiche operazioni militari. Si tratta di un compito destinato a un solo individuo, non coincidente (e non cumulabile) con quello di ἡγεμὼν τῶν πεζῶν, di supporto alle «esigenze tattiche della falange»[20], rinnovabile e subordinato gerarchicamente al re.
L’afferenza dell’ἡγεμὼν τῶν ἱππέων al settore della cavalleria ha sollecitato l’ulteriore discussione circa il rapporto di quest’ultimo con i celeres[21], il corpo di trecento soldati, suddivisi in tre centurie, ciascuna con a capo un ἐκατόνταρκος[22] (tribunus celerum[23]). Non potendo che rimandare, onde evitare eccessive divagazioni, alle convincenti riflessioni di Valditara circa la genesi etrusca del corpo dei celeres[24], riteniamo di dover recuperare ed approfondire alcune sue argomentazioni, utili a dimostrare la non coincidenza della figura dei tribuni celerum con quella dell’ἡγεμὼν τῶν ἱππέων.
Una significativa indicazione a supporto di tale tesi si riceve dal passo in cui Dionigi di Alicarnasso descrive l’organizzazione dei celeres:
Dion. Hal. 2.13.3: Ἦν γὰρ καὶ τούτων ἡγεμὼν ὁ διαφανέστατος, ᾧ τρεῖς ὑπετάγησαν ἑκατόνταρχοι καὶ αὖθις ὑπ’ἐκείνοις ἕτεροι τὰς ὑποδεεστέρας ἔχοντες ἀρχάς…
Stando alle parole dello storico, gli ἑκατόνταρχοι sono posti a capo delle tre centurie di celeres, ma rispondono, a loro volta, ad un ἡγεμὼν comune. Alla teoria della possibile corrispondenza di tale ultima figura con l’ἡγεμὼν τῶν ἱππέων soccorrono due osservazioni.
La prima. Dalla lettura dei resoconti dell’Alicarnassense – come suggerito anche da Valditara[25] – apprendiamo che la creazione dell’officio di comandante di cavalleria risale ad Anco Marzio, il cui regno anticipa quello di Tarquinio Prisco: a quest’ultimo viene attribuita la reintroduzione dei celeres (secondo la tradizione istituiti da Romolo, ma aboliti da Numa). Se il Prisco, dunque, ha ‘ereditato’ dal precedente sovrano la figura degli ἡγεμόνες – e, nello specifico, dell’ἡγεμὼν τῶν ἱππέων – è ragionevole ipotizzare che abbia deciso di sistemarne uno (il τῶν ἱππέων, appunto) a capo dei tre tribuni celerum, con funzioni di coordinatore. Del resto, se ciascuno dei tre tribuni ha affidata una sola centuria, si rivela indispensabile la designazione di un maestro di cavalleria al quale costoro sono tenuti a rispondere[26], anche solamente per esigenze di uniformità nella gestione del corpo dei celeres.
La seconda. Abbiamo osservato che il lessico adoperato da Dionigi di Alicarnasso, lungi dal risultare vago, dimostra la consapevolezza dello storico circa l’esistenza di due luogotenenti del rex – indicati, collettivamente, come ὕπαρχοι – le cui caratteristiche sono simili a quelle del magister equitum e del magister populi, al punto tale da costituirne il verosimile prototipo. Anche il ricorso alla variatio ὕπαρχος-ἡγεμών, come già segnalato, è dotato di un preciso valore nell’esposizione dell’Alicarnassense. Non vi è ragione, dunque, di dubitare che la figura dell’ἡγεμὼν quale capo dei tribuni celerum, nel passo Dion. Hal. 2.13.3, corrisponda all’ἡγεμὼν τῶν ἱππέων. Tanto più in quanto non si tratta di un comandante qualunque, ma di ‘ὁ διαφανέστατος’, cioè dell’uomo che si è distinto di più fra tutti, prerogativa agevolmente riconducibile soprattutto a Tarquinio Prisco, stando ai resoconti di Dionigi che abbiamo riportato nell’esordio di questo paragrafo.
La costruzione gerarchica delle autorità preposte al comando della cavalleria – per primo il re, assistito dall’ἡγεμὼν τῶν ἱππέων (a sua volta anche a capo dei tre ἑκατόνταρχοι) – incorre in un corto circuito in occasione della cacciata di Tarquinio il Superbo, per il venir meno del rex. In tale contesto Publio Valerio, detto ‘Publicola’, domanda a Giunio Bruto, nipote del tiranno, chi sia dotato del potere di convocare l’assemblea popolare per raccogliere il voto delle curiae sullo spodestamento del Superbo. Questa la risposta:
Dion. Hal. 4.71.6: Ὁ δ’ὑποτυχών, «Ἐγώ», φησίν, «ὦ Οὐαλέριε. Τῶν γὰρ κελερίων ἄρχων εἰμί, καὶ ἀποδέδοταί μοι κατὰ νόμους ἐκκλησίαν, ὅτε βουλοίμην, συγκαλεῖν. Ἔδωκε δέ μοι τὴν ἀρχὴν ταύτην ὁ τύραννος μεγίστην οὖσαν ὡς ἠλιθίῳ καὶ οὔτ᾽ εἰσομένῳ τὴν δύναμιν αὐτῆς οὔτ᾽, εἰ γνοίην, χρησομένῳ·καὶ τὸν κατὰ τοῦ τυράννου λόγον πρῶτος ἐγὼ διαθήσομαι».
Bruto rileva di essere egli stesso munito della facoltà di convocare le curiae. Tale legittimazione, prosegue l’uomo, deriva dalla sua qualità di comandante dei celeres (τῶν κελερίων ἄρχων), magistratura suprema conferitagli dallo zio nella falsa convinzione che il nipote non avesse piena consapevolezza dei notevoli poteri derivanti da tale officio. Sull’episodio riferisce anche Tito Livio, confermando l’attribuzione a Bruto del ruolo di tribunus celerum:
Livius 1.59.7: …Ergo ex omnibus locis urbis in forum curritur. Quo simul ventum est, praeco ad tribunum celerum, in quo tum magistratu forte Brutus erat, populum advocavit.
È stato ipotizzato che, mediante le espressioni ‘τῶν κελερίων ἄρχων’ e ‘tribunus celerum’, Dionigi e Livio intendano riferirsi ad un magistrato straordinario, difficilmente riconducibile ad uno dei comandanti dei celeres: uno qualunque dei tre tribuni celerum, infatti, risulterebbe privo di prerogative tanto ampie da consentirgli, ad esempio, la convocazione dell’assemblea per i voti[27]. La spiegazione a tale apparente anomalia potrebbe rintracciarsi nella dichiarazione di Giunio Bruto, il quale si auto-definisce ‘τῶν κελερίων ἄρχων’: il sintagma evidenzia il carattere monocratico del titolo (eccezionale) di tribuno «in grado unico»[28] dei celeres, magistratura che ci sembra accentrare l’officio dei tre tribuni celerum e alcune prerogative dell’ἡγεμὼν τῶν ἱππέων. Si tratterebbe, dunque, di un proto-magister equitum, il cui nome è stato riportato, in modo errato o atecnico, come tribunus celerum, «tanto più che erano diffuse le notizie sull’esistenza di un capo unico di questo corpo»[29].
Pur senza contestare la fondatezza di tale tesi, riteniamo ipotizzabile un’ulteriore soluzione, che da un lato esclude la compattazione fra ἡγεμὼν τῶν ἱππέων e tribuni celerum in un nuovo magistrato e, dall’altro lato, risparmia i resoconti dei due storici da eventuali critiche in punto di attendibilità. In questo percorso alternativo giova premettere che, nel quadro della semantica dell’Alicarnassense, non trova spazio, se non nella trascrizione del discorso di Bruto contenuta in Dion. Hal. 4.71.6, l’espressione ‘τῶν κελερίων ἄρχων’ (ricordiamo che, in Dion. Hal. 2.13.3, lo storico indicava i tribuni celerum con il diverso lemma ‘ἑκατόνταρχοι’, gerarchicamente subordinati ad un ἡγεμὼν). Inoltre è significativo ribadire che, mentre Bruto svolge la propria arringa, i due ἡγεμόνες (cioè gli ὕπαρχοι Tito Erminio e Marco Orazio) non sono in città, in quanto impegnati alle porte di Ardea con il Superbo. E proprio suo nipote, non brillante per intelligenza[30], è fomentato dalla prospettiva del colpo di stato e, interrogato da Publio Valerio, ha interesse a presentarsi come dotato della legittimazione sufficiente a convocare le curiae.
In siffatto scenario, destinato a degenerare, non sorprendono le parole di Bruto: costui, ricordiamo, informa di essere stato designato τῶν κελερίων ἄρχων direttamente dallo zio, il quale confidava, forse, nella sua inconsapevolezza degli ampi poteri derivanti dalla nomina. Innanzitutto ci domandiamo per quale ragione, se la magistratura ricoperta da Bruto è tanto importante e di spicco da essere ‘ἀρχὴ μεγίστη’, come lui stesso dice, Publicola – uomo di spessore, destinato a diventare magister populi[31] – non ne sia al corrente, tanto da domandargli chi possa mai convocare le curiae, visto che si tratta di un potere riservato ai magistrati e che nessuno di loro due lo è[32]. E, dall’altro lato, se davvero Bruto adoperasse l’espressione ‘τῶν κελερίων ἄρχων’ come sinonimo di ‘ἑκατόνταρχος’ – ritenendo di essere uno dei tre tribuni celerum –, sarebbe altrettanto sorprendente l’assenza di contestazione o di rivendica del potere di adunanza delle assemblee da parte di uno dei due ulteriori ἑκατόνταρχοι che il Superbo, di regola, avrebbe comunque dovuto nominare quali colleghi del nipote.
Forse, tra le tante incongruenze che presenta il passo, il problema dell’attribuzione di una posizione costituzionale all’inedito ‘tribunus celerum di grado unico’ può essere considerato l’ultimo e il meno rilevante dei nodi ostici di questa parte della narrazione: è probabile, infatti, che quella di Bruto sia un’autoinvestitura (o una revisione ‘elastica’ di una precedente nomina di minore rilievo) finalizzata all’uso di un potere idoneo, in punto di intensità, all’adunanza delle curiae. Confortano tale interpretazione proprio le parole di Dionigi di Alicarnasso, il quale riferisce di un immediato plauso da parte degli astanti, per aver Bruto esordito in modo onorabile ed aver articolato, soprattutto, un discorso solido sul piano giuridico[33].
Dunque, in base a quanto osservato circa il ruolo ricoperto da Giunio Bruto nella fase di cacciata del tiranno, riteniamo che la sua ‘nomina’ a tribunus celerum unico non escluda la simultanea esistenza di un ἡγεμὼν τῶν ἱππέων – nella persona di uno dei due ὕπαρχοι Tito Erminio e Marco Orazio, impegnati con Tarquinio il Superbo ad Ardea – del quale assorbe, arbitrariamente, le prerogative essenziali (almeno quella di convocazione delle assemblee).
Quale che sia il peso istituzionale attribuito alla carica di Bruto di tribunus celerum con grado unico celante un magister equitum, o di τῶν κελερίων ἄρχων atipico, i tribuni celerum – come ricorda Valditara – «ad un certo punto della loro storia, scompaiono dallo scenario istituzionale di Roma, venendo relegati a funzioni sacerdotali»[34]. Viceversa il comandante della cavalleria, l’ἡγεμὼν τῶν ἱππέων – dotato di una posizione costituzionale e di poteri che le fonti, al di là della loro vaghezza e imprecisione[35], fanno percepire come ben definiti – sopravvive al rovesciamento della monarchia e transita nella Repubblica romana mantenendo il proprio ruolo di maestro della cavalleria, detto magister equitum, ormai divenuto una «carica irrinunciabile»[36].
Veniamo, ora, all’esame più da vicino del rapporto intercorrente fra magister equitum e dictator.
Dall’indagine su alcuni assetti costituzionali di età monarchica considerati nel precedente paragrafo, riceviamo l’impressione che la relazione del comandante di cavalleria con il rex e con l’ἡγεμὼν τῶν πεζῶν, pur nel rispetto di contorni istituzionali che sommariamente ci vengono descritti dalle fonti, mostri una certa versatilità. Ad esclusione delle precise affermazioni di Dionigi di Alicarnasso sull’officio di ἡγεμὼν τῶν ἱππέων ricoperto da Tarquinio Prisco e Servio Tullio, infatti, le caratteristiche degli ὕπαρχοι, degli ἑκατόνταρχοι e del τῶν κελερίων ἄρχων risultano complicate da ricostruire, tanto che il loro officio sembra essere modellato più sulla base di esigenze contingenti, connesse a taluni episodi storici della Roma monarchica, che da una preventiva configurazione delle loro rispettive funzioni.
Dunque, oltre ai tratti sommari che contraddistinguono l’ἡγεμὼν τῶν ἱππέων (comando circoscritto alla cavalleria, supporto al comandante della fanteria, unisoggettività della carica, ripetibilità dell’officio, non cumulabilità con il ruolo di ἡγεμὼν τῶν πεζῶν), in età repubblicana si riverberano anche gli aspetti problematici derivanti dalla versatilità poc’anzi suggerita, la quale si traduce in oscillazioni più o meno ampie della relazione ‘tipica’ del magister equitum con il dictator. Dagli studi di Carla Masi Doria[37] emerge una particolare sensibilità nel coniugare la ricerca di un inquadramento istituzionale del ruolo di magister equitum con i profili di eccezionalità emersi nel corso di alcune dittature. La studiosa, infatti, analizzando le fonti dopo averle raccolte in gruppi tematici[38], dimostra che – oltre ad alcuni tratti comuni ai magistri equitum nel tempo succedutisi – varie prerogative del maestro di cavalleria vengono fortemente condizionate dalle motivazioni (soprattutto politiche) contingenti alla nomina del dictator e al comportamento che costui assume nell’esecuzione del compito affidatogli dalla civitas.
Tale tratto distintivo delle ricerche condotte dalla romanista napoletana – evidenziante una subordinazione tanto ‘funzionale’, tanto strutturale[39] del magister equitum al dictator – viene condiviso anche dalla nostra indagine: spesso, infatti, ci confronteremo, più che con delle prerogative di carattere generale connotanti l’officio di maestro di cavalleria, con la sua ‘tipicità derivata’ dalla relazione con il dittatore, con il quale il magister equitum instaura talvolta rapporti di cooperazione e talvolta interazioni conflittuali.
Per quanto concerne il metodo dell’esposizione, nell’organizzazione della nostra analisi su alcuni aspetti particolarmente interessanti del collegamento fra i due magistrati ci atterremo prevalentemente al criterio cronologico: partendo dal 501 a.C., ci soffermeremo sulle dictaturae che – di anno in anno e fino al tramonto dell’esperienza dittatoriale – presentano profili significativi per lo sviluppo dell’indagine. Consapevoli, inoltre, della necessità di apprezzare alcune materie collaterali (come il ius triumphandi e l’abdicatio) nella loro evoluzione diacronica, abbineremo al criterio cronologico quello tematico, trattando contestualmente alla prima dittatura in cui si presenta una data questione anche quelle successive con cui condivide i medesimi tratti caratteristici, per poi ritornare alla rassegna in ordine temporale.
Commentando la tesi, avanzata da Mazzarino[40], secondo cui l’ἡγεμὼν τῶν ἱππέων di età arcaica sia un rappresentante del patriziato, Valditara osserva che è difficile condividere l’ipotesi di una estrazione aristocratica del maestro di cavalleria, posto che il «τύραννος non poteva consentire che la fronda allignasse fra gli alti gradi del suo esercito»[41]. Le fonti[42], infatti, indicano che Tarquinio Prisco e Servio Tullio, illustri ἡγεμόνες τῶν ἱππέων, non sono di origine patrizia e che, dunque, la nomina a comandanti di cavalleria è fondata unicamente sul loro spiccato valore, peraltro più volte sottolineato dall’Alicarnassense. Infatti la funzione ausiliaria al rex comune ad entrambi gli ἡγεμόνες li pone, al di là della loro estrazione sociale, in una condizione di subalternità rispetto al re, al cospetto della cui sovranità i conflitti fra patrizi e plebei non possono che risultare appiattiti.
La richiamata divergenza di vedute di Mazzarino e Valditara, tuttavia, è sintomatica del fondato sospetto, avanzato da parte degli studiosi, che anche le magistrature straordinarie possano costituire il terreno fertile per lo svolgimento della lotta fra le classi. Se, per quanto concerne gli ἡγεμόνες di età monarchica, la questione (per le ragioni appena esposte) è di non particolare rilievo, ad una diversa conclusione si perviene con riferimento alla Repubblica. Infatti il rapporto fra plebe e dictator costituisce di frequente oggetto di indagine ed è stato, di recente, esaminato da Fenocchio, il quale si è focalizzato sull’uso della dittatura romana come strumento di dominazione e controllo della plebe nel primo secolo della Repubblica[43].
Neanche l’esperienza dittatoriale, dunque, sembra rimanere immune dalle implicazioni della storica contrapposizione fra patrizi e plebei: anzi la nomina di un dictator – a cui viene affiancato (rectius, sottoposto) un magister equitum – costituisce il presupposto ideale per favorire le disparità. Tale tensione, particolarmente intensa in epoca anteriore al compromesso Licinio-Sestio e poi affievolitasi[44], può agevolmente desumersi da due elementi.
Il primo – che non è possibile approfondire in questa sede – consiste nel ricorso alle dittature direttamente o indirettamente adversus plebem (qualificate per lo più dal titolo ‘seditionis sedandae causa’), apparentemente finalizzate, in via quasi esclusiva, al controllo o alla repressione della plebe in situazioni di notevole crisi e tumultuosità. Fenocchio, sul punto, registra l’esistenza di due orientamenti: uno[45] incline alla lettura delle dittature adversus plebem come strumento di dominazione politica; un altro[46], a cui lo studioso professa di aderire[47], propenso all’interpretazione di tali dictaturae quale mezzo di pacificazione e incentivo al migliore funzionamento della repubblica.
Il secondo elemento riguarda la relazione del magister equitum con la plebità. Già Momigliano, riferendosi alla dittatura delle origini, osservava che «il patriziato romano nei secoli della sua supremazia ci tenne in primo luogo a controllare la fanteria e che la cavalleria fu subordinata alla fanteria. [...] Negli stessi anni in cui il patriziato monopolizzò la dittatura (= magister populi) non gli fece, a quanto pare, difficoltà di permettere a un non patrizio di essere magister equitum»[48]. Prima ancora anche Bernardi[49] aveva evidenziato che, nella storia della dittatura romana, si rinvengono due soli magistri equitum di origine plebea: Spurio Cassio Vecellino, nel 501 a.C. (o 498 a.C.), e Gaio Licinio Calvo, nel 368 a.C. Tale rilievo non costituisce solamente un dato statistico: in entrambi i casi l’estrazione plebea del magistrato dipende da precise ragioni politiche.
Per quanto riguarda Spurio Cassio, è significativo innanzitutto che egli sia il primo individuo a rivestire la carica di magister equitum[50], designato dal dictator rei gerendae causa Tito Larcio Flavio[51]. L’aspetto della sua nomina più rilevante ai nostri fini non è tanto quello, indicato da Livio[52], delle ragioni sottese all’istituzione della dittatura in questione (cioè la repressione del tentativo, da parte della Lega Latina, di reintegrare Tarquinio il Superbo a Roma), bensì quello delle agitazioni (resocontate da Dionigi di Alicarnasso in un lungo tratto della sua opera[53]) causate dal malcontento della plebe, ritrovatasi sommersa dai debiti. Stando alla narrazione dell’Alicarnassense, alcuni plebei si rifiutano di rispondere alla chiamata alle armi se prima non verrà approvata la remissione delle loro passività, minacciando addirittura di abbandonare l’Urbe, giudicata un contesto malsano che non incentiva lo scambio di benefici[54]. Si apre una discussione nel senato e Publicola – così denominato per la sua rinomata buona predisposizione verso la plebe[55] – suggerisce di votare a favore dell’abolizione dei debiti, ricordando che in passato anche Solone aveva saggiamente disposto una simile remissione in favore dei meno abbienti[56].
All’esito del confronto fra Publicola e Appio Claudio Sabino, il quale si dice contrario all’adozione di misure economiche a favore delle istanze plebee, il senato decide di rinviare la discussione circa i provvedimenti più opportuni ordinando che, nel frattempo, nessun tipo di debito venga coattivamente riscosso e che si abbandonino tutti i contenziosi pendenti e gli affari politici non strettamente connessi alla guerra contro la Lega Latina[57]. Per tentare di raggiungere una tregua con i nemici, il senato decide di istituire una nuova magistratura dotata di potere assoluto, di durata temporanea, denominata ‘dittatura’. I candidati a rivestire il ruolo di dictator sono i consoli Larcio e Clelio e, dopo l’iniziale indecisione riguardo a chi designare (ciascuno dei due ritiene che l’altro sia più adatto alla carica), alla fine viene nominato Larcio. Dalle parole dello storico di Alicarnasso emerge con chiarezza che «ci fu una convergenza tra senato e popolo e che le ragioni della deposizione di tutti altri poteri risiedevano nella duplice esigenza interna ed esterna. Risulta altresì chiaro che il dittatore era persona che doveva avere doti umane non comuni: grandezza d’animo e attitudine al comando»[58].
In questo contesto la successiva investitura, quale magister equitum, di Spurio Cassio – di origine plebea, secondo ormai accreditata opinione[59] – potrebbe interpretarsi come un segnale di vicinanza, da parte delle istituzioni, alle istanze plebee. La ragione di questa valutazione deriva dall’assoluta spontaneità nella decisione, da parte di Larcio, di nominare un maestro di cavalleria: il dictator, probabilmente, ritiene saggio recuperare l’usanza regia, a lui cronologicamente molto prossima, di dotarsi di una figura di supporto, e stabilisce di designare un rappresentante della plebe per favorire la stabilità degli equilibri sociali e politici interni della civitas. Dionigi di Alicarnasso, infatti, racconta che è il dittatore, senza che vi sia alcuna suggestione senatoria, a designare il magister equitum, gesto da cui è nata una tradizione onorata dai suoi successivi colleghi[60]. Il valore più simbolico, che strategico, di tale scelta si desume dalla non prioritaria considerazione di cui Spurio Cassio gode nella distribuzione dei corpi armati. Infatti, secondo l’Alicarnassense[61], Larcio organizza quattro truppe: ne tiene una per sé, chiede all’ex collega Clelio di scegliere quella che preferisce, ne assegna una terza a Spurio e affida l’ultima a suo fratello Spurio Larcio (a guardia della città). Se è vero – come sembra di doversi dedurre – che al magister equitum spetta il comando militare più importante dopo quello del dictator, pare irragionevole che, nella scelta delle truppe, Larcio Dittatore anteponga la riconoscenza verso Clelio alla più urgente necessità tattica del maestro di cavalleria.
È probabile, esaminando la questione da questa ulteriore prospettiva, che la nomina di Spurio Cassio costituisca una manovra diplomatica di persuasione della plebe piuttosto che una scelta ritenuta di indispensabile utilità per il successo dell’operazione militare. La situazione di aspettativa ingenerata dal senato, con il rinvio della decisione sulla richiesta di remissione dei debiti, potrebbe avere determinato, come compromesso, la nomina a capo della cavalleria di un ‘portavoce’ dei plebei. E il prestigio, sul piano istituzionale, della nomina di Spurio Cassio è rafforzato dalla sua consolidata popolarità: costui aveva ricoperto la carica di consul nel 502 a.C. insieme con Opitero Verginio Tricosto[62], e le sue gesta contro gli Aurunci[63], o i Sabini[64], gli erano già valse un trionfo. Inoltre dai racconti tramandati sul prosieguo della sua carriera politica apprendiamo che l’ambizione del neo-eletto maestro della cavalleria viene spinta fino all’estremo: concluso il mandato da magister equitum con la cessazione della dittatura di Larcio, ed eletto consul per altre due volte (nel 493 [65] e nel 486 a.C.[66]), Spurio viene processato per adfectatio regni e condannato a morte[67].
Concludiamo osservando che, in questo specifico caso, le nostre riflessioni circa l’impatto della sua origine plebea sulla nomina a magister equitum risultano ovattate dalla rimarchevole eccezionalità della dittatura di Larcio, la prima in assoluto. Il ‘coefficiente di novità’ dell’istituto dittatoriale, dipeso dall’ancóra instabile assetto istituzionale della repubblica appena instaurata, è tale da non consentirci una definitiva collocazione sistematica di questi primissimi magistrati straordinari. Infatti lo sfondo sul quale sorge la prima dictatura, caratterizzato non soltanto dal pericolo della Lega Latina ma anche dai conflitti di classe interni all’Urbe, rende a nostro avviso la condizione plebea di Spurio Cassio un elemento degno di nota.
Come abbiamo anticipato, l’unico altro caso di magister equitum plebeo si registra dopo circa un secolo e mezzo, con la dittatura, nel 368 a.C., di Publio Manlio Capitolino[68], il quale designa maestro di cavalleria Gaio Licinio Calvo[69], scelta di cui sente di doversi giustificare con i patres[70], stando a quando riferito da Tito Livio:
Livius 6.39.3-4: [3] P. Manlius deinde dictator rem in causam plebis inclinavit C. Licinio, qui tribunus militum fuerat, magistro equitum de plebe dicto. [4] Id aegre patres passos accipio: dictatorem propinqua cognatione Licini se apud patres excusare solitum, simul negantem magistri equitum maius quam tribuni consularis imperium esse.
In questo caso l’origine plebea del magister equitum è indicata esplicitamente dallo storico patavino: Gaio Licinio viene dictus ‘de plebe’. Il dictator, subito dopo la nomina, si reca dai patres per motivare l’inusuale investitura di un plebeo (effettuata, forse, in base ad un legame di parentela con Licinio[71]) e per assicurare loro che l’imperium del maestro di cavalleria non è più intenso di quello di un tribunus consularis. Il disappunto dei patres per la nomina eseguita dal dittatore si spiega alla luce di quanto Livio narra nei paragrafi precedenti (6.39.1-2 [72]): a cavallo fra l’abdicatio del precedente dictator Camillo e l’elezione di Manlio, i tribuni avevano convocato il concilium plebis per l’approvazione delle leggi ‘sui debiti, sulla terra e sul console plebeo’ ma, accortisi che quella relativa al consul plebeius (che a loro più interessava) stava per essere respinta, avevano strategicamente disposto che le tre leggi venissero votate in blocco, così da scongiurare esiti eterogenei delle rogationes. Tale manovra aveva evidentemente resuscitato le frizioni sociali già permeanti la precedente dittatura.
Dunque la nomina di un maestro di cavalleria plebeo è invisa ai patres perché, in un clima di rinnovata tensione fra le classi, potrebbe fornire un segnale troppo incisivo di avvicinamento, da parte delle istituzioni, alle istanze della plebità. La verosimiglianza di questa ipotesi pare rafforzata dal tenore delle rassicurazioni di Manlio. La prima è che lui stesso e Licinio sono parenti, quasi a voler sottolineare che il magister equitum sia una longa manus del dictator o comunque che la scelta non sia basata su motivazioni diverse dal mero legame familiare che li unisce. La seconda, corollario della precedente, è che l’imperium del maestro di cavalleria non è maggiore di quello di un tribunus consularis (id est, ‘non è in condizioni di superarlo’) e, quindi, Licinio non costituisce una rappresentanza istituzionale della plebe più elevata di quelle già in carica.
L’interpretazione di quest’ultima parte del passo liviano non è pacifica. Per Mommsen[73] dal testo si evince che l’imperium del magister equitum è pari a quello del pretore e inferiore a quello dei tribuni consulares. Secondo Vervaet[74], le parole di Manlio indicano che, sebbene il magister equitum e i tribuni militari con potestà consolare siano dotati del medesimo imperium consulare, i patres considerino il maestro di cavalleria, fra le due, la carica istituzionalmente sovraordinata. Lo studioso basa il proprio convincimento sul dato letterale, sostenendo che la teoria di Mommsen non è compatibile con le parole del dittatore, il quale non avrebbe altrimenti necessità di negare che il magistri equitum imperium sia maius quam tribuni consularis. Sulle criticità della tesi di Vervaet si è di recente espressa Masi Doria[75], la quale considera poco conveniente una retrodatazione, all’epoca della dittatura di Camillo, della differenziazione fra imperium praetorium ed imperium consulare, risalente al compromesso Licinio-Sestio dell’anno successivo. Si tratta, prosegue la studiosa, di una anticipazione non compatibile con la «vicenda del diritto pubblico romano, che è storica»[76]. Aggiungiamo che al discorso ‘politico’ di Manlio ai patres difficilmente può attribuirsi una finalità didattica (quella, cioè, di istruirli circa la differente intensità dell’imperium del magister equitum rispetto a quello dei tribuni consulares, informazione della quale di sicuro costoro sono già al corrente); trattasi piuttosto, a nostro avviso, di una rassicurante affermazione iperbolica tesa a rimarcare la scarsa pericolosità politica di Licinio.
Dai due casi esaminati emerge l’assenza di regole consolidate relative al ceto sociale di appartenenza del candidato a ruolo di magister equitum, ma anche la traccia di una prassi tendente a non favorire ai plebei l’accesso alla carica. Le nomine di Spurio Cassio Vecellino e Gaio Licinio Calvo, infatti, sembrano essere il frutto – piuttosto che di casualità o di ponderatezza sull’effettivo valore dei candidati – di precise scelte politiche dei dictatores.
Connesso all’esercizio della funzione militare del dictator è il ius triumphandi, diritto-potere del comandante, di simultanea rilevanza sacrale e giuridica[77], di celebrare pubblicamente una vittoria ottenuta in guerra. Ci si è domandati se tale potere – evidentemente agganciato al magistrato munito di imperium e di propri auspicia, responsabile dell’operazione militare conclusasi vittoriosamente – possa collegarsi in qualche modo anche al magister equitum, gerarchicamente subordinato al dictator ma comunque dotato di un proprio imperium.
A fondamento della breve ricostruzione di questo profilo, si trova la regola (di intuizione mommseniana[78]) per cui il diritto al trionfo appartiene – come quello al titolo di imperator – al magistrato il quale, al momento della vittoria, è dotato del più alto imperium, regolarmente confermato dalle curiae. Pur ritenendo valido, in linea di principio, tale criterio, Petrucci osserva che, con riferimento alla coppia formata da dittatore e maestro di cavalleria, una «simile soluzione tuttavia appare assai inverosimile, dato lo stridente contrasto con la posizione subordinata che il magister equitum presenta sempre nei confronti del dittatore»[79] al quale, aggiungiamo, solitamente si affianca (e non si sostituisce) in un’impresa militare. Al fine di verificare la fondatezza di queste divergenti impostazioni, esaminiamo il non semplice resoconto liviano sul simultaneo triumphus del dittatore Aulo Postumio Albo Regillense[80] con il magister equitum Tito Ebuzio Elva[81], celebratosi nel 499 o 496 a.C. a seguito della vittoria di Lago Regillo:
Livius 2.29.13: Hoc modo ad lacum Regillum pugnatum est. Dictator et magister equitum triumphantes in urbe rediere.
Il primo elemento degno di nota è che, contrariamente a quanto riferito dallo storico patavino, negli Acta triumphalia dell’anno 496 [82] risulta registrato solamente il trionfo del dictator e non anche quello del suo magister equitum. Sul punto va segnalata l’interpretazione di Petrucci, il quale ipotizza una «allusione generica»[83] di Livio, finalizzata ad enfatizzare le gesta compiute da entrambi i magistrati, teoria a sua volta condivisa da Masi Doria[84]. Vervaet respinge la tesi di Petrucci: nel criticarlo, da un lato attribuisce piena affidabilità al dato letterale del testo liviano[85], dall’altro lato legge nelle parole dello studioso italiano la convinzione dell’esistenza di un tassativo divieto fatto al magister equitum di partecipare al trionfo[86], preclusione che giudica inaccettabile alla luce dell’attitudine del maestro di cavalleria a raccogliere gli auspicia (e, quindi, a essere protagonista di un triumphus). A noi sembra, viceversa, che Petrucci manifesti una chiara sensibilità nell’ipotizzare due distinte opzioni: la prima, sostanziantesi nel diritto alla celebrazione di un ‘pieno’ triumphus da parte del condottiero titolare del più alto imperium– trattasi, nella quasi totalità dei casi, del dictator[87] –, la seconda consistente in una cerimonia ‘attenuata’, destinata a colui il quale ha preso parte al combattimento, ma con imperium di grado inferiore – ipoteticamente, il magister equitum – nella «forma minore dell’ovatio» che «è di per sé teoricamente valida, ma manca di riscontro negli Acta, ove si rammenta il solo trionfo del dittatore»[88].
L’esistenza di profonde divergenze – soprattutto di datazione, ma anche sostanziali – nei racconti della battaglia di Regillo forniti da Dionigi di Alicarnasso e Livio[89], contribuisce, a nostro avviso, a rendere anche il contenuto del passo 2.29.13 dello storico patavino non del tutto affidabile. Dunque, se la celebrazione di un doppio triumphus si mostra faticosamente accettabile, oltre che priva di riscontro negli Acta triumphalia, non riteniamo prudente appigliarci al solo dato testuale di Livio per ipotizzare che al comandante di cavalleria, compartecipe ad un’impresa bellica al fianco del dictator, venga concesso il diritto alla celebrazione di un (doppio o parallelo) trionfo. Corollario di quanto appena osservato è che soltanto nel raro caso di intervento del magister equitum in una battaglia non già come luogotenente del dictator, ma in qualità di comandante (forse dotato, oltre che dell’imperium, anche di sua auspicia), a costui venga concesso il ius triumphandi[90].
Completa le riflessioni sull’attitudine al triumphus del magister equitum un richiamo alla genesi della celebre contentio fra Lucio Papirio Cursore[91] e Quinto Fabio Rulliano[92] del 325 a.C. – una coppia di magistrati ‘par nobile rebus in eo magistratu gestis, discordia tamen, qua prope ad ultimum dimicationis ventum est, nobilius’[93]–, i cui ulteriori profili d’interesse tratteremo più avanti[94]. Il contesto è quello della battaglia contro i Sanniti, guidata inizialmente dal console Lucio Furio Camillo[95], colpito da una grave malattia nel corso dell’operazione militare; il senato, dunque, lo costringe a ritirarsi designando un dictator rei gerendae causa. Viene nominato Papirio Cursore il quale, a sua volta, attribuisce a Fabio Rulliano (appartenente alla gens Fabia, politicamente schierata contro il gruppo politico del dictator[96]) il ruolo di maestro di cavalleria.
I due magistrati – una volta raccolti, dal dittatore, incerta auspicia – si recano in battaglia, ma Papirio Cursore viene richiamato a Roma per ripetere gli auspici[97] e ordina al magister equitum di attendere il suo ritorno senza attaccare il nemico[98]. Masi Doria ritiene che una delle motivazioni della denuntiatio del dictator al suo luogotenente sia da rintracciare proprio nella volontà del magistrato supremo di scongiurare che Fabio, conseguita autonomamente la vittoria, possa trionfare al suo posto[99]. Se questo fosse vero, si configurerebbe un criterio ulteriore e diverso rispetto a quello, sopra illustrato, secondo cui titolare del ius triumphandi è il magistrato di più alto rango, dotato di imperium e auspicia. Il timore nutrito da Papirio verso l’intento di Fabio di mettersi in mostra, infatti, evidenzia che probabilmente il magistrato concretamente a capo della battaglia conclusasi vittoriosamente possa richiedere al senato, anche se non abbia personalmente preso gli auspicia, l’autorizzazione a celebrare il proprio trionfo. Alla luce di queste considerazioni, reputiamo verosimile che – ai fini della celebrazione del triumphus – la tradizionale ‘pienezza’ dell’imperium, determinata dalla sua integrazione con gli auspicia, si sgancia (e si emancipa) dall’elemento religioso se, come nel caso di specie, il dittatore si allontana dal campo di battaglia e subentra automaticamente[100], al comando, il magister equitum[101], il quale consegue la vittoria anche se sprovvisto di auspici.
Tale ipotesi risulta rafforzata – oltre che dal precedente caso di un console, Gaio Petelio Libone Balbo[102], il quale nel 360 a.C. era stato portato in trionfo al posto del dittatore Quinto Servilio Ahala[103] – dal prosieguo del resoconto liviano[104]. Il magister equitum, contravvenendo all’ordine del dittatore, attacca i Sanniti e mette fine alla battaglia, conseguendo una vittoria tanto schiacciante ‘ut nihil relictum sit quo, si adfuisset dictator, res melius geri potuerit’[105]; poi immediatamente si adopera per evitare che il merito dell’impresa venga attribuito a Papirio:
Livius 8.30.8-10: [8] Magister equitum ut ex tanta caede multis potitus spoliis congesta in ingentem aceruum hostilia arma subdito igne concremavit, seu votum id deorum cuipiam fuit, [9] seu credere libet Fabio auctori eo factum ne suae gloriae fructum dictator caperet nomenque ibi scriberet aut spolia in triumpho ferret. [10] Litterae quoque de re prospere gesta ad senatum non ad dictatorem missae argumentum fuere minime cum eo communicantis laudes. Ita certe dictator id factum accepit, ut laetis aliis victoria parta prae se ferret iram tristitiamque.
Livio racconta che il magister equitum, terminato il massacro, appicca il fuoco alla catasta di spoglie dei nemici, o perché ha fatto voto agli dèi oppure, come tramanda Fabio Pittore, per evitare che il dictator si impadronisca dei suoi meriti inscrivendo il proprio nominativo sulle armi dei vinti o portandole con sé in trionfo. E proprio per assicurarsi che il dictator venga escluso dalla procedura, Fabio invia la missiva contenente il rapporto sull’operazione appena compiuta direttamente al senato, organo al quale spetta la decisione circa la concessione del trionfo[106], senza passare per Papirio, gesto che causa visibile sdegno e malcontento nel dittatore, trattandosi di un illegittimo «tentativo di deroga relativamente ai rapporti tra imperia diversi»[107].
L’intento del magister equitum di prevalere sul dictator viene stroncato da Papirio il quale, come vedremo[108], interverrà personalmente per assicurarsi che l’atto di disobbedienza sia debitamente punito. Non dubitiamo del primario rilievo, determinante l’innesco della contentio, assunto dalla violazione dell’ordine impartito dal dittatore. Dall’altro lato, però, riteniamo che l’ostinazione del maestro di cavalleria nel portare il merito del suo risultato bellico all’attenzione del senato abbia un impatto decisivo per la degenerazione del caso di disobbedienza in un grave incidente istituzionale[109]. Per non giudicare eccessiva la reazione di Papirio al tentativo di prevaricazione del magister equitum dobbiamo concludere che, evidentemente, l’allontanamento dalla battaglia, da parte di Fabio Rulliano, ha attitudine concreta a trasferire la titolarità del ius triumphandi sul maestro di cavalleria. Il rogo con le spoglie nemiche e l’inoltro del rapporto direttamente al senato, infatti, sono gesti ben precisi, non improvvisati, che denotano il chiaro intento del magister equitum di collegare pubblicamente la vittoria contro i Sanniti al proprio operato, escludendo viceversa il dictator, il quale altrimenti risulterebbe ‘naturale’ destinatario degli onori.
L’episodio suggerisce che – al di là del principio generale di prevalenza dell’imperium di più alto rango ai fini del riconoscimento del ius triumphandi – l’apporto dei singoli magistrati nella battaglia può, abbinato a talune formalità, determinare l’inversione del criterio attributivo del diritto di trionfo, favorendo il magistrato dotato di imperium meno intenso, sprovvisto di auspicia, ma concreto responsabile della vittoria.
Nella ricerca dei tratti caratterizzanti il rapporto tra magister equitum e dictator una tappa fondamentale è costituita dal tema dell’abdicatio, rappresentativa della dipendenza istituzionale del maestro di cavalleria dal dittatore che lo ha nominato. Della rinuncia alla carica (e al relativo imperium) si è di recente occupata Triggiano, la quale ha radunato in una puntuale rassegna[110] i casi di esercizio del potere di abdicare da parte del dittatore[111], alcuni dei quali risultano interessanti anche per la nostra indagine sul magister equitum.
Il primo è quello di Aulo Cornelio Cosso[112], magister equitum forse nel 426 a.C.[113], nominato dal dittatore Mamerco Emilio Mamercino[114]. Livio narra dell’impresa vittoriosa del dictator il quale, sconfitti i Veienti e assediata Fidene, ottiene il triumphus. A fronte dei sei mesi istituzionali della sua carica, il dittatore conclude l’operazione militare in sedici giorni e sceglie di rinunciare alla carica, stando a quanto narrato dallo storico patavino:
Livius 4.34.4-5: [4] Postero die singulis captivis ab equite ac centurione sorte ductis et, quorum eximia virtus fuerat, binis, aliis sub corona venundatis, exercitum victorem opulentumque praeda triumphans dictator Romam reduxit; [5] iussoque magistro equitum abdicare se magistratu, ipse deinde abdicat, die sexto decimo reddito in pace imperio quod in bello trepidisque rebus acceperat.
Livio racconta che il dictator, prima di abdicare, ordina al magister equitum di dimettersi a sua volta. Masi Doria osserva – probabilmente richiamandosi all’espressione ‘ipse deinde abdicat’ – che dal passo non si riceve l’impressione di contestualità fra il iussum del dittatore e l’abdicazione del maestro di cavalleria, e critica perciò l’ipotesi mommseniana, «forse eccessivamente formalistica»[115], secondo la quale sussisterebbe una naturale immediatezza fra ordine di abdicazione e la conseguente deposizione della carica[116]. Tuttavia il pronome ‘ipse’ (4.34.5) sembra riferirsi a ‘dictator’ (4.34.4) piuttosto che a ‘magister equitum’ – quindi sarebbe il dittatore ad abdicare dopo il suo luogotenente e non quest’ultimo a rinunciare alla carica tempo dopo aver ricevuto l’ordine –, ma riteniamo che questa diversa interpretazione lasci impregiudicata la sostanza del pensiero di Masi Doria, la quale propende per la non contestualità fra l’abdicatio del maestro di cavalleria a quella del dittatore. Si tratta, a nostro avviso, di un elemento rimarcante non solamente la dipendenza del magister equitum dal dictator, ma anche il formalismo e il simbolismo che permeano la formazione e il funzionamento delle magistrature straordinarie. Infatti, il gesto di rivolgere un iussum al maestro di cavalleria non è necessario; quest’ultimo comunque «non ha la possibilità di restare in carica autonomamente»[117]. Rimane però fondamentale, per la civitas, che il suo officio giunga al termine così come è iniziato: mediante un atto del dictator che sia uguale, ma di segno opposto, alla dictio con cui il magister equitum è stato nominato[118].
Un altro caso di abdicatio meritevole di specifico esame è quello relativo al dittatore Gaio Claudio Regillense, nel 337 a.C., con Gaio Claudio Ortatore suo magister equitum[119]. Leggiamo il seguente passo di Livio:
Livius 8.15.5-6: [5] …Dictus C. Claudius Inregillensis magistrum equitum C. Claudium Hortatorem dixit. [6] Religio inde iniecta de dictatore et, cum augures vitio creatum videri dixissent, dictator magisterque equitum se magistratu abdicarunt.
A seguito della nomina del dictator – e della dictio, da parte di quest’ultimo, del magister equitum – gli auguri annunciano formalmente che la creatio è viziata per ragioni di carattere religioso[120]. Ne costituisce naturale conseguenza, essendo questo genere di anomalie non inusuale[121], l’abdicatio del dittatore insieme con il suo subalterno. Più che probante il presunto dovere del dictator di nominare immediatamente un magister equitum (dato privo di particolare enfasi in questo testo[122], a differenza di altrove[123])[124], l’episodio risulta significativo per ‘l’irregolarità derivata’ dell’officio di maestro di cavalleria che scaturisce da quella del suo dictator, ‘vitio creatus’. Il resoconto liviano è talmente laconico da non fornire dati in ordine all’esatto lasso di tempo intercorrente fra la nomina e l’abdicazione: né, d’altro canto, può comprendersi se l’espressione ‘dictator magisterque equitum se magistratu abdicarunt’ alluda alla simultaneità nell’abdicatio oppure ad una sua bifasicità, come nel caso di Aulo Cornelio Cosso e Mamerco Emilio Mamercino. Appare altresì significativo che non si proceda, a seguito dell’abdicazione, con la sostituzione dei magistrati: infatti i Sidicini, frattanto alleatisi con gli Ausoni, verranno sconfitti a Cales l’anno successivo durante il consolato di Lucio Papirio Crasso e Cesone Duilio. Il dato – abbinato alla eccessiva genericità dell’elemento ‘religioso’ determinante l’irregolarità della creatio – suggerisce una complessiva rivalutazione dell’operazione militare, potenzialmente troppo lunga per essere affidata a un dictator, la cui carica sappiamo essere limitata (almeno in questa fase della Repubblica) a sei mesi.
Sembra seguire un diverso iter l’abdicatio, nel 314 a.C., del dittatore Caio Menio e del suo magister equitum Marco Folio Flaccinatore.
La vicenda prodromica all’abdicazione, «molto interessante (seppur sospettata in storiografia)»[125], è stata recentemente ripercorsa in uno studio di Pasquino, dedicato alla responsabilità del dictator per gli atti compiuti in costanza di mandato[126], e in uno di Procchi, sul rapporto fra dictatura e provocatio ad populum[127]. Per quel che rileva ai nostri fini, è utile rammentare che Caio Menio, dictator rei gerendae causa, nel corso di un’indagine per coniuratio adversus rem publicam, insieme con il suo magister equitum viene accusato dalla nobilitas romana di essere egli stesso un cospiratore[128]. Il dittatore, confidando nella propria innocenza e in quella di Folio, si rivolge ai Quiriti e, ‘iam famae magis quam imperii memor’[129], sceglie di abdicare così da consentire lo svolgimento di un processo contro sé stesso e il suo subalterno, sul cui esito favorevole non nutre dubbi.
Livius 9.26.18-19: «…[18] ut omnes di hominesque sciant ab illis etiam quae non possint temptari ne rationem vitae reddant, me obviam ire crimini et offerre me inimicis reum, dictatura me abdico. [19] Vos quaeso, consules, si vobis datum ab senatu negotium fuerit, in me primum et hunc M. Folium quaestiones exerceatis, ut appareat innocentia nostra nos, non maiestate honoris tutos a criminationibus istis esse».
Lo scorcio del discorso di Menio suggerisce due considerazioni.
La prima. Il magister equitum riveste nella vicenda un ruolo del tutto marginale, determinato, per un verso, dalla ragione della nomina del dictator – non militare ma investigativa[130], quindi ontologicamente distante dalle attività per le quali viene solitamente richiesta una fattiva partecipazione del maestro di cavalleria – e, per altro verso, dall’essere Menio il personale fautore dell’accusa nei confronti della nobilitas, poi ritortasi contro di lui. La sostanziale trasparenza di Folio si desume anche dall’assenza di riferimenti, da parte di Livio, al suo atteggiamento durante lo svolgimento dei fatti.
La seconda. Dal passo si riceve la conferma che il magister equitum, venuto meno il dittatore, non può rimanere in carica autonomamente. Menio, infatti, inizialmente adopera la prima persona singolare (‘abdico’, in Livius 9.26.18), per poi includere nel discorso sull’ipotetico svolgimento del processo anche il maestro di cavalleria (‘ut appareat innocentia nostra’, in Livius 9.26.19): dalle parole del dictator, dunque, si desume implicitamente che alla propria abdicatio seguirà, oppure sarà contemporanea, quella del suo luogotenente.
Così prosegue il racconto liviano:
Livius 9.26.20: Abdicat inde se dictatura et post eum confestim Folius magisterio equitum; primique apud consules – iis enim ab senatu mandata res est – rei facti adversus nobilium testimonia egregie absolvuntur.
Menio abdica alla dittatura e, ‘post eum’, Folio rinuncia al comando della cavalleria. Per quanto non vi sia dubbio sulla quasi contestualità nell’abbandono dell’officio da parte del dictator e del magister equitum, rileva l’assenza di formale iussum all’abdicazione da parte del dittatore (impartito, viceversa, nel caso di Emilio Mamercino a Cornelio Cosso). Il dato, a nostro avviso, è facilmente spiegato dalla prevalente necessità di dare un seguito immediato e concreto al discorso tenuto dal dittatore, piuttosto che di svolgere le usuali attività di ‘cessazione’ prematura del mandato (caratteristiche per lo più delle dittature militari, ivi incluso l’ordine di abdicazione impartito al luogotenente). Anche se non ha ricevuto un iussum dal suo superiore, il maestro di cavalleria non ha alternative alla depositio imperii: oltre alla lex curiata, legittimante l’imperium di entrambi, l’esistenza stessa del dictator è condicio sine qua non di quella del suo magister equitum.
Gli episodi fin qui esaminati forniscono elementi sufficienti per interpretare anche il resoconto liviano relativo all’abdicatio, nel 205 a.C., del dittatore Quinto Cecilio Metello[131] e del magister equitum Lucio Veturio Filone[132], il quale era stato console nel 206 a.C.:
Livius 29.11.9-11: [9] Q. Caecilius Metellus dictator ab consule in Bruttiis comitiorum causa dictus exercitusque eius dimissus, magister equitum L. Veturius Philo. [10] Comitia per dictatorem habita. Consules facti M. Cornelius Cethegus P. Sempronius Tuditanus absens cum provinciam Graeciam haberet. [11] Praetores inde creati Ti. Claudius Nero M. Marcius Ralla L. Scribonius Libo M. Pomponius Matho. Comitiis peractis dictator sese magistratu abdicavit.
La nomina del dittatore è occasionata dalla necessità di tenere i comizi. La funzione tipicamente bellica del magister equitum – per quanto costui venga, almeno formalmente, nominato anche laddove il dittatore non risulti destinato ad una operazione militare – è inidonea a fornire un apporto edificante al compito che è stato affidato al dictator, tanto vero che le tracce del maestro di cavalleria si perdono nel racconto dello storico patavino: tenuti regolarmente i comizi – esclusivamente ‘per dictatorem’[133] –, ‘dictator sese magistratu abdicavit’.
La marginalità di Veturio Filone rispetto all’allestimento dei comizi è lampante e non stupisce che Livio ne ritenga l’abdicatio un automatismo – a nostro avviso, pur sempre necessario[134] –, al punto tale da non menzionarla[135]. Né tale omissione sembra indicativa di una prorogatio imperii del magister equitum al quale, tenutasi l’assemblea, non rimane alcun compito da dover espletare.
Veniamo ora all’esame degli aspetti di gerarchia istituzionale connessi al binomio dictator-magister equitum, tutt’oggi molto discussi. Il dibattito risulta polarizzato intorno a due orientamenti: il primo è propenso al riconoscimento, nella coppia formata dai due magistrati, di un collegio ‘imperfetto’; il secondo, viceversa, attribuisce al magister equitum un rilievo gerarchicamente inferiore al dictator (sia in termini di ‘funzione’ che di ‘struttura’).
Premettiamo – prima di passare in rassegna le più significative teorie in materia – che sarebbe eccessivamente ardita l’ambizione di formulare una tesi definitiva sul rapporto fra magister equitum e dictator. L’esperienza della Repubblica, distribuita nell’arco di quasi cinque secoli, difficilmente si presta ad un’operazione così netta sul piano della ricerca storico-giuridica. Dunque, a nostro avviso, le conclusioni tratte dai singoli studiosi risultano, per la quasi totalità, adatte a descrivere la relazione fra dittatore e maestro di cavalleria limitatamente al periodo intercorrente fra l’instaurazione della Repubblica e il 217 a.C., quando con la lex Metilia viene stabilita una sostanziale equiparazione del maestro di cavalleria al dittatore. Sebbene, come osserveremo[136], la lex del 217 a.C. sia dotata di efficacia temporanea, in quel periodo la dictatura risulta oramai proiettata verso una profonda crisi: infatti scompare per tutto il III sec. a.C. «per poi ricomparire, con diverso scopo e natura con il tentativo restauratore di età sillana»[137]. Già dal 216 a.C., dunque, si colgono segnali di forte instabilità dell’istituto, le cui ripercussioni sulle dinamiche del rapporto fra magister equitum e dictator risultano pienamente apprezzate soltanto nei pochi studi dedicati appositamente al tema.
Mommsen, nel secondo volume di ‘Römisches Staatsrecht’, osserva che il ‘Reiterführer’ e il ‘Dictator’, allo stesso modo dei due consoli, «dieselben Geschäfte zu vollziehen haben», con la differenza che «hier der eine Beamte dem andern über-»[138]. Il magister equitum, secondo lo studioso tedesco, è il comandante in seconda del dictator e può esercitare alcune funzioni caratteristiche del superiore solamente in caso di sua temporanea assenza o di espressa delega. Se, dal punto di vista istituzionale, il maestro di cavalleria – «wenigstens in der Titulatur und der äusseren Erscheinung»[139] – viene incluso nel novero dei magistrati, viceversa, sul piano sostanziale, risulta difficile ritenerlo pienamente tale, considerata la sua subordinazione al dictator. La carica di ‘Reiterführer’, come confermano gli esempi riportati nei precedenti paragrafi, è strettamente dipendente da quella di ‘Dictator’ e non è dotata di piena autonomia. Accoglie tale interpretazione Bernardi il quale, nel 1945, riconoscendo il carattere straordinario e monocratico della dictatura, ritiene necessariamente il magister equitum una figura accessoria e sottoposta a quella del dittatore[140].
Aderisce alla teoria della collegialità diseguale Mazzarino, il quale affronta tangenzialmente la questione del rapporto fra i due magistrati in una ricerca del 1946 dedicata al passaggio dalla monarchia alla repubblica[141]. Lo studioso esprime la convinzione, già invalsa nei primi del novecento con la cd. teoria evoluzionista della repubblica[142], secondo cui la prova dell’esistenza di un collegio formato da magistrati ‘esteriormente uguali’ ma ‘internamente impari’ sarebbe confermata dalla creazione della coppia consolare, che ne ricalca i tratti. Anche Mommsen, come osservato, rintraccia una somiglianza fra le due magistrature, ma non nutre dubbi sulla netta subordinazione del magister equitum al dictator e sulla non riconducibilità della coppia all’idea di ‘collegio’. Del pari Guarino, nel 1948, pur riconoscendo a Mazzarino di aver posto in adeguato risalto la teoria evoluzionista, ne critica la forzatura di ritenere il dittatore equivalente al maestro di cavalleria[143].
Nella prima edizione della ‘Storia della Costituzione Romana’ (1951), De Martino enuncia una più convincente formulazione della teoria di collegialità impari: «Se il magister equitum ha l’imperium ed i fasces non si può considerarlo come un semplice ausiliario, un funzionario subordinato, allo stesso modo degli ufficiali nominati dai consoli; egli è un collega del dittatore, un collega minor. Perciò questa magistratura si profila come collegiale e non unica, anche se fondata su di una collegialità dispari»[144]. Tale interpretazione, tuttavia, viene apertamente criticata, in uno studio del 1956, da Luzzatto[145]: secondo il romanista, la coppia dictator-magister equitum può considerarsi un collegio solamente in occasione della rogatio Metilia del 217 a.C. che – come già accennato e come meglio diremo in seguito[146] – determina una temporanea parificazione delle due cariche, avvenuta in un periodo nel quale si intende riformare la dittatura, finendo poi per sopprimerla. L’opinione dello studioso viene pienamente recepita da De Francisci, il quale pure critica la tesi di De Martino, sostenendo che non esistono indizi supportanti la collegialità del rapporto fra dittatore e maestro di cavalleria, perché il magister equitum «appare soggetto all’imperium del magister populi: e perché il magister equitum, quasi sicuramente, scadeva dalla sua carica quando il magister populi abbandonava la propria»[147].
È significativo che, nella seconda edizione della ‘Storia della Costituzione Romana’ (1972), De Martino dia atto della critica formulata da Luzzatto, dedicandovi un apposito riferimento in nota, ma vi si mostri sostanzialmente insensibile[148]. La teoria della collegialità imperfetta viene richiamata, come ipotesi, anche nella prima edizione di ‘Lineamenti di Storia del Diritto Romano’ diretta da Talamanca (1979), in una sezione elaborata da Càssola e Labruna, secondo i quali «è possibile che si sia avuta una magistratura collegiale di due membri (magister populi o dictator, col magister equitum; ovvero due praetores con potestà impari) oppure di tre (tre praetores, fra cui uno o due maximi), sempre con collegialità imperfetta, o diseguale»[149].
Valditara, nel suo studio del 1989 sul magister populi[150], pur riconoscendo la comune subordinazione dell’ἡγεμὼν τῶν πεζῶν e dell’ἡγεμὼν τῶν ἱππέων rispetto al rex che li ha nominati, attribuisce al magister equitum la funzione di supporto al dictator (o al magister populi) basandosi sul tipo specifico di attività che il maestro di cavalleria è chiamato a rivestire: «I vecchi equites, pur trasformandosi dunque in un corpo di fanti montati utilizzati nella falange, venivano però anche impiegati a cavallo con funzioni belliche di supporto nei confronti della fanteria e di inseguimento degli opliti nemici in fuga. […] Sembra così spiegarsi il carattere non autonomo del magister equitum nei confronti del dictator, succeduto nel corso del sec. V al magister populi, e l’obbligo fatto a quest’ultimo di nominarsi un magister equitum»[151]. Anche Nicosia (nello stesso anno) appoggia l’ipotesi della prevalenza gerarchica del dittatore, infatti seppure è vero «che il dictator non era assolutamente solo, perché era tenuto a nominare un magister equitum; questi però non era certo un collega, ma piuttosto a lui subordinato (oltre che scelto a suo arbitrio e in maniera autonoma, spettando a lui solo il potere di nomina)»[152].
Il rapporto fra la teoria della subordinazione gerarchica[153] e quella della collegialità imperfetta, nel 2000, è stato reso oggetto di specifico approfondimento da parte di Masi Doria. La studiosa, nel vagliare le diverse letture possibili del rapporto fra magister equitum e dictator, esordisce escludendo l’ipotesi di una collegialità perfetta, «che contiene direi in sé e per sé la possibilità di una discordia potenzialmente riverberantesi sull’assetto costituzionale della res publica»[154].
Passando, poi, all’esame della teoria di De Martino sulla collegialità impari, Masi Doria si domanda, innanzitutto, che cosa si intenda con il termine ‘collegialità’: «se il termine serve a significare la necessità che la magistratura sia formata da due o più soggetti, ebbene la prassi costituzionale romana dei rapporti tra dittatore e magister equitum corrisponde a tale situazione»[155]. Tuttavia, come osserveremo[156], un ostacolo a tale lettura è rappresentato dall’esistenza di dittature eccezionalmente prive di magistri equitum, nelle quali «la mancanza dell’ausiliario non costituisce un vizio, non incide sull’essenza o sull’esistenza della magistratura»[157]. Se per ‘collegialità’, invece, si indica la «parità degli auspicia e della potestas magistratuale, ci si scontra per prima cosa con il silenzio delle fonti»[158], nonché con la ‘divaricazione’ di posizionamento dei due magistrati nelle testimonianze epigrafiche, da cui si desume che gli stessi non vengono percepiti dai Romani come una coppia alla stregua di quella consolare[159].
Escludendo l’applicabilità di entrambe le accezioni del lemma ‘collegialità’ al rapporto dictator-magister equitum, la studiosa conclude la propria disamina tentando una conciliazione fra le due contrapposte teorie: «Certo è che il magister equitum è una figura magistratuale, fornita di imperium, che in mancanza del dictator non può sussistere nella civitas. Questa è l’essenza – in fondo – di quella che in storiografia è definita ‘collegialità dispari’»[160].
Dal canto nostro concordiamo con la ricostruzione, operata dalla romanista, del pensiero di base su cui si erge tale teoria, la cui suggestiva nomenclatura (‘collegialità imperfetta’) forse ne ha penalizzato, nel tempo, il recepimento dei validi contenuti. Tuttavia riteniamo che le problematiche connesse all’uso del termine ‘collegialità’ siano difficilmente superabili, risultando più consona alla descrizione del rapporto fra le due cariche l’espressione, proposta dalla stessa Masi Doria, di «interdipendenza (non solo ‘funzionale’, ma direi anche ‘strutturale’)»[161], con la dovuta precisazione che un «nesso gerarchico appare evidente, seppur la qualificazione non possa essere precisa»[162]. Un criterio, quest’ultimo, apparentemente adottato anche nei più recenti studi sul tema[163].
Riprendiamo il racconto della contentio fra il dictator Papirio Cursore e il suo magister equitum Fabio Rulliano, che abbiamo sospeso nel momento in cui, inviata dal maestro di cavalleria la lettera contenente il rapporto della vittoria sui Sanniti direttamente al senato, il dittatore viene colto da ira e tristitia per essere stato scavalcato dal suo subalterno.
L’analisi approfondita dell’episodio richiederebbe un’espansione monografica del presente studio, peraltro superflua alla luce dell’esame condotto da Masi Doria in ‘Spretum imperium’[164], a cui si rinvia. Ci limiteremo, dunque, a completare l’esposizione della vicenda storica e a trarre alcune riflessioni ulteriori limitatamente al rapporto fra dittatore e magister equitum e alla posizione da quest’ultimo rivestita nel IV sec. a.C.
Torniamo, dunque, alla narrazione dello storico patavino. Giunta la notizia dell’imminente ritorno al campo di battaglia di Papirio Cursore, il magister equitum convoca una contio esortando i soldati a proteggerlo dall’ira del dictator. Fabio Rulliano adduce, fra le argomentazioni adoperate per sminuire la posizione del dittatore, l’irragionevolezza del suo ordine di non attaccare il nemico e l’invidia che lo stesso nutre nei riguardi degli autori della vittoria: «costruisce un mostro»[165]. I soldati, evidentemente scossi dal discorso del Rulliano, accettano di proteggerlo.
Il dictator – raggiunto, nel frattempo, il campo – convoca un’ulteriore contio, rivolgendo al suo comandante di cavalleria un’accusa densa di risentimento:
Livius 8.32.3-7: Tum dictator «Quaero» inquit «de te, Q. Fabi, cum summum imperium dictatoris sit pareantque ei consules, regia potestas, praetores, iisdem auspiciis quibus consules creati, aequum censeas necne magistrum equitum dicto audientem esse; itemque illud interrogo, cum me incertis auspiciis profectum ab domo scirem, utrum mihi turbatis religionibus res publica in discrimen committenda fuerit an auspicia repetenda ne quid dubiis dis agerem; simul illud, quae dictatori religio impedimento ad rem gerendam fuerit, num ea magister equitum solutus ac liber potuerit esse. Sed quid ego haec interrogo, cum, si ego tacitus abissem, tamen tibi ad voluntatis interpretationem meae dirigenda tua sententia fuerit? Quin tu respondes vetuerimne te quicquam rei me absente agere, vetuerimne signa cum hostibus conferre? Quo tu imperio meo spreto, incertis auspiciis, turbatis religionibus, adversus morem militarem disciplinamque maiorum et numen deorum ausus es cum hoste confligere. Ad haec quae interrogatus es responde; at extra ea cave vocem mittas. Accede, lictor».
Papirio Cursore esordisce rammentando a Fabio Rulliano il peso delle rispettive posizioni istituzionali. Il dictator è munito di summum imperium e a lui obbediscono i consules, nonché dotato di regia potestas[166], rispettata dai praetores, i quali sono creati con i medesimi auspicia dei consoli. Stando così le cose, il magister equitum non ritiene forse doveroso essere audiens del suo comando? Il dittatore sottolinea l’importanza del proprio scrupolo dettato dal fattore religioso: consapevole di essere partito dall’Urbe con incerta auspicia, ha ritenuto di doverli ripetere e, quindi, di non assumere un’iniziativa potenzialmente in contrasto con il volere degli dèi.
Se, dunque, sussiste un impedimentum ad rem gerendam per il dictator, può mai il maestro di cavalleria ritenersi solutus ac liber? L’ovvietà della situazione era lampante fin dall’inizio, al punto tale che, anche se il dittatore fosse partito senza lasciare ordini al magister equitum, quest’ultimo avrebbe dovuto tentare di interpretare le intenzioni inespresse del superiore. Ma così non è stato. Papirio Cursore, infatti, da un lato ricorda di aver chiaramente vietato a Fabio di venire a battaglia con il nemico e, dall’altro lato, elenca le condotte illegittime compiute dal magister equitum: costui ha osato combattere in spregio dell’imperium del dittatore (‘imperio meo spreto’), con incerta auspicia, con la componente sacrale dell’operazione bellica fuori posto, contro il mos militare, la disciplina dei maiores e il numen degli dèi. A questo punto il dictator ordina al maestro di cavalleria di rispondere alle domande che gli sono state poste e di non sollevare altre questioni, invitando il littore ad avvicinarsi.
Le severe parole di Papirio Cursore ci consegnano un importante indizio per la ricostruzione del rapporto fra dictator e magister equitum, sostanziantesi nella seguente regola: il maestro di cavalleria deve eseguire con esattezza l’ordine che gli è stato impartito dal dictator. La motivazione di tale obbligo sta nel summum imperium e nella regia potestas di cui è dotato il dittatore, adombrante finanche consules e praetores – fra le più alte cariche della costituzione repubblicana –, figurarsi il suo luogotenente, il quale non può ritenersi né solutus né liber dal dictum del superiore. La fedeltà al dittatore deve essere tale da indurre il magister equitum ad interpretare anche i più nascosti intenti del suo superiore, ma non è questo il caso di Papirio Cursore, il quale ribadisce di aver formulato un divieto esplicito di assaltare i nemici, giustificato dalla (temporanea) assenza di auspicia favorevoli. Tali aspetti, è stato osservato[167], sembrerebbero suggerire un inquadramento degli obblighi del magister equitum nel rapporto privatistico di mandatum.
Fabio Rulliano tenta invano di difendersi, in punto di rito, eccependo l’illegittimità dei ruoli di accusatore e giudice ricoperti simultaneamente da Papirio Cursore, ma il dictator, ulteriormente indispettito, ordina ai littori di svestire il magister equitum e di preparare le scuri. Il clamore suscitato dai soldati e l’intervento degli stessi lictores dilatano i tempi della contio al punto tale che, giunta la notte, l’assemblea viene rinviata all’indomani per il prosieguo. Consapevole di non avere a disposizione strumenti per rovesciare la propria posizione, Fabio Rulliano si dà alla fuga e ritorna a Roma, dove il padre, Marco Fabio Ambusto – tre volte console e una volta dittatore[168] – convoca il senatus e presenta rimostranze contro la vis e l’iniuria esercitate dal dictator. Papirio Cursore, nel frattempo sopraggiunto, ordina l’arresto di Fabio Rulliano. A questo punto «il vecchio esponente della gens Fabia gioca l’ultima carta, la ragione estrema per il cittadino romano della repubblica: la provocatio»[169].
Livius 8.33.8: …tribunos plebis appello et provoco ad populum eumque tibi, fugienti exercitus tui, fugienti senatus iudicium, iudicem fero, qui certe unus plus quam tua dictatura potest polletque. Videro cessurusne provocationi sis, cui rex Romanus Tullus Hostilius cessit.
Le circostanze della provocatio sono irrituali – il dictator, infatti, svolge il proprio mandato senza esservi vincolato[170] – ma il tentativo di Marco Fabio, rafforzato dal richiamo a un precedente verificatosi durante il regno di Tullo Ostilio[171], è sufficiente ad ottenere l’auxilium del populus e dei tribuni[172] i quali, nonostante la resistenza di Papirio Cursore, chiedono al dittatore la remissio poenae. Quest’ultimo, mosso dal consensus civitatis di cui gode il magister equitum, gli concede la grazia[173], atto di recente definito da Fercia una «noxae deditio pubblicistica»[174].
Ingegnoso si rivela l’espediente del dictator, il quale donat una grazia strategica pur di evitare che il protrarsi della contentio con il magister equitum possa mettere a repentaglio la stabilità costituzionale delle istituzioni. Quanto alla posizione del maestro di cavalleria, la sua dipendenza dal dittatore emerge con chiarezza dal resoconto liviano: la violazione dell’ordine di non attaccare il nemico, l’assunzione di iniziativa militare priva di auspicia, il tentativo di prevaricare su Papirio Cursore accaparrandosi il ius triumphandi, sono tutte condotte indicative di spretum imperium, tanto gravi da risultare indifendibili e perfino più significative della stessa vittoria contro i Sanniti. La punizione del magister equitum disobbediente costituisce una conseguenza la cui linearità logica è difficilmente scalfibile, tanto da risolversi, nel caso di specie, solamente mediante il suggestivo ricorso alla provocatio ad populum ed alla richiesta di tribunicia intercessio, entrambi rimedi tipicamente posti al di fuori dell’area di straordinarietà che caratterizza la dictatura.
Rimanendo nell’ambito delle anomalie collegate alla figura del magister equitum, passiamo a tre dittature – le uniche registrate nelle fonti – prive di maestri di cavalleria.
Il primo caso è quello di Marco Claudio Glicia[175], nominato dictator dal console Paolo Claudio Pulcro[176] nel 249 a.C., sul quale risulta utile, ai nostri fini, la lettura dei Fasti Capitolini:
Fast. Cap.: M(arcus) Claudius C(ai) f(ilius) Glicia qui scriba fuerat dictator coact(us) abdic(avit) / sine mag(istro) eq(uitum) in eius locum factus est / A(ulus) Atilius A(uli) f(ilius) C(ai) n(epos) Caiatinus dict(ator) / L(ucius) Caecilius L(uci) f(ilius) C(ai) n(epos) Metellus mag(ister) eq(uitum)[177].
L’iscrizione indica che Glicia – costretto all’abdicatio e privo di magister equitum – viene (immediatamente[178]) sostituito da Aulo Atilio Caiatino il quale, a sua volta, nomina comandante della cavalleria Lucio Cecilio Metello. Stando ai resoconti letterari dell’episodio, contenuto in una periocha liviana[179] e nella vita di Tiberio raccontata da Svetonio[180], il motivo dell’abdicazione è da rintracciare in un vitium di nomina, forse da non «ricercarsi in un difetto procedurale, bensì nella provenienza sociale del dittatore, del resto fin troppo sottolineata»[181]. La mancanza di un magister equitum, tuttavia, viene segnalata soltanto nei Fasti Capitolini: secondo Soulahti, il compilatore delle periochae e Svetonio «were not aware that he had no magister equitum»[182], ma riteniamo di escludere tale ipotesi in quanto ciò implicherebbe che entrambi gli autori, una volta notata l’assenza di dati sul nome del maestro di cavalleria, non si siano premurati di segnalare che il suo nominativo era andato perduto, né abbiano accennato alla straordinarietà del caso.
Secondo Mommsen, Glicia non procede alla designazione del magister equitum poiché la sua abdicatio è tanto immediata da non consentirglielo[183]. Masi Doria si spinge oltre: condivisa la tesi mommseniana, la studiosa si chiede per quale ragione il dictator, che solitamente procede alla nomina del maestro di cavalleria nella stessa notte della propria investitura[184] – formalità a cui segue, a sua volta, la richiesta di legittimazione dell’imperium di entrambi mediante lex curiata –, in questo caso non si attenga alla prassi consolidata. Forse, ipotizza Masi Doria, «gli stessi comizi, in quell’occasione, non si tennero»[185]. Tuttavia rimane il problema della permanenza delle insegne magistratuali di Glicia anche dopo l’abdicatio, alla quale si accenna nella periocha liviana. Per Masi Doria «probabilmente ciò fu giuridicamente possibile perché l’atto della dictio era bastevole all’esistenza nell’ordinamento di un dictator»[186]. Ugualmente persuasiva, a nostro avviso, anche la tesi di Soulahti: lo studioso, tenendo in debita considerazione il fatto che la nomina di Glicia è frutto di un ordine impartito dal senato al console Paolo Claudio Pulcro in un contesto particolarmente tumultuoso – costui, nel 249 a.C., viene sconfitto durante la battaglia navale di Drepano contro i Cartaginesi –, ipotizza una sorta di compromesso politico. Infatti Glicia, probabilmente, è «more willing from the beginning to collaborate with the Senate than Pulcher was. […] Perhaps he thought more of his career than of his possible ties to Pulcher. To make up for this, according to Livius, he retained his position and the insignia of ex-dictator»[187].
Tuttavia riteniamo che l’eccezionalità della situazione sia tale da non consentire, in mancanza di termini di paragone, ulteriori proposte. La ‘dittatura’ di Glicia è tanto breve che l’assenza di un magister equitum, benché interessante per quel che concerne gli aspetti procedurali della questione, risulta priva di qualsiasi ripercussione sugli equilibri istituzionali.
Di diverso e ben maggiore rilievo si mostra, invece, l’assenza di nomina di un magister equitum da parte di Marco Fabio Buteone[188], dictator nel 216 a.C. Il contesto è quello della seconda guerra punica, «la stessa Roma è sconvolta, e le strutture costituzionali tradizionali vacillano»[189], tanto che la dittatura di Buteone è contemporanea a quella di Mario Giunio Pera[190], circostanza che suscita il disappunto nel neo-eletto:
Livius 23.23.1-2: [1] Is ubi cum lictoribus in rostra escendit, neque duos dictatores tempore uno, quod nunquam antea factum esset, probare se dixit, [2] neque dictatorem sine magistro equitum, nec censoriam vim uni permissam et eidem iterum, nec dictatori, nisi rei gerendae causa creato, in sex menses datum imperium.
Il magistrato osserva che non si sono mai visti coesistere due dittatori, né è mai accaduto che uno di essi sia privo di magister equitum, o che si accentri la vis censoria nelle mani di un’unica persona, o che al dictator rei gerendae causa venga attribuito un imperium semestrale[191].
Focalizziamo la nostra riflessione, per quanto possibile, sull’assenza di un magister equitum. Ormai sappiamo che la nomina del maestro di cavalleria da parte del dictator costituisce una consuetudine[192] le cui radici affondano nella dictio di Spurio Cassio Vecellino, nel 501 a.C., ad opera di Tito Larcio Flavio[193]. In quanto mos, la prassi di designare il magister equitum viene diligentemente seguita da tutti i dictatores, tanto che eventuali anomalie risultano sistematicamente segnalate nelle fonti, ove vengono sovente fornite anche motivazioni più o meno convincenti che giustifichino tali vulnera costituzionali.
L’automatismo dell’iter è tale che la dictio del magister equitum viene effettuata dal dictator, discrezionalmente e senza interferenze, nell’arco della stessa notte e prima che venga richiesta la conferma dell’imperium mediante la lex curiata. Livio, nel descrivere Fabio Buteone scontento per essere sine magistro equitum – ricordiamo che, viceversa, il dictator Giunio Pera ha nominato Tiberio Sempronio Gracco[194] –, insinua nel lettore il legittimo sospetto che la mancanza di un luogotenente sia ascrivibile ad un preciso divieto senatorio[195].
Le ragioni di tale (ipotetica) proibizione si traggono, a nostro avviso, oltre che dall’eccezionalità della contingenza in cui si sviluppano i fatti, anche dal merito dell’incarico che viene affidato a Fabio Buteone. Costui, infatti, è un dictator rei gerendae causa per la lectio senatoria[196], compito che espleta con imparzialità e nel rispetto della legalità, restituendo «legittimità alla figura dittatoriale»[197]. Si tratta di un impiego della dictatura lontano dal più frequente svolgimento di operazioni militari, dunque l’apporto del magister equitum è marginale al punto tale da non risultare necessario; infatti Buteone, seppure privo di supporto, conclude il proprio mandato brillantemente. Come abbiamo osservato[198], una situazione simile si riproporrà con la più recente dittatura del 205 a.C. di Quinto Cecilio Metello (dictator comitiorum habendorum causa): lì le tracce del magister equitum, figura del tutto irrilevante per l’organizzazione dei comizi, si smarriranno nel corso della narrazione liviana.
Non stupisce, infine, che nel 49 a.C. Caio Giulio Cesare[199] non nomini, in occasione della sua prima dittatura, alcun magister equitum: la dictatura ‘classica’ appare «quasi completamente svincolata dai mores che in passato l’avevano normativamente caratterizzata»[200]. Cesare, a differenza di Silla[201], è scarsamente interessato a preservare anche solo la forma della dittatura tradizionale, oramai irreversibilmente deteriorata[202].
Veniamo all’esame dell’unico episodio noto di sostituzione del maestro di cavalleria nel corso di una battaglia, ad oggi poco studiato. Ritroviamo, nel 315 a.C., Quinto Fabio Massimo Rulliano (il luogotenente ‘disobbediente’ di Papirio Cursore, nel 325 a.C.), stavolta dictator[203], il quale nomina magister equitum Quinto Aulo Cerretano[204]; il comandante di cavalleria perde la vita in battaglia e viene sostituito da Caio Fabio Ambusto[205].
La tradizione relativa all’episodio non risulta univoca: Diodoro Siculo[206] colloca la morte di Aulo nella battaglia di Lautulae, mentre secondo Livio – il quale si dichiara edotto della più antica tradizione sull’accaduto[207] – il magister equitum perde la vita a Saticula combattendo contro i Sanniti[208]. Si tratta di difformità nella contestualizzazione che non appaiono rilevanti ai nostri fini, non determinando, peraltro, sostanziali alterazioni nella cronologia[209].
Quanto allo svolgimento dei fatti, Lo storico siceliota non registra la sostituzione del magister equitum dopo la sua morte, limitandosi a riferire che Aulo guadagnò un θάνατος ἔνδοξος[210]. Livio, invece, tramanda la successiva nomina del magister equitum suffectus Caio Fabio Ambusto:
Livius 9.23.6: Suffectus in locum Auli C. Fabius magister equitum cum exercitu novo ab Roma advenit…
La versione dello storico patavino è in sintonia con quella dei Fasti Capitolini:
Fast. Cap.: Q(uintus) Fabius M(arci) f(ilius) N(umeri) n(epos) Maximus Rullianus dict(ator) / Q(uintus) Aulius Q(uinti) f(ilius) Ai(li) n(epos) Cerretan(us) in proelio occisus est mag(ister) eq(uitum) / in eius l(ocum) f(actus) est / r(ei) g(erundae) c(ausa) / [C(aius)] Fabius M(arci) f(ilius) N(umeri) n(epos) Ambustus mag(ister) eq(uitum)[211].
L’episodio esaminato, dunque, conferma la possibilità[212] di sostituire il magister equitum – figura di particolare utilità nel corso di una campagna militare – una volta che sia caduto in battaglia. Incerte, tuttavia, sono le modalità dell’avvicendamento. Livio non fornisce indizi in tal senso, limitandosi a definire (giustamente) ‘suffectus’ il magister equitum nominato non ab origine ma nel corso del mandato del dittatore, in conseguenza dell’imprevedibile morte del predecessore. Nei Fasti Capitolini, invece, viene adoperato il verbo ‘factus est’, di per sé generico e non evocativo di alcuna delle modalità di designazione del maestro di cavalleria solitamente menzionate nelle fonti[213].
Possiamo ugualmente tentare di trarre, dal resoconto liviano, ulteriori indizi utili per la riflessione. Lo storico, infatti, narra che il sostituto magister equitum ‘ab Roma advenit’: è certo, dunque, che non si tratti di uno dei combattenti già impegnati nella battaglia[214]. Inoltre è chiaro che il dictator non sia ritornato a Roma per effettuare la nomina – in quanto è impegnato con i suoi soldati ‘intra vallum obsessi magis quam obsidentis modo’[215] – e che, allo stesso tempo, costui sia consapevole della sostituzione e dell’identità del magister equitum suffectus[216]. Quest’ultimo elemento consente di dedurre che, sebbene l’esercito sia stretto in un vallum, le informazioni riescono in qualche modo a trapelare da e verso l’esterno, ciò suggerendo due possibili spiegazioni: o il dictator ha compiuto di nascosto dai soldati la designazione (una dictio?) del sostituto magister equitum, affidandone il nome a un messo poi inviato a Roma, oppure l’incarico è stato conferito, nell’Urbe, da un alter ego del dittatore. In mancanza di elementi che consentano di affermare la legittimazione – supponiamo dei consules o dei patres – a fare le veci del dictator nella nomina del magister equitum, riteniamo che la prima ipotesi sia da preferire. Certamente rimane il problema della conferma dell’imperium del sostituto neo-eletto mediante lex curiata, ma è possibile che il suffectus attragga automaticamente a sé la legittimazione del suo predecessore o che, essendo l’autore della nomina un dictator già dotato dell’approvazione delle curiae, costui sia in grado di trasmetterla ex novo, e motu proprio, al suffectus.
È opinione condivisa quella secondo cui la ‘lex Metilia de aequando magistri equitum et dictatoris iure’ del 217 a.C. costituisce uno dei provvedimenti di maggiore impatto costituzionale dell’età repubblicana, che contribuisce in maniera determinante al declino della dictatura e alla trasformazione delle istituzioni ‘classiche’[217].
L’antefatto della modica rogatio originante la lex si svolge durante la seconda guerra punica. Nel 217 a.C., a seguito della disfatta del Trasimeno, i Romani «cominciavano a nutrire un vero e proprio complesso di inferiorità nei riguardi del nemico cartaginese»[218]. Viene deliberato di nominare un dictator rei gerendae causa per contrastare l’armata annibalica ma, come testimonia Livio, una dictio di questo tipo risulta, oltre che desueta e indesiderata, anche difficoltosa: uno dei due consoli è caduto in battaglia, mentre l’altro è fuori dall’Urbe e non è possibile inviare un nuntius o litterae perché i Punici assediano l’Italia[219]. Si ricorre, dunque, ad una procedura di creatio inedita[220]: i comizi designano dittatore Quinto Fabio Massimo Verrucoso[221] e magister equitum – anomalia nell’anomalia[222] – Marco Minucio Rufo[223].
Conduce alla rogatio un contrasto fra i due che, seppure moderato, ricorda quello tra Papirio Cursore e Fabio Rulliano del 325 a.C., con il quale ha in comune un atto di (parziale) disobbedienza, una missiva e la smania di gloria del comandante di cavalleria. Il magister equitum, di indole operosa e bellicosa (opposta a quella del dictator, cunctator di natura), assume il comando dell’esercito nel territorio di Larino in occasione della ripartenza per Roma del dittatore, propenso ad una strategia meno aggressiva[224]. Pur avendo riportato una vittoria solamente modesta, il maestro di cavalleria si assicura che la stessa venga descritta, una volta giuntane la notizia nell’Urbe, come trionfale (‘egregia’)[225].
Al disappunto del dictator – il quale si mostra dubbioso circa la veridicità del contenuto della missiva ed è incline a temere la buona sorte, più che le avversità[226] – si contrappone l’entusiasmo del tribuno Metilio il quale, viceversa, accusa Fabio Massimo di aver quasi tenuto in ostaggio il magister equitum pur di non farlo combattere[227], e muove una provocazione alla plebe:
Livius 22.25.10: Quas ob res, si antiquus animus plebei Romanae esset, audaciter se laturum fuisse de abrogando Q. Fabi imperio; nunc modicam rogationem promulgaturum de aequando magistri equitum et dictatoris iure.
Metilio si dichiara disponibile a farsi promotore della proposta di abrogare l’imperium del dictator, a condizione che la plebe manifesti lo spirito di un tempo[228]. L’assenza di una reazione partecipativa del popolo si ricava dal comportamento successivo di Metilio: il tribuno, infatti, rinuncia all’ipotesi dell’abrogatio imperii e si limita a proporre una modica rogatio di iuris aequatio del magister equitum al dictator. Per tutta risposta, Fabio Massimo si difende esaltando il ruolo dell’intelligenza e della ragione: salvare al momento giusto e senza disonore l’esercito, afferma, è una gloria maggiore dell’uccidere molte migliaia di nemici[229]. Inoltre il dictator sottolinea che il magister equitum, il quale ha combattuto contra dictum suum, è tenuto a motivare il proprio comportamento:
Livius 22.25.13: …magistro equitum, quod contra dictum suum pugnasset, rationem diceret reddendam esse.
L’esternazione del dictator rimarca il rapporto di subordinazione gerarchica del maestro di cavalleria, al quale è stato impartito un dictum che costui ha deciso di disattendere[230] (ricordiamo, infatti, che il magister equitum aveva assunto il comando dell’esercito approfittando dell’assenza del dittatore) e di cui deve rendere conto. Quest’ultimo elemento cela, a nostro avviso, il timore di Fabio Massimo che, qualora venisse meno l’asimmetria gerarchica fra i due magistrati, l’impeto di Minucio Rufo – non più tenuto ad alcun obbligo di fare rapporto al dittatore – diventerebbe inarrestabile, e con esso la sua indisciplina rimarrebbe senza freni.
Tuttavia la rogatio, il cui suasor è Caio Terenzio Varrone[231], viene accolta[232] e la notizia dell’aequatio iuris giunge a Fabio mentre questi, cum ‘invicto a civibus hostibusque animo’[233], è in viaggio verso l’esercito. La reazione del magister equitum è immediata e conferma la sua indole megalomane:
Livius 22.27.1-3: [1] Minucius vero cum iam ante vix tolerabilis fuisset rebus secundis ac favore volgi, [2] tum utique immodice immodesteque non Hannibale magis victo ab se quam Q. Fabio gloriari: [3] illum in rebus asperis unicum ducem ac parem quaesitum Hannibali, maiorem minori, dictatorem magistro equitum, quod nulla memoria habeat annalium, iussu populi aequatum in eadem civitate, in qua magistri equitum virgas ac secures dictatoris tremere atque horrere soliti sint; tantum suam felicitatem virtutemque enituisse!
L’entusiasmo quasi delirante di Minucio – il quale, riferisce Livio, già prima dell’approvazione della rogatio era difficile da tollerare – si traduce in una smaniosa autocelebrazione per la vittoria politica riportata su Fabio. Tuttavia l’esternazione del magister equitum, certamente da valutare tenendo conto dell’euforia di cui è pervasa, fornisce un chiaro quadro del rapporto concreto sussistente fra dittatore e maestro di cavalleria: il dictator è, fra i due, maior; il magister equitum, viceversa, minor. Anzi, il rilievo della rogatio è amplificato dal fatto che ad approvarla sia stato il populus di quella stessa città nella quale i magistri equitum sono soliti tremare e inorridire per le verghe e le scuri del dictator. In una civiltà contemplante una tanto profonda sottomissione del comandante di cavalleria rispetto al dittatore, la lex Metilia segna un netto stravolgimento degli equilibri costituzionali.
L’aequatio iuris dei due magistrati ne comporta una parificazione innanzitutto sul piano istituzionale: in numerose fonti, infatti, Minucio viene indicato come co-dittatore[234]. Tale livellamento porta ad equiparare «all’imperium del dictator quello che in origine era minore, del suo magister equitum Minucio»[235]: la coppia di magistrati diventa simile, in termini di reciproca parità di peso istituzionale, ai consoli. Nel prosieguo del racconto liviano, infatti, i ‘due dictatores’ si confrontano su quale sia il modo migliore di servirsi dell’imperium aequatum, proponendo due soluzioni tipicamente riconducibili agli schemi solitamente adottati dalla coppia consolare[236]: Minucio opta per la turnazione, a giorni o periodi alterni, di ‘summum ius imperiumque’[237]; Fabio, viceversa, si oppone – forse ricorrendo ad intercessio[238] – e suggerisce la divisio equa delle risorse, avendo infine la meglio[239].
Il prosieguo dell’azione, che occupa una lunga e particolareggiata narrazione dello storico patavino[240], si conclude con l’intervento salvifico di Fabio ‘Cunctator’, il quale riesce a sconfiggere le truppe cartaginesi e a mettere in salvo il ‘collega’, caduto vittima di una trappola di Annibale.
Queste sono le parole di Minucio, il quale si rivolge al Temporeggiatore equiparandolo ad uno dei suoi parentes:
Livius 22.30.3-5: [3] «Parentibus» inquit, «meis, dictator, quibus te modo nomine, quod fando possum, aequavi, vitam tantum debeo, tibi cum meam salutem, tum omnium horum. [4] Itaque plebei scitum, quo oneratus [sum] magis quam honoratus, primus antiquo abrogoque et, quod exercitibus his tuis quod tibi mihique servato ac conservatori, sit felix, sub imperium auspiciumque tuum redeo et signa haec legionesque restituo. [5] Tu, quaeso, placatus me magisterium equitum, hos ordines suos quemque tenere iubeas».
Minucio – con tono decisamente ridimensionato rispetto alle sue precedenti esternazioni – ringrazia Fabio per il salvataggio, gesto che ne ha dimostrato la superiorità. Il co-dittatore, per riconoscenza, antiquat e abrogat lo scitum del popolo, foriero di oneri più che di onori, e ritorna sub imperium auspiciumque del Temporeggiatore, al quale restituisce i signa e le legiones. Infine prega il dictator di consentire a lui stesso di mantenere almeno il titolo di magister equitum, così come ai soldati il proprio ordo.
Il passo sollecita due osservazioni. La prima attiene all’efficacia della lex Metilia: la decisione popolare, stando alle parole di Minucio Rufo, sembrerebbe formalmente revocata e abrogata[241], con conseguente reductio in antiquum morem degli assetti costituzionali e degli equilibri istituzionali. Il secondo concerne la posizione del magister equitum rispetto al dictator: ancora una volta le parole del maestro di cavalleria confermano la minore intensità del suo imperium rispetto a quello del dittatore – il quale è dotato anche di auspicia –, nonché il suo inferiore posizionamento gerarchico.
Si è discusso circa l’«impatto politico-costituzionale»[242] della rogatio Metilia sulla configurazione delle dittature posteriori. Per alcuni, infatti, lo sconvolgimento apportato al modo ‘classico’ di concepire le istituzioni repubblicane si ripercuote in maniera significativa sugli equilibri della coppia dictator-magister equitum, che non saranno mai più ripristinati, dando vita ad una sorta di collegio[243]. Altri, viceversa, riconoscono sì alla lex Metilia la sintesi di un inesorabile percorso verso la decadenza della Repubblica (e, con essa, della dittatura), ma ne circoscrivono l’efficacia alla dictatura di Fabio Massimo[244]. Un esame delle dinamiche caratterizzanti il rapporto fra dittatori e maestri di cavalleria nelle dictaturae posteriori al 217 a.C. ci spinge a preferire il secondo orientamento.
Come abbiamo osservato[245], nel 216 a.C. Fabio Buteone si duole del divieto di nominare un magister equitum impostogli dal senato – ‘quod nunquam antea factum esset’[246] – che non risulta esteso alla contemporanea dittatura di Giunio Pera il quale, infatti, designa magister equitum Tiberio Sempronio Gracco[247]. Secondo la nostra tesi[248], le probabili ragioni della proibizione sono da rintracciare nell’eterogeneità dei compiti affidati ai due dittatori, dalla quale deriva la sostanziale superfluità di un magister equitum di supporto a Fabio Buteone nell’organizzazione della lectio senatoria. Il rilievo attribuito alla mancanza del maestro di cavalleria, da un lato, e la evidente «posizione di preminenza del dittatore»[249], dall’altro lato, sono entrambi indici dell’assenza di aequatio iuris dei due magistrati, la cui coppia continua ad essere caratterizzata da evidente asimmetria gerarchica.
Nelle dittature successive, «a scopi civili e comunque per attività circoscritte»[250], non si registrano significative alterazioni della tradizionale posizione di dipendenza del magister equitum. Nel 213 a.C. il dictator Gaio Claudio Centone[251] esegue la dictio del magister equitum Quinto Fulvio Flacco[252]; nel 210 a.C. il dittatore Quinto Fulvio Flacco[253] designa maestro di cavalleria Paolo Licinio Crasso Divite[254]. Lo schema si ripropone anche nella dittatura del 208 a.C., quando Tito Manlio Torquato[255] nomina magister equitum Caio Servilio Gemino[256] – i due, inoltre, abdicano insieme[257] una volta tenutisi i comitia e i ludi[258] –, in quelle del 207 e 205 a.C. (che abbiamo già esaminato[259]). Anche nel breve racconto liviano sulla dittatura del 203 a.C. di Paolo Sulpicio Galba Massimo[260], incaricato di trattenere il console Gneo Servilio dal muoversi in Africa[261], il magister equitum Marco Servilio Pulice Gemello[262] viene presentato come personaggio di supporto alle indagini che il dittatore compirà in varie urbes italiane che erano state alienate durante la guerra. La dictio del magister equitum, divenuto una figura marginale e legata alla mera osservanza formale di un mos, si riscontra anche nell’ultima dittatura ‘classica’ del 202 a.C., in cui il dictator Caio Servilio Gemino[263] designa con dictio il magister equitum Paolo Elio Peto[264].
Nel I sec. a.C. il deterioramento radicale delle istituzioni classiche, stravolte dalla dittatura di Silla e Cesare, è oramai definitivo e gli antichi schemi vengono ridotti a meri contenitori di poteri e prerogative del tutto innovativi.
Anche la figura del maestro di cavalleria non rimane indenne dal processo di trasformazione costituzionale, del quale risente in particolare modo durante le dittature di Cesare: nel 49 a.C. costui non nomina alcun magister equitum, come abbiamo brevemente osservato[265], mentre nel 48 e 47 a.C. designa comandante di cavalleria ‘con mandato annuale’ Marco Antonio[266]; dal 46 a.C. e fino al termine della sua dittatura viene affiancato dal magister equitum ‘con carica perpetua’ Marco Emilio Lepido[267]. Le fonti risalenti a questo periodo, dunque, vanno interpretate tenendo conto del delicato contesto storico che le contorna.
I dati sulla posizione costituzionale rivestita dal magister equitum, per come derivanti dai testi attribuiti a questo periodo, non sono univoci nei contenuti e, anzi, ne confermano la decadenza. Varrone, nella perduta opera denominata ‘Eisagoghikos’ – parzialmente rievocata da Aulo Gellio[268] – pare non menzionare affatto il magister equitum nel novero dei magistrati ‘per quos more maiorum senatus haberi soleret’. Riteniamo che la figura del magister equitum, per Masi Doria «probabilmente appiattita su quella del dittatore»[269], sia assente dall’elenco per due ulteriori ragioni. La prima deriva dal dato testuale: Varrone, attraverso le parole di Gellio, elenca le figure istituite per lo più mediante nomina senatoria, fra cui certamente non rientra il maestro di cavalleria, il quale viene tipicamente dictus dal dictator. La seconda è legata alla finalità del commentarium varroniano, che è stato commissionato da Gneo Pompeo, nominato console per la prima volta nel 70 a.C., con l’intento di munirsi di un affidabile compendio contenente le regole del buon consolato[270]. Considerata la destinazione pratica dell’opera, riteniamo legittimo ipotizzare che Varrone, il quale scrive in un periodo a cavallo fra la dittatura sillana e quella cesariana, non reputi utile menzionare il magister equitum – assorbito dal riferimento al dictator – nella costruzione dell’elenco. Ragioni simili, a nostro avviso, determinano l’esclusione del dittatore e del maestro di cavalleria dal novero dei magistrati dotati di attitudine a ricevere gli auspicia, composto da Valerio Messalla probabilmente nel 53 a.C. e riprodotto testualmente da Aulo Gellio[271].
Il ‘De legibus’ ciceroniano, risalente al 52 a.C., fornisce un apporto utile all’approfondimento dell’indagine sulle ragioni di tali scelte espositive. Leggiamo i seguenti passi:
Cicero, De leg. 3.3.9: …«Ast quando duellum gravius discordiaeve civium escunt, oenus ne amplius sex menses, si senatus creverit, idem iuris quod duo consules teneto, isque ave sinistra dictus populi magister esto. Equitatumque qui regat habeto pari iure cum eo quicumque erit iuris disceptator. Reliqui magistratus ne sunto».
Cicero, De leg. 3.4.10: …«Cum populo patribusque agendi ius esto consuli praetori magistro populi equitumque, eique quem patres prodent consulum rogandorum ergo; tribunisque quos sibi plebes creassit ius esto cum patribus agendi; idem ad plebem quod oesus erit ferunto»…
L’esame di entrambi i testi è necessario per comprendere la percezione di Cicerone circa l’officio del maestro di cavalleria, che appare contaminata in misura ridotta dalle alterazioni istituzionali caratterizzanti il I sec. a.C.
L’utilizzo della locuzione ‘magister populi’ in luogo di ‘dictator’ – è stato rilevato[272] – è tipica delle opere ciceroniane a sfondo politico e serve a dotare il discorso di autorevolezza evocando un «fossile di epoca più antica»[273]. Nel passo numerato 3.3.9, l’Arpinate traccia un parallelismo fra il ius dei duo consules e del dictator, da un lato, e il ius del praetor (‘iuris disceptator’) e del magister equitum, dall’altro lato. La struttura formata da consules e praetor è collegata alla sfera della normalità, mentre in una situazione straordinaria il loro potere (genericamente indicato con il termine ‘ius’) viene trasferito alle due figure che ne ricalcano la gerarchia: il dittatore, dotato del potere assoluto, e il maestro di cavalleria, ad esso subordinato[274]. L’ordine di elencazione è identico nel testo contenuto in De leg. 3.4.10, dove i magistrati dotati di ius agendi cum populo patribusque vengono posizionati secondo il medesimo criterio[275]: console, pretore, dittatore e infine maestro di cavalleria.
Nel pieno della dittatura di Cesare, Varrone compone il ‘De lingua latina’, ove dedica una sezione al dictator e al magister equitum. Il passo di riferimento è il seguente:
Varro, De ling. Lat. 5.82: Dictator, quod a consule dicebatur, cui dicto audientes omnes essent. Magister equitum, quod summa potestas huius in equites et accensos, ut est summa populi dictator, a quo is quoque magister populi appellatus. Reliqui, quod minores quam hi magistri, dicti magistratus, ut ab albo albatus.
Una prima riflessione sulla rilevanza giuridica del testo è formulata da Valditara[276]. Lo studioso osserva che Varrone definisce la potestas del dictator ‘assoluta’ con riguardo al populus. Viceversa il magister equitum è munito sì di un potere analogo, ma limitatamente agli equites e agli accensi. Una tale costruzione, prosegue Valditara, evidenzia la subordinazione del maestro di cavalleria al dittatore e giustifica il divieto fatto a quest’ultimo di montare a cavallo[277]: dunque, stando a Varrone, il rapporto del dictator con la cavalleria, prima dell’intervento di una specifica deroga, è possibile esclusivamente per il tramite del magister equitum.
Secondo Vervaet il passo attesta inequivocabilmente «that within the official hierarchy of Roman functionaries, the magister equitum ranked second only to the dictator»[278]. Lo studioso presta particolare attenzione alla parte finale del testo, nella quale Varrone sembra stabilire un collegamento fra i termini ‘magister’ e ‘magistratus’: l’erudito, infatti, ritiene che il secondo derivi dal primo (come ‘albatus’ proviene da ‘albus’), attribuendo alla desinenza ‘-tus’ una sorta di valore ‘subordinante’. Vervaet ne trae un argomento a favore della sostanziale equivalenza di ‘potestas’ del magister equitum al dictator (almeno dal 217 a.C.) e della conseguente superiorità del maestro di cavalleria rispetto agli altri magistrati. Masi Doria critica Vervaet e, attraverso un’attenta disamina della costruzione sintattica del testo[279], dimostra che il frammento di Varrone – escerpito, si rammenta, da un’opera avente ad oggetto la storia della lingua latina – non è dotato di uno spessore tecnico-giuridico tale da fornire «alcuna certezza per l’inquadramento dei poteri magistratuali romani»[280].
Nel passo di Varrone vengono prospettati elementi relativi al rapporto fra dictator e magister equitum non coerenti con le informazioni che si ricevono dalle altre fonti esaminate nella nostra indagine[281]. Tuttavia – tralasciando i problemi relativi all’attendibilità delle delucidazioni filologiche dell’autore – riteniamo che il testo non sia privo di utilità[282], purché si tenga ben presente la fondamentale deduzione di Valditara sullo stile di Varrone il quale, al pari di Cicerone, adopera un lessico arcaicizzante (i termini ‘magister populi’ e ‘populus’ sono evocativi dell’epoca monarchica o, al massimo, degli esordi della repubblica): «l’erudito reatino aveva presente notizie relative ad uno stato di cose che rimontava a un’età arcaica»[283]. Così l’ipotesi di una (almeno) tendenziale somiglianza nei poteri dell’ἡγεμὼν τῶν πεζῶν e dell’ἡγεμὼν τῶν ἱππέων – entrambi sottoposti del rex, specializzati in separati settori dell’esercito e sovraordinati agli altri magistrati – risulta astrattamente condivisibile, con la dovuta cautela, se si accetta di circoscriverne la validità dei contenuti all’età monarchica. Come abbiamo osservato nel corso del nostro studio, infatti, durante l’età repubblicana l’imperium del dictator risulta più intenso di quello del maestro di cavalleria e le due figure appaiono gerarchicamente asimmetriche.
La memoria di un magister equitum sopravvive, transitando per i Digesta[284], fino al VI sec. d.C.[285], ma la dittatura è ormai un’esperienza costituzionale lontana e, con essa, sono tramontati anche i ricordi relativi al preciso funzionamento delle istituzioni di età repubblicana; del resto «la tradizione appiattisce le nozioni che sono in nostro possesso»[286].
L’indagine sull’evoluzione storica del rapporto intercorrente tra le magistrature romane, nel caso di specie quello fra dictator e magister equitum, rivela che il mos di dotare il dittatore di un luogotenente rimane costante nel corso dell’intera fase repubblicana di Roma. Le due figure, pur nel rispetto della sostanziale subordinazione gerarchica in cui si trova il magister equitum, risultano intimamente legate dal filo rosso dell’interdipendenza. Da un lato, infatti, il maestro di cavalleria è obbligato all’esecuzione degli ordini del ‘superiore’; dall’altro lato, il dittatore sembra vincolato – nel rispetto di un antico costume – alla nomina del subalterno anche nei casi in cui il suo contributo si preannuncia minimo o superfluo.
La tipicità dell’istituzione dittatoriale fa sì che le oscillazioni che accompagnano lo sviluppo della dictatura si riverberino anche nel rapporto fra i due magistrati, le cui anomalie si mostrano sufficientemente marcate da risultare debitamente registrate nelle fonti. Il magister equitum, in tale contesto, costituisce una costante dell’esperienza della dittatura, oltre che un elemento (talora esclusivamente simbolico, ma nondimeno valido) di stabilità per la costituzione della Repubblica romana.
The aim of the study is to reconstruct and analyse the institutional relationship between the dictator and the magister equitum. In the first part of the essay, the figure of the cavalry commander of monarchical age (and his relationship with the rex) is examined in order to trace the possible historical models of the magister equitum of republican age. Subsequently, starting from the character of Spurius Cassius Vecellinus, m.e. in 501 BC, we proceed to the scrutiny of the main prerogatives of the masters of cavalry and their functioning in the face of the superior importance, in the constitutional structures of republican Rome, of the dictator. In particular, among the topics analyzed, specific attention is paid to the social background of the magister equitum, to his possibility of exercising the ius triumphandi, to the right-duty of abdicatio. Retracing certain emblematic episodes in which the theme of the relationship between dictator and magister equitum plays a prominent role – such as the contentio between Quintus Fabius Rullianus and Lucius Papirius Cursor – we try to reconstruct the fundamental aspects that regulate their relationship, until the decline of the dictatorial experience.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind. Continuano ad essere valutati i fuori ruolo delle Università italiane; mentre per gli studiosi stranieri valutazione solo se richiesta.]
[1] Pur tenendo conto delle oscillazioni interpretative circa la posizione costituzionale e l’estensione di imperium del magister equitum (v. infra § 2.4), l’affermazione della sua dipendenza (istituzionale o funzionale) dal dittatore viene presupposta, fra i vari, da Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II.1, 3a ed., Leipzig 1887, 179 s.; R. Cagnat, v. Magister equitum, in Dictionnaire des antiquités Grecques et Romaines, III.2, Paris 1904, 1522 ss.; S. Westermayer, v. Magister equitum, in Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, Supplementband V, Stuttgart 1931, coll. 631 ss.; P. De Francisci, Arcana Imperii, III, Milano 1947 [rist. anast., Roma 1970], 61 ss.; Id., Primordia civitatis, Roma 1959, 610 s.; A. Guarino, La formazione della respublica romana, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité 1, 1948, 95 ss. (ora in Id., Pagine di diritto romano, III, Napoli 1994, dalle cui 41 ss., spec. 49 s. si cita); G.I. Luzzatto, Appunti sulle dittature imminuto iure. Spunti critici e ricostruttivi, in Studi in onore di P. De Francisci, III, Milano 1956, 443 s.; A. Burdese, Manuale di diritto pubblico romano, Torino 1966, 68 ss.; F. De Martino, Storia della costituzione romana, I, 2a ed., Napoli 1972, 280 e 454; V. Arangio-Ruiz, Storia del diritto romano, 7a ed., Napoli 1982, 28; P.M. Martin, L’idée de royauté à Rome, I. De la Rome royale au consensus républicain, Clermont-Ferrand 1982, 302 s.; F. Càssola - L. Labruna, Il dittatore ed il magister equitum, in Lineamenti di storia del diritto romano, 2a ed., sotto la direzione di M. Talamanca, Milano 1989, 164; G. Valditara, Studi sul magister populi. Dagli ausiliari militari del rex ai primi magistrati repubblicani, Milano 1989, spec. 307 ss.; Id., Lo Stato nell’antica Roma, Soveria Mannelli 2008, 32; G. Scherillo - A. Dell’Oro, Manuale di storia del diritto romano, Milano 1990, 146 s.; W. Kunkel - R. Wittmann, Staatsordnung und Staatspraxis der römischen Republik, II. Die Magistratur, München 1995, 717; A. Guarino, Storia del diritto romano, 12a ed., a cura di E. Dovere, Napoli 1998, 245 s.; R. Scuderi, Per la storia del magister equitum, sottoposto o collega minor del dittatore, in Magister. Aspetti culturali e istituzionali. Atti del Convegno (Chieti, 13-14 novembre 1997), a cura di G. Firpo e G. Zecchini, Alessandria 1999, 27 ss.; C. Gizewski, v. Magister equitum, in Der Neue Pauly. Enzyklopädie der Antike, VII, Stuttgart 1999, col. 674; C. Masi Doria, Spretum imperium. Prassi costituzionale e momenti di crisi nei rapporti tra magistrati nella media e tarda repubblica, Napoli 2000, 137 ss.; Ead., Sulla posizione costituzionale del magister equitum, in Ead., Poteri magistrature processi nell’esperienza costituzionale romana, Napoli 2015, 43 ss. (già, con il titolo Nota minima sulla posizione costituzionale del magister equitum, in Studi in onore di A. Metro, IV, a cura di C. Russo Ruggeri, Milano 2010, 115 ss.); L. Fascione, Manuale di Diritto Pubblico Romano, Torino 2013, 44; R. Fercia, Profili giuridici e contenuti politici del rapporto tra coercitio del dictator e tribunicia intercessio, in La dittatura romana, I, a cura di L. Garofalo, Napoli 2017, 135 ss., spec. 139 ss.; A. Milazzo, Sul carattere ‘straordinario’ della magistratura del dittatore: alcune riflessioni su emergenza e periodicità nella sua nomina, in La dittatura romana, I, cit., 237 s.; A. Triggiano, L’abdicatio del dictator, in La dittatura romana, I, cit., 405 s. e 416; A. Zini, Il dictator e il magister populi, in La dittatura romana, II, a cura di L. Garofalo, Napoli 2018, 67; B. Biscotti, Memoria civica e rappresentazione del potere. Il dittatore e il cavallo, in La dittatura romana, II, cit., 213; M. Milani, Anomalie nelle dittature tra il V e il III secolo a.C., in La dittatura romana, II, cit., 370 s. e 400. Esprimo profonda riconoscenza verso la Professoressa Carla Masi Doria per la lettura critica del presente lavoro e per le sue edificanti e preziose indicazioni.
[2] A. Momigliano, Il dictator clavi figendi causa, in Quarto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1969, 278 (già in Bullettino della Commissione Archeologica Comunale 58, 1931, 29 ss.). Il romanista riconduce le difficoltà dello studio intorno alle origini del magister equitum alla riflessione di Rosenberg, secondo cui tale figura non ha un esatto riscontro nelle magistrature italiche e, quindi, solo in via ipotetica può essere accostata al magister iuventutis o altri magistrati ad esso simili (A. Rosenberg, Untersuchungen zur römischen Zenturienverfassung, Berlin 1911, 89 ss.).
[3] P. De Francisci, Primordia civitatis, cit., 598 ss., 611, 645 ss.; L. Bessone, L’età regia nel ‘De viris illustribus’, Torino 1980, 82; R. Thomsen, King Servius Tullius. A Historical Synthesis, Copenhagen 1980, 102 s.; A. Mastrocinque, Lucio Giunio Bruto. Ricerche di storia, religione e diritto sulle origini della Repubblica Romana, Torino 1988, 86; G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 137 ss.
[4] G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 141.
[5] G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 142.
[6] G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 145 ss.
[7] G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 143 s. Tale teoria estende quella, più risalente, sostenuta da P. De Francisci, Primordia civitatis, cit., 760 ss.: lo studioso – prendendo le mosse dalla ricerca di Fraccaro in ordine alla creazione dell’ordinamento centuriato e dell’esercito ‘classico’ romano (P. Fraccaro, La storia dell’antichissimo esercito romano e l’età dell’ordinamento centuriato, in Atti del II° Congresso Nazionale di Studi Romani, III, Roma 1931, 91 ss. [ora in Id., Opuscula, II. Studi sull’età della rivoluzione romana, scritti di diritto pubblico, militaria, Pavia 1957, 287 ss.]) – richiama la tesi di Bernardi (A. Bernardi, Dagli ausiliari del rex ai magistrati della respublica, in Athenaeum 30, 1952, 24 ss.) secondo cui non è un caso che gli ὕπαρχοι Tito Erminio e Marco Orazio figurino anche fra i primi consoli dell’età repubblicana e che, anzi, «la caratteristica principale dei due praetores-consules è sempre stata, secondo il Bernardi, quella di comandare una metà dell’esercito ordinario». Meno cauto, rispetto a De Francisci, è proprio Valditara, loc. cit., 144: «non è possibile non riconoscere in questi due ὕπαρχοι un ἡγεμὼν τῶν πεζῶν e un ἡγεμὼν τῶν ἱππέων, cariche affiancate e contrapposte già da Dionigi in 4,3,2».
[8] L’espressione adoperata è: «relitti di un passato ormai troppo lontano per essere completamente compreso» (G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 145).
[9] G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 144.
[10] G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 143.
[11] F. De Martino, Intorno all’origine della repubblica romana e delle magistrature, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt I.1, Berlin-New York 1972, 236.
[12] A. Zini, Il dictator e il magister populi, cit., 31 nt. 135.
[13] V. Ὕπαρχος, in H.G. Liddell - R. Scott, A Greek-English Lexicon, 7a ed., Oxford 1889, 1605.
[14] V. Ἡγεμών, in H.G. Liddell - R. Scott, A Greek-English Lexicon, cit., 641. Anche Valditara rievoca l’uso del termine da parte di Dionigi stesso (Dion. Hal. 4.48.3, 6.1.13) e di Appiano (Bell. civ. 1.97) come sinonimo di dictator, omettendo però di precisare che gli autori di lingua greca cronologicamente più prossimi alla Roma monarchica adoperano la parola con il significato di ‘guida’ (Sophocles, Ant. 1014; Euripides, Hec. 281; Phoen. 1616; Herodotus, Hist. 5.14, 8.31-32; Thucydides, Hist. 7.50; Xenophon, Mem. 1.3.4; Plato, Men. 97b), di ‘colui che mostra il cammino, la strada, il modo’ (Xenophon, Cyr. 1.2.7, 1.5.12; Plato, De leg. 670e; Plato, Lys. 214a; Demosthenes, De cor. 18.24) o, già dall’età omerica, di ‘leader, comandante’, ma senza particolare enfasi sull’assolutezza della carica (Homerus, Il. 2.365, 2.487, 9.85, 11.304; Herodotus, Hist. 6.43, 7.62, 7.158, 9.33; Thucydides, Hist. 8.89). Solamente a partire dal I sec. a.C. il termine viene utilizzato, con riguardo all’ordinamento istituzionale romano, per indicare l’Imperatore (Strabo, Geogr. 4.3.2; Plutarchus, Cic. 2.1) o il governatore provinciale (Strabo, Geogr. 17.3.25; Mt. 27.2; Act. 23.24), figure la cui autonomia politica è certamente più simile a quella del dictator che al suo magister. Considerando che Strabone e Plutarco sono sostanzialmente contemporanei di Dionigi e che, dunque, non è verosimile che costui già abbia interiorizzato il nuovo uso di ἡγεμών da loro ‘introdotto’, è più probabile che lo storico di Alicarnasso, nel narrare le vicende della Roma monarchica, tenti di servirsi di un linguaggio che riecheggi quello dell’epoca, adoperando la parola ἡγεμών con il significato di maestro, condottiero (magister, appunto), ma non dotato di imperium assoluto.
[15] Dion. Hal. 4.85.3: …καὶ γνώμας διερωτήσαντες κατὰ λόχους, ὅ τι χρὴ ποιεῖν, ἐπειδὴ πᾶσιν ἐφάνη κύρια ἡγεῖσθαι τὰ κριθέντα ὑπὸ τῆς πόλεως, οὐκέτι προσδέχονται παραγενηθέντα τὸν Ταρκύνιον.
[16] V. Δικτάτωρ, in H.G. Liddell - R. Scott, A Greek-English Lexicon, cit., 372.
[17] V. Ἵππαρχος, in H.G. Liddell - R. Scott, A Greek-English Lexicon, cit., 705.
[18] V. infra § 3.
[19] A proposito della nomina dell’ἡγεμὼν τῶν ἱππέων, l’esame delle fonti ne dimostra la competenza diretta del rex anche, come vedremo, successivamente alla creazione dei tribuni celerum. Sul punto, però, si registrano due differenti orientamenti: se, da un lato, è opinione condivisa che le riforme dell’esercito di Tarquinio Prisco e Servio Tullio portino al potenziamento del ruolo della fanteria – affidando alla cavalleria un ruolo di supporto strategico – per De Francisci ciò determina anche la sottoposizione gerarchica, oltre che funzionale, del magister equitum (originariamente, ἡγεμὼν τῶν ἱππέων) al magister populi (in principio, ἡγεμὼν τῶν πεζῶν): «può anche immaginarsi che, dapprincipio, tanto il magister equitum quanto il magister populi fossero ambedue creati direttamente dal rex: e che, soltanto in un secondo momento – quando, nel periodo di predominio etrusco, si procedette alle riforme militare per adattare lo ordinamento delle milizie alle necessità della tattica oplitica, e quando le fanterie diventarono il nerbo dell’esercito – sia stato lasciato al magister populi che, quale comandante di questo, aveva una posizione preminente, l’incarico di creare il magister equitum» (P. De Francisci, Primordia civitatis, cit., 612). Per Valditara, invece, è «indubbio però che solo con la repubblica, quando al magister populi spettò anche il ruolo di ‘Oberbefehlshaber’, tale subordinazione assunse un vero e proprio carattere istituzionale, essendo in precedenza in qualche modo temperata dalla presenza del rex, ai cui ordini e nel cui interesse entrambe le cariche esercitavano le proprie funzioni. Se è così, penso che si possa smentire, anche attraverso un’interpretazione delle fonti in nostro possesso, quella tesi che considerava la nomina del magister equitum di competenza del magister populi già in età regia» (G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 302). Anzi, prosegue lo studioso, «sarebbe stato certamente pericoloso consentire al magister populi di nominare un suo uomo di fiducia a capo della cavalleria. È semmai più logico supporre che, magari anche per creare un contraltare al potere del magister populi, il rex si riservasse di scegliere un soggetto di propria fiducia, alternandolo poi nel comando dei fanti e dei cavalieri» (G. Valditara, loc. cit., 303). Sulla maggiore «importanza politica della fanteria» e sulla conseguente sottoposizione del magister equitum al magister populi, v. anche F. De Martino, Storia della costituzione romana, I, 2a ed., cit., 280; R.E.A. Palmer, The Archaic Community of the Romans, New York 1970, 217 s.
[20] G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 301.
[21] Sulla supposta coincidenza dell’ἡγεμὼν τῶν ἱππέων con uno dei tribuni celerum, cfr. J.E.G. Roulez, Observations sur divers points obscurs de l’histoire de la constitution de l’ancienne Rome, Bruxelles 1836, 13; C. Bertolini, I celeres e il tribunus celerum. Contributo alla storia della costituzione nell’antica Roma, Roma 1888, 40 ss.; P. Willems, Le droit public Romain, Louvain 1910, 34; P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, I, Torino 1960, 566 nt. 22; A. Rosenberg, Der Staat der alten Italiker. Untersuchungen über die ursprüngliche Verfassung der Latiner, Osker und Etrusker, Berlin 1913, 92; V. Ilari, I celeres e il problema dell’equitatus nell’età arcaica, in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche 98, 1971, 138; G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 149 ss. e 367 ss.; B. Biscotti, Memoria civica e rappresentazione del potere, cit., 210 ss.
[22] Dion. Hal. 2.13.3.
[23] Sulla sospettata corrispondenza fra la figura dell’ἐκατόνταρκος e quella del tribunus celerum, cfr. G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 160, ove tale coincidenza viene giustificata sulla base di quanto sostenuto da Dion. Hal. 2.64.3: Τὴν δὲ τρίτην τοῖς ἡγεμόσι τῶν κελερίων, οὓς ἔφην ἱππεῖς τε καὶ πεζοὺς στρατευομένους φύλακας ἀποδείκνυσθαι τῶν βασιλέων, καὶ γὰρ οὗτοι τεταγμένας τινὰς ἱερουργίας ἐπετέλουν. Lo storico, infatti, riferisce di più comandanti dei celeres (‘ἡγεμόνες τῶν κελερίων’), che nel passo 2.13.3 sono chiamati ‘ἐκατόνταρχοι’.
[24] Il problema viene sollevato in G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 145: «L’esistenza del ricordo di uno specifico ruolo di comandante unico, unita alla difficoltà di chiarirne con maggiore precisione la terminologia, è esemplarmente riassunta in 2,13,3 ove l’Alicarnassense, pur attestando che a capo dei tre tribuni celerum (ἐκατόνταρχοι) vi era un unico ἡγεμών, non era tuttavia in grado di precisarne il nome tecnico. Qui la tradizione aveva inoltre spostato all’epoca di Romolo un corpo, quello dei celeres, che era stato invece creato, come si chiarirà, all’epoca dell’etrusco Tarquinio Prisco. Ciò rientrava in quel fenomeno più volte sottolineato di anticipazione all’età romulea di istituti di origine etrusca». Per il prosieguo della riflessione dello studioso sull’attribuzione a Tarquinio Prisco della creazione dei celeres e sulla loro regolamentazione, v. G. Valditara, loc. cit., 149 ss. e 367 ss.
[25] G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 162.
[26] G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 163. Benché non condivida la retrodatazione dell’istituzione dei tribuni celerum ad un momento anteriore alla riforma serviana, già De Francisci aderisce all’idea di subordinazione di questi ultimi al magister equitum, così come dei tribuni militum al magister populi (P. De Francisci, Primordia civitatis, cit., 759 e 764: «[…] nel periodo di crisi della monarchia, si sia dovuto ricorrere ad una divisione dell’esercito in due grossi reparti perché la situazione imponeva la necessità di essere preparati ad una guerra su due fronti, reparti il cui comandante poteva pure portare già il titolo di praetor, con potere, a lui attribuito dal rex, superiore sia a quello degli antichi tribuni celerum sia a quello dei tribuni militum»).
[27] Così G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 168: «[…] ben difficilmente un semplice tribunus celerum, però, avrebbe avuto tanto potere e tanta influenza. In ogni caso se Bruto equitibus praeerat, non appare credibile che potesse farlo in qualità di tribunus celerum posto che il corpo dei celeres sembra fosse costituito da soli 300 uomini, mentre noi sappiamo che all’epoca di Servio Tullio la cavalleria fu portata a complessive sei centurie». La tesi di Valditara è richiamata da A. Zini, Il dictator e il magister populi, cit., 60 nt. 305 e da B. Biscotti, Memoria civica e rappresentazione del potere, cit., 213. Viceversa, in A. Koptev, Lucretia’s Story in Literature and the Rites of Regifugium and Equirria, in Studies in Latin Literature and Roman History, XI, edited by C. Deroux, Bruxelles 2003, 20 s. vengono sovrapposte le figure del magister equitum e del tribunus celerum, senza menzione dell’ἡγεμὼν τῶν ἱππέων, sostenendo che la carica straordinaria di luogotenente del re è tanto importante da garantire a Bruto la possibilità di succedere al trono. Tale dato, tuttavia, non si riscontra agevolmente nelle fonti esaminate (e richiamate dallo stesso Koptev).
[28] G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 165, il quale aderisce alla tesi esposta da P.M. Martin, L’idée de royauté à Rome, I, cit., 65 ss.
[29] G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 170. A sostegno della tesi secondo cui la tradizione avrebbe erroneamente ricordato l’esistenza di un comandante unico dei celeres in età monarchica, Valditara riporta il resoconto di Virgilio contenuto in Aen. 9.370. Il testo completo è 9.367-370: Interea praemissi equites ex urbe Latina, / cetera dum legio campis instructa moratur, / ibant et Turno regi responsa ferebant, / ter centum, scutati omnes, Volcente magistro. Tuttavia, a nostro avviso, il contenuto di tale passo dell’Eneide non è pienamente affidabile (neanche nella sua presunta erroneità), per due ragioni. La prima è di carattere storico: infatti è noto che la figura di Turno, re dei Rutuli di Ardea e nemico di Enea, risale in realtà all’epoca di Tarquinio il Superbo, come indicato da Livio (Livius 1.50 e 1.57) e non all’età ben anteriore in cui è orientativamente ambientato il racconto dell’Eneide (cfr. L. Crosato, Spunti per ulteriori ricerche sulla protostoria di Roma, I. Tracce di tradizioni storiche romane di età arcaica, Milano 2004, 19 nt. 36: «Secondo E. Pais, […], la leggenda virgiliana suppone accaduto in età remota ciò che probabilmente avvenne non prima del secolo VI o VII a.C. Suggestiva la tesi di M. Sordi [Virgilio e la storia romana del IV sec. a.C., “Athenaeum”, 1964, 80-100], secondo la quale Virgilio consapevolmente trasferì nella sua ricostruzione del mito di Enea nel Lazio la storia di Roma dalla guerra con Veio alla rappacificazione con i Latini dopo l’invasione dei Galli, sostituendo i nomi dei personaggi storici con altri tramandati da tempi remoti»). Alla luce di tanto, non è agevole comprendere la misura della sovrapposizione storica operata da Virgilio né, per conseguenza, l’effettivo momento da cui il Poeta avrebbe tratto la figura del tribuno di grado unico. La seconda ragione scaturisce dall’analisi del dato testuale. L’ablativo assoluto ‘Volcente magistro’, riferito al comando dei ‘ter centum, scutati omnes’, non necessariamente implica l’intento dell’autore di richiamare un tribunus celerum ‘unitario’, confondendolo con un magister equitum. A nostro avviso, infatti, il sostantivo ‘magister’, nel caso di specie, si riferisce all’attività di guida esercitata da Volcente e non allude alla nomenclatura designante la carica che costui rivestiva durante l’operazione militare. Considerato che l’intero racconto è immerso in una dimensione mitica – la quale soltanto parzialmente attinge a dati storicamente verificabili – non riteniamo che il testo sia utile a provare l’esistenza del ricordo di un tribunus celerum di grado unico. Anzi, volendo attribuire al racconto virgiliano un rilievo tecnico, potremmo diversamente sostenere che Volcente, magister, sia ἡγεμὼν τῶν ἱππέων e non tribunus celerum. Per le altre fonti richiamate da Valditara, v. infra § 3.
[30] Sulla stoltezza di Bruto, cfr. A. Mastrocinque, Lucio Giunio Bruto: caratteri antichi del fondatore della repubblica romana, in Mélanges de l’École française de Rome – Antiquité 131.1, 2019, 10: «Il tema della stupidità di Bruto, che presuppone però la sua perspicacia, doveva essere noto già nel IV secolo a.C., dato che nella gens Iunia qualcuno aggiunse al cognomen Brutus anche Bubulcus, per cui nel 313 si ebbe un console chiamato C. Iunius C.f.C.n. Bubulcus Brutus. Bubulcus non significa solo ‘aratore’, ma anche ‘stupido, rozzo’ e nessuno avrebbe adottato cognomi come questi se non ci fosse stata una ben nota storia che spiegava come la ‘stupidità’ fosse soltanto apparente e simulata, nascondendo una grandissima intelligenza e capacità. E si trattata di una capacità soprattutto auspicale».
[31] G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 310 ss., richiamato anche da A. Zini, Il dictator e il magister populi, cit., 60 nt. 305.
[32] Dion. Hal. 4.71.5: Ταῦτα λέξαντος αὐτοῦ παραλαβὼν τὸν λόγον Οὐαλέριος, «Τὰ μὲν ἄλλα», ἔφησεν, «ὀρθῶς ἐπιλογίζεσθαί μοι δοκεῖς, Ἰούνιε· περὶ δὲ τῆς ἐκκλησίας ἔτι βούλομαι μαθεῖν, τίς ὁ καλέσων ἔσται αὐτὴν κατὰ νόμους καὶ τὴν ψῆφον ἀναδώσων ταῖς φράτραις. Ἄρχοντι γὰρ ἀποδέδοται τοῦτο πράττειν· ἡμῶν δ᾽ οὐδεὶς οὐδεμίαν ἀρχὴν ἔχει».
[33] Dion. Hal. 4.72.1: Ὡς δὲ τοῦτ᾽ἤκουσαν ἅπαντες, ἐπῄνεσάν τε καὶ ὡς ἀπὸ καλῆς ὑποθέσεως ἀρξάμενον καὶ νομίμου τὰ λοιπὰ λέγειν αὐτὸν ἠξίουν ….
[34] G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 170. Lo studioso, alla pagina seguente, anche sulla scorta di un testo di Plinio (Nat. hist. 33.35), osserva che «tutta la tradizione, anche se in modo implicito, sembra tra l’altro presupporre il carattere esclusivamente monarchico di questo corpo, che non viene più menzionato nelle fonti a partire dai primi anni della repubblica». Così già A. Momigliano, Osservazioni sulla distinzione fra patrizi e plebei, in Quarto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, cit., 431 (già in Les Origines de la République Romaine. Vandoeuvres-Genève 29 août - 4 septembre 1966, Genève 1967, 199 ss.).
[35] G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 145.
[36] G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 173.
[37] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., passim.
[38] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 137 ss.
[39] Così C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 144.
[40] S. Mazzarino, Dalla monarchia allo stato repubblicano, Catania 1945, 195.
[41] G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 308.
[42] Dion. Hal. 3.40.4, 3.41.4, 4.3.2, 4.6.4. Per l’esame delle fonti citate, v. supra § 1.
[43] M.A. Fenocchio, Plebità e dittatura: le relazioni nel primo secolo della repubblica romana, in La dittatura romana, I, cit., 107 ss., con citazione di ulteriore letteratura in materia.
[44] Tanto viene puntualmente osservato da C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 205 s.
[45] M.A. Fenocchio, Plebità e dittatura, cit., 108 s.: «per alcuni studiosi la dictatura avrebbe trovato applicazione – più o meno importante, più o meno originaria – come strumento in mano all’aristocrazia patricia per comprimere le istanze dell’ordine inferiore». In appoggio a tale orientamento vengono citati R.-A. de Vertot, Histoire des révolutions arrivées dans le gouvernement de la République romaine, I, Paris 1824, 65 e 67; v. Dictator, in A Dictionary of Greek and Roman Antiquities, 2a ed., edited by W. Smith, Boston 1859, 405; L. Lange, Römische Alterthümer, I, 3a ed., Berlin 1876, 583; Th. Reinach, De l’état de siège. Étude historique et juridique, Paris 1885, 16; A. De Marchi, Sulla costituzionalità del senatus consultum ultimum. Nota 2a, in Rendiconti / Reale Istituto Lombardo di scienze e lettere, 2a serie, 35.11, 1902, 225 ss.; L. Labruna, Tito Livio e le istituzioni giuridiche e politiche dei Romani. Testi interpretati, Napoli 1984, 104 s. e 124 s.; Id., Adversus plebem dictator, in Index 15, 1987, 289 ss. (ora in Dictatures. Actes de la Table Ronde réunie à Paris les 27 et 78 février 1984, édités par F. Hinard, Paris 1988, 49 ss. e in Id., ‘Genera iuris institutorum morum’. Studi di storia costituzionale romana, Napoli 1998, 25 ss.); A. Momigliano, Roma arcaica, Firenze 1989, 249; G. Poma, Su Livio, VII, 17, 6: dictator primus e plebe, in Rivista Storica dell’Antichità 25, 1995, 83 nt. 58; A. Dosi, Le istituzioni tra monarchia e repubblica, Roma 1999, 59 nt. 7; in parte anche C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 205 s.; A. Siles Vallejos, La dictadura en la República romana clásica como referente paradigmatico del régimen de excepción constitucional, in Derecho PUPC 73, 2014, 417.
[46] M.A. Fenocchio, Plebità e dittatura, cit., 109: «[...] per altri, invece, essa avrebbe garantito, per quanto possibile, una composizione dei due pur contrapposti interessi in campo, quelli del patriziato e della plebe». Fra i sostenitori di tale orientamento, che l’autore definisce «attualmente poco o per nulla accreditato specie in ambito romanistico» (loc. cit., 109 s.), si annoverano A. Bernardi, Ancora sulla costituzione della primitiva repubblica romana, in Rendiconti / Reale Istituto Lombardo. Classe di lettere, scienze morali e storiche 79, 1945-1946, 19; A. dell’Oro, La formazione dello stato patrizio-plebeo, Milano-Varese 1950, 212 ss.; P. Catalano, A proposito dei concetti di ‘rivoluzione’ nella dottrina romanistica contemporanea. (Tra rivoluzione della plebe e dittature rivoluzionarie), in Studia et Documenta Historiae et Iuris 43, 1977, 451 e nt. 47; C. Nicolet, La dictature à Rome, in Dictatures et légitimité, sous la direction de M. Duverger, Paris 1982, 74 (ora in Dictatorship in Rome, in Dictatorship in History and Theory. Bonapartism, Caesarism, and Totalitarism, edited by P. Baehr and M. Richter, Cambridge 2004, 268); G. Meloni, Dottrina romanistica, categorie giuridico-politiche contemporanee e natura del potere del dictator, in Dittatura degli antichi e dittatura dei moderni, a cura di G. Meloni, Roma 1983, 90; Id., Dictatura popularis, in Dictatures. Actes de la Table Ronde réunie à Paris les 27 et 78 février 1984, cit., 84 s.
[47] M.A. Fenocchio, Plebità e dittatura, cit., 110, introduce la propria indagine osservando che questo tipo di approccio «sembra hic iam dare complessiva ragione dell’insieme di funzioni storicamente svolte dal dittatore in Roma antica; del resto, uno studioso come il Gabba ha opportunamente rilevato a suo tempo “molti aspetti di artificialità” nella costruzione talora presentata di una dictatura “impiegata come strumento aristocratico antiplebeo”».
[48] A. Momigliano, Osservazioni sulla distinzione fra patrizi e plebei, cit., 431.
[49] A. Bernardi, Ancora sulla costituzione della primitiva repubblica romana, cit., 21.
[50] Dion. Hal. 5.75.2, 5.75.4; Livius 2.18.5; Eutropius 1.12; Lydus, Mag. 1.37; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, Breslau 1910, 4 ss.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I. 509 B.C.-100 B.C., Cleveland 1951 [rist. Ann Arbor, 1968, da cui si cita], 9.
[51] Dion. Hal. 5.70.4, 73.1, 75.1, 77.1; Livius 2.18.3-11; Cicero, De rep. 2.56; D. 1.2.2.18 (Pomponius libro singulare enchiridii); Eutropius 1.12; Orosius 375; Macrobius, Sat. 1.8.1; Lydus, Mag. 1.37; Malalas 45 (in FHG IV.555); Zonaras 7.13-14; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 4 ss.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, Roma 1947, 88 e 350 ss.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 9.
[52] Livius 2.18.
[53] Dion. Hal. 5.63.1-5.73.1.
[54] Dion. Hal. 5.63.1: Παρασκευαζόμενοι δὲ τὰ εἰς τὸν πόλεμον ἐπιτήδεια καὶ τὰς δυνάμεις ἀρξάμενοι καταγράφειν, εἰς πολλὴν ἐνέπιπτον ἀμηχανίαν, οὐ τὴν αὐτὴν ἁπάντων προθυμίαν εἰς τὰ ἔργα παρεχομένων. Οἱ γὰρ ἐνδεεῖς βίου καὶ μάλιστα οἱ τὰ χρέα τοῖς συμβαλοῦσι διαλῦσαι οὐ δυνάμενοι πολλοὶ σφόδρα ὄντες οὐχ ὑπήκουον ἐπὶ τὰ ὅπλα καλούμενοι οὐδ’ἐβούλοντο κοινωνεῖν οὐδενὸς ἔργου τοῖς πατρικίοις, εἰ μὴ ψηψίσαιντο αὐτοῖς χρεῶν ἄφεσιν ἀλλὰ καὶ καταλείψειν τινὲς αὐτῶν τὴν πόλιν ἔλεγον καὶ παρεκελεύοντο ἀλλήλοις μὴ φιλοχωρεῖν πόλει μηδενὸς αὐτοῖς ἀγαθοῦ μεταδιδούσῃ...
[55] Dion. Hal. 5.64.1: …τοῦ κληθέντος διὰ τὴν εἰς τὸ δημοτικὸν εὔνοιαν Ποπλικόλα…
[56] Dion. Hal. 5.65.1: …ἄφεσιν χρεῶν ψηφισαμένην τοῖς ἀπόροις Σόλωνος καθηγησαμένου, καὶ οὐθένα τῇ πόλει τοῦ πολιτεύματος τοῦδε ἐπιτιμᾶν οὐδὲ τὸν εἰσηγησάμενον αὐτὸ δημοκόπον καὶ πονηρὸν ἀποκαλεῖν…
[57] Dion. Hal. 5.69.2: Τοιούτων δέ τινων λεχθέντων ἡ νικῶσα ἦν γνώμη, μηθὲν ἐν τῷ παρόντι γενέσθαι περὶ αὐτῶν προβούλευμα· ὅταν δὲ τὸ κράτιστον τέλος οἱ πόλεμοι λάβωσι, τότε προθεῖναι τοὺς ὑπάτους λόγον καὶ ψῆφον ἀναδοῦναι τοῖς συνέδροις· τέως δὲ μηδεμίαν εἴσπραξιν εἶναι μήτε συμβολαίου μηθενὸς μήτε καταδίκης μηδεμιᾶς, ἀφεῖσθαι δὲ καὶ τὰς ἄλλας ἀμφισβητήσεις πάσας, καὶ μήτε τὰ δικαστήρια καθίζειν μήτε τὰς ἀρχὰς διαγινώσκειν περὶ μηθενὸς ἔξω τῶν εἰς τὸν πόλεμον ἀνηκόντων.
[58] F. Pulitanò, Le funzioni del dittatore: riflessioni sulla prima pentade di Tito Livio, in La dittatura romana, I, cit., 53 nt. 26. Emilio Gabba (Dionigi e la dittatura a Roma, in Tria corda. Scritti in onore di A. Momigliano, a cura di E. Gabba, Como 1983, 224) descrive la dittatura come «strumento risolutore in una contingenza carica di contrasti». Secondo la lettura di Cavaggioni, Dionigi prospetta la nomina di Larcio «come un mezzo, disposto dal senato, per aggirare la lex Valeria de provocatione e ridurre la plebe all’obbedienza tramite il ricorso a una vera e propria ‘tirannide elettiva’» (F. Cavaggioni, Tito Livio e gli esordi della dittatura, in La dittatura romana, I, cit., 13).
[59] A. Bernardi, Patrizi e Plebei nella Costituzione della primitiva Repubblica Romana, in Rendiconti / Reale Istituto Lombardo. Classe di lettere, scienze morali e storiche 79, 1945-1946, 8, richiamato anche da E. Gabba, La proposta di legge agraria di Spurio Cassio, in Athenaeum 42, 1964, 29 nt. 1 (ora in Id., Roma arcaica. Storia e storiografia, Roma 2000, 129 nt. 1); G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 303. Di diverso avviso G. De Sanctis, Sul foedus Cassianum, in Scritti minori, IV. 1920-1930, Roma 1976, 322 (già in Atti del I Congresso Nazionale di Studi Romani, aprile 1928, Roma 1929, 233): «È verissimo che i Cassi i quali compaiono nei Fasti Consolari a partire dal 171 av. Cr. sono plebei; ma questo non impedisce in alcun modo che vi sia stata circa il 500 una gente Cassia patrizia, poi estinta, la quale potrebbe aver dato il nome ai Cassi plebei così come i Claudi patrizi hanno dato il nome ai Claudi Marcelli plebei. E la estinzione della gente patrizia Cassia si spiega assai facilmente se ha qualche base il racconto tradizionale della condanna a morte di Cassio e della demolizione delle sue case».
[60] Dion. Hal. 5.75.2: …συγγράφω εὐθὺς μὲν οὖν ἅμα τῷ παραλαβεῖν τὴν ἐξουσίαν ἱππάρχην ἀποδείκνυσι Σπόριον Κάσσιον, τὸν ὑπατεύσαντα κατὰ τὴν ἑβδομηκοστὴν ὀλυμπιάδα. Τοῦτο τὸ ἔθος ἕως τῆς κατ᾽ἐμὲ γενεᾶς ἐφυλάττετο ὑπὸ Ῥωμαίων, καὶ οὐθεὶς εἰς τόδε χρόνου δικτάτωρ αἱρεθεὶς χωρὶς ἱππάρχου τὴν ἀρχὴν διετέλεσεν.
[61] Dion. Hal. 5.75.4: …διένειμε πεζούς τε καὶ ἱππεῖς εἰς τέτταρας μοίρας· ὧν μίαν μὲν τὴν κρατίστην περὶ αὑτὸν εἶχεν, ἐκ δὲ τῶν ὑπολειπομένων Κλοίλιον ἐκέλευσε τὸν συνύπατον ἣν αὐτὸς ἐβούλετο λαβεῖν, τὴν δὲ τρίτην Σπόριον Κάσσιον τὸν ἱππάρχην, τὴν δὲ καταλειπομένην τὸν ἀδελφὸν Σπόριον Λάρκιον…
[62] T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 8.
[63] Livius 2.17.
[64] Dion. Hal. 5.49.
[65] T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 14.
[66] T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 20.
[67] Sulla questione relativa alla lex agraria e sul processo a Spurio Cassio, vd. Cicero, De rep. 2.60; Dion. Hal. 8.77.2-80; Livius 2.41.11; Val. Max. 5.8.2; cfr. E. Gabba, La proposta di legge agraria di Spurio Cassio, cit., passim; Id., Dionigi d’Alicarnasso sul processo a Spurio Cassio, in La storia del diritto nel quadro delle scienze storiche. Atti del I Congresso internazionale della Società Italiana di Storia del Diritto, Firenze 1966, 143 ss. (ora in Roma arcaica. Storia e storiografia, cit., 141 ss.); F. D’Ippolito, La legge agraria di Spurio Cassio, in Labeo 21, 1975, 197 ss.; D. Capannelli, Appunti sulla rogatio agraria di Spurio Cassio, in Legge e società nella repubblica romana, I, a cura di F. Serrao, Napoli 1981, 3 ss., 5 ss.; F. Salerno, Dalla consecratio alla publicatio bonorum, Napoli 1990, 80 ss.; R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996, 375 ss.
[68] Livius 6.39.1; Plutarchus, Cam. 39.2; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 32 s., 103 s., 398 s.; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 47 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 112.
[69] Livius 6.39.3-4; Plutarchus, Cam. 39.5; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 32 s., 103 s., 398 s.; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 47 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 112 s., spec. 113 nt. 2: «Plut. and Dio name him Stolo and identify him with the Tribune of the Plebs (cf. also Liv. 10.8.8, in a speech), but there Livy’s phrase ‘qui tribunus militum fuerat’ differentiates the Master of Horse from the Tribune of the Plebs in office and so makes it possible to identify him with Calvus who, according to the Fast. Cap., was Consul in 364, or according to Livy, in 361».
[70] M.A. Fenocchio, in Plebità e dittatura, cit., 112.
[71] Il dubbio viene sollevato da C. Masi Doria, Sulla posizione costituzionale del magister equitum, cit., 46. Effettivamente nelle fonti l’espressione ‘propinqua cognatio’ designa un legame di parentela stretta (Nepos, De excel. duc. praef.; Livius 19.40), ma non si dispone di elementi ulteriori per confermare o smentire la consanguineità suggerita da Livio. Tale ostacolo è amplificato dalle perplessità relative alla corretta identificazione del personaggio (v. nota precedente, ma anche C. Masi Doria, loc. cit., 45 nt. 10). È stato anche osservato da Luciano Perelli (in una nota critica contenuta in Tito Livio, Storie, VI-X, a cura di L. Perelli, Moncalieri 1979, 148 nt. 1) che la «parentela di Licinio tribuno della plebe con Licinio maestro della cavalleria poteva favorire la composizione del dissidio tra gli organi dello stato patrizio e i tribuni della plebe», tuttavia riteniamo difficile conciliare tale suggestiva lettura con il dato testuale: sembrerebbe, infatti, che il dictator adduca il proprio legame di propinqua cognatio con il magister equitum – e non una generica parentela ‘illustre’ del maestro di cavalleria – quale giustificazione della propria scelta.
[72] Livius 6.39.1-2: [1] Inter priorem dictaturam abdicatam novamque a Manlio initam ab tribunis velut per interregnum concilio plebis habito apparuit quae ex promulgatis plebi, quae latoribus gratiora essent. [2] Nam de fenore atque agro rogationes iubebant, de plebeio consule antiquabant; et perfecta utraque res esset, ni tribuni se in omnia simul consulere plebem dixissent.
[73] Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II.1, 3a ed., cit., 176. Concorde opinione in R. Scuderi, Per la storia del magister equitum, cit., 28 nt. 5.
[74] F.J. Vervaet, The Scope and Historic Significance of the Lex Metilia de aequando M. Minuci magistri equitum et Q. Fabi dictatoris iure (217 B.C.E.), in Studia et Documenta Historiae et Iuris 73, 2007, 227.
[75] C. Masi Doria, Sulla posizione costituzionale del magister equitum, cit., 46.
[76] C. Masi Doria, ibidem, s.: «Non si tratta solo e tanto di equilibrio nel binomio (probabilmente non del tutto antitetico) tra ‘Staatsrecht’ e ‘Verfassungsgeschichte’, quanto di inquadramenti storici necessari delle diverse ‘regole’. E bisogna – nel contempo – essere molto cauti sui riferimenti di contesto e nell’analisi delle fonti: l’operazione dello studioso sotto questi profili appare, invece, piuttosto spregiudicata».
[77] Sul ius triumphandi è imprescindibile lo studio di A. Petrucci, Il trionfo nella storia costituzionale romana dagli inizi della repubblica ad Augusto, Milano 1996. Sul suo valore sacro e giuridico, cfr. Id., Corso di diritto pubblico romano. Ristampa emendata, Torino 2017, 368: «La dimensione sacrale di festa di ringraziamento per un’impresa bellica felicemente condotta, dove il vincitore era accostato o addirittura identificato con la suprema divinità, varcava il pomerium senza deporre l’imperium militare e perdere i connessi auspicia ed era seguito ed esaltato dall’esercito in armi, spiega perché, fin ab antiquo, la disciplina del triumphus abbia assunto particolare rilievo anche sotto il profilo del diritto interno». Si vedano anche G. Schön, Das Capitolinische Verzeichnis der römischen Triumphe, Wien 1893; C. Rohde, v. Ovatio, in Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, XVIII.2, Stuttgart 1942, coll. 1890 ss.; G.V. Sumner, A New Reading in the Fasti Triumphales Capitolini, in Phoenix 9, 1965, 24 ss.; J. Poucet, Romains, Sabins et Samnites. Réflexions sur les événements de 304 a.C. n., sur les contacts romano-sabins aux Ve et IVe siècles, sur les triomphes de la gens Sulpicia, et sur la valeur de Fastes triomphaux, in L’Antiquité Classique 40, 1971, 134 ss.; R. Develin, Tradition and the Development of Triumphal Regulations in Rome, in Klio 40, 1985, 429 ss.; J. Engels, Die exempla-Reihe de iure triumphandi. Römisch-republikanische Werte und Institutionen im frühkaiserzeitlichen Spiegel der ‘facta et dicta memorabilia’ des Valerius Maximus, in Identità e valori. Fattori di aggregazione e fattori di crisi nell’esperienza politica antica, a cura di A. Barzanò, C. Bearzot, F. Landucci, L. Prandi e G. Zecchini, Roma 2001, 139 ss.; G. Firpo, ‘Allora per la prima volta si celebrò un trionfo per ordine del popolo, senza il consenso del senato’ (Liv. 3.63.11; cf. Dion. Hal. 11.50.1). Qualche considerazione di metodo, in Athenaeum 95, 2007, 97 ss.; J. Armstrong, Claiming Victory: the Early Roman Triumph, in Rituals of Triumph in the Mediterranean World, edited by A. Spalinger and J. Armstrong, Leiden 2013, 7 ss.; C.H. Lange, Triumph and Civil War in the Late Republic, in Papers of the British School at Rome 81, 2013, 67 ss.; J. Rich, The Triumph in the Roman Republic: Frequency, Fluctuation and Policy, in The Roman Republican Triumph Beyond the Spectacle, edited by C.H. Lange and F.J. Vervaet, Roma 2014, 197 ss.
[78] Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, I, 3a ed., Leipzig 1887, 126 ss. L’interpretazione di Mommsen sul trionfo, della quale non è possibile rendere esaustivamente conto in questa sede, è oggetto di approfondito esame e dibattito, attinente tanto alla natura sacrale, religiosa o intermedia del ius triumphandi, tanto al tema della titolarità. Si rinvia alle sedi della discussione: R. Laqueur, Über das Wesen des römischen Triumphs, in Hermes 44, 1909, 215 ss.; G. Beseler, Triumph und Votum, in Hermes 44, 1909, 352 ss.; R. Cagnat, v. Triumphus, in Dictionnaire des antiquités Grecques et Romaines, V, Paris 1919, 488 s.; W. Ehlers, v. Triumphus, in Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, Supplementband VII A.1, Stuttgart 1939, col. 493; H.S. Versnel, Triumphus. An Inquiry into the Origin, Development and Meaning of the Roman Triumph, Leiden 1970, 168 ss. Tra le più recenti critiche alla teoria mommseniana sulla relazione fra imperium e auspicium, anche come presupposti del ius triumphandi, cfr. F.J. Vervaet, The High Command in the Roman Republic. The Principle of the ‘summum imperium auspiciumque’ from 509 to 19 BCE, Stuttgart 2014, 68 ss.
[79] A. Petrucci, Il trionfo nella storia costituzionale romana dagli inizi della repubblica ad Augusto, cit., 66.
[80] F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 9 s.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 88 e 352 s.; per un’indicazione delle numerose fonti in cui viene menzionato il personaggio, nonché per un ragguaglio circa le due diverse datazioni, T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 10 s.; v. anche F. Mora, Fasti e schemi cronologici. La riorganizzazione annalistica del passato remoto romano, Stuttgart 1999, 157.
[81] Dion. Hal. 6.2.3, 4.4, 5.5, 11.3; Livius 2.19.3, 2.19.7-9, 2.20.13; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 9 s.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 88 e 352 s.
[82] CIL I2.1, 169: A. Postu[mius P. f.-. n. Albus] Regil[lensis dict. de Latineis …]. Tale trionfo viene ritenuto autentico anche in F. Mora, Fasti e schemi cronologici, cit., 168.
[83] A. Petrucci, Il trionfo nella storia costituzionale romana dagli inizi della repubblica ad Augusto, cit., 65.
[84] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 150.
[85] F.J. Vervaet, The Scope and Historic Significance of the Lex Metilia de aequando M. Minuci magistri equitum et Q. Fabi dictatoris iure (217 B.C.E.), cit., 226: «Although the historicity of this statement is most doubtful, if only because the Fasti Triumphales only record the dictator’s triumph, it nonetheless further strengthens the conclusion that as a holder of (law)ful(l) imperium auspiciumque, the magister equitum was perfectly qualified to triumph».
[86] F.J. Vervaet, ibidem, nt. 19: «Petrucci endorses the view that the magister equitum could not take the auspices and was barred from triumphal honours, given “la posizione subordinata che il magister equitum presenta sempre nei confronti del dittatore”. […] he is wrong to believe that the magister equitum was not qualified to celebrate full triumphal honours», associando il pensiero di Petrucci alla tesi esposta da W. Kunkel - R. Wittmann, Staatsordnung und Staatspraxis der römischen Republik, II, cit., 309, secondo cui il magister equitum non poteva celebrare il trionfo «als Gehilfen des Diktators».
[87] A. Petrucci, Il trionfo nella storia costituzionale romana dagli inizi della repubblica ad Augusto, cit., 51.
[88] A. Petrucci, Il trionfo nella storia costituzionale romana dagli inizi della repubblica ad Augusto, cit., 66. V. anche C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 150: «se il dittatore era presente alla battaglia e dunque aveva preso lui stesso gli auspici, mi sembra difficile ipotizzare la condizione formale del trionfo». V. anche F.J. Vervaet, The High Command in the Roman Republic, cit., 71 ss.
[89] A. Guarino, Il dittatore appiedato, in Labeo 25, 1979, 11 ss. (da cui si cita, ma ora anche in Id., Pagine di diritto romano, III, cit., 128 ss.).
[90] Vi è la possibilità che un caso di questo tipo si sia verificato nel 429 a.C. con il magister equitum Aulo Cornelio Cosso. Del problema di identificazione dell’esatta carica (console o maestro di cavalleria) rivestita da Cornelio Cosso in quell’anno, si occupa Petrucci, particolarmente attento al racconto tramandato da Livius 4.20.1-11. Non è chiaro, però, se la consacrazione delle spoglie opime del lars Tolumino da parte di Cornelio sia avvenuta nell’anno «in cui ricoprì la carica di magister equitum e realizzò alteram insignem pugnam equestrem. Se pensiamo che, secondo il Patavino solo il comandante cuius auspicio bellum geritur può catturare e dedicare queste spoglie, ne dovrebbe discendere, oltre ad un’ovvia identificazione o a un necessario collegamento fra tale cerimonia e trionfo, anche la possibilità per il comandante della cavalleria di prendere gli auspici e di trionfare in caso di esito felice della guerra. Una simile soluzione tuttavia appare assai inverosimile, dato lo stridente contrasto con la posizione subordinata che il magister equitum presenta sempre nei confronti del dittatore» (Il trionfo nella storia costituzionale romana dagli inizi della repubblica ad Augusto, cit., 66; v. anche loc. cit., 38 s. e 39 nt. 77 con ulteriore bibliografia citata).
[91] F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 89 ss.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 70 s., 108, 414 s. e 541 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 147 ss.
[92] F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 89 ss.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 104 e 414 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 147 ss.; F. Giumetti, Prima che il gallo canti. A proposito della dictio del dictator tra diritto, antropologia e storia delle religioni, in La dittatura, I, cit., 95.
[93] Livius 8.29.10.
[94] V. infra § 2.4.1. La più esaustiva risorsa sulla contentio fra Papirio Cursore e Fabio Rulliano rimane C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 15 ss. Il problema del ius triumphandi, connesso al caso di specie, viene evidenziato anche in A. Petrucci, Il trionfo nella storia costituzionale romana dagli inizi della repubblica ad Augusto, cit., 47 s.
[95] T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 147.
[96] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 28 e 51 ss., con bibliografia ivi citata.
[97] Masi Doria, in Spretum imperium, cit., 32 ss., evidenzia che la richiesta di ritorno a Roma per la repetitio auspiciorum è (pur se agganciata ad una prassi nota ai Romani), nel caso di specie, anomala. L’espressione ‘in Samnium incertis itum auspiciis est’, contenuta in Livius 8.30.1, suggerisce che gli auspici fossero incerti già prima della partenza per il Sannio e, dunque, la romanista si interroga sul perché il dictator venga richiamato all’Urbe per la ripetizione solo dopo essere arrivato all’accampamento. La studiosa, dopo aver ripercorso i casi di regresso alla città per la ripetizione degli auspici tramandati in Servius, Ad Aen. 2.178 e Val. Max. 2.7.4., conclude che la «divinazione al campo aveva probabilmente mostrato che il complesso sacrale della spedizione non era certamente positivo. Essa confermava come incerti gli auspici presi a Roma da Papirio, che lì, allora, pure dovevano essere sembrati non completamente positivi».
[98] Livius 8.30.2: Namque Papirius dictator a pullario monitus cum ad auspicium repetendum Romam proficisceretur, magistro equitum denuntiavit ut sese loco teneret neu absente se cum hoste manum consereret.
[99] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 31.
[100] Tale automatismo evoca quello da noi rintracciato (v. supra § 1) nell’assunzione del comando da parte degli ὕπαρχοι Tito Erminio e Marco Orazio quando Tarquinio Prisco, durante l’assedio di Ardea, ritorna a Roma per tentare di scongiurare la propria cacciata.
[101] Sembra cogliere nel segno C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 280 ss., esaminando il problema della titolarità del diritto alla celebrazione del trionfo a seguito della vittoria riportata nella battaglia delle Egadi (241 a.C.) dal console Caio Lutazio con la fattiva collaborazione del pretore Quinto Valerio. In questo caso, osserva la studiosa (ibidem, 282), che «la situazione di fatto era diversa: Papirio si era allontanato dal teatro delle operazioni, Lutazio era invece solo rimasto in lectica perché (momentaneamente) azzoppato. Inoltre, mentre la controversia tra dictator e magister equitum prese le forme della coercitio e poi quelle della politica, il dissidio tra Lutazio e Valerio si svolse come un processo tra privati». Il giudizio fra i due magistrati, stando al racconto contenuto in Val. Max. 2.8.2., viene risolto favorevolmente per il console, convenuto, al quale lo iudex Atilio Calatino riconosce la prevalenza dell’imperium e degli auspicia.
[102] Livius 7.11.4, 7.11.7-9; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 68 s., 540; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 120.
[103] Livius 7.11.4; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 57; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 34 s., 105, 400 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 120. Sul caso del triumphus consolare, v. Degrassi, loc. cit., 68 s. e 540. A. Petrucci, Il trionfo nella storia costituzionale romana dagli inizi della repubblica ad Augusto, cit., 44 e 51, sostiene che, dall’episodio, il trionfo ne risulta «in apparenza svincolato dalla titolarità del più elevato potere di comando e di auspicio militare».
[104] Da leggere comparando le diverse versioni circa l’andamento della battaglia, di cui viene reso compiutamente conto da C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 36 s. nt. 83 e 37 nt. 84.
[105] Livius 8.30.5.
[106] L’importanza del ruolo del senato nel decretare il trionfo è sottolineata da A. Petrucci, Il trionfo nella storia costituzionale romana dagli inizi della repubblica ad Augusto, cit., 26 ss.; v. anche C. Lundgreen, Rules for Obtaining a Triumph. The ius triumphandi once more, in The Roman Republican Triumph Beyond the Spectacle, cit., 27 ss.
[107] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 41.
[108] V. infra § 2.4.1.
[109] Riceviamo sostegno a tale interpretazione dal dato testuale: infatti la locuzione ‘id factum’ (Livius 8.30.10) indica l’inoltro della lettera al senato come atto a partire dal quale l’ira del dictator diventa inarrestabile.
[110] A. Triggiano, L’abdicatio del dictator, cit., 397 ss.
[111] La studiosa recupera la teoria mommseniana secondo la quale l’abdicatio è un ‘Act des freien Willens’ (espressione citata da Th. Mommsen, Römische Staatsrecht, I, 2a ed., Leipzig 1871, 510): «nel caso delle magistrature straordinarie era sempre necessario cristallizzare il momento dell’abbandono della carica con un atto di rinuncia esplicito; per quelle annuali la scadenza sarebbe avvenuta ipso iure, a prescindere dalla (irrilevante) volontà del magistrato in procinto di uscire di carica» (A. Triggiano, L’abdicatio del dictator, cit., 397).
[112] Diodorus 12.80.7; Livius 4.31.5, 33.7-8, 34.4-5; Val. Max. 3.2.4; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 24 ss.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 96 e 374 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 67.
[113] Sulle incertezze relative alla ricostruzione dell’abbinamento carica-anno di Cornelio Cosso, v. supra nt. 92.
[114] Diodorus 12.80.6-8; Livius 4.31-34; Val. Max. 3.2.4.; Lydus, De mag. 1.38; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 24 ss.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 96 e 374 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 67. Di questo dittatore è nota l’anomala procedura di nomina, compiuta dai tribuni militum consulari potestate, di recente esaminata da M. Milani, Anomalie nelle dittature tra il V e il III secolo a.C., cit., 374 ss. (con bibliografia ivi citata).
[115] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 145 nt. 43.
[116] Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, I, 3a ed., cit., 262 nt. 3.
[117] A. Triggiano, L’abdicatio del dictator, cit., 405.
[118] In questa prospettiva, riteniamo condivisibile l’intima correlazione rintracciata da Masi Doria fra potere di nomina e di destituzione del magister equitum, di cui è titolare il dictator (C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 144 s.).
[119] Per entrambi i magistrati: Livius 8.15.5-6; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 80 s.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 107 e 410 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 139.
[120] Si tratta di una nomina effettuata in tutta fretta e con forte sollecitazione da parte del senato, adirato con i consoli ‘quorum cunctatione proditi socii essent’ (la città di origine degli Aurunci, Sessa Aurunca, viene infatti distrutta dai Sidicini). L’elemento è notato anche da Masi Doria in Spretum imperium, cit., 146 nt. 48. Sul valore dell’intervento augurale, ai fini dell’emersione del vizio relativo alla creatio, si esprime Cascione: «nell’esposizione di tali vicende dictatores e magistri equitum non risultano mai vitio dicti, come vorrebbe l’applicazione conseguente della regola enunciata dalla storiografia, bensì sempre (esattamente come per tutte le altre magistrature) vitio creati. Il dato appare ancor più convincente perché alla dichiarazione del vitium si giunge attraverso un procedimento giuridico (di ius augurale), che non può essere impreciso proprio nel momento in cui rende formalmente noto e dunque stabilizza nella storia il suo risultato. Ciò significa che tali magistrati, per poter svolgere la loro funzione, dovevano aver ricevuto una creatio, effetto della dictio, che non fosse affetta da vizi» (C. Cascione, Dictatorem dicere. Critica di un dogma (moderno) del diritto pubblico romano, in Studi per Giovanni Nicosia, I, Milano 2007, 273 s.).
[121] A. Triggiano, L’abdicatio del dictator, cit., 390 e nt. 32.
[122] Viceversa per A. Triggiano, L’abdicatio del dictator, cit., 417, l’immediatezza della nomina del magister equitum è non di poco conto e «permette, innanzitutto, di evidenziare, ancora una volta, il vero e proprio ‘dovere costituzionale’ incombente sul dittatore di nominare immediatamente il magister equitum».
[123] Diffusamente, C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 137 ss.
[124] Sul tema, v. infra § 2.5.
[125] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 146 s. nt. 49.
[126] P. Pasquino, Il dictator: un magistrato ‘irresponsabile’?, in La dittatura romana, II, cit., 128 s. cui si rinvia per l’esposizione completa dell’articolato antefatto. V. anche C. Venturini, Quaestiones ex senatus consulto, in Legge e società nella repubblica romana, II, a cura di F. Serrao, Napoli 2000, spec. 264 ss.
[127] F. Procchi, Dittatura e provocatio ad populum, in La dittatura romana, I, cit., 225 s.
[128] Livius 9.26.12: ipsos adeo dictatorem magistrumque equitum reos magis quam quaesitores idoneos eius criminis esse intellecturosque ita id esse simul magistratu abissent.
[129] Livius 9.26.13.
[130] Un aspetto, questo, sottolineato dallo stesso dictator in Livius 9.26.14: «Et omnes ante actae vitae vos conscios habeo, Quirites, et hic ipse honos delatus ad me testis est innocentiae meae; neque enim, quod saepe alias, quia ita tempora postulabant rei publicae, qui bello clarissimus esset, sed qui maxime procul ab his coitionibus vitam egisset, dictator deligendus exercendis quaestionibus fuit …». Sul punto v. G.I. Luzzatto, Appunti sulle dittature imminuto iure, cit., 423; G. Nicosia, Sulle pretese figure di dictatores imminuto iure, in Studi in onore di C. Sanfilippo, VII, Milano 1987, 543 nt. 30; M. Milani, Anomalie nelle dittature tra il V e il III secolo a.C., cit., 425 s.
[131] Livius 29.10.2-3, 11.9-11, 30.23.3, 35.8.4; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 141; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 46 s., 120 e 450 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 301.
[132] Livius 29.11.9; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 141; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 302.
[133] L’elemento è sottolineato da C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 199, a sua volta richiamata da A. Triggiano, L’abdicatio del dictator, cit., 416 nt. 106.
[134] Concorde U. Coli, Sui limiti di durata delle magistrature romane, in Studi in onore di V. Arangio-Ruiz, IV, Napoli 1953, 411 nt. 55: «Questa magistratura, inscindibile dalla dittatura, doveva finire con essa. Ma la cessazione automatica al momento dell’uscita di carica è da escludere. Gli esempi di Livio 4. 34. 5, 8. 15. 6, 9. 26. 20 mostrano esser sempre necessaria l’abdicazione del titolare».
[135] Così A. Triggiano, L’abdicatio del dictator, cit., 416: «segno, questo, tra l’altro, di una perdurante prevalenza nei poteri del supremo magistrato rispetto al capo della cavalleria». In verità quello del magister equitum Lucio Veturio Filone non è l’unico caso di maestro di cavalleria la cui destituzione non viene menzionata da Livio. Infatti lo storico patavino, nel narrare la più antica dittatura del 207 a.C. di Marco Livio Salinatore, riferisce della nomina di Quinto Cecilio Metello come magister equitum ma non riporta notizie sulla sua abdicatio. Livius 28.10.4: Comitiis perfectis dictator magistratu abdicato dimissoque exercitu in Etruriam provinciam ex senatus consulto est profectus ad quaestiones habendas… Riteniamo le nostre riflessioni valevoli anche per questo episodio, arricchite dall’impressione che lo stile del racconto liviano, in 28.10, sia ancor di più incalzante e quasi frenetico, riducendosi ad una schematica elencazione di eventi tra i quali non sorprende che la puntualizzazione circa la (scontata) abdicatio di Quinto Cecilio Metello insieme con il dictator possa essere sfuggita. Sulla dittatura del 207 a.C., v. anche Suetonius, Tib. 3.1; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 139 ss.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 46 s., 120, 450 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 295; A. Triggiano, L’abdicatio del dictator, cit., 415 s.
[136] V. infra § 2.7.
[137] A. Spina, 203-82 a.C.: un secolo senza dittatura, in La dittatura romana, II, cit., 510; v. anche C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 204 ss.
[138] Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II.1, 3a ed., cit., 178.
[139] Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II.1, 3a ed., cit., 180.
[140] A. Bernardi, Patrizi e Plebei nella Costituzione della primitiva Repubblica Romana, cit., 5.
[141] S. Mazzarino, Dalla monarchia allo stato repubblicano, cit., spec. 58 ss. e 95 ss.
[142] E. Kornemann, Zur altitalischen Beamtengeschichte, in Klio 14, 1914, 190 ss.; K.J. Beloch, Römische Geschichte bis zum Beginn der punischen Kriege, Berlin-Leipzig 1926, 77 ss. e 231 ss.; in parte anche V. Arangio-Ruiz, Storia del diritto romano, 7a ed., cit., 25 ss.
[143] A. Guarino, La formazione della respublica romana, cit., 95 ss. (ora in Id., Spunti di storia costituzionale, 41 ss., dalla cui p. 54 si cita): «Quanto allo specifico processo storico, che permise sin dall’inizio, come naturale ed ovvio, il ricorso ad una magistratura suprema di carattere collegiale e paritetico, vi è modo di rendersene conto analizzando gli eventi dei sec. V e IV a.C., sì da spiegarlo in maniera ben più verosimile, credo, che non con l’ipotesi della parificazione del magister equitum al dictator, o anche con quella di una creazione dal nulla». Questo orientamento viene ribadito in A. Guarino, Storia del Diritto Romano, 12a ed., Napoli 1998, 74.
[144] F. De Martino, Storia della Costituzione Romana, I, 1a ed., Napoli 1951, 227.
[145] G.I. Luzzatto, Appunti sulle dittature imminuto iure, cit., 443; ma anche Id., Rassegna epigrafica greco-romana (IV) (1950-1954), in Iura 8, 1957, 183.
[146] V. infra § 2.7.
[147] P. De Francisci, Primordia civitatis, cit., 611.
[148] F. De Martino, Storia della costituzione romana, I, 2a ed., cit., 280 nt. 56 b: «Contro la collegialità tra dittatore e magister equitum Luzzatto, Appunti sulle dittature imminuto iure, St. De Francisci, III, 443, il quale sostiene che il tentativo di applicare i principi della collegialità al rapporto tra i due magistrati risale al 217, una data in cui si tendeva già a trasformare e poi sopprimere la dittatura».
[149] F. Càssola - L. Labruna, Il dittatore ed il magister equitum, cit., 63.
[150] V. supra § 1.
[151] G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 379 s. Sembra essere concorde, sul punto, A. Burdese, Recensione a G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., in Studia et Documenta Historiae et Iuris 55, 1989, 479 ss. (ora in Id., Recensioni e commenti. Sessant’anni di letture romanistiche, Padova 2009, dalla cui p. 718 si cita).
[152] G. Nicosia, Lineamenti di storia della costituzione e del diritto di Roma, I, Catania 1989, 215.
[153] Vi accedono anche W. Kunkel - R. Wittmann, und Staatspraxis der römischen Republik, II, cit., 717.
[154] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 166.
[155] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 167.
[156] V. infra § 2.5.
[157] C. Masi Doria, ibidem.
[158] C. Masi Doria, ibidem.
[159] Si rinvia, sul punto, a C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 151 ss., la quale analizza le diverse collocazioni dei due titoli magistratuali nella Lex Latina tabulae Bantinae e nella Lex repetundarum.
[160] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 167.
[161] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 144.
[162] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 168. Interessante anche il prosieguo: «Se è vero che anche il dittatore e maestro della cavalleria sono – dopo la dictio consolare – per così dire legittimati dal popolo attraverso la lex curiata, è pur vero che la funzione per la quale i due magistrati vengono istituiti consente e costituisce un diretto rapporto gerarchico il quale differisce profondamente dall’autonomia dei vari titolari dei pubblici poteri che naturalmente a Roma s’instaura in capo al singolo magistrato per la derivazione popolare del suo potere».
[163] F. Giumetti, Prima che il gallo canti, cit., 69 ss., spec. 75 ss.; A. Milazzo, Sul carattere ‘straordinario’ della magistratura del dittatore, cit., 238 e nt. 32; A. Zini, Il dictator e il magister populi, cit., 52 ss.; B. Biscotti, Memoria civica e rappresentazione del potere, cit., 210 ss.; M. Milani, Anomalie nelle dittature tra il V e il III secolo a.C., cit., 371 nt. 5, 400 nt. 137; L. Franchini, Quinto Fabio Massimo, in La dittatura romana, II, cit., 488 nt. 195.
[164] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 15 ss.
[165] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 44.
[166] È di diverso avviso nell’interpretazione del passo C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 47, secondo la quale la locuzione ‘regia potestas’ è riferita al sostantivo ‘consules’. La studiosa richiama Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II.1, 3a ed., cit., 93 nt. 3, ove si osserva quanto segue: «Die alte Erzählung stellt allerdings die Identität der königlichen und der consularischen Gewalt nur auf, um daran die Beschränkung der letzteren durch das Provocationsrecht zu knüpfen, ne per omnia, wie Pomponius sagt, regiam potestatem tibi vindicarent. Aber auch nachher bleibt das Consulat eine wenn gleich beschränkte königliche Gewalt». L’accostamento della regia potestas a quella consolare è certamente condivisibile, in valore assoluto, ma riteniamo che nel caso di specie il dato letterale tradisca tale ipotesi: per stabilire una simile correlazione, forse Livio avrebbe dovuto rendere l’espressione con l’ablativo assoluto ‘regia potestate’. Dall’esame del passo sembra, viceversa, che il dictator adoperi un parallelismo: come i consules obbediscono al summum imperium del dittatore, così i praetores alla sua regia potestas. Trattasi, a nostro avviso, di un atecnicismo – peraltro scarsamente compatibile con l’indipendenza del dictator dalla provocatio – giustificato dalla finalità retorica del discorso di Papirio Cursore: sul passo è stato di recente osservato che «il Leitmotiv della prossimità fra dittatura e monarchia, del resto, è uno spunto che si trae anche dalle fonti […] come fa anche Tito Livio nel […] brano – in cui anzi sembra che il dittatore sia posto al di sopra del re –, mettendo le parole in bocca al dittatore Lucio Papirio Cursore» (M. Falcon, La dittatura romana nell’opera di Montesquieu, in La dittatura romana, II, cit., 663).
[167] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 104 ss. La studiosa, in una interessante digressione, riflette sulla natura giuridica del rapporto fra figure istituzionali gerarchicamente asimmetriche (come il dictator e il magister equitum), soffermandosi, in particolare, su un testo di Gellio (Noct. Att. 1.13.1-8) relativo alle patologie nell’esecuzione dell’incarico ricevuto dal mandatario. La fonte suggerisce (spec. §§ 7-8) che maggiore è il rilievo sociale del mandante, minore sarà la soglia di tolleranza nei confronti di un’inesatta esecuzione della ‘prestazione’. Così Masi Doria (loc. cit., 109): «Non è difficile inquadrare il rapporto tra Papirio Cursore e Fabio Rulliano nella precedente posizione. Nelle operazioni militari la responsabilità del dittatore esigeva il rispetto assoluto delle sue disposizioni, rispetto dovuto in modo tutto particolare soprattutto per la sua posizione di diritto pubblico, a sua volta determinata dalla occasionalità delle situazioni che ne avevano suggerito o imposto la dictio, ed anche per le conseguenze disastrose che un comportamento difforme (assunto come ‘esemplare’) avrebbe potuto avere sulla stessa struttura costituzionale romana, ampiamente fondata sui mores e sulle interpretazioni che ne discendevano».
[168] Sulla dittatura di Marco Fabio Ambusto, v. Livius 7.22.10-11; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 64 s.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 105 e 404 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 127.
[169] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 55; v. anche M. Bianchini, Sui rapporti fra provocatio ed intercessio, in Studi in onore di G. Scherillo, I, Milano 1972, 101.
[170] V. Giuffrè, Aspetti costituzionali del potere dei militari nella tarda respublica, Napoli 1973, 52; C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 68 ss. La studiosa napoletana è di recente ritornata sull’argomento, esaltando il ruolo della potestas populi e, per altro verso, la costruzione di un «discorso costituzionale condiviso da parte della comunità romana» (C. Masi Doria, Archetipi della provocatio e problemi istituzionali: una contentio de iure publico nel IV secolo a.C., relazione svolta nel corso del convegno per le cui cronache si rinvia a M. Milani, Giornata di studio in ricordo di Carlo Venturini [Padova, 20 gennaio 2017], in Quaderni Lupiensi di Storia e Diritto 7, 2017, 489). V. anche C. Venturini, Variazioni in tema di provocatio ad populum, in Index 37, 2009, 78 e nt. 34 (ora in Id., Scritti di diritto penale romano, a cura di F. Procchi e C. Terreni, I, Padova 2015, 119 e nt. 34); F. Procchi, Dittatura e provocatio ad populum, cit., 189. A. Spina, 203-82 a.C.: un secolo senza dittatura, cit., 517, osserva che la scelta di rimettere la soluzione della questione al popolo «proverebbe come già nel IV secolo a.C. la dittatura tendesse ad una ‘democratizzazione’, che l’avrebbe condotta ad esaurire la propria vitale funzionalità, smorzandone, altresì, con l’intervento del popolo, l’originario fondamento magico-religioso».
[171] L’episodio è riferito alla concessione straordinaria della provocatio, da parte di Tullo Ostilio, in un caso in cui i duumviri perduellionis avevano già pronunciato la sentenza di condanna a morte. Cfr. B. Santalucia, Osservazioni sui duumviri perduellionis e sul procedimento duumvirale, in Du châtiment dans la cité. Supplices corporels et peine de mort dans le monde antique, Rome 1984, 450 (ora in Id., Studi di diritto penale romano, Roma 1994, 46 s.); C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 57; F. Procchi, Dittatura e provocatio ad populum, cit., 189 e nt. 18.
[172] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 61; R. Fercia, Profili giuridici e contenuti politici del rapporto tra coercitio del dictator e tribunicia intercessio, cit., 142.
[173] Livius 8.35.5: Non noxae eximitur Q. Fabius, qui contra edictum imperatoris pugnavit, sed noxae damnatus donatur populo Romano, donatur tribuniciae potestati precarium non iustum auxilium ferenti. Osserva Masi Doria che «Papirio non concede al suo contraddittore la possibilità di ricorrere al popolo (al suo ormai scontato giudizio). Trova un espediente, lo applica: un atto di grazia con cui sostanzialmente (ma non formalmente) riconosce il peso politico delle pressioni che da più parti riceve» (C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 96, richiamata anche da F. Procchi, Dittatura e provocatio ad populum, cit., 225).
[174] R. Fercia, Profili giuridici e contenuti politici del rapporto tra coercitio del dictator e tribunicia intercessio, cit., 142 e nt. 23, ove lo studioso parla di «ricorso ad un modello privatistico proiettato in chiave pubblicistica».
[175]F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 119 s.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 42 s., 116, 436 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 215.
[176] T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 214.
[177] CIL I2.1, 24.
[178] J. Soulahti, ‘M. Claudius Glicia, qui scriba fuerat dictator’, in Arctos 10, 1976, 97 ss.; G. Nicosia, Sulle pretese figure di dictatores imminuto iure, cit., 584 nt. 146; C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 141 nt. 25.
[179] Livi perioch. 19: …Claudius Pulcher cos. contra auspicia profectus - iussit mergi pullos, qui cibari nolebant - infeliciter adversus Carthaginienses classe pugnavit, et revocatus a senatu iussusque dictatorem dicere Claudium Gliciam dixit, sortis ultimae hominem, qui coactus abdicare se magistratu postea ludos praetextatus spectavit…
[180] Suetonius, Tib. 2: …Claudius Pulcher apud Siciliam non pascentibus in auspicando pullis ac per contemptum religionis mari demersis, quasi ut biberent quando esse nollent, proelium navale iniit; superatusque, cum dictatorem dicere a senatu iuberetur, velut iterum inludens discrimini publico Glycian viatorem suum dixit…
[181] A. Triggiano, L’abdicatio del dictator, cit., 421.
[182] J. Soulahti, ‘M. Claudius Glicia, qui scriba fuerat dictator’, cit., 97.
[183] Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II.1, 3a ed., cit., 159 nt. 2: «[...] der gezwungen wurde sofort niederzulegen, noch bevor er dazu kam einen Reiterführer sich zu ernennen [...]».
[184] Cfr. Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II.1, 3a ed., cit., 174; C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 137 ss.; F. Giumetti, Prima che il gallo canti, cit., 78 ss.
[185] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 141 e nt. 24.
[186] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 141 nt. 24.
[187] J. Soulahti, ‘M. Claudius Glicia, qui scriba fuerat dictator’, cit., 101.
[188] Livius 23.22.10; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 133 ss.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 46 s., 119, 444 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 248. La mancanza di magister equitum è registrata anche nei Fast. Cap.: M(arcus) Fabius M(arci) f(ilius) M(arci) n(epos) Buteo dict(ator) sine mag(istro) eq(uitum) senat(us) leg(endi) caus{s}a, cfr. CIL I2.1, 24.
[189] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 142. Su Fabio Buteone v. anche loc. cit., 203 s.
[190] Livius 22.57.9-11, 23.14.2-4; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 130 ss.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 46 s., 119, 444 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 248. V. anche B. Biscotti, Memoria civica e rappresentazione del potere, cit., 146 ss.; M. Milani, Anomalie nelle dittature tra il V e il III secolo a.C., cit., 412 ss.
[191] Sulla puntualizzazione dei senatori circa la durata semestrale della nomina, di per sé non anomala, e sul correlato rilievo di Buteone, v. M. Milani, Anomalie nelle dittature tra il V e il III secolo a.C., cit., 423: «M. Fabio Buteone, però, denunciò anche questa circostanza come un’ulteriore irregolarità della sua nomina, allo scopo – io credo – di far accettare i criteri rigidamente oggettivi con cui voleva attuare la lectio».
[192] Rectius, un mos, come osservato da C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 143. V. anche L. Labruna, Adversus plebem dictator, cit., 290.
[193] Così Dion. Hal. 5.75.2, v. supra § 2.1.
[194] V. infra § 2.7.
[195] In Spretum imperium, cit., 142, Masi Doria interpreta l’espressione ‘sine magistro equitum’ come «prescrizione del senato che in qualche modo impediva al dictator la dictio dello stesso»; concorde M. Milani, Anomalie nelle dittature tra il V e il III secolo a.C., cit., 418 e nt. 213.
[196] S. Fusco, Il dictator senatus legendi causa, in La dittatura romana, cit., I, 352 s. In letteratura si discute circa la portata della lectio in questione: per alcuni, trattasi di una reintegrazione dei patres «per compensare le perdite seguite alla battaglia di Canne» (S. Galeotti, Sullanus senatus: l’assemblea dei patres nella constitutio di Silla, in La dittatura romana, II, cit., 578 nt. 41, con ulteriore bibliografia ivi richiamata), per altri di una espansione vera e propria dell’assemblea (F. Mora, Fasti e schemi cronologici, cit., 59 ss.). V. anche, sulla questione, M. Milani, Anomalie nelle dittature tra il V e il III secolo a.C., cit., 413 e nt. 197.
[197] S. Fusco, Il dictator senatus legendi causa, cit., 353; v. anche M. Milani, Anomalie nelle dittature tra il V e il III secolo a.C., cit., 417 ss.
[198] Livius 29.11.9-11. Sul punto v. supra § 2.3.
[199] A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 56 s., 132, 496 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, II. 99 B.C.-31 B.C., Cleveland 1951 [rist. Ann Arbor, 1968, da cui si cita], 256 s.
[200] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 142. V. inoltre Ead., loc. cit., 207, ove, riferendosi anche alla dittatura di Silla, parla di «due magistrature sostanzialmente nuove, che però ‘resuscitarono’ il titolo dittatorio, in funzione chiaramente evocativa (e simbolicamente rilevante) d’un imperium superiore rispetto alle magistrature ordinarie e strutturato al fine della constitutio rei publicae (per il caso di Silla) ovvero come carica alla fine perpetua (per quello di Cesare)». V. anche C. Nicolet, Introduzione, in Dittatura degli antichi e dittatura dei moderni, a cura di G. Meloni, Roma 1983, 10 ss.; M. Mancuso, Alcune considerazioni sulla dittatura sillana. Imperium, dittatura, principato ed esperienze costituzionali contemporanee, in Dittatura degli antichi e dittatura dei moderni, cit., 139 s.
[201] Silla conserva, almeno esteriormente, la corrispondenza con la dictatura tradizionale nominando un magister equitum: Lucio Valerio Flacco (cfr. T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, II, cit., 67, 76, 79, 83).
[202] V. infra § 2.7.
[203] Livius 9.22.1; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 99 ss.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 36 s., 109, 418 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 156. Sospetta è la durata annuale dell’incarico di Fabio Massimo e, nell’anno precedente, di Lucio Emilio Mamercino Privernate, ma riteniamo che il punto non sia determinante ai nostri fini; si rinvia al recente esame della questione contenuto in M. Milani, Anomalie nelle dittature tra il V e il III secolo a.C., cit., 433 ss. e A. Spina, 203-82 a.C.: un secolo senza dittatura, cit., 516, con bibliografia ivi indicata.
[204] Diodorus 19.72.6-7; Livius 9.22-25; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 99 ss.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 36 s., 109, 418 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 156.
[205] Livius 9.23.6; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 99 ss.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 86 s., 110, 418 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 157.
[206] Diodorus 19.72.6-8: [6] Ἃ δὴ πυθόμενος ὁ δῆμος τῶν Ῥωμαίων καὶ διαγωνιάσας περὶ τοῦ μέλλοντος δύναμιν προέπεμψε πολλήν. Εἰωθότες δ᾽ἐν τοῖς ἐπικινδύνοις καιροῖς αὐτοκράτορα τοῦ πολέμου καθιστᾶν τινὰ τῶν ἀξιολόγων ἀνδρῶν προεχειρίσαντο τότε Κόιντον Φάβιον καὶ μετ᾽αὐτοῦ Κόιντον Αὔλιον ἵππαρχον. [7] Οὗτοι δὲ τὰς δυνάμεις παραλαβόντες παρετάξαντο πρὸς τοὺς Σαμνίτας περὶ τὰς καλουμένας Λαυστόλας καὶ πολλοὺς τῶν στρατιωτῶν ἀπέβαλον. Τροπῆς δὲ γενομένης καθ᾽ἅπαν τὸ στρατόπεδον ὁ μὲν Αὔλιος καταισχυνθεὶς ἐπὶ τῇ φυγῇ μόνος ὑπέστη τῷ τε πλήθει τῶν πολεμίων, οὐ κρατήσειν ἐλπίζων, ἀλλ’ἀήττητον τὴν πατρίδα τὸ καθ᾽ αὑτὸν μέρος ἀποδεικνύων. [8] Oὗτος μὲν οὖν οὐ μετασχὼν τοῖς πολίταις τῆς κατὰ τὴν φυγὴν αἰσχύνης ἰδίᾳ περιεποιήσατο θάνατον ἔνδοξον…
[207] Livius 9.23.5: Invenio apud quosdam adversam eam pugnam Romanis fuisse atque in ea cecidisse Q. Aulium magistrum equitum.
[208] Livius 9.22.8-10: …[8] omnes qui circa erant in Aulium temere invectum per hostium turmas tela coniecerunt; [9] fratri praecipuum decus ulti Samnitium imperatoris <di> dederunt. Is victorem detractum ex equo magistrum equitum plenus maeroris atque irae trucidavit, nec multum afuit quin corpore etiam, quia inter hostiles ceciderat turmas, Samnites potirentur. [10] Sed extemplo ad pedes descensum ab Romanis est coactique idem Samnites facere; et repentina acies circa corpora ducum pedestre proelium iniit, quo haud dubie superat Romanus, reciperatumque Auli corpus mixta cum dolore laetitia victores in castra referunt.
[209] Si tratta di differenze la cui portata, viceversa, si avverte tentando una correlazione della dittatura di Fabio Rulliano con l’officio di magister equitum precedentemente ricoperto nel 325 a.C. Infatti la storiografia sospetta che la battaglia di Lautulae, convenzionalmente collocata nel 315 a.C., possa essersi svolta nel 325 a.C., con Papirio Cursore alla guida (M. Sordi, Roma e i Sanniti nel IV secolo a.C., Rocca San Casciano 1969, 44 ss.), e che possa costituire a sua volta lo scenario della famosa contentio fra dictator e magister equitum. Un puntuale ragguaglio sulle posizioni degli studiosi è presente in C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 20 ss.
[210] Diodorus 19.72.8.
[211] CIL I2.1, 21.
[212] Cfr. W. Kunkel - R. Wittmann, Staatsordnung und Staatspraxis der römischen Republik, II, cit., 717, ove la situazione giuridica viene configurata come ‘dovere’, mentre Masi Doria, in Spretum imperium, cit., 145 e nt. 44, sembra propendere per un ‘potere’.
[213] I verbi più frequenti sono dicere, legere, addere, adicere, nominare, dare, cooptare, come ricordato da C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 138 s.
[214] Lautulae era collocata in prossimità della zona dell’odierna Terracina, v. M. Di Fazio, Il Lazio meridionale costiero tra Romani e Sanniti, in Archeologia Classica 59, 2008, 39 ss. L’areale di Saticula è identificabile nei pressi dell’odierna Sant’Agata de’ Goti, v. C. Longobardi, Il percorso di Marcello verso Nola per agrum Saticularum (‘ab Urbe condita’ 23,14), in Sant’Agata de’ Goti: tracce. Dai testi e dalle epigrafi verso un sistema informativo territoriale, a cura di Mar. Squillante, Mas. Squillante e A. Violano, Milano 2012, 65 ss.; V. Viparelli, ‘Saticulus asper’ (Verg. Aen. 7,729), in Sant’Agata de’ Goti: tracce, cit., 71 ss.
[215] Livius 9.23.7.
[216] Livius 9.23.8: … et efficacius ratus ad accendendos virorum fortium animos nullam alibi quam in semet ipso cuiquam relictam spem de magistro equitum novoque exercitu militem celavit…
[217] G. Rotondi, Leges publicae populi Romani. Elenco cronologico con una introduzione sull’attività legislativa dei comizi romani, Milano 1912 [rist. Hildesheim, 1962], 251 s.; G.I. Luzzatto, Appunti sulle dittature imminuto iure, cit., 427 s.; P. Pinna Parpaglia, Sulla rogatio Metilia de aequando magistri equitum et dictatoris iure, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 35, 1969, 215 e 248; G. Nicosia, Lineamenti di storia della costituzione e del diritto di Roma, I, cit., 218; C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 183 ss.; M. Milani, Anomalie nelle dittature tra il V e il III secolo a.C., cit., 400.
[218] P. Pinna Parpaglia, Sulla rogatio Metilia de aequando magistri equitum et dictatoris iure, cit., 219. Lo studioso richiama un passo del resoconto di Polibio da cui emerge lo stato di demoralizzazione nel quale versano i Romani, Polybius 3.86.6-7: [6] …Ἐν δὲ τῇ Ῥώμῃ, τριταίας οὔσης τῆς κατὰ τὴν μάχην προσαγγελίας, καὶ μάλιστα τότε τοῦ πάθους κατὰ τὴν πόλιν ὡσανεὶ φλεγμαίνοντος, ἐπιγενομένης καὶ ταύτης τῆς περιπετείας οὐ μόνον τὸ πλῆθος, ἀλλὰ καὶ τὴν σύγκλητον [7] αὐτὴν συνέβη διατραπῆναι.
[219] Livius 22.8.5: Itaque ad remedium iam diu neque desideratum nec adhibitum, dictatorem dicendum, ciuitas confugit; et quia et consul aberat, a quo uno dici posse videbatur, nec per occupatam armis Punicis Italiam facile erat aut nuntium aut litteras mitti [nec dictatorem populus creare poterat]… Bene fa, a nostro avviso, C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 185 nt. 180 ove ripropone l’oramai comunemente recepita correzione mommseniana proposta in CIL I1, 288: «Eieci ineptam glossam, quam libri inserunt petitam ex c. 31: ‘nec dictatorem populus creare poterat’. Vulgata emendatio ‘prodictatorem populus creavit’ vel hoc nomine reicienda est, quod Rufus magister equitum appellatur, non pro magistro».
[220] Livius 22.8.6: … quod nunquam ante eam diem factum erat, dictatorem populus creauit Q. Fabium Maximum et magistrum equitum M. Minucium Rufum…
[221] Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II.1, 3a ed., cit., 147; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 126 ss.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 44 s., 118 s., 444 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 243; P. Pinna Parpaglia, Sulla rogatio Metilia de aequando magistri equitum et dictatoris iure, cit., 222. Osserva F. Giumetti, Prima che il gallo canti, cit., 77, che «proprio perché la nomina venne dal popolo, in tale occasione Fabio Massimo non venne considerato tecnicamente come dictator ma, piuttosto, fornito di funzioni pro dictatore». Sul punto si legga l’indagine condotta da L. Franchini, Quinto Fabio Massimo, cit., 462 ss., il quale si occupa anche della questione relativa all’elezione ‘popolare’ del dictator (v. loc. cit., 450 ss.).
[222] Per Pinna Parpaglia è qui «che si rivela appieno il movente essenzialmente politico della inconsueta procedura: viene tolta al dittatore la facoltà di nominare direttamente il suo subordinato e gli si mette accanto un personaggio, come si vedrà, di chiara estrazione plebea» (P. Pinna Parpaglia, Sulla rogatio Metilia de aequando magistri equitum et dictatoris iure, cit., 221 s.).
[223] F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 126 ss.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 243. Le fonti letterarie sono indicate nel testo e nelle note di questo paragrafo. Depone contrariamente alla nomina del magister equitum da parte dei comizi il seguente passo: Plutarchus, Fab. 4.1: Ὡς οὖν ταῦτ᾽ἔδοξεν, ἀποδειχθεὶς δικτάτωρ Φάβιος, καὶ ἀποδείξας αὐτὸς ἵππαρχον Μᾶρκον Μινούκιον, πρῶτον μὲν ᾐτήσατο τὴν σύγκλητον ἵππῳ χρῆσθαι παρὰ τάς στρατείας. Stando alle parole di Plutarco, Marco Minucio viene designato da Fabio, nel rispetto della tradizionale procedura costituzionale. Sull’attendibilità del resoconto si registrano opinioni contrastanti: l’orientamento prevalente lo ritiene frutto di errore dell’autore (M. Gusso, Appunti sulla notazione dei Fasti Capitolini ‘interregni caus(sa)’ per la (pro-)dittatura di Q. Fabio Massimo nel 217 a.C., in Historia 39, 1990, 294); secondo L. Franchini, Quinto Fabio Massimo, cit., 458 nt. 72: «la testimonianza plutarchea è forse imperfetta nella misura in cui lascia trapelare l’idea che la nomina effettuata da Fabio sia frutto di una sua libera scelta; ma tutto può essere spiegato nel contesto di Plut. Fab. 3.4-4.1, in cui non si riferisce chiaramente di una vera e propria delibera adottata dall’assemblea popolare».
[224] Livius 22.24.1: Romanus tunc exercitus in agro Larinati erat. Praeerat Minucius magister equitum profecto, sicunt ante dictum est, ad urbem dictatore. Sappiamo, infatti, che la temporanea assenza del dittatore dal campo di battaglia determina il subingresso automatico, nel comando, del magister equitum (v. supra § 2.2).
[225] Livius 22.24.14. Sulla vittoria di Gereonio esistono diverse versioni, v. L. Pareti, Storia di Roma e del mondo romano, II, Torino 1952, 325 ss.
[226] Livius 22.25.2: Cum laeta civitate dictator unus nihil nec famae nec litteris crederet, ut vera omnia essent, secunda se magis quam adversa timere diceret…
[227] Livius 22.25.6: …M. Minucium magistrum equitum, ne hostem uideret, ne quid rei bellicae gereret, prope in custodia habitum. Il pensiero viene approfondito nel prosieguo del discorso di Metilio, in Livius 22.25.8-9: [8] Exercitum cupientem pugnare et magistrum equitum clausos prope intra vallum retentos; tamquam hostibus captivis arma adempta. [9] Tandem, ut abscesserit inde dictator, ut obsidione liberatos, extra vallum egressos fudisse ac fugasse hostes.
[228] Sul punto, C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 189: «Il riferimento del tribuno Metilio è a quelle procedure di controllo che i magistrati della plebe avevano nei confronti dei titolari di potestà ‘cittadine’ (o ‘patrizie’, che dir si voglia), la cui massima estensione poteva giungere fino all’abrogazione del potere con il concorso del voto del concilio plebeo». V. anche loc. cit., 275 ss.
[229] Livius 22.25.14-15: [14] Si penes se summa imperii consiliique sit, propediem effecturum ut sciant homines bono imperatore haud magni fortunam momenti esse, mentem rationemque dominari, [15] et in tempore et sine ignominia servasse exercitum quam multa milia hostium occidisse maiorem gloriam esse.
[230] Masi Doria si esprime in termini di «responsabilità nella gestione della magistratura» (C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 190).
[231] Il personaggio viene presentato «con tutte le caratteristiche del plebeo arrivato, ulteriore prova, quest’ultima, della chiara provenienza democratica della rogatio in questione» (P. Pinna Parpaglia, Sulla rogatio Metilia de aequando magistri equitum et dictatoris iure, cit., 224). V. anche R. Fercia, Profili giuridici e contenuti politici del rapporto tra coercitio del dictator e tribunicia intercessio, cit., 149 s.
[232] Le indicazioni dell’organo responsabile dell’adozione del provvedimento non sono univoche. Per Livio si tratta dell’assemblea della plebe (Livius 22.25.17, 22.30.4); per Valerio Massimo prima del senato (Val. Max. 3.8.2) e poi dell’assemblea della plebe (Val. Max. 5.2.4); per Silio Italico dell’assemblea della plebe (Silius It., Pun. 7.542); per Appiano del senato (Appianus, Hann. 12). Sul punto si veda la ricostruzione proposta da P. Pinna Parpaglia, Sulla rogatio Metilia de aequando magistri equitum et dictatoris iure, cit., 243 ss., ove lo studioso propende per l’assemblea della plebe, richiamato e condiviso da R. Fercia, Profili giuridici e contenuti politici del rapporto tra coercitio del dictator e tribunicia intercessio, cit., 148. Un approfondito ragguaglio sulle diverse teorie relative alla procedura costituzionale che conduce all’approvazione della rogatio Metilia è presente in F.J. Vervaet, The Scope and Historic Significance of the Lex Metilia de aequando M. Minuci magistri equitum et Q. Fabi dictatoris iure (217 B.C.E.), cit., 215 ss. Per L. Franchini, Quinto Fabio Massimo, cit., 487, si tratta di un plebiscito: «È vero che in alcuni passaggi si allude genericamente al popolo, anziché alla plebe; ma ciò è spiegabile in ragione del fatto che si tratta di fonti atecniche».
[233] Livius 22.26.7.
[234] Un elenco esaustivo è presente in T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 217 s. Su tutte, si veda in particolare Polybius 3.103.3-5, ove viene riferito in ordine alla designazione di due dittatori: [3] …διὸ καὶ τὸν μὲν Φάβιον ᾐτιῶντο καὶ κατεμέμφοντο πάντες ὡς ἀτόλμως χρώμενον τοῖς καιροῖς, τὸν δὲ Μάρκον ἐπὶ τοσοῦτον ηὖξον διὰ τὸ συμβεβηκὸς ὥστε τότε γενέσθαι [4] τὸ μηδέποτε γεγονός· αὐτοκράτορα γὰρ κἀκεῖνον κατέστησαν, πεπεισμένοι ταχέως αὐτὸν τέλος ἐπιθήσειν τοῖς πράγμασι· καὶ δὴ δύο δικτάτορες ἐγεγόνεισαν ἐπὶ τὰς αὐτὰς πράξεις, ὃ πρότερον οὐδέποτε [5] συνεβεβήκει παρὰ Ῥωμαίοις… Osserva Pinna Parpaglia che «Polibio si limita, dunque, a sottolineare la inusitatezza del provvedimento senza soffermarsi sulla anomalia costituzionale che esso rappresenta» (P. Pinna Parpaglia, Sulla rogatio Metilia de aequando magistri equitum et dictatoris iure, cit., 219. Per la letteratura sul passo di Polibio, ivi incluse le critiche mosse alla sua credibilità, v. loc. cit., 245 e nt. 71). Lo studioso non stenta a credere che l’aequatio iuris determini la costituzione di un vero e proprio collegio, del quale riscontra gli elementi fondamentali (la par potestas e la reciproca intercessio) nella coppia formata da Fabio e Minucio, tanto da definirlo un «vero e proprio organo straordinario complesso costituito da due magistrati entrambi con poteri consolari» (loc. cit., 247). Ulteriore bibliografia indicata da F.J. Vervaet, The Scope and Historic Significance of the Lex Metilia de aequando M. Minuci magistri equitum et Q. Fabi dictatoris iure (217 B.C.E.), cit., 218 ss.; L. Franchini, Quinto Fabio Massimo, cit., 492 e nt. 212, 493 e ntt. 212 e 213.
[235] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 193. Riteniamo tale lettura coerente con le altre fonti che riferiscono dell’episodio: Nepos, Hann. 5.3: …M. Minucium Rufum, magistrum equitum pari ac dictatorem imperio,…; Val. Max. 5.2.4: …dictatori ei magister equitum Minucius scito plebis, quod numquam antea factum fuerat, aequatus partito exercitu separatim in Samnio cum Hannibale conflixerat… Franchini sottolinea che la differenza di imperium del magister equitum «rilevava sul piano ‘quantitativo’, ossia del ‘grado’ di imperium, stante la identica natura di quell’antico potere, sui cui limiti, sul cui impiego, anche al di fuori dell’ambito strettamente magistratuale, da allora in poi sempre più si disputò» (L. Franchini, Quinto Fabio Massimo, cit., 496 nt. 225). Di diverso avviso è Vervaet, il quale ritiene che l’imperium del magister equitum sia il medesimo dei consoli. Sulla questione ci siamo già soffermati (v. supra § 2.1) ma questo è il luogo per ricordare che, oltre a Livius 6.39.3-4, lo studioso adduce a sostegno della propria tesi anche il discorso di Magone, fratello di Annibale, contenuto in Livius 23.11.10: Magistrum equitum, quae consularis potestas sit, fusum fugatum; dictatorem, quia se in aciem numquam commiserit, unicum haberi imperatorem. Secondo Vervaet dalle parole dello storico patavino si trae una ‘unequivocal disclosure’ sull’equivalenza dell’imperium del maestro di cavalleria a quello consolare (F.J. Vervaet, The Scope and Historic Significance of the Lex Metilia de aequando M. Minuci magistri equitum et Q. Fabi dictatoris iure (217 B.C.E.), cit., 226). Masi Doria – la quale respinge apertamente la lettura di Vervaet e il suo apparente utilizzo fungibile delle nozioni di potestas e imperium – rileva da un lato che lo storico patavino, per mezzo di Magone, esagerando il racconto sulla battaglia di Canne individua per relationem la posizione del maestro di cavalleria, e dall’altro lato che «il posizionamento costituzionale del magister equitum successivo alla rogatio Metilia (come anche il fatto in questione, che si riferisce alla battaglia di Canne) non può essere utilizzato come prova relativamente alla disciplina ‘classica’ dei poteri di quella magistratura» (C. Masi Doria, Sulla posizione costituzionale del magister equitum, cit., 44 s.).
[236] Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, I, 3a ed., cit., 51 e nt. 1.
[237] Livius 22.27.6. Riteniamo che la locuzione sia, nel contesto del passo, una endiadi atta a circoscrivere e chiarire che l’ambito della aequatio attiene alla posizione istituzionale e al rilievo costituzionale dei due magistrati.
[238] P. Pinna Parpaglia, Sulla rogatio Metilia de aequando magistri equitum et dictatoris iure, cit., 246; C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 192; L. Franchini, Quinto Fabio Massimo, cit., 490.
[239] Livius 22.27.10-11: [10] Ita obtinuit ut legiones, sicut consulibus mos esset, inter [se] dividerent. [11] Prima et quarta Minucio, secunda et tertia Fabio evenerunt. Item equites pari numero sociumque et Latini nominis auxilia diviserunt. Castris quoque separari magister equitum voluit. Per Milani le proposte dei due co-dittatori sono il frutto di un loro diverso modo di intendere la portata della lex Metilia: Minucio Rufo interpreterebbe l’aequatio imperii in senso assoluto (escludendo anche la reciproca intercessio) e, dunque, propone che i pieni poteri si alternino; Fabio Massimo, viceversa, propende per la collegialità, dunque prospetta la spartizione equa degli eserciti (M. Milani, Anomalie nelle dittature tra il V e il III secolo a.C., cit., 406 s.)
[240] Livius 22.28.1-22.29.22.
[241] Sulla valenza tecnica dei termini ‘antiquare’ e ‘abrogare’, v. M. Milani, Anomalie nelle dittature tra il V e il III secolo a.C., cit., 410. Per F.J. Vervaet, The Scope and Historic Significance of the Lex Metilia de aequando M. Minuci magistri equitum et Q. Fabi dictatoris iure (217 B.C.E.), cit., 214, viene indetto un apposito plebiscito, in quanto «the formal abrogation of the law served to publicly undo the humiliation of Fabius, rehabilitate his policies, and so restore his personal dignity and dictatorial authority». Suggerisce L. Franchini, Quinto Fabio Massimo, cit., 498 s., che il gesto di Minucio, il quale volontariamente si sottopone a Fabio, possa essere frutto di una enfasi eccessiva nella descrizione dell’azione da parte dell’orientamento storiografico filofabiano. Così si esprime, in prosieguo, il romanista: «Anzi, il fatto che Minucio si sia, di nuovo, volontariamente sottoposto a Fabio Massimo non può che essere ricondotto a due circostanze, entrambe estremamente interessanti dal nostro punto di vista: o i due colleghi, pur restando tali, e cioè alla pari, si accordano nel senso di un esercizio esclusivo da parte di Fabio dei supremi poteri di comando, fino alla scadenza del mandato; o in alternativa Minucio formalmente rinuncia al beneficio della aequatio e torna a rivestire il ruolo, del tutto subordinato, normalmente connaturato al magister equitum».
[242] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 194.
[243] In parte F.J. Vervaet, The Scope and Historic Significance of the Lex Metilia de aequando M. Minuci magistri equitum et Q. Fabi dictatoris iure (217 B.C.E.), cit., 226 e nt. 20; L. Franchini, Quinto Fabio Massimo, cit., 489 e nt. 201 riporta un consistente gruppo di fonti nelle quali il magister equitum viene presentato come ‘collega’ del dittatore, anche con espresso riferimento al periodo successivo alla lex Metilia. Per R. Fercia, Profili giuridici e contenuti politici del rapporto tra coercitio del dictator e tribunicia intercessio, cit., 151, l’aequatio iuris costituisce «il segno tangibile della maturazione politica di una civitas che, alla fine del terzo secolo ed in un contesto anche militare venato da significative criticità, rifiuta la giuridica configurabilità di magistrature monocratiche investite di poteri più incisivi di quelli della coppia consolare, sicché l’aequatio del dittatore al suo luogotenente svuota di significato l’accentramento dell’imperium, seppure per un periodo temporale limitato, nelle mani di una sola persona».
[244] F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 129; Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II.1, 3a ed., 148; P. Pinna Parpaglia, Sulla rogatio Metilia de aequando magistri equitum et dictatoris iure, cit., 226 s.; F. Càssola - L. Labruna, Il dittatore ed il magister equitum, cit., 167; R. Scuderi, Per la storia del magister equitum, sottoposto o collega minor del dittatore, cit., 42 s.; C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 201, sostiene che la non vigenza dell’aequatio iuris derivante dalla lex Metilia si riscontra anche dal richiamo arcaicizzante, da parte di Cicerone, alla figura del magister populi (in luogo della dizione ‘dictator’) sia nel ‘de legibus’ (3.3.9) che nel ‘de re publica’ (1.63), dove «la posizione del magister equitum è chiaramente subordinata a quella del dictator e significativamente comparata a quella del pretore (iuris disceptator), sottoposto ai consoli per via d’un imperium minore». V., da ultimo, L. Franchini, Quinto Fabio Massimo, cit., 488.
[245] V. supra § 2.5.
[246] Livius 23.23.1.
[247] Livius 22.57.9, 23.19.1-12, 23.30.16; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 130 ss.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 46 s., 119, 444 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 248.
[248] V. supra § 2.5.
[249] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 195, secondo la quale la superiorità del dictator deriva dal fatto che «è lui a creare i magistrati maggiori, è ancora lui a delegare il comando in città al suo ausiliario che sta per divenire console», come descritto in Livius 23.24.3-5.
[250] A. Spina, 203-82 a.C.: un secolo senza dittatura, cit., 523. Per un esame degli scenari costituzionali caratterizzanti la fine del IV secolo, v. loc. cit., 523 ss.
[251] Livius 25.2.3-5; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 136; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 46 s., 119, 446 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 263.
[252] V. nota precedente.
[253] Livius 27.5.14-19, 6.1-12; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 137 s.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 46 s., 120, 448 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 278. Sulle particolarità connesse alla nomina ‘popolare’ di Quinto Fulvio Flacco, v. Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II.1, 3a ed., 150; C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 196 ss.; M. Milani, Anomalie nelle dittature tra il V e il III secolo a.C., cit., 396; L. Franchini, Quinto Fabio Massimo, cit., 452 ss.
[254] V. nota precedente; adde C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 198; M. Milani, Anomalie nelle dittature tra il V e il III secolo a.C., cit., 452.
[255] Livius 27.33.6-8, 27.35.1; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 138 s.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 46 s., 120, 448 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 290.
[256] V. nota precedente.
[257] Livius 27.35.1. V. anche C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 199 e nt. 220; A. Triggiano, L’abdicatio del dictator, cit., 415.
[258] Sulla nomina di Tito Manlio Torquato, v. G. Nicosia, Sulle pretese figure di dictatores imminuto iure, cit., 561 ss.; A. Milazzo, Sul carattere ‘straordinario’ della magistratura del dittatore, cit., 252 ss.
[259] V. supra § 2.3.
[260] Livius 30.24.3-4, 30.26.12; F. Bandel, Die Römischen Diktaturen, cit., 141 s.; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 46 s., 120 s., 450 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 311.
[261] V. nota precedente. Masi Doria, in Spretum imperium, cit., 199, osserva che Livio sembra «porre in risalto un’attività accessoria (e in qualche modo dipendente) del magister equitum rispetto al dittatore».
[262] Sul punto, v. C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 182, secondo la quale il testo «fa chiara la possibilità di un ordine, pro iure maioris imperii, del dittatore nei confronti di un console».
[263] Livius 30.39.4-5; A. Degrassi, Fasti consulares et triumphales, cit., 48 s., 121, 452 s.; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 316. La dictatura di Servilio Gemino è interessante per la concomitanza di più cause della nomina (la convocazione dei comizi e la celebrazione dei giochi). Sull’ultima dittatura ‘classica’, v. G.I. Luzzatto, Appunti, cit., 421 s.; A. Guarino, Il vuoto di potere nella libera respublica, in Atti dell'Accademia Nazionale di Scienze Morali e Politiche di Napoli 82, 1971, 288 ss. (ora in Id., Pagine di diritto romano, III, cit., dalla cui p. 175 si cita); G. Nicosia, ‘Comitiorum (habendorum) causa’, in Scritti per A. Corbino, Lecce 2016, 272 nt. 7; M. Milani, Anomalie nelle dittature tra il V e il III secolo a.C., cit., 426 s., con ulteriore bibliografia ivi citata.
[264] Livio è esplicito sulle modalità di nomina, v. Livius 30.39.4: …Dictator magistrum equitum P. Aelium Paetum dixit.
[265] V. supra § 2.5.
[266] T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, II, cit., 48 e 286, con fonti ivi citate.
[267] T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, II, cit., 295, 306, 318, con fonti ivi citate.
[268] Gellius, Noct. Att. 14.7.4-5: [4] Primum ibi ponit, qui fuerint, per quos more maiorum senatus haberi soleret, eosque nominat: dictatorem, consules, praetores, tribunos plebi, interregem, praefectum urbi; neque alii praeter hos ius fuisse dixit facere senatusconsultum, quotiensque usus venisset, ut omnes isti magistratus eodem tempore Romae essent, tum quo supra ordine scripti essent, qui eorum prior aliis esset, ei potissimum senatus consulendi ius fuisse ait, [5] deinde extraordinario iure tribunos quoque militares, qui pro consulibus fuissent, item decemviros, quibus imperium consulare tum esset, item triumviros reipublicae constituendae causa creatos ius consulendi senatum habuisse.
[269] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 155.
[270] Stando a Gellius, Noct. Att. 14.7.1-3 l’opera fu commissionata dal console Gneo Pompeo, il quale conferì incarico a Varrone, suo parente, di redigere un commentarium ‘ex quo disceret, quid facere dicereque deberet, cum senatum consuleret’. Lo scritto andò perduto, come si evince dalle parole dell’autore stesso contenute ‘in litteris quas ad Oppianum dedit, quae sunt in libro epistolicarum quaestionum quarto’, nel quale non vengono riprodotti pedissequamente i contenuti dell’Eisagogikos, però ugualmente ‘docet rursum multa ad eam rem ducentia’.
[271] Gellius, Noct. Att. 13.15.4. Il passo è oggetto di specifica analisi da parte di C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 156 s., dove l’omissione nell’inserimento dell’elenco delle due figure viene definita un atto di «opposizione nei confronti del ‘regime’». Fra i due magistrati, almeno il dictator certamente era dotato di imperium e auspicium (mentre, come abbiamo osservato, è dubbia la riconducibilità al magister equitum di auspicia sua, v. supra § 2.2.
[272] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 158.
[273] S. Mazzarino, Dalla monarchia allo stato repubblicano, cit., 192; risulta adoperata un’espressione simile anche da P. De Francisci, Primordia civitatis, cit., 606, ove si parla di «fossile nella costituzione repubblicana». Secondo Valditara, quello di evocare figure istituzionali arcaiche è un atteggiamento tipico dei letterati più attenti al passato: «gli autori con curiosità antiquarie ed erudite sono gli unici che sembrano essersene occupati» (G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 185). Commentando il passo, Cancelli rileva il compiacimento «di una certa, alquanto ingenua, solennità di rendere in termini enfatici, o quasi epici, certi principi e istituti, esprimendoli non coi loro termini ma con amplificate perifrasi» (F. Cancelli, Marco Tullio Cicerone. Le Leggi, Roma 2008, 49 nt. 39); v. anche A. Zini, Il dictator e il magister populi, cit., 1 s. nt. 2.
[274] Come abbiamo brevemente osservato (v. supra § 2.2), il dato risulta confermato anche da un frammento del De rep. 1.63: …Gravioribus vero bellis es etiam sine collega omne imperium nostri penes singulos esse voluerunt, quorum ipsum nomen vim suae potestatis indicat. nam dictator quidem ab eo appellatur quia dicitur, sed in nostris libris vides eum Laeli magistrum populi appellari. L’immagine del dictator come unico depositario del potere assoluto, collegato ad un contingente emergenziale, conferma che il magister equitum sia un subordinato del dittatore.
[275] Masi Doria parla di «strutturazione in senso funzionale degli elenchi romani di questo tipo» (C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 154).
[276] G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 222 s. e nt. 102.
[277] Il passo varroniano risulta collegato a tale profilo anche da B. Biscotti, Memoria civica e rappresentazione del potere, cit., 155 e nt. 61, 218. Sul tema del divieto fatto al magister populi/dictator di montare a cavallo, oltre al già citato studio di Barbara Biscotti, con ulteriore bibliografia ivi citata, v. A. Momigliano, Osservazioni sulla distinzione fra patrizi e plebei, cit., 430 s.; A. Guarino, Il dittatore appiedato, cit., passim; G. Valditara, Perché il dictator non poteva montare a cavallo, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 54, 1988, 232 ss.; Id., Studi sul magister populi, cit., spec. 305; in parte A. Drummond, Rome in the Fifth Century, II. The Citizen Community, in The Cambridge Ancient History, VII.2. The Rise of Rome to 220 B.C., 2a ed., edited by F.W. Walbank, A.E. Astin, M.W. Frederiksen and R.M. Ogilvie, Cambridge 1989, 192; L. Franchini, Quinto Fabio Massimo, cit., 481 nt. 166.
[278] F.J. Vervaet, The Scope and Historic Significance of the Lex Metilia de aequando M. Minuci magistri equitum et Q. Fabi dictatoris iure (217 B.C.E.), cit., 227.
[279] C. Masi Doria, Sulla posizione costituzionale del magister equitum, cit., 47 ss.
[280] C. Masi Doria, Sulla posizione costituzionale del magister equitum, cit., 50.
[281] Un ulteriore elemento di distanza del testo varroniano dalle altre fonti si riceve dal confronto con il passo di Seneca Minor, Ad Luc. 108.31: Praeterea notat eum quem nos dictatorem dicimus et in historiis ita nominari legimus apud antiquos ‘magistrum populi’ vocatum. Hodieque id extat in auguralibus libris, et testimonium est quod qui ab illo nominatur ‘magister equitum’ est… Qui la derivazione della locuzione ‘magister equitum’ viene collegata al preesistente ‘magister populi’ e non viceversa, come invece suggerisce Varrone. Sul passo senechiano, v. G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 193 nt. 70; A. Zini, Il dictator e il magister populi, cit., 11 s., con bibliografia ivi citata.
[282] Sull’utilizzabilità del testo per la ricostruzione dei profili istituzionali connessi alla figura del magister populi, v. A. Zini, Il dictator e il magister populi, cit., 1 s. nt. 2 e 48.
[283] G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 223.
[284] Trattasi, in particolare, di due passi. Il primo è D. 1.2.2.19 (Pomponius libro singulare enchiridii): Et his dictatoribus magistri equitum iniungebantur sic, quo modo regibus tribuni celerum: quod officium fere tale erat, quale hodie praefectorum praetorio, magistratus tamen habebantur legitimi. In letteratura, specie riguardo alla comparazione pomponiana del magister equitum con i tribuni celerum e con i prefetti del pretorio, v. G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 170 e nt. 125; C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 159 ss., con ulteriore bibliografia ivi citata; B. Biscotti, Memoria civica e rappresentazione del potere, cit., 214 e nt. 281. Il secondo passo è D. 1.11.1 pr. (Arcadius libro singulare de officio praefecti praetorio): Breviter commemorare necesse est, unde constituendi praefectorum praetorio officii origo manaverit. ad vicem magistri equitum ppaefectus praetorio antiquitus institutos esse a quibusdam scriptoribus traditum est. nam cum apud veteres dictatoribus ad tempus summa potestas crederetur et magistros equitum sibi eligerent, qui adsociati participales curae ad militiae gratia secundam post eos potestatem gererent: regimentis rei publicae ad imperatores perpetuos translatis ad similitudinem magistrorum equitum praefecti praetorio a principibus electi sunt. data est plenior eis licentia ad disciplinae publicae emendationem. In letteratura, v. F. Grelle, Arcadio Carisio, l’officium del prefetto del pretorio e i munera civilia, in Index 15, 1987, 66; C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 162 s.
[285] Lydus, De mag. 1.14: Ὡς οὖν εἴρηταί μοι, τὴν μὲν πεζομάχον δύναμιν τοῖς ἑκατοντάρχοις, τὴν δὲ ἱππικὴν Κελερίῳ τῷ πρὶν τῆς ὅλης ἠγησαμένῳ στρατιᾶς παραδέδωκεν, πάσης αὐτὸν δυνάμεως καὶ τύχης καὶ διοικήσεως κρατεῖν ἐγκελευσάμενος, ὡς ἕτερον οὐθὲν ἢ μόνον τὸν στέφανον τὴν βασιλείαν παρὰ τῶν ἱππάρχων κατασχεῖν ἐξουσίαν ἀδέσποτον ἑαυτῇ. Tαύτην τὴν ἀρχὴν οἵ τε ῥῆγες οἵ τε δικτάτωρες ἔσχον ἅπαντες καὶ τὸ λοιπὸν οἱ Καίσαρες, ἔπαρχον τὸν ἵππαρχον μετονομάσαντες. Nel passo di aderenza sospetta al testo di Arcadio Carisio riportato nella nota precedente, Giovanni Lido propone un accostamento fra magister equitum e praefectus praetorio e suggerisce che dal sostantivo ‘ἵππαρχος’ derivi ‘ἔπαρχος’. Per Masi Doria si tratta di una paretimologia (C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 164). V. anche G. Valditara, Studi sul magister populi, cit., 149 e nt. 44. In tema di magister equitum, dittatura e provocatio ad populum, v. Lyd., De mag. 1.37 in F. Procchi, Dittatura, cit., 190.
[286] C. Masi Doria, Spretum imperium, cit., 323.