Premesse a un corso sulla proprietà fondiaria in diritto romano, con una appendice sul libro di
Capogrossi Colognesi in tema di ‘Proprietà e diritti reali’
Professore associato di Diritto romano
Università di Torino
SOMMARIO: 1. Preambolo. – 2. Fundus (e termini collegati). – 3. Dati di contesto. – 4. Problemi di origine e linee di sviluppo. 5. Appendice per l’analisi dei contenuti di L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali. Usi e tutela della proprietà fondiaria nel diritto romano, Roma 1999. – Abstract.
Le pagine che compongono questo scritto non ambiscono ad altro – è doveroso premetterlo – che a provvedere un abrégé ad uso didattico per filtrare i dati più rilevanti nell’enorme campionatura di punti e risvolti intorno al tema, quanto mai “germinativo”, della proprietà fondiaria in Roma antica, oltre gli assaggi istituzionali che si dànno per presupposti: come a dire, non proprio un passaggio dall’instituere all’instruere, ma un primo invito a finalizzare l’impegno verso un settore di studi, con piena apertura alle revisioni e correzioni che i tempi e i luoghi dell’insegnamento faranno di sicuro emergere. L’esperienza organizzativa da me maturata nella predisposizione dei contenuti di un corso universitario a distanza centrato sui regimi giuridici di appartenenza della terra e su taluni diritti satellite sulla stessa, neoistituito nell’anno accademico 2020-2021, mi ha convinto dell’utilità che possa rivestire il raduno di spunti informativi, oltreché nel concreto di materiali ed elementi forse di qualche efficacia per non far scivolare via aspetti e problemi che risentono talora di una concentrazione espositiva marcata nei testi dedicati agli studenti di Giurisprudenza (me ne rendo conto, spesso imposta o indotta da esigenze semplificanti provenienti “dall’alto”, che sempre di più si fatica a contrastare). Elementi, ho detto, ma anche sussidi ausiliari per condurre la preparazione senza lasciarsi scorare dal dubbio che incursioni di dettaglio in un campo non semplice possano allontanare lo studente medio non proprio apparecchiato per la cultura classica e dintorni: e nella cerca di un ideale testo guida e “da capezzale”, scorrendo la pubblicistica disponibile, ho individuato il volume Proprietà e diritti reali. Usi e tutela della proprietà fondiaria nel diritto romano di Luigi Capogrossi Colognesi, edito nel 1999 per i tipi di Il Cigno Galileo Galilei Edizioni[1], che rappresenta l’esito e la sedimentazione di ricerche condotte dallo studioso romano negli anni immediatamente precedenti. La struttura ricalca in massima parte quella del libro Ai margini della proprietà fondiaria, la cui terza edizione è uscita nel 1998 per La Sapienza Editrice LSE di Roma[2] (la prima e la seconda edizione datano rispettivamente al 1995 e al 1996). Ormai fuori commercio, se ne reputa qui opportuna una disamina particolareggiata in apposita appendice, per l’incomparabile messe di stimoli che essa è in grado di suscitare[3].
Che cosa si intende per proprietà fondiaria? L’aggettivo fondiaria viene ovviamente dal latino fundus, fondo. Che cosa si intenda per fundus è un punto che i giuristi romani hanno avuto modo di precisare in alcuni testi che sono stati salvati nel Corpus iuris civilis giustinianeo, con messe a fuoco che permettono di fermare conclusioni valide non solo per l’antichità romana.
Di sicuro il termine fondo assume connotati particolari nell’istituto del c.d. fundus fieri o fundus esse[4]. Per il lessicografo Festo dicitur populus esse rei, quam alienat, hoc est auctor[5], il populus fundus è quello che ha abbandonato o dismesso il proprio ordinamento per abbracciare quello romano. Più rilevante nell’economia del discorso che si sta per svolgere è ricordare come nel quindicesimo libro delle Etymologiae o Origines dovute a Isidoro di Siviglia (siamo nel VII sec. d.C.) del fondo si dia una spiegazione etimologica di questo tenore: fundus dictus quod in eo fundatur vel stabiliatur patrimonium[6], il fondo è così detto perché su esso viene fondato o stabilito un patrimonio.
Fiorentino, giurista del II sec. d.C., autore di un’opera istituzionale in dodici libri, ha cura di svolgere alcune puntualizzazioni di carattere terminologico: il fundus è il bene immobile, senza limitazione alla proprietà della terra, ma anzi con naturale ricomprensione della proprietà edilizia[7]; la proprietà fondiaria è dunque la proprietà che ha per oggetto i beni immobili, cioè il suolo e tutto quanto vi si trova stabilmente annesso, di conseguenza tanto i fondi rustici quanto i fondi urbani[8]. Non diversamente stanno oggi le cose, se si guarda alla sistematica del codice civile italiano all’interno del libro III (Della proprietà), dove il capo II del titolo II è intitolato Della proprietà fondiaria (artt. 840-921), comprensivo di nove sezioni tra cui la sezione V recante la rubricazione Della proprietà edilizia (artt. 869-872). Agri ed aedificia rientrano nell’appellazione di fondo e sono pertanto gli oggetti della proprietà fondiaria, che possiamo allora senz’altro intendere come proprietà immobiliare[9].
Si legge infatti in D. 50.16.211 (Florentinus libro octavo institutionum): Fundi appellatione omne aedificium et omnis ager continetur. Sed in usu urbana aedificia aedes, rustica villae dicuntur. Locus vero sine aedificio, in urbe area, rure autem ager appellatur. Idemque ager cum aedificio fundus dicitur.
Traduzione: Nella denominazione di fondo rientrano ogni edificio e ogni campo. Ma correntemente gli edifici urbani si chiamano aedes, quelli rustici si chiamano villae. Il luogo è un terreno senza edificio, che prende il nome di area in città, di ager in campagna. Inoltre un campo con edificio (c.d. podere) si dice fondo.
Premesso che nell’appellazione di fondo si contengono tanto l’aedificium quanto l’ager[10], Fiorentino passa in rassegna altre significazioni correnti nel linguaggio comune (in usu): le aedes sono le costruzioni urbane, le villae sono le costruzioni rustiche[11], il locus è un territorio non edificato che assume l’etichetta di area in città, di ager in campagna[12]. Il giurista Ulpiano (III sec. d.C.) avrebbe precisato nel libro 17 ad edictum che ager est locus, qui sine villa est (D. 50.16.27 pr.)[13]: l’agro è un luogo senza casa rustica (villa). La parte terminale del brano è interessante perché da essa si capisce come fundus abbia anche un significato più ristretto rispetto a quello esplicitato all’inizio: il fundus in senso stretto è in buona sostanza un podere agricolo, un’azienda agricola (ager cum aedificio fundus dicitur). A ben vedere qui si apprezzano le radici della preponderante valutazione della proprietà fondiaria come proprietà che riguarda anche e soprattutto la terra coltivata e coltivabile, pure se è del tutto abusiva, come si è visto, l’espunzione della proprietà edilizia dal concetto generale[14].
In D. 50.16.60 (Ulpianus libro sexagensimo nono ad edictum) si legge: Locus est non fundus, sed portio aliqua fundi: fundus autem integrum aliquid est. Et plerumque sine villa locum accipimus: ceterum autem adeo opinio nostra et constitutio locum a fundo separat, ut et modicus locus possit fundus dici, si fundi animo eum habuimus. Non etiam magnitudo locum a fundo separat, sed nostra affectio: et quaelibet portio fundi poterit fundus dici, si iam hoc constituerimus. Nec non et fundus locus constitui potest: nam si eum alii adiunxerimus fundo, locus fundi efficietur.
Che cosa si dice in sintesi in questo passo?[15] Ulpiano – giurista a cui appartiene lo squarcio – dice che il locus non è un fundus, ma una sua porzione, in quanto fondo si intende nella sua integrità (integrum aliquid): tuttavia è subito da avvertire che il distinguo tra fundus e locus è alquanto mobile e fluttuante, poiché dipendente da elementi soggettivi quali l’affezione, la volizione e la constitutio dominicali[16].
L’opinione soggettiva può determinare che anche un modicus locus, un luogo di modica estensione, venga percepito come fondo se posseduto con lo stesso animo con cui si sarebbe posseduto un fondo. Per giunta una parte di fondo – cioè un luogo – può assumersi come fondo se vi è stata una determinazione in tal senso (et quaelibet portio fundi poterit fundus dici, si iam hoc constituerimus), e un fondo può diventare locus se aggiunto ad un altro fondo, di cui costituirà solo più una parte (Nec non et fundus locus constitui potest: nam si eum alii adiunxerimus fundo, locus fundi efficietur).
Pare allora proponibile lo schema in calce:
Locus (autonomo) Fundus[17] Locus (come pars) ≠ Fundus
Fundus (D. 8.4.6.1)[18] Aedificia Agri Portio fundi
Del resto, la norma delle Dodici Tavole (la prima codificazione del diritto romano, risalente al 451-450 a.C.) relativa all’usucapione, nel riferirsi al tempo biennale per i fundi e annuale per le ceterae res (altre cose)[19], pare che fosse intesa in origine ristretta alle terre coltivabili o ai fondi rustici che dir si voglia, come dimostra la successiva estensione interpretativa volta a includere le aedes tra i fondi, il che suggerisce come non fosse di cristallo l’implicanza di una primitiva latitudine semantica della parola fondo, non idonea a far pensare già da subito e naturalmente alle costruzioni. Abbiamo dunque una norma e una successiva interpretazione estensiva, di cui espressamente ci porta a conoscenza uno scrittore come Cicerone nei Topica ad Trebatium e nella pro Caecina[20].
Oltre all’ager e al locus si segnala la particolare nozione di pratum. I prata sono terreni nei quali i frutti vengono ottenuti con l’uso della falce, secondo quanto indica D. 50.16.31: Pratum in quo ad fructum percipiendum falce duntaxat opus est: ex eo dictum, quod paratum sit ad fructum capiendum.
Giavoleno Prisco (I-II sec. d.C.), altro giurista romano vissuto prima di Fiorentino, aveva del resto chiarito (lo si apprende da D. 50.16.115, Iavolenus libro quarto epistularum) che fundus est omne quidquid solo tenetur, il fondo è tutto quanto si trovi unito al suolo, dal che risultano rilevare tanto il suolo propriamente detto quanto il c.d. soprasuolo (lo “spazio sovrastante al suolo” secondo l’art. 840 c.c.): altra conferma del significato di proprietà fondiaria come prima enucleato. Il giurista di scuola sabiniana proseguiva: Ager est, si species fundi ad usum hominis comparatur. Possessio ab agris iuris proprietate distat: quidquid enim adprehendimus, cuius proprietas ad nos non pertinet, aut nec potest pertinere, hoc possessionem appellamus: possessio ergo usus, ager proprietas loci est. Praedium utriusque supra scriptae generale nomen est: nam et ager et possessio huius appellationis species sunt.
Il praedium è un nomen generale, dice Giavoleno: è cioè un genere nel quale rifluiscono le due specie dell’ager e della possessio, che sono dunque nient’altro che species praedii, cioè rispettivamente la proprietà di un campo (ager proprietas loci est) e l’uso di un campo (possessio ergo usus) possono dirsi due specie del genere predio. Secondo Isidoro il praedium sarebbe detto così quasi come una previsione per ogni padre di famiglia oppure come reminiscenza delle appropriazioni agrarie a danno dei popoli vinti e perciò a titolo di preda bellica[21].
Esistono differenziazioni di matrice augurale tra il concetto di ager e quello di terra, secondo quanto riferisce Varrone reatino nel trattato De lingua Latina 7.2.18, per il quale ager è un luogo geografico specifico con una vocazione produttiva, mentre terra è un areale geografico più vasto[22].
Il fondo di notevole estensione è detto latifundium, latifondo (latus significa esteso, per cui si parla di un latus fundus), anche se i precisi contorni di tale nozione rimangono notevolmente sfumati pure per chi ha inteso espressamente indagarli[23].
Il fundus si dice instructus quando è considerato unitamente agli strumenti necessari per la sua coltivazione: si dice anche fundus cum instrumento, secondo quanto riporta il giurista di età augustea Marco Antistio Labeone, che non scorge differenze tra le due nomenclature (D. 33.7.5). Va tuttavia ricordato come risalga a Masurio Sabino (primo secolo dopo Cristo) un’opinione differenziatrice, destinata a incontrare più largo seguito nella giurisprudenza, secondo la quale il fondo istruito o fornito abbraccia più cose – p. es., anche elementi voluttuari o ricreativi – rispetto al fondo con gli strumenti[24].
Il fondo si dice optimus maximus quando non vi sono pesi reali sullo stesso e il proprietario ne ha il pieno ed esclusivo godimento (cfr. art. 832 c.c.). I fundi in Romano solo, ai quali in seguito vengono equiparati i fundi in Italico solo, erano classificati tra i beni più preziosi, le c.d. res mancipi, e la proprietà sugli stessi si trasferiva solitamente con mancipatio, ma poteva utilizzarsi anche la forma negoziale (una ipotesi che oggi si chiamerebbe di c.d. giurisdizione volontaria, cioè una situazione in cui non si deve comporre un conflitto di interessi, ma solo realizzare davanti a un magistrato determinati effetti giuridici) della in iure cessio.
Il fondo è “chiuso” quando è stato recintato dal proprietario, è “intercluso” se non ha accesso dalla pubblica via e per raggiungerlo è necessario passare sulla proprietà di altri: in relazione a questa situazione è frequente la costituzione di una servitù di passaggio (iter, con larghezza di due piedi): vale a dire il diritto di passare (ius eundi) sul fondo altrui (fondo servente) per raggiungere il fondo a vantaggio del quale è stabilito il diritto (fondo dominante).
Il fundus dotalis era un immobile costituito in dote che il marito, stando a una prescrizione della lex Iulia de adulteriis del 18 a.C., non poteva alienare. Si tratta di una delle molte ipotesi di limitazioni legali al diritto di proprietà, vincibile qualora la moglie avesse acconsentito all’alienazione.
Come si è ricordato sopra, i fundi in Italico solo erano considerati res mancipi, e la proprietà sugli stessi si trasmetteva con i negozi della mancipatio o della in iure cessio. Le res mancipi si contrappongono nel diritto romano alle res nec mancipi, la cui proprietà passava attraverso il semplice negozio di traditio (ma si poteva ricorrere anche alla cessione giudiziale). Giova sottolineare che per fundi in Italico solo (fondi in suolo italico) dobbiamo considerare tanto i fondi rustici quanto i fondi urbani, tanto gli agri quanto le aedes: mancipi res sunt praedia in Italico solo, tam rustica, qualis est fundus, quam urbana, qualis domus[25]. Anche qui può riproporsi il discorso accennato per l’usucapione, e cioè la necessità di esplicitare la rilevanza degli edifici e delle case visto l’uso frequente della parola fundus in senso stretto, emergente dalle stesse fonti di cognizione.
La proprietà romana era il diritto reale per eccellenza: si dice anche, diritto reale fondamentale[26]. Diritto reale vuol dire che esso è vantabile non rispetto a un singolo soggetto determinato (come accade nei c.d. diritti relativi, che riguardano crediti fatti valere da un creditore verso un debitore), ma erga omnes, cioè nei confronti dell’universalità dei consociati, che tutti quanti devono astenersi dal recare turbamento al dominio del proprietario. L’appunto rispecchia una rilevanza anche e soprattutto sul piano processuale, perché i diritti reali si facevano valere con actiones in rem (azioni reali), di contro ai diritti di credito per i quali si agiva con actiones in personam (azioni personali).
Le cosiddette ‘fonti di cognizione’ del diritto romano non tramandano una definizione della proprietà, ma con riferimento al dominio sulle res soli (beni immobili) sono tralatizie alcune precisazioni che farebbero pensare sulle prime a una estensione illimitata delle facoltà dominicali, come quando ci si imbatte nell’affermazione della Glossa accursiana (XIII secolo)[27] che la proprietà immobiliare si estende usque ad caelum et usque ad inferos, cioè abbraccia tutto il soprasuolo e comprende tutto il sottosuolo. Per l’esperienza romana rilevavano più che altro le facoltà di sfruttamento del sottosuolo (si pensi alle miniere, ben diffuse già a partire dall’antichità).
Una definizione postromana di proprietà è quella di Bartolo, secondo il quale si tratterebbe di un ius de re corporali perfecte disponendi nisi si quis lege prohibeatur. Esiste anche la definizione, anch’essa non romana seppure con qualche connessione in sparse testimonianze del Digesto (in primis D. 5.3.25.11), che delinea un ius utendi et abutendi re sua quatenus iuris ratio patitur. Tradotto: il diritto di usare e consumare la cosa propria fin dove ciò sia consentito dalla ragione del diritto (appunto, quàtenus iuris ratio patitur). Il verbo latino abuti è stato tradotto qui consumare, in accordo alle significanze giuridiche del termine, ma risulta proponibile anche la resa ‘abusare’, con il che verrebbe evidenziata la caratteristica della proprietà come diritto anche di far cattivo uso di una cosa a insindacabile giudizio di chi ne sia il proprietario pieno ed esclusivo.
Nel diritto vigente l’art. 832 del codice civile definisce il proprietario e non la proprietà: «il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico».
Da questo punto di vista è utile ricordare che i divieti di immissione riconosciuti dal diritto romano riguardarono fattispecie concrete particolari e che fu del tutto assente un principio generale di divieto dei cosiddetti atti emulativi (acta ad aemulationem), quei comportamenti cioè tenuti dal proprietario senza costrutto per sé e con il solo scopo di arrecare disturbo al vicino.
La proprietà va incontro a numerose limitazioni, e ciò è ancor di più vero per la proprietà fondiaria, detta anche proprietà immobiliare. Infatti le cose mobili sono innumerevoli e non sono frazionamenti artificiosi di una realtà finita come la terra, e quanto si compie su una porzione di terra conduce spesso a esternalità negative per altri, soprattutto per i vicini, stando al classico insegnamento di Vittorio Scialoja[28], il quale ha d’altra parte efficacemente dimostrato la rilevanza del dominio fondiario per una serie nutrita di ragioni, tra cui la sicurezza e la facile tassabilità, che unitamente ad altre comportano la necessità di una specifica regolamentazione in qualsivoglia sistema o ordinamento giuridico[29].
Sono diverse le limitazioni della proprietà immobiliare o fondiaria. Tra le limitazioni di diritto pubblico lo Scialoja indicava la imposta fondiaria[30], che era la regola per i fondi provinciali, mentre per i fondi su suolo italico e assimilati l’imposta venne prevista come si sa soltanto nel 292 con Diocleziano.
Esiste poi l’istituto della espropriazione per pubblica utilità[31], che il pensiero corrente reputa essere esistito anche in Roma antica, dove prendeva il nome di emptio ab invito, anche se non pochi studiosi sono dell’avviso che l’istituto dell’esproprio a carattere generale sia stato configurato solo nel corso del principato. Va ricordata anche la confisca, che ha carattere punitivo per il soggetto che venga condannato all’esito di determinati procedimenti penali.
Alcune limitazioni della proprietà immobiliare sono decisamente importanti: il fondatore del principato Ottaviano Augusto (inizio della c.d. età classica) vieta la costruzione di edifici che superino i 70 piedi, e diversi senatoconsulti pongono un regime di vincoli per gli edifici di pregio, di cui è vietata la demolizione allo scopo di riutilizzarne i materiali: emblematici in tal senso sono i senatoconsulti Osidiano e Aciliano[32]. Può essere interessante rilevare che il discorso sui limiti della proprietà edilizia ha radici molto antiche, dal momento che già all’indomani dell’incendio di Roma provocato dai Galli (386 a.C.) vi furono fenomeni speculativi e iniziò un processo involutivo rispetto all’esigenza di rispettare le distanze tra gli edifici (si pensi all’ambitus): qui i romanisti colgono la genesi di un fenomeno nuovo e prima sconosciuto, quello della parete confinaria comune (paries communis), che richiedeva d’essere giuridicamente regolato[33].
Se gli alberi crescenti su un fondo si propagavano con i rami nel fondo del vicino, questo doveva tollerarlo se le sporgenze arboree erano ad una altezza superiore ai quindici piedi. Poteva invece tagliare i rami sporgenti al di sotto dei quindici piedi e, se impedito nel farlo, gli si concedeva un apposito rimedio, sempre un interdetto, chiamato interdictum de arboribus caedendis. D’altro canto con altro strumento pretorio, noto come interdictum de glande legenda, si potevano raccogliere i frutti della propria pianta caduti però nel fondo del vicino: si poteva entrare a questo scopo nel fondo del vicino, sempre ovviamente che costui non provvedesse personalmente alla consegna per evitare l’ingresso nel proprio fondo, tertio quoque die, cioè, come pare, a giorni alterni, «ogni due giorni»[34].
Cartina di tornasole per la rilevanza della proprietà terriera è l’art. 44 della Costituzione italiana, per cui è possibile che l’imposizione per legge di vincoli od obblighi «alla proprietà terriera privata», con la fissazione «limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie». Nello stesso articolo troviamo descritta una preferenziale attenzione verso la piccola e media proprietà. Nell’art. 42 più in generale è sancito comunque che la proprietà privata debba avere una «funzione sociale» e risultare accessibile a tutti, nel senso che tutti siano messi nelle condizioni di divenire proprietari secondo le modalità contemplate dall’ordinamento. L’art. 47 fa espressa menzione alla proprietà fondiaria abitativa, sempre per favorirne il più vasto accesso.
Si è detto che la proprietà era il diritto reale per eccellenza, o diritto reale fondamentale. Essa era un ius in re propria. Ma accanto a questa posizione assoluta paradigmatica sussistevano nel diritto romano altri diritti reali, che in quanto insistenti su una cosa altrui, si dissero iura in re aliena, diritti reali su cosa appartenente ad altra persona. Tali diritti vengono anche detti diritti reali limitati, minori o frazionari, in quanto comportano la compressione del diritto di proprietà che tornerà a riespandersi solo una volta che il diritto reale limitato si sia estinto (a proposito di questo fenomeno si parla del carattere di «elasticità» della proprietà). I diritti reali su cosa altrui possono essere di godimento (servitutes, ususfructus e diritti affini come uso e abitazione, ius in agro vectigali, enfiteusi e superficie) o di garanzia (pegno e ipoteca).
Se i problemi di origine, in relazione a ogni questione discutibile, rappresentano sempre il momento nodale per la comprensione dei fenomeni giuridici, ciò è quanto mai vero riguardo alla valutazione della proprietà fondiaria nell’antica Roma.
Se ci muoviamo a considerare le origini della proprietà fondiaria, dovremo subito dire di una particolarità spesso poco evidenziata, ma oggi per lo più accolta, e con ragioni solide, dalla dottrina romanistica: per quanto ci è dato sapere, la proprietà sugli immobili è successiva rispetto alla proprietà di alcuni beni mobili ritenuti ab origine indispensabili per sviluppare un minimum di autonomia economica – secondo alcuni, anche politica – dei patres all’interno delle organizzazioni gentilizie[35].
Come è possibile affermare tanto? Davvero l’appartenenza in regime di proprietà privata della terra costituisce un fenomeno ‘recenziore’ rispetto al meum esse coinvolgente le res mobiles? Ci sono indizi seri e concordanti in tal senso, vediamo di passarli sotto esame uno ad uno.
a) La più antica forma di tutela privata delle posizioni giuridiche assolute, la c.d. azione di legge sacramentale riguardante una cosa (legis actio sacramenti in rem), reca al suo interno una dichiarazione vindicatoria che sembra in effetti confacente solo alle cose mobili (le uniche che possano essere ‘portate’ in giudizio, come richiedeva la procedura);
b) lo stesso discorso, mutatis mutandis, vale per la mancipatio, negozio arcaico e solenne con effetti traslativi della proprietà sulle res mancipi, pensato per il passaggio di mano di beni mobili (manu capere);
c) i termini più remoti per indicare ‘i beni in proprietà’ sono due: familia e pecunia (spesso: familia pecuniaque come nella restituzione ciceroniana e di Cornificio di Tab. 5.3 o familia pecuniave), termini che si riferivano in una primissima fase aurorale, secondo gli studi più accreditati, ai sottoposti della comunità governata dal capofamiglia (familia) e agli animali funzionali all’esercizio delle attività agricole (pecunia, da pecus, gregge), beni semoventi e comunque mobili, non dunque immobili come la terra. Familia deriverebbe secondo Festo dal termine osco famel, da cui il latino famulus, schiavo[36], mentre l’etimo di pecunia da pecus appare subito perspicuo.
Secondo la lineare messa a punto di György Diósdi[37], la trasformazione del binomio familia pecuniaque ad indicare qualunque tipo di proprietà, senza distinzioni in seno a quella mobiliare[38] e addirittura con ricomprensione anche di quella immobiliare, è già realizzata e implicata nella normativa delle dodici tavole (451-450 a.C.) e in alcuni versetti in particolare dove evidentemente il vocabolo familia sta ad indicare il patrimonio in generale[39]. Dunque la proprietà terriera è anch’essa assai risalente, ma successiva alla proprietà delle cose mobili.
Se queste sono le premesse, è chiaro che agli inizi la terra non era proprietà privata di questo o quel cittadino-suddito, ma veniva goduta collettivamente dalle gentes che costituivano il tessuto connettivo di quella città arcaica[40]. La migliore dottrina ritiene dunque che in origine ci fosse una comunanza agraria gestita dalle genti: il campione di questo indirizzo è considerato lo studioso tedesco Theodor Mommsen. Anche il giovane Max Weber perviene a queste conclusioni nella sua Römische Agrargeschichte (1891), opera i cui contenuti sono stati puntualmente riassunti per noi dal Capogrossi Colognesi[41]. Che il godimento di stampo collettivistico fosse gestito dalle gentes è significativo e credibile, in quanto la gens a differenza della familia non aveva un capo unico, non aveva un pater gentis (mentre esisteva un pater familias con prerogative comunque forti), cosa ancora ben evidente nella norma decemvirale relativa alla successione intestata dove si parla genericamente della classe di successibili dei gentiles[42].
La proprietà individuale, sempre alla luce di quanto detto, doveva e poteva far capo ai patres familiarum, i quali più da vicino potevano avere l’interesse di arrecare quelle migliorie tecnologiche che forme ancora arretrate di cerealicoltura non rendevano necessarie. Abbiamo dunque una divaricazione, da un lato, tra forme piuttosto misere di cerealicoltura e agricoltura estensiva; dall’altro, principi più evoluti di arboricoltura e agricoltura intensiva[43].
Si è ipotizzato che solo le cosiddette res mancipi fossero in origine beni privati dei patres familiarum, ma all’interno di questa categoria sicuramente va operata una distinzione, posto che a una composizione primordiale – schiavi e animali, forse l’orto con la capanna di assegnazione romulea su cui si dirà tra poco qualcosa – verrà aggiungendosi proprio la terra coltivata intensivamente e sottratta al godimento collettivo dei gentiles: i fondi rustici in Romano solo (ben presto, in Italico solo).
Una dottrina importante è anzi nel senso di ritenere che i bina iugera, i 2 iugeri di terra assegnati da Romolo (o da Numa per Cicerone[44]) ai primi abitanti dell’insediamento cittadino, siano d’ostacolo alla ricevibilità della ricostruzione proposta del regime comunitario della terra, peraltro intonato alle riflessioni storiografiche correnti. Se già Romolo, si dice, volle attribuire due iugeri di terra a ogni cittadino, il dato andrebbe a cozzare con l’assorbenza dell’organizzazione comunitaria delle terre. Ma i due iugeri forse non devono vedersi come attribuzione economico-produttiva per i titolari, in quanto si trattava di assicurare uno spazio intangibile e franco da esternalità per la comunità politica capeggiata dal patriarca, che aveva bisogni minimi di casa dove abitare e di orto-giardino, probabilmente non bastevoli per il pieno sostentamento del gruppo[45]. Sulle orme del Mommsen si è voluto dunque enfatizzare il carattere limitato e integrativo dell’heredium, rispetto alla terra arabile per la quale vigeva un comunismo agrario.
Un momento di svolta si situa con la decisa affermazione della proprietà terriera all’inizio della monarchia etrusca: siamo all’alba del VI secolo e ci rifacciamo alla figura di Tarquinio Prisco. La monarchia etrusca è passata alla storia per la sua politica di marginalizzazione delle consorterie aristocratiche gentilizie arroccate nel senato, le quali avevano interesse al perpetuarsi del regime di sfruttamento della terra non di stampo proprietario, ma di tipo possessorio, il godimento collettivistico e comunistico delle terre ‘pubbliche’ oggetto appunto di possessiones.
A prescindere da politiche più ampie di articolazione di tale scontro (l’episodio dell’augure Atto Navio o Nevio, l’annacquamento della compagine aristocratica senatoria con l’immissione di nuovi soggetti presi tra il demos per integrare il plenum di 300 senatori), ciò è evidente proprio per il regime della proprietà fondiaria che si irrobustisce con la scelta di procedere ad assegnazioni viritane in proprietà privata dell’ager captus ex hostibus (l’agro espropriato alle popolazioni finitime aggiogate e sconfitte). Livio (1.35.10) narra che Tarquinio Prisco procedette ad attribuire terreni nel foro per edifici privati da adibire ai commerci: ab eodem rege et circa forum privatis aedificanda divisa sunt loca; porticus tabernaeque factae. Le fonti, e in particolare ancora Livio 1.46.1, sono esplicite nel ricordare che anche il successivo dinasta etrusco, Mastarna-Servio Tullio, agì decisamente in tal senso, anche se gli appezzamenti distribuiti furono di modesta estensione[46].
A giocare in questa direzione fu con ogni probabilità l’innovazione nelle tecniche agrarie portata dall’introduzione di forme di agricoltura intensiva, accanto alle attività di pastorizia-allevamento e d’agricoltura estensiva che più si prestavano per l’innanzi al godimento in comune delle terre pubbliche. In più tale momento di snodo si coglie se valutiamo l’introduzione di alcune colture pregiate come l’ulivo proprio sotto il regno del primo Tarquinio.
Gli sviluppi successivi, tuttavia, portarono a un arresto della linea evolutiva inaugurata dai reges etruschi: la stessa fondazione della repubblica romana (509 a.C.) viene sempre più letta e interpretata dagli storici contemporanei come una “serrata dei ranghi” dei patrizi contro i ceti popolari e mercantili troppo scopertamente favoriti dalle ultime politiche regie. E quei ceti aristocratici volevano far sì che la terra, o almeno la gran parte di essa, non venisse assegnata in proprietà privata, magari a elementi non saldati col patriziato in virtù di legami clientelari, ma continuasse a essere considerata agro pubblico soggetto alla libera occupabilità da parte delle strutture sociali aristocratiche. I plebei, stando a Nonio Marcello che si rifà a Cassio Emina, venivano in effetti addirittura espulsi dall’agro pubblico a causa della loro tenuitas: quicumque propter plebitatem agro publico eiecti sunt[47]. Va rilevato che i possessori di terre pubbliche accedevano alla c.d. tutela interdittale, essendo possibile valersi dell’interdictum uti possidetis,
La destinazione ad agro pubblico delle terre conquistate fu dunque la regola negli sviluppi storici successivi, l’assegnazione in proprietà privata l’eccezione. L’annessione di Veio dopo una guerra durata undici anni (406-396 a.C.) agli inizi del quarto secolo a.C. comportò sì vantaggi per la plebe rusticana, ma occorre considerare che i lotti di 7 iugeri (comunque, più di un ettaro e mezzo) distribuiti in proprietà viritana a plebei, erano una goccia nel mare dell’agro veiente eretto per almeno altri 100000 iugeri ad ager publicus populi Romani liberamente occupabili dai più potenti[48]. Le assegnazioni in proprietà privata dell’ager Veientanus costituirono insomma «un avvenimento eccezionale»[49].
Viene così a imporsi alla nostra attenzione la fondamentale segmentazione concettuale tra ager publicus e ager privatus. La destinazione ordinaria era quella pubblica, con regimi diversificati. Si parlava di c.d. ager occupatorius quando la terra pubblica era occupabile liberamente dal primo venuto, che poteva tenerla a titolo di possessio. Gli occupanti vennero definiti possessori e il loro controllo fondiario venne tutelato dagli interdicta possessori. La cupiditas delle forze egemoni della società romana fece sì che l’impossessamento di porzioni sempre più vaste di agro pubblico assumesse contorni allarmanti, tanto che una c.d. lex Licinia Sextia de modo agrorum (367 a.C.) sancì un modus, cioè un limite, all’occupabilità della terra, fissato a 500 iugeri (125 ettari), limite che per quanto generoso venne ripetutamente violato, a partire dal promotore della ‘legge’ stessa, Caio Licinio Stolone, la cui prevaricazione sarebbe stata sanzionata stando al racconto tradizionale da parte di Popilio Lenate.
Agro pubblico era anche l’agro pascolivo, destinato al pascolo degli animali: il c.d. compascuo o ager compascuus. Si ritiene fondatamente che tale assetto agrario sia antichissimo e costituisca una cerniera di congiunzione tra terra pubblica a destinazione non prefissata e terra privata in proprietà solitaria. Il compascolo su loca publica forniva un completamento dei vantaggi economici ottenibili altrove con il dissodamento della terra. In effetti l’ager compascuus non era sfruttabile da parte di chiunque, ma solo dai proximi, cioè i proprietari e i possessori di ager publicus in posizione di contiguità geografica (relictus ad pascendum communiter vicinis, scrive il lessicografo Festo nel secondo secolo d.C.). Anche in questo caso gli eccessi furono però numerosi, tanto che ancora una legge agraria del II secolo a.C. impose un limite per l’immissione di capi di bestiame (500 ovvero 100 animali a seconda della minore o maggiore pezzatura). Se l’immissione dell’animale era possibile a pagamento, si parlava di ager scripturarius, dove la scriptura era appunto il quantum richiesto per ogni singolo capo immesso.
Abbiamo poi l’ager vectigalis, fondo vettigale, concesso dietro pagamento di un canone chiamato vectigal, l’ager censorius o ager locatus ex lege censoria oggetto di locazioni censorie soprattutto per le zone più fertili e appetibili (come, nell’antichità, l’ager Campanus) e l’ager quaestorius venduto – ma ovviamente non poteva esserci passaggio di proprietà – dai questori dietro corresponsione di un prezzo una tantum e di un canone periodico. Da citare anche gli agri viasiis vicanis dati e i trientabula (e dunque gli agri in trientabulis fruendis datis), concessi ai creditori dello stato in luogo della restituzione delle somme prestate per le esigenze connesse alla seconda guerra punica.
Le assegnazioni che invece si facevano in proprietà privata avvenivano con le ritualità della divisio et adsignatio agrorum delle terre sottratte ai nemici: non era, come si è notato, la destinazione primaria. Si parlava di assegnazioni viritim, “viritane”, vale a dire esclusive e piene, ai cittadini, con la pratica della centuriazione, cioè la parcellizzazione dei lotti a forma di quadrilatero regolare, laddove la suddivisione in lotti rettangolari (scamnatio e strigatio: rettangoli e non quadrati) forse rifletteva una condizione giuridica diversa, di concessione onerosa di parti dell’ager publicus: non è escluso che l’illazione, presente in Max Weber e fondata su un passo dello scrittore gromatico Igino (I-II sec. d.C.), abbia del credibile, perché i confini erano segnati nelle mappe catastali e non solamente in relazione all’estensione senza interessamento della localizzazione dell’appezzamento, come avveniva per i campi privati. Le porzioni di terra che restavano fuori dallo schema della divisione e assegnazione si chiamavano subseciva, erano di proprietà pubblica, o per meglio dire costituivano parte dell’ager publicus.
Per le attribuzioni in proprietà privata era consuetudine lasciare una zona perimetrale destinata a consentire più facilmente la viabilità (da ambire, camminare, viene la parola ambitus, su cui cfr. subito infra) dei proprietari, inusucapibile e probabilmente non suscettibile di dominio privato[50]: la larghezza di tale fascia era di circa cinque piedi e si chiamava limes (o iter limitare) per i fondi rustici, prendeva il nome di ambitus per i fondi urbani (alcuni ritengono che l’ambitus fosse largo cinque piedi come il limes, altri opinano che fosse di due piedi e mezzo). Con l’andare del tempo e con la alienazione di porzioni degli agri originari vennero a costituirsi situazioni in cui due fondi confinavano direttamente senza la separazione della zona del limes o dell’ambitus: si parlò al proposito di agri arcifinii, senza la zona franca del limes e pertanto direttamente confinanti.
Si vede esattamente nel II secolo a. C. il momento che segna l’inizio della fine della preponderanza delle terre pubbliche sugli agri privati, ma fino alla fine del secolo la destinazione pubblica è ancora prevalente[51]. All’inizio del secolo il modello imprenditoriale dell’azienda agricola, fulcro di uno sviluppo capitalistico imponente (il c.d. modello della villa Catoniana), si basa su rendite ricavate grazie al mero possesso di terre astrattamente di pertinenza dello stato. Del resto si osserva generalmente che ancora nella lex agraria epigrafica risalente al 111 a.C., dunque sullo scorcio del secolo che stiamo considerando, adottava categorie giuridiche fluttuanti e notevolmente viscose, evidenti nel modo di descrivere le attribuzioni “proprietarie”: Uti frui habere possidere[52] è fraseologia dai contorni ambigui, in ogni caso distante dalla terminologia che si affermerà definitivamente di lì a poco.
Già col tramonto dell’esperienza graccana era stata comunque sostanzialmente liquidata la parte di ager publicus consentita entro i limiti di legge, perché per agevolare l’attuazione della lex Sempronia agraria evitando in radice i malcontenti di molti occupanti, le possessiones non ultra modum erano state convertite in piena proprietà. All’indomani delle speranze di riforma incarnate dai Gracchi una serie di provvedimenti, successivamente noti come “leggi appianee”, portarono all’abrogazione dei vectigalia per i lotti assegnati e alla conversione in una sostanziale proprietà.
Più tardi, nel I secolo, il processo sarà catalizzato dalle svariate concessioni ai veterani che turnariamente risultavano essersi schierati dalla parte giusta nel tormentato periodo delle guerre civili che dilaniarono l’ultima repubblica. Probabilmente già all’inizio del secolo fa la sua comparsa il termine astratto dominium ad indicare il diritto di proprietà, facendone da testimonio uno squarcio di Alfeno Varo (cremonese, console suffetto nel 39 a.C.) riproducente forse un responso del maestro Servio Sulpicio Rufo[53]. Più tardi, consegnata alla storia anche l’esperienza repubblicana, si parlerà di proprietas e di proprietarius, ma la valenza materialistica dell’appartenenza sarà ancora ben viva e vitale, tanto da giustificare l’assenza del diritto di proprietà tra le res incorporales (tra cui, per exempla parlando, figuravano eredità, usufrutto, servitù e rapporti obbligatori), essendo più congeniale alla mentalità romana risolvere quel potere nella materialità della res ipsa del quale si avesse il godimento tendenzialmente pieno ed esclusivo.
– Il primo capitolo
Veniamo ora ai ragionamenti con cui Capogrossi Colognesi inizia il suo libro, seguendoli da presso nella loro sequenza. L’interdictum quod vi aut clam (interdetto per quanto fatto con violenza o di nascosto) era un rimedio pretorio contemplato dal diritto romano (D. 43.24) a difesa della proprietà e non solo, visto che legittimato a richiederlo era qualunque interessato, anche non proprietario, mirandosi alla riduzione in integro dello stato dei luoghi alterato da chiunque avesse esplicato un’attività sul suolo altrui, portandola a compimento. Dunque opere illecite realizzate sull’altrui fondo (facere in alieno), che di solito il proprietario di tale fondo intendeva rimuovere. L’interdictum in questione era pertanto restitutorio (restitutorium)[54].
Da questo punto di vista sembra possibile fissare i paletti rispetto alla c.d. denuncia di nuova opera (D. 39.1), dove si stigmatizza un’attività costruttiva o demolitoria che taluno svolga su suolo proprio e ancora in corso di esecuzione. Se il vicino, per esempio, sopraeleva in dispregio della servitù di non sopraelevare gravante sul suo fondo, ecco che l’intimante (nuntians) può operare una diffida extragiudiziale per fermare la prosecuzione dei lavori da parte del nuntiatus (intimato), che quei lavori stesse eseguendo in suo. Va precisato che la lettura delle fonti presenta talora oscillazioni e contraddizioni nell’applicazione dei criteri descritti, ma che tali criteri sono enunciati in forma di regola generale in un passo del Digesto appartenente al giurista Ulpiano[55].
Per l’applicazione dell’interdetto si profilano alcune condizioni sine qua non (condizioni in presenza delle quali poter invocare il provvedimento in discorso):
a) campo d’azione ristretto agli immobili;
b) un opus in solo factum (vale a dire, un’opera o un’attività esplicata sul suolo e modificativa dello stesso con conseguenze apprezzabili);
c) dannosità dell’intervento su suolo altrui (quindi non rilevanza o non sanzionabilità delle migliorie fatte su suolo altrui pur contro la volontà del proprietario).
Quanto al criterio sub b) c’è traccia di un punto di vista che, se accolto, avrebbe potuto determinare un sostanziale superamento del requisito. Si tratta dell’opinione di un giurista tardorepubblicano, Trebazio Testa, che reputava attivabile l’interdetto anche al cospetto di una semplice condotta risolventesi nel trasporto di letame per il fondo altrui. Pronta la reazione oppositiva di un altro giurista, Marco Antistio Labeone, secondo il quale il trasporto di letame per il fondo altrui non era da vedere come opus in solo factum (D. 43.24.22.3).
La soluzione di Labeone è da considerarsi vincente nello sviluppo successivo, mentre priva di conseguenze è l’isolata presa di posizione di Trebazio, che probabilmente si poneva in urto con gli assunti giurisprudenziali già alla sua epoca accolti, sia perché si abilitava ad agire con l’interdetto in assenza di danno, sia perché si consentiva di farlo in assenza di un’opera incidente sul suolo.
Per quanto riguarda il requisito del danno esso risulta enucleato da due giuristi del II secolo, Celso e Giuliano. In particolare, Celso (D. 43.24.18 pr.) sostiene che il taglio di un bosco ceduo immaturo espone all’interdetto, mentre il taglio di un bosco ceduo maturo non espone all’interdetto pur essendoci la possibilità di agire per furto in caso di sottrazione dei tagli. Salvio Giuliano, pressoché coetaneo di Celso, si esprime ugualmente per la necessità del danno (D. 43.24.11.4). In antitesi a queste posizioni un altro giurista di quegli anni sembra però sposare una tesi diversa (D. 43.24.22.1): secondo Venuleio Saturnino, difatti, chi abbia arato clandestinamente – clam – o con violenza (vi: cioè senza tener conto di una proibizione espressa) il fondo altrui, come anche chi abbia ivi scavato un fosso, è colpibile dall’interdetto nonostante l’assenza di danno, poiché non si deve guardare alla qualità, alla qualitas dell’opera (cioè se sia positiva oppure no), ma solo all’inerenza al suolo dell’opera fatta. Sono da respingere le chiavi interpretative degli antichi (i medievali distinguevano tra opera formata e opera informe, rispettivamente fossa e aratura) e dei moderni (il Negri nega che l’aratura stessa sia un opus), perché il passo si spiega molto pianamente nella dimensione di controversialità della giurisprudenza romana. Venuleio semplicemente non richiedeva l’elemento del danno a differenza di Celso e Giuliano, e dunque per lui anche un opus utile ma fatto in solo alieno vi aut clam comportava la soggezione all’interdetto.
Perché un agricoltore dovesse scavare fossi in campi altrui o ararli potrebbe sembrare sulle prime abbastanza incomprensibile. In realtà non abbiamo a che fare con casistiche scolastiche ma con concrete evenienze che si presentavano nella realtà agraria romana, dove le divisioni proprietarie necessitavano talora della realizzazione di attività ad ampio raggio, incidenti su tutta l’ampiezza di un determinato comprensorio.
In progresso di tempo l’orientamento fatto proprio da Celso e Giuliano contro Venuleio prevale e si impone nella grande sistemazione ulpianea del commentario all’editto. Ulpiano (D. 43.24.7.6-7) esprime con la massima esplicitezza che per ricorrere all’interdictum quod vi aut clam occorre che si sia prodotto un danno, come per esempio nell’attività di chi abbia disperso letame in fondo altrui già ben concimato (mentre, a contrario, si può dire che la concimazione di un campo altrui non concimato in precedenza sia vantaggiosa e non dannosa, e pertanto non giustifichi l’attivazione dell’interdetto). Al contrario se qualcuno abbia fatto su suolo altrui un’opera agri colendi causa (cioè a fini colturali e agricoli) l’interdetto non ha luogo quando sia stata migliorata la condizione agraria del fondo, sebbene l’opera venga fatta vi (con la violenza) o clam (di nascosto).
La sistemazione di Ulpiano rende manifesta l’esagerazione di quanti hanno insistito sul carattere sovraneggiante della proprietà privata in diritto romano. Da quanto detto, risulta infatti che la valutazione del proprietario proibente circa l’assetto del proprio fondo cedeva di fronte all’esternalità non negativa ai fini agricoli posta in essere da un estraneo, magari il titolare del fondo vicino che si era fatto carico di superiori interessi di governo della terra.
Le affermazioni chiare leggibili in D. 43.24.7.6-7 sembrano però contrastare con quanto lo stesso giurista dice altrove, e precisamente in D. 43.24.9.3 [56]. Vi si prospettano due casi. Il primo: qualcuno è entrato nel campo altrui o ha scavato lì una fossa, dando luogo all’applicazione dell’interdetto. Il secondo: qualcuno ha disperso o bruciato un acervus (che sarebbe un cumulo di materiali) senza che ciò sia impiegato per il campo, con conseguente esclusione dell’interdetto. Per quanto riguarda il secondo caso la soluzione negativa circa l’attivabilità del rimedio si spiega in quanto il bruciamento o la dispersione dell’acervo è forse un opus, ma non un opus in solo factum (già Venuleio aveva sostenuto che l’acervo non è connesso al suolo, solo non cohaeret). In ogni caso non bisogna far discendere meccanicisticamente un argomento a contrario per dedurre che la dispersione o bruciamento di materiali che servivano ad uso del campo avrebbe dato luogo alla soluzione opposta (esperibilità dell’interdictum). Abbastanza arduo dare un senso invece al primo caso e alla soluzione per esso prospettata. Il semplice ingresso in un campo altrui sarebbe sanzionato, quando in realtà già era stato rigettato il punto di vista di Trebazio sull’ingresso e trasporto di letame, che è molto di più del semplice ingresso. Capogrossi Colognesi giustamente ipotizza che il testo sia corrotto nella sua restituzione attuale. Non è accoglibile la proposta dei medievali di sostituire intraverit con inaraverit. L’aratura positiva che darebbe adito al rimedio si porrebbe in contrasto proprio con quanto affermato da Domizio Ulpiano in D. 43.24.7.6-7.
Pur respinta giustamente la proposta inaraverit, e conservata in ipotesi la resa intraverit, vi sarebbe contraddizione interna in D. 43.24.9.3, perché si riterrebbe assurdamente l’intrare in alienum come un opus in solo factum (!) quando la distruzione degli acervi, un facere ben più cospicuo, viene escluso dallo stesso concetto di opus in solo factum: anzi, nota il Capogrossi, chi ha incendiato o disperso cumuli in campi altrui deve esservi per forza prima entrato, e secondo la prima parte del testo già l’intrare renderebbe l’autore stigmatizzabile a termini di diritto. Come trovare, allora, una spiegazione razionale? Capogrossi ipotizza che il testo abbia subito alterazioni, e forse in origine doveva suonare in questi termini: intraverit ut fossam faceret o et fossam faceret (se non è addirittura plausibile l’ipotesi che l’intrare fosse propedeutico alla realizzazione di un altro opus)[57].
Una precisazione importante da fare è che la cosiddetta aqua viva deve considerarsi come porzione del suolo, e dunque l’inquinamento dell’aqua viva, stante il principio per cui l’acqua viva è parte del suolo (portio enim agri videtur aqua viva), va sanzionato con l’interdictum quod vi aut clam. In D. 43.24.11 pr. il giurista di età augustea Marco Antistio Labeone afferma che così sia da sanzionare chi abbia gettato qualcosa nel pozzo del vicino per avvelenarne le acque.
A parte lo sfruttamento di D. 43.24.11 pr. da parte di Silvio Perozzi per la costruzione di una teoria sulle servitù di acque nel diritto romano avente come fulcro la perpetuità di causa, Capogrossi considera soprattutto le elaborazioni dottrinali riferibili a un importante romanista del secolo scorso, Siro Solazzi. Secondo Solazzi il testo sarebbe alquanto raffazzonato poiché a venire in gioco non è la natura delle acque, quanto piuttosto il tipo di attività posta in essere sulle acque. In particolare la chiusa quemadmodum si quid operis in aqua fecisset non si presenta come ragionevole perché a essere enucleato così è un generico opus in aqua factum, un’opera su qualsiasi tipo d’acqua sia essa viva o non viva, con scollamento rispetto all’impostazione apparentemente perseguita nella prima parte del brano. Il Capogrossi nota come il quemadmodum crei difficoltà concrete, perché è come se leggessimo: se qualcuno ha fatto un’attività nell’acqua di un pozzo gettandovi qualcosa, è tenuto all’interdictum quod vi aut clam; allo stesso modo se è stata fatta un’attività in acqua (ma già prima si era parlato di un quid operis in aqua factum!)[58].
Insomma pare che dapprima si dica che solo la corruzione di acque vive è rilevante, mentre poi si aggiunge che pure la corruzione di acque in generale è da prendere in considerazione. Per recuperare senso al tutto Capogrossi sulle orme di Andrea Di Porto ipotizza che la precisazione portio enim agri videtur aqua viva sia classica (non si sa però se di Labeone o di Ulpiano), mentre un calo attenzionale dell’amanuense nelle vicissitudini di tradizione testuale abbia comportato che la frase di origine quemadmodum si quid operis in agro fecisset (allo stesso modo come se avesse fatto qualche opera sul terreno) si trasformasse per suonare quemadmodum si quid operis in aqua fecisset (allo stesso modo come se avesse fatto qualcosa nell’acqua)[59].
Nel paragrafo numero sei del primo capitolo del suo libro sulla proprietà fondiaria il Capogrossi passa a considerare «una diversa lettura delle fonti»[60], quella offerta da Andrea di Porto in un lavoro del 1988 [61]. Viene con ragione respinta l’ardita interpretazione del Di Porto tendente a ravvisare un originario raggio d’azione dell’interdetto, fino a tutto il primo secolo d.C. compreso, estraneo all’idea – successivamente trionfante dal II sec. d.C. in poi, alla fine suggellata da Ulpiano – dell’opus in solo. Per Di Porto a rilevare sulle prime era qualsiasi facere tradotto in factum, a prescindere da un opus (Trebazio Testa), con un aggiustamento di tiro dovuto a Labeone, vessillifero di idee parzialmente diverse (non basta un facere senza opus, ma occorre precisamente l’opus) pur sempre escludendo la necessità dell’attività svolta sul solum. Ma Capogrossi rileva[62] che le casistiche discusse da Labeone rimandano precisamente proprio alla realtà fondiaria, come il getto di sassi sul fondo altrui, la congestione di terra sul sepolcro, l’inquinamento dell’acqua del pozzo per avervi sversato qualche cosa.
Dall’esame di D. 43.24.7.5 si ricavano altre regolarità: chi raccoglie i frutti (qui fructum tangit) non è tenuto con l’interdetto perché non realizza un opus in solo, diversamente da colui che taglia (si usa il verbo succidere) le arbores (gli alberi). Insomma, la raccolta dei frutti non rileva (se non, in caso di asportazione di frutti stessi, a titolo di furto) mentre il taglio degli alberi sì[63]. Il problema è che Ulpiano soggiunge: anche il taglio di canneti e saliceti risulta colpito dall’interdetto. Ma visto che si tratta di piante cedue e visto che le piante cedue sono regolarmente da tagliare costituendo frutti, il taglio dovrebbe in questo caso costituire raccolta di frutti non colpibile con lo strumento in parola. Dunque è introdotta una eccezione, non sempre spiegabile con un grado soddisfacente di chiarezza. Occorre considerare che il taglio del bosco ceduo immaturo comporta un danno sanzionabile con l’azione della lex Aquilia sui danneggiamenti (risalente al 286 a.C.) e con il rimedio pretorio di cui stiamo parlando, mentre con il taglio del bosco ceduo maturo si risponderà con l’actio arborum furtim caesarum (azione a causa del taglio furtivo delle piante) e con l’actio furti: ciò secondo l’insegnamento del giurista Ottaveno (inizi del II secolo d.C.) contenuto in D. 9.2.27.26. Testo che, nonostante le inferenze di qualche studioso (Di Porto, il quale ha pensato che Ulpiano optasse per la concessione dell’azione aquiliana ma non dell’interdetto quod vi aut clam) è da raccordare in quanto complementare con il già visto D. 43.24.18 pr. di Celso. Non è inutile evidenziare che la raccolta dei frutti è comunque esclusa in radice da presupposto rilevante, senza considerazione del carattere dannoso o meno, perché manca l’opera sul suolo[64].
Se ci volgiamo a considerare le posizioni di Giuvenzio Celso figlio, possiamo constatare come Ulpiano in sostanza le segua, nonostante il parere contrario espresso sempre da Di Porto[65], ad avviso del quale Ulpiano a differenza di Celso avrebbe in ogni caso escluso dal campo d’azione dell’interdictum il taglio del bosco ceduo, sia esso maturo o immaturo, poiché costituente in ogni caso raccolta di frutti. In definitiva per Capogrossi tanto Celso quanto in seguito Ulpiano concordavano, di fronte al taglio della silva caedua immatura, sul concorso dell’actio legis Aquiliae con l’interdictum quod vi aut clam[66]. Un dubbio potrebbe casomai permanere: se Celso estendesse in generale le conclusioni tracciate per la silva caedua immatura a qualunque altro tipo di frutto non maturo. I dati di contesto fanno propendere per la risposta affermativa[67].
– Il secondo capitolo
Fruttuosa è stata l’attenzione riservata da Capogrossi all’interdictum quod vi aut clam, con efficace carrellata dei brani giurisprudenziali più significativi ai fini di una compiuta ricostruzione dell’istituto, che si colloca, diciamo ora, nell’ambito degli strumenti rilevanti anche in relazione alle limitazioni della proprietà (e infatti un’attività sul fondo altrui non dannosa e migliorativa a fini colturali o di gestione del territorio non era stigmatizzabile da parte del domino del fondo).
Per quanto concerne le turbative tra vicini, Capogrossi Colognesi approfondisce nel corso del secondo capitolo del suo libro sulla proprietà fondiaria (intitolato Il lavoro dei campi e le acque: turbative e diritti tra vicini) alcuni profili già in parte toccati nel corso del primo capitolo. Si precisa la distinzione tra taglio del bosco ceduo maturo e di quello immaturo, con Celso che comunque, in D. 43.24.18 pr., considera come anche un’attività di taglio del bosco ceduo maturo possa risolversi in un danno ed esporre all’interdetto, se effettuato con modalità non consone[68].
Anche Ulpiano, in D. 43.24.7.7, considera che non ogni attività fatta agri colendi causa esoneri dall’interdetto, ma solo quella che abbia reso migliore la condizione del fondo (si melior causa facta sit agri): può addirittura succedere che un’attività agricola condotta con tutti i crismi si risolva in un damnum, e allora ci sarà luogo all’interdetto. Per Ottaveno d’altronde lasciar cadere a terra uva matura raccolta in modo da renderla inutilizzabile equivale al taglio di alberi immaturi e va colpita con il rimedio in oggetto.
A integrazione del discorso complessivamente svolto va detto che l’ipotizzato concorso dell’actio legis Aquiliae con l’interdictum quod vi aut clam non escludeva l’ulteriore concorso con la vetusta actio arborum furtim caesarum[69].
La concorrenza dell’azione aquiliana con l’interdetto è per esempio evocata in un testo di Ulpiano dove è riprodotto l’angolo visuale di Celso, D. 9.2.27.14. Celso, davanti al caso della semina di loglio o avena nelle messi altrui, concede l’interdictum quod vi aut clam e anche l’azione in factum esemplata su quella diretta prevista dalla lex Aquilia, che colpiva i danneggiamenti materiali[70].
D. 9.2.27.14 (Ulpianus libro octavo decimo ad edictum): Et ideo Celsus quaerit, si lolium aut avenam in segetem alienam inieceris, quo eam tu inquinares, non solum quod vi aut clam dominum posse agere vel, si locatus fundus sit, colonum, sed et in factum agendum, et si colonus eam exercuit, cavere eum debere amplius non agi, scilicet ne dominus amplius inquietet: nam alia quaedam species damni est ipsum quid corrumpere et mutare, ut lex Aquilia locum habeat, alia nulla ipsius mutatione applicare aliud, cuius molesta separatio sit.
Traduzione it.: E Celso pone una questione, se tu hai gettato loglio o avena nell'altrui campo seminato, in modo da rovinarlo, il proprietario o, se il fondo sia stato locato, il colono non solo può valersi dell’interdictum quod vi aut clam, ma può anche agire con l’azione basata sul fatto (in factum), e se tale azione viene intentata dal colono, egli deve prestare stipulazione di garanzia che non si agirà ulteriormente, ossia che non ci saranno ulteriori richieste da parte del proprietario. Infatti, una specie di danno è ledere e alterare la cosa stessa, così che abbia luogo la legge Aquilia sui danneggiamenti, un’altra specie è – senza alcuna alterazione della cosa – congiungere qualcosa d'altro alla cosa stessa, la cui separazione si riveli poi gravosa o difficile[71].
Ci sarebbero allora due specie di danno, l’una consistente nel corrumpere et mutare, ut lex Aquilia locum habeat, l’altra nel nulla ipsius mutatione applicare aliud, cuius molesta separatio sit (modificare qualcosa tramite un’aggiunta che è poi difficile da togliere). In realtà nel brano in questione si dà per assodato che la introduzione di loglio o avena nella messe altrui sia fatto colpibile dall’interdetto, mentre la stessa situazione esporrà anche all’actio in factum legis Aquiliae[72]. Ma il punto dolente è proprio in ciò: perché si dà soltanto l’azione in factum a esempio di quella aquiliana, quasi che non ci fosse danno materiale, mentre la presenza del danno parrebbe indisputata e incontroversa proprio per la pacifica concessione dell’interdictum quod vi aut clam, che colpiva attività dannose e deterioranti svolte sul suolo?[73] La delucidazione terminale, facente leva sul distinguo tra danno sostanziale e molesta separazione, sembrerebbe non coerente perché proprio la molesta separazione non permetterebbe allora di rinvenire quella dannosità che abbiamo visto essere un requisito per l’esperibilità dell’interdetto.
Secondo Di Porto, l’attività si sarebbe svolta sulle messi già tagliate, dunque separate dal fondo, e quindi non vi sarebbe stato opus in solo. L’interdetto veniva concesso proprio prescindendo dal riferimento al suolo, secondo una opzione di pensiero poi non convalidata dalla giurisprudenza successiva. Tuttavia l’interpretazione si scontra con il valore semantico della parola latina seges, «che non sembra indicare il prodotto delle coltivazioni dopo la sua separazione e la sua raccolta»[74].
Anzi argomenti di confutazione tangibili si rinvengono per Capogrossi Colognesi in un passo successivo, dove il discorso intessuto da Ulpiano approda a nuove puntualizzazioni, D. 9.2.27.20, in cui leggiamo che la mistione di sabbia o di altro (aliud) al frumentum comporta la soggezione all’azione quasi de corrupto (come se abbia corrotto). Non si fa cenno all’actio in factum, né all’interdictum quod vi aut clam, secondo Capogrossi comprensibilmente: infatti qui frumentum indicava il raccolto conseguente alla mietitura, il cui danneggiamento non avrebbe costituito un opus in solo (cosa che invece era apprezzabile in D. 9.2.27.14 rispetto alla seges aliena non ancora separata dal fondo).
Dobbiamo pertanto accedere alla lettura tradizionale di D. 9.2.27.14 e riconoscere che la dannosità rilevante ai fini dell’interdetto risultava integrata perché c’era un danno al suolo, comunque fosse stato arrecato, mentre l’azione diretta ex lege Aquilia era da escludere perché non c’era stata una corruzione durevole del fondo, ma solo un rallentamento della crescita delle messi con la necessità fastidiosa di procedere a uno sceveramento dei vegetali.
Un nodo problematico ulteriormente affrontato è quello del rapporto tra aqua viva e aqua perennis relativamente alla costituzione della servitù di acquedotto. In un testo già visto, D. 43.24.11 pr., si legge la ben nota massima che l’acqua viva sembra costituire una parte del fondo. Si è già detto che il brano è stato sfruttato da Silvio Perozzi per porre l’accento sulla perpetua causa servitutis come requisito costitutivo delle servitù d’acqua. Contro Perozzi, Capogrossi sviluppa un’altra teorizzazione facente leva su due elementi necessari ai fini della creazione della servitù di acquedotto in diritto romano: 1) la costituzione ex capite; 2) la perennità (perennitas) dell’acqua da derivare[75]. Che cosa si intende per «costituzione ex capite»? Che la servitù deve essere costituita a partire dal punto in cui l’acqua sorge (ex fonte, dalla sorgente) o altrimenti esce da un corpo idrico. In un testo famosissimo[76] si legge: servitus aquae ducendae vel hauriendae, nisi ex capite vel ex fonte constitui non potest, le servitù di acquedotto e di attingimento d’acqua non possono costituirsi se non da un caput o da un fons (non si possono costituire a partire da un lago[77] o uno stagno, neque ex lacu neque ex stagno concedi aquae ductus potest: D. 8.2.28, Paulus libro quinto decimo ad Sabinum, dove peraltro si mette in chiaro che tutte le servitù prediali perpetuas causas habere debent).
Tuttavia il secondo requisito non è così indiscutibile come il primo, in quanto esisteva secondo il Capogrossi un’autonoma servitù di acqua estiva, e la stessa servitù di acqua quotidiana era modulabile con l’indicazione dei tempi di derivazione tramite lo strumento del modus servitutis, per esempio in caso di fontanili attivi solo in inverno e disseccati nel pieno dell’estate.
Ecco perché Capogrossi immagina «un processo di trasformazione del ius aquae da mera proprietà della bocca d’acqua al diritto di derivazione vero e proprio»[78]. Quanto poi all’identificazione del requisito della perennità con quello dell’acqua viva variamente presente in alcune fonti – e di frequente postulato da alcuni studiosi – si propongono ulteriori considerazioni. Ci sono acque sorgive che possono non essere perenni, così come acque teoricamente perenni che sotto l’aspetto della fruizione non valgono come acque sorgive. Forse c’è da scorgere una divaricazione tra servitù di acquedotto (costituibile solo ex capite, cioè da un capo d’acqua che può essere una fonte ma anche un incile di presa) e servitù di aquae haustus e pecoris adpulsus: la perennitas sarebbe da riferire alla prima, il carattere di aqua viva è piuttosto da riferire alle seconde[79]. Dunque l’aquae haustus e il pecoris adpulsus presuppongo l’attingimento o l’abbeverata sul fondo servente da un’acqua sorgiva, non necessariamente perenne, la servitù di acquedotto presuppone la derivazione di acque perenni dove la perennità fa premio sul carattere sorgivo.
Quanto alla servitù di acquedotto giova ancora e da ultimo sottolineare che essa si costituisce da una sorgente o da un altro capo d’acqua come gli incili da laghi e fiumi (prima incilia vel principia fossarum) essendo importante non tanto l’aspetto materiale della fuoriuscita dell’acqua, ma quello giuridico: «l’inizio di un’acqua privata»[80].
– Il terzo capitolo
Si è già accennato al concetto canonico di servitutes o iura praediorum. Se ad un certo punto si stabilizza una configurazione delle servitù come diritti, iura, in quanto tali – per diritto romano – non suscettibili di possesso né di usucapione, è da credere che le più antiche servitù prediali in origine fossero forgiate più materialisticamente come cose corporali oggetto di proprietà o comproprietà. In tale fase è comprensibile che la servitù potesse acquistarsi per usucapione come qualunque altra res corporalis. Ciò fino a quando non intervenne una legge, la famosa lex Scribonia, che vietò espressamente l’usucapione delle servitù prediali, probabilmente perché si era realizzato il trapasso dalla res tangibile al diritto intangibile, con il riconoscimento di altre servitù rustiche e soprattutto con l’introduzione delle servitù urbane, fin dalla loro nascita reputate nient’altro che diritti.
La notizia principale, anzi pressoché l’unica, è contenuta nella testimonianza del giurista Giulio Paolo tramandata in D. 41.3.4.28(29)[81], nella quale leggiamo che la legge Scribonia vietò l’usucapione come fatto costitutivo della servitù, senza toccare l’usucapione che comporta la libertà del fondo (cosiddetta usucapio libertatis, con la quale ci si sgrava dal peso imposto con la servitù).
Preliminarmente è da notare come la lex in questione si collochi nella dimensione che la legge aveva rispetto all’ordinamento privatistico romano. Le leggi riguardanti il diritto privato romano furono, nell’arco dei secoli in cui tale diritto ebbe vigore, relativamente poche e necessarie solo qualora fosse necessario accompagnare uno scarto rispetto alla pregressa evoluzione di determinati istituti: l’alfiere di questa visione nella dottrina romanistica è stato Giovanni Rotondi, la cui regola della legum inopia (appunto: penuria di leggi) ha però di recente attirato le critiche di Dario Mantovani[82], portato a immaginare di contro una (relativa) legum multitudo (abbondanza di leggi) anche nel settore privatistico[83].
Secondo il pensiero tralatizio la lex Scribonia venne promossa dal tribuno della plebe Lucio Scribonio Curio nel 50 a.C. e si trattò pertanto tecnicamente di un plebiscito (plebiscitum), che come sappiamo rientra nel concetto di legge in senso lato. Fin da subito Capogrossi Colognesi ha cura di osservare che probabilmente il disposto legislativo non ebbe in primo luogo il suo perché nella natura dell’istituto fatto segno di interessamento, ma in esigenze o comunque preoccupazioni di ordine affatto pratico: è ovvio che se i diritti erano inusucapibili, tali rimanevano a prescindere da una legge che lo mettesse nero su bianco.
Una base iniziale è fornita dall’ipotesi poi largamente diffusa, dovuta a Moritz Voigt: tutto può trovare una spiegazione nel fatto che, come accennato all’inizio, i più antichi iura itinerum et aquarum erano concepiti «nella forma della proprietà o della comproprietà della striscia di terreno»[84]. Il pensiero del giurista di Lipsia è stato poi sposato in Italia da un romanista di vaglia come Giuseppe Grosso, a sua volta seguito da Biondo Biondi e Bernardo Albanese. In origine le servitù prediali erano usucapibili in quanto immedesimate nelle cose stesse, quando vennero tradotte in termini di diritti o iura ecco che fu necessaria una lex in grado di togliere ogni dubbio sull’intervenuto mutamento di prospettiva, anche perché nella pratica i cittadini potevano personalmente continuare a credere nella perduranza dei vecchi meccanismi acquisitivi pur confliggenti con il nuovo inquadramento giuridico[85].
Un decisivo apporto di novità in materia è però da riconoscere a Giuseppe Branca[86]: questo studioso ha rilevato che la inusucapibilità delle servitù come cose incorporali non fu la causa della legge, ma solo la giustificazione dogmatica data alquanto tempo dopo, posto che le ragioni retrostanti alla legge furono di ordine pratico, per evitare la proliferazione delle servitù a discapito della libertà del fondo (criterio del cosiddetto favor libertatis, favore per la libertà in questo caso del fondo), perché «si voleva impedire l’inopinato sorgere di vincoli sui fondi e perciò si soppresse, malgrado e contro i principi, l’usucapione delle servitù»[87].
Un passo ulteriore fu condotto lungo questa china da Ernst Levy, per il quale era chiara una cosa: era inutile una legge per precisare qualcosa che avrebbe potuto essere puntualizzato dai giuristi, dai prudentes; pertanto andrebbe rivista la datazione, piuttosto alta che bassa, e comunque in un tempo in cui le servitù erano concepite ancora come cose corporali. Dunque, avvicinandosi in ciò al Branca, il Levy sostiene che dovette trattarsi di esigenze economiche e pratiche, non di ordine teorico e classificatorio[88].
Tutto ciò ha rilievo sulla datazione che si ritenga di dover dare della legge, a correzione dei tentativi ricostruttivi tradizionali. Da un passaggio dell’orazione ciceroniana pro Caecina risulta che nel 69 a.C. ancora era in vigore l’usucapione delle servitù, ma Capogrossi propone una datazione più alta (cioè più remota nel tempo) individuando nel promotore della legge il tribuno della plebe Lucio Scribonio Libo, nel 149 a.C.[89] Dunque, la metà del II sec. a.C., per garantire l’affinamento giurisprudenziale già compiuto entro lo scorcio dello stesso secolo, e per scopi precisi: escludere l’usucapione in un tempo in cui questa per attuarsi non avrebbe ancora richiesto, come in tempi successivi, i requisiti della buona fede e del giusto titolo, in un tempo cioè dove essa avrebbe potuto essere molto impattante sugli assetti della proprietà fondiaria.
Si è detto delle ricerche del Voigt e bisogna dire che il fulcro delle stesse (servitù in origine usucapibili poiché materialisticamente intese) ha costituito per buona parte della giusromanistica italiana in specie novecentesca quasi un punto di riferimento stereotipo, quello che Capogrossi chiama «il teorema Voigt»[90]. Una breccia è forse da vedere in alcuni interventi dissenzienti tra i quali spicca per nitore di analisi lo scritto di uno studioso siciliano, Alessandro Corbino, ma l’avvertita consapevolezza di ragioni pratiche da individuare come motivanti l’approvazione della legge non sembra essere stata sviluppata di molto, dopo il tentativo del Branca che si appellava, come ricordato prima, al favor libertatis, al favore per la libertà dei fondi da elementi che potevano scompaginare la primazia proprietaria[91].
Le nuove idee messe in circolo a partire dagli anni quaranta del Novecento condizionarono anche studiosi come G. Grosso, il quale pur non abbandonando la tesi tradizionale, finì per riproporre – nel trattato Le servitù prediali nel diritto romano, del 1969 – l’idea del favor libertatis di cui conosciamo l’ascendenza. Uno studioso rumeno poi, il Tomulescu, sul presupposto che la legge intervenne quando ancora le servitù non si erano trasformate in iura in re aliena, pervenne ad una datazione molto alta della legge, il 219 a.C.[92], suscitando le obiezioni critiche di un romanista austriaco, Michael Rainer[93].
Rainer considera il citato passo ciceroniano della pro Caecina 74 per ribadire che ancora nel 69 a.C. le servitù si potevano usucapire, osservando dunque come la legge Scribonia debba essere successiva, e probabilmente proprio risalente al 50 a.C. come reputato dalla romanistica ancora prevalente. Ma Capogrossi Colognesi osserva come tale datazione bassa apra problemi perché a quei tempi già la giurisprudenza era giunta a concepire le servitù come diritti, entità immateriali insuscettibili d’essere usucapite. Proprio il carattere non pacifico di questi inquadramenti giurisprudenziali ancora sul finire della Repubblica avrebbe reso necessaria la legge, intesa a troncare del tutto ogni dubbio sulla inusucapibilità delle servitù ormai ineluttabilmente e organicamente configurate come iura in re aliena.
Capogrossi nota nelle riflessioni del Rainer un equivoco di fondo. Soprattutto l’idea semplificante che solo in questo caso un episodio di ius controversum avrebbe reso necessaria una legge pubblica, quando è noto che tutto il diritto giurisprudenziale romano è fatto di opinioni e dissensioni, è insomma un ius controversum[94]. La tesi è poco sostenibile anche perché Rainer riconosce che nel II secolo i nuovi limiti della buona fede e del giusto titolo avevano fatto perdere all’usucapione il suo ruolo potenzialmente scompaginante degli equilibri dominicali. L’abbassamento della datazione della legge alla metà del I secolo a.C. parrebbe plausibile per Capogrossi a patto che non si riscontri un collegamento rigido tra processo evolutivo delle servitù e problema della usucapione delle servitù stesse: difatti già tra II sec. e I sec. a.C. con Quinto Mucio Scevola la concezione materialistica dei iura aquarum et itinerum aveva ceduto il campo al nuovo pensiero, così che è molto discutibile credere a dubbi tali da rendere necessario un intervento delle assemblee popolari ai tempi di Servio Sulpicio Rufo[95].
Non, dunque, un collegamento rigido. Forse le antiche servitù d’acqua e di passaggio erano esemplate sugli schemi proprietari ma in ogni caso la lex Scribonia non può esser stata dettata dalla necessità di una presa d’atto, di un restatement circa il carattere incorporale venutosi a forgiare per tali servitù. Capogrossi in un intervento del 1976 [96] aveva ritenuto di suggerire una datazione alta – 149 a.C. – con svalutazione di Cic., pro Caec. 74 per tracciare il seguente quadro organico: a) la configurazione unitaria delle servitù come diritti sarebbe più precoce se collocata nel II sec. e non renderebbe ultronea una legge visto il carattere ancora ‘primitivo’ del dibattere prudenziale; b) proprio in tale epoca, la metà del II sec. a. C., la legge avrebbe avuto un suo perché, in quanto l’usucapione era istituto che ancora non prevedeva i requisiti della buona fede e del titolo; c) al contempo, la modellazione degli interdetti de itinere actuque privato e de aqua su quello possessorio uti possidetis dà ragione all’intuizione voigtiana della primeva concezione proprietaria di tali entità giuridiche.
In definitiva il punto sub c) è decisivo per mettere a fuoco che il Capogrossi del ’76 aveva spiegato le ragioni pratiche della lex Scribonia in questo modo: far sì che si perpetuasse uno schema di tutela possessoria simile all’uti possidetis non più applicabile perché i iura delle servitù non erano più oggetto di possesso[97].
Il paragrafo 7 del III capitolo del libro di Capogrossi Colognesi sulla proprietà fondiaria è intitolato Il tentativo di una nuova prospettiva. In esso il discorso progredisce e si affina con ulteriori valutazioni. Perché mai, si domanda l’autore, porre un elemento di diversità nel regime delle servitù di acqua e di passaggio, che erano res mancipi, rispetto a tutte le altre res mancipi, che erano possedibili e usucapibili? Una mancipazione nulla per vizio di forma della servitù d’acquedotto (costituenda e non costituita, posto che le servitù costituite erano inalienabili ex se) non avrebbe tutelato l’acquirente in buona fede della servitù, in maniera difforme rispetto a qualsivoglia altro acquirente di una res mancipi. E allora si può ragionevolmente credere che la legge contenesse un disegno composito e per certi versi contraddittorio: rompere la coerente tricotomia res mancipi-tutela interdittale-usucapibilità, scompagnando i primi due elementi (ribaditi e affermati) dal terzo (escluso): operazione appunto che per il suo tasso di contraddittorietà non poteva esser portata a termine dalla giurisprudenza. Questo il risultato, a prescindere dagli intendimenti pratici perseguiti[98].
Dunque il passaggio e il rivus erano entità peculiari con tendenza a stagliarsi con nettezza anche in concomitanza con la creazione del concetto di iura in re aliena: la legge Scribonia non intervenne per suggellare un avvenuto rivolgimento interpretativo, ma al contrario per fratturare internamente la coerenza di disciplina delle più remote servitù rustiche, eliminando l’usucapibilità pur con la conservazione del carattere di res mancipi e della tutela ‘possessoria’ (quasi possessoria). Da questo punto di vista l’autore non esclude più una datazione bassa (50 a.C.), perché l’intervento legislativo, scollegato dalle spiegazioni tradizionali, potrebbe esserci stato tanto nel 149 quanto nel 50 a.C.
L’ultimo paragrafo, il n. 8, reca il titolo Conclusione con un punto interrogativo. Le tesi del Voigt, parzialmente accoglibili, non hanno a questo punto diretto riferimento con le finalità perseguite con la legge di cui stiamo parlando. Certo si sarebbe potuta spezzare anche l’appartenenza alle res mancipi per le più antiche servitù, ma ciò avrebbe comportato risultati pratici che in quegli anni i giuristi romani andavano faticosamente combattendo: la maggior facilità di assicurare il passaggio vendendo la striscia di terreno invece che assicurando un diritto di passaggio. Diffusa era la pratica di vendere con mancipatio le zone di terra su cui materialmente passava il rivo dell’acquedotto, come prova una epigrafe rinvenuta a Viterbo[99]. Insomma se era impossibile disgiungere i sentieri e gli acquedotti dal regime proprietario della terra in suolo romano, che era res mancipi, almeno si poteva tentare di «comprimere, per quanto possibile, questa stessa libertà di gravare la proprietà agraria con oneri eccessivi rispetto ai vantaggi sociali»[100]. Così, si evitava almeno che la pur intoccabile autonomia privata emergente per esempio nella citata epigrafe[101] consentisse la sanatoria dell’usucapione in caso di mancipazioni del rivus nulle per vizio di forma[102]. Pertanto – nella prospettiva adombrata dallo studioso – si può anche ulteriormente affermare che la lex Scribonia non riguardò tutte le servitù prediali, ma soltanto le servitù rustiche di passaggio e di acquedotto.
– Il quarto capitolo
In diritto romano la tutela interdittale ebbe la sua origine in relazione alla difesa del possesso sugli agri publici. I mezzi di difesa del possesso, che era una situazione di fatto con conseguenze giuridiche, furono nel diritto romano gli interdetti (interdicta). Erano esclusi dagli interdetti possessori veri e propri gli usufruttuari (che erano detentori e non possessori) e quanti esercitassero anche solo in punto di fatto[103] dei diritti che ormai abbiamo imparato a conoscere: le servitù prediali. Per i Romani si potevano possedere – a rigore – solo cose materiali o corporali (res corporales), non diritti, e usufrutto e servitù erano diritti (iura), res incorporales non tutelabili direttamente con gli strumenti posti a difesa dell’autentico possesso.
Ciò nondimeno, con grande pragmatismo, agli usufruttuari di beni immobili vennero concessi in via utile alcuni interdetti come l’uti possidetis[104] e l’unde vi: ciò non significava elevare gli usufruttuari di immobili a possessori in senso tecnico contro i principi che conosciamo, posto che il rimedio escogitato degli interdicta utilia (interdetti utili) rendeva palese che si operava solo un’estensione analogica di tutela dettata da ragioni di opportunità pratica. D’altro canto a quanti esercitassero poteri corrispondenti alle servitù, a prescindere dalla titolarità del diritto[105], l’ordinamento venne incontro apprestando una serie di interdetti, rassomiglianti per certi versi all’uti possidetis[106], che si dissero interdicta de servitutibus: tali furono gli interdetti de aqua (cottidiana et aestiva), con testimonianze raccolte in D. 43.20, de itinere actuque privato (D. 43.19), de itinere actuque reficiendo, de fonte (D. 43.22), de rivis (D. 43.21: vietava di impedire con violenza la pulizia e manutenzione dei canali dell’acquedotto)[107], de cloacis (D. 43.23).
Per esempio l’interdetto de itinere actuque reficiendo proibiva di impedire con l’uso della violenza la riparazione (reficere = riparare; refectio = riparazione) del tracciato o della via realizzata nel fondo servente da parte di chi nell’ultimo anno avesse esercitato il diritto a vantaggio del fondo dominante. L’interdetto de itinere actuque privato proibiva di impedire con l’uso della violenza l’esercizio del passaggio da parte di chi nell’ultimo anno l’avesse di fatto esercitato[108]. L’interdetto de aqua cottidiana proibiva di impedire con l’uso della violenza di derivare acqua dal fondo altrui a chi l’avesse derivata nel corso dell’ultimo anno (come si vede non si richiedeva un quasi possesso attuale). L’interdetto de aqua aestiva conteneva la proibizione di impedire con l’uso della violenza di condurre acqua sull’altrui fondo a chi l’avesse fatto nei sei mesi della precedente stagione estiva.
Situazioni, quelle riportate, che portarono qualche giurista a parlare di quasi possessio (quasi possesso: perché la possessio vera e propria riguardava le cose materiali). Ovviamente, a parte questo profilo eccezionalmente simil-possessorio, usufruttuari e titolari di servitù godevano della cosiddetta tutela petitoria reale, realizzabile tramite esperimento di vindicatio ususfructus e vindicatio servitutis. Entrambe queste azioni venivano chiamate actiones confessoriae, azioni confessorie di natura reale (in rem).
La particolarità dei riferiti interdetti de servitutibus è tale che il giureconsulto Gaio in un ben noto passo delle sue Istituzioni (Gai. 4.139) ce ne parla indicandoli come interdicta de quasi possessione, resi disponibili dal diritto onorario e di natura proibitoria: ciò ci rende avvertiti ulteriormente e a riprova del fatto che non si trattava di interdetti possessori nel senso proprio dell’espressione.
Capogrossi Colognesi nel IV capitolo del suo libro parte dall’esame di un testo, D. 43.20.1.20 (Ulpianus libro septuagesimo ad edictum), dove si riporta l’opinione del giurista Tizio Aristone rispetto alla concedibilità dell’interdetto de aqua in favore di chi abbia dedotto acqua di fatto in maniera non viziata da violenza, clandestinità, precarietà nel corso dell’ultimo anno, nonostante un vizio alla fine intervenuto in corso d’anno: la soluzione adottata è positiva (si può dare via libera all’interdetto)[109]. Capogrossi ritiene contro un altro studioso che la viziosità attenga a un quasi possesso viziato a causa di violenza clandestinità o precarietà, e non una difformità nell’esercizio delle prerogative risultanti dal titolo costitutivo.
In relazione all’interdetto de aqua, è richiesto per la legittimazione attiva al rimedio che l’esercizio dell’acquedotto sia stato fatto nell’ultimo anno in buona fede, cioè con la titolarità della servitù di acquedotto o almeno pensando ragionevolmente di averla[110]. Ci sono però, nota Capogrossi, differenze rimarchevoli tra le servitù d’acqua e quelle di passaggio. Se per gli interdetti de aqua, de fonte, de itinere actuque privato si fa riferimento pur sempre all’anno come range temporale di riferimento per valutare l’esercizio non viziato del richiedente verso la controparte (anche se per l’acqua estiva si fa ovvio riferimento non a tutto l’anno ma solo alla priore aestate, ai mesi dell’estate precedente), andando più nel dettaglio scopriamo che per il passaggio si richiede che vi sia stato un quasi possesso nell’anno per un tempo modico benché al contempo significativo, di almeno trenta giorni, mentre per l’acquedotto era bastante nell’anno l’una dies vel nocte (anche solo un giorno o una notte)[111].
Capogrossi nutre l’idea che da una originaria servitù d’acquedotto abbiano tratto origine una autonoma e tipica servitus aquae aestivae (servitù d’acqua estiva) nonché la successiva concretizzazione di una servitus aquae cottidianae grazie alla variabilità concessa dallo strumento del modus servitutis, una clausola che precisava l’estensione contenutistica del diritto e le sue modalità di esercizio[112]. L’interdetto de fonte riguarda invece l’esercizio della servitù di attingimento d’acqua (aquae haustus).
Quanto alla relazione tra «possessorio e petitorio» lumeggiata nel § 4 del capitolo IV, il Capogrossi si domanda se sia concepibile raffigurarsi un’actio confessoria (cioè l’azione a disposizione del proprietario del fondo dominante per rivendicare il diritto della servitù) ovvero un’actio negatoria servitutis (quando invece si trattasse di negare l’esistenza di una pretesa servitù sul fondo dell’attore) senza la precisazione contenutistica e di estensione del diritto in discussione. Molto probabilmente no, anche avuto riguardo alla presenza della clausola restitutoria nella formula dell’azione confessoria reale, per la quale è poco sensato credere a una soddisfazione della pretesa processuale in astratto, sganciata da ciò che effettivamente l’attore intendesse come suo diritto concretamente foggiato. Il punto qui discusso sul lato petitorio ha valore anche sul versante per così dire ‘possessorio’ (quasi possessorio), dove si pone in maniera diversificata a seconda dell’interdictum di volta in volta preso in considerazione[113].
Mentre per gli interdetti possessori immobiliari, su tutti l’uti possidetis, ha importanza che un possesso – sempre uguale a sé stesso – sia apprezzabile su una cosa materiale, per gli interdetti nel campo delle servitù era rilevante dettagliare quale situazione giuridica stesse alla base del quasi possesso. Ovviamente le cose cambiano a seconda che si tratti di sfruttare uno degli interdicta de servitutibus in presenza di un diritto poi da determinare in fase petitoria (cioè di affermazione della servitù), oppure venga in gioco l’esercizio di fatto di un’attività corrispondente alla servitù a prescindere dalla titolarità della stessa.
Le conferme sono tratte in quest’ordine di idee dalla struttura dell’interdetto de itinere actuque reficiendo, il quale a differenza dell’interdetto de itinere actuque privato[114] presupponeva l’esistenza e la dimostrazione del diritto esattamente come per il caso dell’azione confessoria reale[115].
Il titolo D. 43.20 del Digesto giustinianeo è intitolato De aqua cottidiana et aestiva. Premesso che gli interdicta, interdetti, erano provvedimenti ingiuntivi di urgenza emanati dal magistrato romano dopo sommaria cognizione dei fatti addotti dal richiedente, i quali potevano essere proibitori, restitutori o esibitori, e che per la tutela giudiziaria delle situazioni passate in rapida rassegna non era possibile ricorrere agli interdetti a tutela del possesso in quanto chi esercitava servitù e usufrutto non era possessore della cosa su cui aveva un godimento (ragion per cui si parla di quasi possessio iuris, poiché tra l’altro non si poteva per i Romani possedere un diritto), bisogna partire dalla strutturazione di questo rimedio pretorio come riprodotto dal giurista Ulpiano in D. 43.20.1 pr.
Ait praetor: “Uti hoc anno aquam, qua de agitur, non vi non clam non precario ab illo duxisti, quo minus eum ducas, vim fieri veto”. Traduzione in italiano: Dice il pretore: “Io vieto che sia fatta violenza[116] a te per impedirti di condurre l’acqua di cui si tratta, così come l’hai condotta in quest’anno su un fondo altrui non con violenza, non clandestinamente, non a titolo precario”.
Il riferimento all’ultimo anno nell’applicazione all’aqua cottidiana non deve intendersi nonostante le apparenze nel senso che l’uso doveva essersi svolto cottidie, quotidianamente, bastando l’uso nell’anno anche per un solo giorno o una sola notte (D. 43.20.1.4).
Esistevano infatti due generi di acque, quelle quotidiane ed estive. Per l’applicazione dell’interdetto all’acqua estiva, che si può condurre solo d’estate e non d’inverno, si faceva riferimento solo ai mesi della stagione più calda. Fondamentale è ricordare che l’interdetto in questione si poteva esercitare solo su acque perenni (D. 43.20.1.5).
Ma da dove viene allora il seguito specificativo id est alternis diebus che si legge nel titolo del quarto capitolo del libro di Capogrossi Colognesi sulla proprietà fondiaria, visto che esso non compare nella formula interdittale pretoria contenuta in D. 43.20.1 pr., che abbiamo riprodotto anche in traduzione sopra? Diciamo adesso che questa precisazione (id est si traduce “cioè”) è contenuta in un altro passaggio digestuale, D. 43.20.1.22, ove si legge chiaramente, tra l’altro: Ait enim praetor: uti hoc anno aquam duxisti id est alternis diebus (Dice infatti il pretore: come hai condotto acqua in quest’anno, cioè a giorni alterni).
L’inciso si trova collocato in una più articolata fattispecie, discussa da Ulpiano nel settantesimo libro ad edictum. Ci si chiede: chi ritiene in buona fede di avere una servitus aquaeductus a giorni alterni, cioè ogni due giorni (tertio quoque die), il quale abbia però concentrato la derivazione in un solo giorno, può considerarsi esercente senza viziosità e quindi può essere tutelato con l’interdictum de aqua nonostante il quasi possesso dimostrabile sia diverso da quello in ipotesi affermato?
Il problema è che il testo continua con l’indicazione riportata poco fa: dice infatti il pretore etc. Ora ci sono due possibilità di leggere questa frase: a) si può credere che il testo dell’editto del pretore con cui si riportava la formula interdittale avesse le sole parole uti hoc anno aquam duxisti, con la conseguenza che le parole successive sarebbero una delucidazione interpretativa del giurista; b) oppure si può pensare che tutte le parole riportate fossero contenute nell’ordinanza pretoria concretamente rilasciata, comprese quelle id est alternis diebus.
Secondo la lettura proposta dal Capogrossi Colognesi nel sesto e ultimo paragrafo del citato capitolo, intitolato difatti D. 43.20.1.22, il brano ulpianeo in questione conterrebbe con maggiore probabilità uno squarcio del testo edittale autorizzato dal pretore[117].
Ora, Ulpiano dice che chi ha richiesto l’interdetto sull’acqua quotidiana può farselo dare in una svariata gamma di situazioni temporali di quasi possesso in cui si derivava acqua, perché il presupposto generale era come sappiamo la conduzione anche solo per un giorno o una notte (una die vel nocte) nel corso dell’anno (hoc anno). Però l’aver chiesto e ottenuto un interdetto per una modalità di esercizio non uguale a quella cui si aveva diritto o si pensava di averne – id est alternis diebus era una fraseologia contenuta nella formula rilasciata dal pretore, indicante il modus servitutis fatto valere – non avrebbe giovato al richiedente e il rimedio pretorio non avrebbe sortito i suoi effetti: come per chi cum quinto quoque die uteretur, quasi alternis diebus interdixerit. Soluzione potremmo dire identica per chi cum una die uteretur, quasi alternis diebus interdixerit.
Il non giovare al richiedente non significa che il castello verrà a crollare in una successiva fase petitoria come supposto da parte di certa dottrina, ma perché l’interdetto stesso è subordinato all’esistenza del diritto o alla buona fede circa la sua presenza, e non ha buona fede chi derivava quinto quoque die e ha però chiesto l’interdetto riferito a una modalità difforme (deduzione alternis diebus). La richiesta dell’interdetto alternis diebus è possibile in sé, ma nel caso in questione dove il quasi possesso dimostrabile era diverso (acquedotto esercitato quinto quoque die) nulla gioverà al richiedente.
– Il quinto capitolo
Che cosa e quali erano gli actus legitimi in diritto romano e in che senso il Capogrossi Colognesi parla di un «deperimento» degli stessi? “Atti legittimi” erano determinati negozi giuridici del ius civile che non ammettevano l’aggiunta di termini ovvero di condizioni. Il termine o dies è un evento futuro e certo da cui dipende l’efficacia del negozio, la condizione o condicio è un evento futuro e incerto con cui si sospendono o si fanno risolvere gli effetti di un negozio giuridico. “Atti legittimi” erano per quel che sappiamo la mancipatio e la in iure cessio (cessione giudiziale) la acceptilatio (remissione di un debito, vale a dire rinuncia a un credito), la cretio (accettazione formale di un’eredità, per cui si parla anche di adizione dell’eredità, aditio hereditatis), la manumissio vindicta (affrancazione di un servo fatta di fronte a un magistrato). Probabilmente anche altri negozi rientravano in questa categoria, ma non possiamo dirlo allo stato delle nostre conoscenze con certezza.
La mancipazione (mancipatio) era un negozio rientrante tra i gesta per aes et libram, che si facevano cioè con la bilancia (libra) e il bronzo (aes). Parti erano il mancipio dans e il mancipio accipiens. Quest’ultimo diceva le parole “dico che questa cosa è mia per diritto dei Quiriti, e mi sia comprata con questo metallo e con la bilancia fatta del medesimo metallo”. In un tempo remoto effettivamente si trattava di una “vendita a pesanti”, per cui l’accipiente gettava il metallo sulla bilancia, che veniva pesato da un libripende (libripens), e poi consegnato dall’accipiente stesso al dante al cospetto di cinque testimoni. Con l’introduzione della moneta coniata (fine del IV secolo, inizi del III sec. a.C.) il mancipio accipiens si limitava a percuotere con un pezzetto di metallo (raudusculum) la bilancia in maniera simbolica. La mancipatio si configurava così come un negozio astratto (non più come prima una vendita reale), che astraeva per la sua struttura e validità dall’espressione di una causa negoziale. Serviva per trasferire la proprietà delle res mancipi, confezione del testamento, costituzione delle servitù di via, iter, actus e aquaeductus, acquisto del mancipio sui figli di famiglia e del potere di manus tramite coemptio.
La cessione giudiziale (in iure cessio) era un caso di “volontaria giurisdizione”, cioè un negozio i cui effetti venivano più solennemente realizzati al cospetto di un magistrato: negozio dunque per l’aspetto sostanziale, formalmente un processo giurisdizionale in cui non c’era un conflitto di interessi da dirimere, finto processo in quanto il cessionario rivendicava la cosa come propria e di fronte al silenzio del cedente (d’accordo in realtà prima con il cessionario circa il trasferimento) il magistrato assegnava la cosa al cessionario. Serviva per trasferire nei modi detti res mancipi e res nec mancipi, ma occorre qui considerare che esistevano altre applicazioni, con gli adeguamenti di volta in volta immaginabili.
Perché “deperimento” di mancipatio e in iure cessio e quando? Già negli ultimi due secoli della repubblica i negozi in questione cominciano a essere utilizzati con alcune deviazioni che rendono a termini di diritto civile invalido l’atto. Non sempre erano disponibili per la mancipazione cinque amici cittadini romani che facessero da testimoni a garanzia della pubblicità dell’atto. A ben vedere la stessa funzione di pubblicità del trasferimento ad es. di immobili risulta obliterata con l’allargamento geografico della romanità, specie con la creazione dello stato italico-romano e l’estensione della cittadinanza agli italici dopo la guerra sociale (bellum sociale) dell’89-88 a.C.[118]: assistiamo pertanto al tramonto di una cittadinanza ristretta in grado di conoscere gli affari che si svolgevano in Roma, surclassata da una realtà ben più complessa.
In aggiunta l’insofferenza per le formalità del rito spiega il ricorso con frequenza via via maggiore alla semplice consegna – alla semplice traditio – per le res mancipi, il cui trasferimento avrebbe in teoria richiesto l’impiego della mancipatio o della in iure cessio. Il ricorso alla mera tradizione fu così rilevante da suggerire l’introduzione dell’actio Publiciana ad opera del pretore (intorno al 67 a.C.): una azione a tutela dell’acquirente di una res mancipi non trasferita mediante mancipatio o in iure cessio, bensì con semplice traditio. Si trattava sì di tutelare anche ed eventualmente l’acquirente in buona fede da un non proprietario con tale azione, ma in primo luogo divisamento del pretore Publicio era la sanatoria di un negozio non valido per il ius civile[119].
Nel secondo paragrafo del capitolo V, intitolato L’inusucapibilità dei iura in re aliena e le nuove forme di circolazione della proprietà[120], il Capogrossi Colognesi mette in evidenza due aspetti fondamentali: 1) lo snellimento delle forme di circolazione degli immobili e dei beni più rilevanti (res mancipi) non andò di pari passo con una eventuale semplificazione dei modi di costituzione dei diritti minori sugli immobili stessi, soprattutto le antiche servitù rustiche note come iura itinerum et aquarum, anch’esse nel catalogo delle res mancipi. Se per la proprietà fondiaria poteva soccorrere una traditio visto il sistema dell’actio Publiciana e la possibile usucapione, ciò non valeva per le servitù rustiche che continuavano a richiedere mancipatio o in iure cessio, senza possibilità di sanatoria e senza ammissibilità dell’usucapione (anzi, come sappiamo, una lex Scribonia provvide espressamente a vietare l’usucapione delle servitù). 2) Per le servitù rustiche più recenti nonché per le servitù urbane, che erano res nec mancipi, il paradosso era se possibile acuito dal fatto che occorreva la in iure cessio, ancora più laboriosa e farraginosa della mancipatio.
La in iure cessio era complicata tanto e più della mancipazione posto che bisognava trovare il pretore disponibile o nei municipi i magistrati municipali (duoviri iure dicundo) per l’espletamento del negozio. Quindi lo scollamento evolutivo tra circolazione della proprietà fondiaria e costituzione dei diritti minori sui fondi è qui ancora più eclatante[121]. Il discorso vale anche per l’usufrutto oltre che per le servitù prediali: tali iura restavano strettamente ancorati alle modalità di costituzione collegate ai negozi di diritto civile (va chiarito comunque che l’usufrutto era una res nec mancipi immateriale, quindi per i Romani la mancipatio non era un modo di costituzione dell’usufrutto).
Il discorso progredisce nel § 3, centrato sulla Perennità del richiamo al titolo costitutivo ai fini della prova dell’esistenza dei diritti reali, dove si prende in considerazione un insieme di forme negoziali senz’altro più recenti, come pactio et stipulatio e traditio vel patientia, che potrebbero costituire il pendant pretorio volto ad annullare l’indicata divergenza. Il problema è che la traditio vel patientia (esercizio di fatto della servitù con una correlativa tolleranza) è qualcosa che gli studiosi di diritto romano solitamente riconducono alla temperie volgaristica del diritto postclassico o nella migliore delle ipotesi ai fondi provinciali per l’età classica.
Eppure studiosi cauti come Giuseppe Grosso[122] hanno valorizzato brani come D. 8.1.20, di Labeone-Giavoleno, per osservare come probabilmente l’obbligazione di vendere servitutem si adempisse consentendo a qualcuno di passare per il fondo ad esercitare il diritto (di qui una quasi traditio), sopportando l’esercizio delle prerogative conseguenti (di qui la patientia). Ora il parallelo sarebbe buono per rendere meno lampante la disparità cennata, anche perché la traditio vel patientia riceveva tutela pretoria (tuito praetoria).
Il problema cardine però, evocato a chiare lettere, nel titolo stesso del terzo paragrafo, era che la servitù rappresentava una qualità potenzialmente perpetua dei fondi, ma a differenza dei fondi a troncare dubbi sul titolo costitutivo non poteva soccorrere l’usucapione. Di qui la necessità di una prova difficoltosa e laboriosa (probatio diabolica) ogni volta per addurre il titolo costitutivo del diritto di servitù[123] «senza limiti di tempo»[124]. Sotto questo profilo l’usufrutto presentava minori problemi in quanto destinato comunque a estinguersi a un certo punto, al più tardi con la morte dell’usufruttuario (cioè del titolare del diritto di usufrutto).
E allora viene da chiedersi se il regime considerato vigente nelle province per diritto classico, coerente sia per la circolazione dei beni immobili sia per la creazione di vincoli reali sugli stessi, non abbia trovato una più razionale applicazione anche in ambito romano e italico, per superare le pastoie dei rigidi negozi del ius civile[125].
Nel § 4 (Tutela di fatto dell’immissione nel godimento e rilevanza probatoria della longa possessio) si riprende il filo del discorso rispetto all’enunciata necessità di ricorrere alla prova costitutiva del diritto reale limitato senza il soccorso dell’usucapione. Per diritto reale si fa precipuo riferimento alla servitù e non all’usufrutto per le considerazioni già esposte. Ebbene, se è vero che restava esclusa la usucapione con tutte le negatività portate da tale esclusione, è altrettanto vero che la giurisprudenza imperiale e la magistratura giusdicente (pretura) trovarono acconcio porre la questione nei termini che consentissero come presuntivamente costituita con tutti i crismi ordinamentali una servitù esercitata da lungo tempo, una servitù, detto in altri termini, per la quale fosse apprezzabile una vetustas di esercizio (come arguibile da D. 39.3.26, di Cervidio Scevola, ma esprimente un diritto per l’epoca già a tutta prova).
Siamo forse in presenza, con la vetustas, di una usucapione mascherata in contraddizione con tutto quanto detto finora nonché con le disposizioni della legge Scribonia? No, perché la vetustà non deve concepirsi come un tempo per l’acquisizione del diritto, quanto piuttosto come un mezzo di prova della valida costituzione del diritto in un lontano passato[126]: per tale ragione possono al più essere sospette alcune estensioni come quelle che si colgono nella parte finale di D. 39.3.1.23, dove si parla (Ulpiano) di acquisto della servitù per longa consuetudo. Grosso cassa questa frase e conserva comprensibilmente quella allusiva alla prova indiretta di una valida costituzione nel passato (velut iure impositam servitutem videatur), ma Capogrossi pur concordando con tale giudizio non esclude che Ulpiano possa aver compiuto un sottile ma cruciale passo avanti, appunto l’acquisto per lunga consuetudine e non più soltanto la prova della valida costituzione.
Se si guarda anzi ad altri brani, che rimontano a Venuleio e a Paolo, si può concludere che con ogni probabilità l’idea di base non sia stata confinata al mezzo di prova della costituzione iure del diritto, essendo maturata più o meno esplicitamente la concezione del tempo come titolo per l’accesso alla tutela processuale[127].
Nei casi sopraddetti comunque non si deve pensare ad una azione civile, ma ad una semplice tutela pretoria accordata con azioni utili (actiones utiles). Oggi, peraltro, si è molto meno scettici sull’estensione della traditio vel patientia al di fuori dell’ambito provinciale anche per il suolo romano e italico. Esiste infatti un testo importantissimo, riportato con grande evidenza dal Capogrossi, spesso sbrigativamente cassato nella sua totalità a partire dalla costituzione delle servitù per diritto pretorio e con tutela pretoria. Il testo è D. 6.2.11.1 di Ulpiano (libro sedicesimo ad edictum) e, se preso alla lettera secondo la versione tramandataci, sarebbe dirompente per la deviazione rispetto a molte delle regole che abbiamo imparato a conoscere.
D. 6.2.11.1 (Ulpianus libro sexto decimo ad edictum): Si de usu fructu agatur traditio, Publiciana datur: itemque servitutibus urbanorum praediorum per traditionem constitutis vel per patientiam (forte si per domum quis suam passus est aquae ductum transduci); item rusticorum, nam et hic traditionem et patientiam tuendam constat.
Trad. it. di L. Capogrossi Colognesi[128]: Se si tratta di un usufrutto costituito tramite la traditio, si dà la Publiciana: parimenti si darà la Publiciana rispetto alle servitù urbane costituite con la traditio o con la tolleranza (come nel caso in cui taluno abbia consentito di far passare un acquedotto attraverso la propria casa); lo stesso regime vale per le servitù rustiche: infatti anche in questo caso si deve proteggere la traditio e la tolleranza.
Ulpiano dice infatti che in caso di usufrutto e di servitù urbane costituite con la traditio (ma sappiamo che non si poteva!), si dava l’actio Publiciana (ma sappiamo anche qui che l’azione Publiciana si dava al possessore ad usucapionem di una cosa corporale! Si dava fingendo l’avvenuta usucapione, inammissibile per i diritti in questione), perché bisognava tutelare la traditio e la tolleranza. Certo, qualche corruttela può aver interessato il brano per il tipo di azione che viene evocato – stando a principi di cui abbiamo ormai padronanza –, ma forse nel suo nucleo ineludibile e al netto di rimaneggiamenti successivi, il ragionamento di Ulpiano intendeva in primo luogo recuperare un sistema parallelo di validità nella sfera del diritto pretorio di diritti costituiti viziosamente dal punto di vista del ius civile[129].
Dunque e in conclusione, un testo come D. 6.2.11.1 permette di “chiudere il cerchio” e di provare come il divario tra circolazione deformalizzata dei beni immobili e rigidità dei negozi costitutivi delle servitù anche con riguardo alla usucapibilità dei primi e alla inusucapibilità delle seconde si sia venuto colmando tramite la tutela pretoria di servitù irregolari perché civilisticamente invalide (si parla anche di servitù pretorie) con il meccanismo in primo luogo della traditio vel patientia, congiuntamente al riconosciuto valore del canone della vetustas e della prerogativa temporale, non sempre restrittivamente intesa. Con il richiamo ad un’azione pretoria contenuto in questo passo non è nemmeno più necessario rifarsi al lungo possesso per la prova del titolo, bastando all’uopo l’immissione nel quasi possesso[130].
– Il sesto capitolo
Il capitolo VI e ultimo del libro di Capogrossi Colognesi sulla proprietà fondiaria è inteso a fornire una panoramica delle teorizzazioni del possesso presso i glossatori e nella tradizione successiva: Bartolo da Sassoferrato per i commentatori, poi Van Giffen, Ugo Donello per la scuola francese o “culta” propugnatrice del cosiddetto mos Gallicus, i giuristi spagnoli del 1600, infine l’apporto di Friedrich Carl von Savigny (1779-1861), al quale si deve un saggio celebre sul possesso e sul suo significato.
Sappiamo già che il possesso riguardava le cose corporali e per i giuristi romani non era pensabile una possessio iuris (vale a dire un possesso di diritti): tuttavia vi sono difficoltà che emergono allorquando si considera che in tema di servitù esistevano degli interdetti somiglianti all’uti possidetis o a questo affini. Gli interdetti per trattenere il possesso (retinendae possessionis) furono limitati nelle fonti romane all’autentico possesso e non vennero a richiamare alcuni interdetti sulle servitù, come quelli de aqua e de itinere, di cui si è parlato in precedenza.
I giuristi romani erano in ogni caso giunti a enucleare un possesso forte entro la più generica concezione di possesso, parlando tecnicamente di possessio civilis e intendendo per possessio civilis il possesso valido ai fini dell’usucapione, tale per cui è possibile porre l’equazione possessio civilis = possessio ad usucapionem. Questa forma di possesso non solo dava adito alla tutela tramite appositi rimedi pretori chiamati interdicta, ma in aggiunta assicurava l’acquisto della proprietà sulla cosa posseduta dopo un certo periodo di tempo (l’usucapione è l’acquisto della proprietà decorso il tempo di due anni per i fondi e di un anno per le altre cose). Oltre alla civilis possessio e alla possessio non ulteriormente qualificata vi era anche la naturalis possessio, altrimenti detta possessio pro alieno (il vero possesso è una possessio pro suo), che oggi noi traduciamo come semplice “detenzione” (a volte nelle fonti si incontrano pure i termini detentio e detinere, che arieggiano quelli adoperati nella lingua italiana)[131].
Nel possesso vero e proprio riscontriamo i due elementi costitutivi del corpus e dell’animus possidendi, nella detenzione (o naturalis possessio, o possessio pro alieno) c’è il corpus, la relazione materiale con una cosa, ma manca l’animus possidendi: c’è l’elemento oggettivo ma non c’è l’elemento soggettivo o psicologico dell’animus possidendi. Matteo Marrone, nella parte del suo manuale dedicata al possesso, precisa che tale animo non deve essere letto, come pure è stato fatto in passato, senz’altro come un indefettibile animus domini, ma più genericamente come l’intenzione di tenere la cosa con sé e per sé.
Sta di fatto che una prima importante riflessione postromana sulla natura del possesso si deve ai Glossatori. Per Glossatori intendiamo autori medioevali di glosse sui testi giuridici del Corpus iuris civilis. Una tendenza è quella di configurare il possesso civile in termini di diritto, di ius, traendo soprattutto spunti da un passaggio del giurista romano Emilio Papiniano (D. 41.2.49.1) in cui si legge a proposito della inammissibilità di un possesso per chi sia sotto l’altrui potestà (tipo figli di famiglia e servi) che possessio non tantum corporis, sed et iuris est («il possesso non è solamente una situazione materiale, ma è anche di diritto»)[132]. Consideriamo peraltro che Paolo, in altro passo tramandato nel Digesto, D. 41.2.1.3, descrive sulla scorta di Aulo Ofilio e Nerva figlio il possesso come una res facti, una situazione di fatto, non un diritto (res facti, non iuris)[133]. In generale l’accentuazione della prospettiva del ius finirà col creare difficoltà di inquadramento del possesso ingiusto, ma pur sempre possesso, riconosciuto dal diritto romano[134].
Tuttavia già con la sistemazione di Accursio (XIII secolo) la visione risulta più circoscritta e ancor di più lo sarà con il commentatore Bartolo da Sassoferrato (1314-1357). Se nella Glossa di Accursio si accede alla visione unificante di Azzone del possesso in termini unitari, Bartolo arriva invece a configurare tre specie di possesso[135] (tres species possessionum): 1) possessio civilis; 2) possessio naturalis; 3) possessio corporalis quam habet ingressus domino absente (cioè, per seguire l’autore, possesso ad esempio di chi entri in un campo altrui in assenza del proprietario che era andato al mercato).
Bartolo configura la possessio civilis sulla scia della tradizione precedente come un diritto: ius insistendi rei non prohibitae possideri, un diritto che si distingue dalla mera detenzione detta detentio asinina (detenzione asinina: come l’asino “possiede” la sella). Ma mentre il diritto al possesso (ius insistendi) rispetto al diritto di proprietà è una mistione di diritto e fatto, il dominio è puro diritto, ius disponendi[136]. Quindi per Bartolo il possesso è «il diritto a insistere materialmente su un bene corporale, su una cosa».
La possessio corporalis bartoliana è un terzo contenente concettuale, poi aspramente criticato da Savigny, dove si collocano le situazioni che non hanno una base di legittimazione legale, ossia prive di fondamento legale. Il problema è che così il possesso ingiusto, collocato nel possesso materiale, è scisso dal possesso di mala fede, collocato invece nel processo civile. Se si obietta che tale possesso di mala fede non potrebbe condurre all’usucapione e non sarebbe pertanto da definire come civile – cosicché sarebbe strano qualificarlo entro la possessio civilis –, si replica che basta l’attitudine in astratto a produrre effetti civili, in presenza di mala fede semplicemente impediti nel loro realizzarsi. Tuttavia proprio la capziosità di questa distinzione costituisce il lato debole di tutta la costruzione teorica bartoliana[137]: forse la forzatura si deve proprio all’insistenza con cui si era posto il concetto di diritto per il possesso civile. Quanto alla possessio ad interdicta essa non costituisce una figura autonoma ma rientra o può rientrare tanto nella possessio civilis quanto nella possessio corporalis. Bartolo comunque applica gli stessi schemi al possesso dei diritti[138].
Diversa, in seguito, fu l’impostazione di Hubert Van Giffen (1534-1604): nella riflessione di questo giurista scompare la terza specie di possesso individuata da Bartolo (la corporalis possessio) e rimangono solamente la possessio civilis e la possessio naturalis. Essendo la naturalis possessio una semplice detenzione, ne deriva che la visione del giurista è eminentemente unitaria, anche se vengono individuate all’interno del civilis due specie di possesso, il giusto (possessio iusta) e l’ingiusto (possessio iniusta)[139]. Il possesso ingiusto è quello non assistito dalla buona fede. Possesso ingiusto e di mala fede non sono più in maniera artificiosa separati come in Bartolo. L’acquisto del possesso, giusta le indicazioni delle fonti, avviene con la disposizione materiale illuminata dall’animo di possedere. Van Giffen definisce il possesso come «diritto di avere una cosa corporale», ius habendae rei corporalis, e schiarisce l’animo come animus domini. Altrove si legge un’altra definizione, il diritto di avere la cosa con sé e per sé, ius quoddam sibi habendi aut tenendi[140].
Una tappa importante nel processo di chiarificazione degli effetti giuridici si ha con il francese Hugues Doneau (1527-1591), appartenente alla cosiddetta scuola culta (una scuola di pensiero fiorita in Francia, che ha per la prima volta posto l’attenzione sul problema storico e filologico dei testi del Corpus iuris giustinianeo). Savigny ha tributato a Donello – nome italianizzato di Doneau – un merito decisivo: l’aver compreso che gli effetti giuridici del vero possesso sono da scorgere nella tutela interdittale e se del caso nell’usucapione. La novità più eclatante che segna un decisivo passo in avanti è l’abbandono dell’idea di ius, posto che il possesso è definito come detentio rei con un animo proprietario (affectio domini)[141]. Del resto anche in Donello si registra l’abbandono delle idee di Bartolo sulla corporalis possessio, in parte ancora emergenti in Cuiacio, altro giurista francese del XVI secolo. La concezione è anche qui unitaria, con le due specie del possesso giusto e ingiusto. La naturalis possessio può essere la detenzione, può essere anche il possesso ingiusto quando visto in contrappunto al possesso civile: di qui forse una eccessiva ambivalenza nonostante la rintracciata unitarietà del possesso. L’acquisizione più importante del Donello resta però l’esclusione della prospettiva del diritto. Infatti, se si trattasse di un diritto si applicherebbe l’istituto del c.d. postliminio (riacquisto di tutti i diritti da parte di chi ritorni in patria dopo la prigionia all’estero) – il che non avveniva – e mentre il diritto di proprietà non si perde per la sottrazione da parte di un ladro, il possesso come stato di fatto cessa per le stesse cause. Eppure lo stesso Donello non può chiudere gli occhi di fronte a testi romani in cui il possesso viene detto ius possessionis (D. 41.2.44 pr. su tutti), forse in una maniera poi chiarita dal Savigny: non il diritto di possedere ma la qualificazione di iura collegati alla situazione materiale, alla detentio rei di cui abbiamo detto. Dunque il ius possessionis spetterebbe al possessore giusto, non a quello ingiusto che tuttavia vere possidet[142].
Vale la pena adesso fermare per un momento lo sguardo sulle elaborazioni dei giuristi spagnoli del XVII secolo, ai quali Capogrossi Colognesi dedica il paragrafo numero 6. Anche i giuristi del Seicento spagnolo portano in dote una delucidazione sugli elementi del possesso e sull’animo del possessore, distinguendo tra opinione d’essere proprietari (opinio mentis) e volontà di comportarsi come tali (affectio voluntatis), laddove per quel che ci interessa è importante sottolineare il secondo corno dell’alternativa[143]. Ramos del Manzano insiste sulla unitarietà del possesso rispolverando Azzone e Accursio. L’allievo Fernández De Retes tiene poi a ribadire che il possesso è unitario e consiste in una situazione fattuale: una detentio rei cum animo sibi habendi[144]. L’importanza del De Retes è anche dovuta a un suo interessarsi specifico agli interdetti possessori e a un aspetto importantissimo: i cosiddetti interdicta de servitutibus sono classificati dallo studioso, contrariamente a quanto si suole fare oggi per i dirimenti motivi che ci sono ben noti, tra gli interdetti possessori, senza alcun problema[145], benché la separata trattazione sia alle radici della successiva emersione del concetto di quasi possessio iuris.
Veniamo infine al culmine ideale di questa rassegna offerta dallo studioso romano, parlando del contributo di Friedrich Carl von Savigny. Savigny scrisse una delle sue opere principali, Das Recht des Besitzes, nel 1803 (all’età di soli ventiquattro anni). I suoi assunti hanno alimentato gran parte delle discussioni successive circa la teoria del possesso, una delle più sfuggenti e complesse nella dogmatica giuridica.
Il Savigny ritiene che il possesso sia una situazione di fatto, che tuttavia dà luogo a dei diritti: il possesso non è un diritto in sé o qualcosa che discenda da un diritto, ma una «condizione di diritti particolari»[146]. Nel celebre saggio si parla di «Bedingung von Rechten»[147]. Da questo punto di vista e senza fraintendere l’espressione si può parlare a valle di ius possessionis, di diritto del possesso (nel senso appena detto: diritto che discende o è ingenerato da una situazione fattuale, quella del possesso)[148], e non di ius possidendi, diritto in quanto tale di possedere («Recht zu besitzen»[149]). Dunque il possesso come una fonte di diritti, un presupposto fattuale di diritti: in ogni caso il diritto al procedimento interdittale (per cui Savigny parla di possessio semplice, noi diremmo ad interdicta) e, se del caso e ricorrendone i requisiti, anche l’usucapione (per cui si parla di possessio ad usucapionem).
Altra celebre e controversa idea del Savigny è quella per cui si concepisce l’animo del possessore come animus domini: è possessore chi – con la disponibilità materiale di una determinata cosa – ha l’animo di trattare la cosa come una cosa propria. Il possesso consta dei due elementi del corpus e dell’animus e quest’ultimo è precisamente interpretato come “animo da proprietario”. Proprio in relazione a questo pensiero noi siamo messi in difficoltà perché sappiamo (si rinvia sul punto al manuale del Marrone) che dei soggetti non proprietari erano considerati possessori e godevano della tutela possessoria interdittale: si tratta delle figure dei creditori pignoratizi, dei sequestratari, dei precaristi, soggetti che evidentemente sapevano di non essere proprietari e non potevano nutrire un animus domini. Come aggira Savigny questa difficoltà? Per dar conto delle ipotesi in cui i Romani parlavano di possesso giuridico per non proprietari privi dell’animus domini (creditori pignoratizi, sequestratari, precaristi), lo studioso parla con qualche forzatura di «abgeleiteter Besitz», di “possesso derivato”: una sorta di eccezione nel quadro di riferimento tracciato, una possessio anomala in quanto fondata sul possesso originario di un altro soggetto (e perciò “derivata”).
Diamo conto in conclusione delle tesi di Jhering. Jhering ha una impostazione abbastanza eccentrica, diversa da quella del Savigny, ed esposta in uno scritto intitolato Der Besitzwille (opera stampata a Jena nel 1889). Per Jhering gli elementi costitutivi di detenzione e possesso sono gli stessi – nel senso che corpus e animus possidendi ci sono tanto nella detenzione quanto nel possesso giuridico – e tra i due concetti c’è solo da rilevare una diversità effettuale quando per considerazioni eccezionali d’ordine pratico la detenzione non è trattata come possesso giuridico (regola generale) e dunque non è tutelata con gli interdicta possessori[150].
The text is aimed at providing an aid for didactic purposes. It is intended to help students understand the constituent features of the landed property in Roman antiquity. Moreover, it displays a detailed information about Capogrossi Colognesi’s work concerning the law of property in ancient Rome.
[1] Libro recensito da Alberto Burdese in Studia et Documenta Historiae et Iuris 67, 2001, 541-546.
[2] Il prospetto dell’opera consta di sei capitoli con l’aggiunta di un apparato bibliografico. Capitolo I: L’interdetto ‘quod vi aut clam’ e il suo ambito di applicazione (9-78); capitolo II: Il lavoro dei campi e le acque: turbative e diritti tra vicini (79-106); capitolo III: La ‘lex Scribonia’ e la usucapione delle ‘res incorporales’ (107-148); capitolo IV: Il deperimento di alcuni ‘actus legitimi’ e la nuova realtà dei diritti reali, tra Repubblica e Principato (149-182); capitolo V: La locazione agraria: rischi, responsabilità e ‘remissio mercedis’ (183-246); capitolo VI: L’eredità romana e gli sviluppi moderni della ‘remissio mercedis’ nella ‘locatio rei’ (247-293).
[3] Di recente è uscito in Germania il libro, che si presta a rivestire in ragione della materia affrontata, una importanza non secondaria, di L. Griese, Die Nutzung von Land nach römischem Recht. Ordnungsmodelle für die Kolonien und für die Provinz, Baden-Baden 2019, recensito da U. Babusiaux, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung 138, 2021, 698 ss. Che l’argomento sia didatticamente sensibile mi sembra provato dalla recente traduzione di Caterina Maria Grasl dell’Übungsbuch Römisches Sachenrecht firmato da Nikolaus Benke e Franz-Stefan Meissel: Roman law of property. Origins and basic concepts of civil law, I, Wien 2019 (anch’esso recensito in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung 138, 2021, 801 ss., da W. Ernst).
[4] Sempre centrale la ricerca di B. Albanese, Osservazioni sull’istituto del ‘fundus fieri’ e sui ‘municipia fundana’, in Studi in memoria di G. Donatuti, I, Milano 1973, 1 ss.
[5] Festus, De verb. sign., v. Fundus, p. 79 L.
[6] Isidorus, Orig. 15 (De aedificiis et agris).13 (De agris).4.
[7] Cfr. O. Sacchi, Regime della terra e imposizione fondiaria nell’età dei Gracchi. Testo e commento storico-giuridico della legge agraria del 111 a.C., Napoli 2006, 95.
[8] Si cita (C. Bile) Fiorentino in C. Ruperto, La giurisprudenza sul Codice civile coordinata con la dottrina. Libro III Della proprietà (artt. 952 – 1099), a cura di C. Bile – V. Carbone, con il coordinamento di S. Ruperto, Milano 2011, 33 s. Aggiungere S. Cervelli, I diritti reali. Manuale e applicazioni pratiche dalle lezioni di Guido Capozzi, 2a ed., Milano 2007, 145 nt. 14.
[9] Sempre stando a Isidorus, Orig. 15.13.4, Fundus autem et urbanum aedificium et rusticum intellegendum est.
[10] Ancora nell’enciclopedia isidoriana si prova una spiegazione per ager: Ager Latine appellari dicitur eo quod in eo agatur aliquid. Alii agrum ex Graeco nominari manifestius credunt (Isidorus, Orig. 15.13.1).
[11] Si vd. M.J. Bravo Bosch, Le villae romane tardo antiche nel nord della Spagna, in Ravenna capitale. Codice Teodosiano e tradizioni giuridiche in Occidente. La terra. Strumento di arricchimento e sopravvivenza, Santarcangelo di Romagna 2016, 205.
[12] L. Maganzani, Gli agrimensori nel processo privato romano, Roma 1997, 157 nt. 87.
[13] Su D. 50.16.27 ha scritto G. Campani, Saggio d’interpretazione del frammento di Alfeno Varo legge 38 Dig. Lib. XLI Tit. 1 De adquirendo rerum dominio, in Archivio Giuridico 21, 1878, 136.
[14] Cfr. L. Capuano, Il diritto privato dei Romani, I, Napoli 1881, 487.
[15] Occorre compulsare L. Maganzani, Gli agrimensori nel processo privato romano, cit., 146-147, 192, 223, 227.
[16] Si veda M. Vinci, Fra autonomia privata e persistenza dell’‘integrità’ territoriale: il ruolo di ‘mediazione’ della giurisprudenza romana, in Roma e America 33, 2012, 165 ss., spec. 170 ss.; M.J. Bravo Bosch, Le villae romane, cit., 206.
[17] Si veda anche Isidoro di Siviglia, Origines, 15.13.4: Fundus et urbanum aedificium et rusticum intelligendum est.
[18] Nel testo si legge: Plane si divisit fundum regionibus et sic partem tradidit pro diviso, potest alterutri servitutem inponere, quia non est pars fundi sed fundus. Nota infatti E. Hölder, Istituzioni di diritto romano, Torino 1887, 148 s., che «poiché la limitazione del fundus è una limitazione arbitraria, esso, non solo per una delimitazione qualsiasi di singoli loci si scinde in una pluralità di frammenti di suolo, ma anche per di più la natura propria del fundus e del locus è puramente relativa, sicché qualunque trattamento separato di un locus lo fa, nella relazione mentovata, apparire come un fundus».
[19] Tab. 6.3: Usus auctoritas fundi biennium est, ceterarum rerum omnium annuus est usus. (Traduzione: l’usucapione si compie per i fondi in due anni, per tutte le altre cose in un anno).
[20] Cfr. G. Franciosi, Corso istituzionale di diritto romano, 1, Famiglia e persone, successioni, diritti reali, Torino 1993, 198.
[21] Isidorus, Orig. 15.13.5: Praedium, quod ex omnibus patrifamilias maxime praevidetur, id est apparet, quasi praevidium; vel quod antiqui agros, quos bello ceperant, ut praedae nomine habebant.
[22] Si veda O. Sacchi, «Ager est, non terra» (Varro L.L. 7.2.18). La “proprietà quiritaria” tra natura e diritto con qualche riflessione in prospettiva attuale, in Diritto@Storia 16, 2018.
[23] Cfr. D. Vera, Massa fundorum. Forme della grande proprietà e poteri della città in Italia fra Costantino e Gregorio Magno, in Mélanges de l’école française de Rome 111-2, 1999, 991 ss.
[24] Cfr. G. Lo Sardo, La circolazione mortis causa dell’azienda, Milano 2020, 51 e s., nt. 138.
[25] Ulp. Ep. 19.1.
[26] Entrambe le espressioni sono oggi d’uso corrente.
[27] La Glossa di Accursio, detta anche Glossa ordinaria, fu opera medievale realizzata prima del 1260.
[28] Cfr. V. Scialoja, Teoria della proprietà nel diritto romano, I, Roma 1933, 305 ss. svolge un discorso interessante ancora oggi e individua la maggior delicatezza della proprietà fondiaria in una serie di ragioni: di carattere fisico, pubblico, economico (i prodotti agrari sono la base dell’economia, tanto che si parla di c.d. settore primario, di contro al settore industriale che è secondario e a quello dei servizi che è terziario) e politico (se tutte le terre di uno stato fossero di proprietà di stranieri verrebbe meno la sovranità dello stato stesso).
[29] V. Scialoja, Teoria della proprietà, I, cit., 307.
[30] V. Scialoja, Teoria della proprietà, I, cit., 313.
[31] V. Scialoja, Teoria della proprietà, I, cit., 316.
[32] A. Lovato, S. Puliatti, L. Solidoro Maruotti, Diritto privato romano, Torino 2014, 283.
[33] Cfr. A. Lovato, S. Puliatti, L. Solidoro Maruotti, Diritto privato romano, cit., 281 s.
[34] G. Franciosi, Corso istituzionale di diritto romano, 1, cit., 184.
[35] Cfr. A. Guarino, Diritto privato romano, 12a ed., Napoli 2001, 485.
[36] G. Diósdi, Ownership in ancient and preclassical Roman law, Budapest 1970, 22.
[37] G. Diósdi, Ownership, cit., 19 ss. e 29 per le conclusioni, in linea con gli assunti di Mommsen e Kaser: «familia meant primarily the totality of the famuli, and pecunia the cattle», ma già i decemviri «used both expressions to indicate property, without the slightest distinction». Lo studioso ungherese analizzava, per poi rigettarle, anche le diverse tesi di Jhering e Bonfante, secondo i quali familia indicava l’insieme delle res mancipi, pecunia l’insieme delle res nec mancipi (mentre Wlassak credeva che familia fosse la proprietà familiare oggetto di hereditas e pecunia la proprietà solitaria paterna di cui si poteva disporre con legati). La tesi di Jhering e Bonfante risulta accolta nella nostra letteratura da A. Guarino, Diritto privato romano, cit., 486 ss., spec. 488-489, per il quale le res non familiares si chiamavano pecunia ed erano sostanzialmente le res nec mancipi, possedute in quanto ultronee rispetto alla basicità dei beni familiari (questi ultimi, invece, oggetto del mancipium quiritario).
[38] Tab. 10.7: Qui coronam parit ipse pecuniave eius honoris virtutisve ergo arduitur ei … (su cui vd. ancora G. Diósdi, Ownership, cit., 26: il premio è vinto dallo schiavo con il cavallo, dunque pecunia era parola adatta sia per i servi sia per gli animali).
[39] Tab. 5.4-5: Si intestato moritur, cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto. Si adgnatus nec escitur gentiles familiam habento.
[40] Cfr. V. Scialoja, Teoria della proprietà, I, cit., 243.
[41] Si veda L. Capogrossi Colognesi, Max Weber e le società antiche, I, Roma 1988, 11, 15, 23.
[42] G. Pugliese, Istituzioni di diritto romano, Torino 1986, 124.
[43] La notizia pliniana (nat. hist. 15.1.1) che con Tarquinio Prisco si sarebbe iniziato a coltivare l’olivo è ben collocata nel più generale discorso sulle innovazioni agrarie del tempo da Umberto Vincenti in Aa.Vv., Storia giuridica di Roma, a cura di Aldo Schiavone, Torino 2016, 12 e nt. 16.
[44] Cicero, rep. 2.14.26.
[45] Cfr. V. Scialoja, Teoria della proprietà, I, cit., 245.
[46] U. Vincenti, in Aa.Vv., Storia del diritto romano e linee di diritto privato, a cura di A. Schiavone, Torino 2011, 12.
[47] Nonius Marcellus, Comp. doctr., v. Plebitatem, L. 217 = M. 149.
[48] F. Serrao, Diritto privato, economia e società nella storia di Roma, I, Napoli 1984, 161.
[49] Così L. Fascione, Storia del diritto privato romano, 3a ed., Torino 2012, 110.
[50] Alcuni studiosi non escludono, tuttavia, che tali spazi fossero di proprietà comune dei c.d. frontisti (proprietari dei fondi confinanti con la via). Oggi rilevano le c.d. strade vicinali o interpoderali, di proprietà privata ma soggette a uso pubblico, come definite dall’art. 3 del codice della strada.
[51] G. Pugliese, Istituzioni di diritto romano, cit., 128.
[52] Si veda, pur entro un’economia di discorso, G. Franciosi, Corso istituzionale di diritto romano, 1, cit., 178.
[53] Così si ritiene generalmente a proposito di D. 8.3.30 (Paulus libro quarto epitomarum Alfeni digestorum): cfr. sul punto la discussione e i richiami di letteratura svolti da S. Romeo, L’appartenenza e l’alienazione in diritto romano. Tra giurisprudenza e prassi, Milano 2010, 73 s. e nt. 151 (dove si pone in chiaro una differente valutazione di S. Solazzi, Alfeno Varo e il termine dominium, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 18, 1952, 218 s., propenso a ritenere l’estraneità della voce dominium dal lessico di Servio o Alfeno).
[54] Restitutorio posto che si doveva ripristinare (in latino restituere) la situazione precedente al comportamento stigmatizzato. Gli interdetti nel diritto romano potevano essere anche esibitori (quando il magistrato ordinava di esibire un qualcosa) o proibitori (quando si vietava un determinato comportamento).
[55] D. 39.1.5.10 (Ulpianus libro quinquagensimo secundo ad edictum).
[56] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali. Usi e tutela della proprietà fondiaria nel diritto romano, Roma 1999, 21 ss.
[57] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 27.
[58] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 33.
[59] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 37 e 38 nt. 38.
[60]L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 39 ss.
[61] La tutela della salubritas fra Editto e giurisprudenza. Il ruolo di Labeone, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano 101, 1988.
[62] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 43-46.
[63] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 49.
[64] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 55.
[65] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 58.
[66] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 63.
[67] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 64.
[68] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 67.
[69] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 73.
[70] Nella specie, l’azione in factum era un’azione (pretoria) che si dava per mancanza di un detrimento nella consistenza della cosa. La vera e propria actio legis Aquiliae (azione della legge aquiliana) si dava a rigore per il cosiddetto damnum corpore corpori datum, cioè il danno materiale cagionato direttamente e immediatamente dall’autore dell’illecito con una condotta concretamente esplicatasi su una cosa (“causalità diretta”).
[71] Si vedano le traduzioni di L. Desanti, La legge Aquilia. Tra verba legis e interpretazione giurisprudenziale, Torino 2015, 65, e G. Santucci (a cura di), Il sistema aperto del diritto romano. Antologia di testi, Torino 2016, 121.
[72] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 77.
[73] Domanda cruciale che si pone il Capogrossi Colognesi (Proprietà e diritti reali, cit., 78).
[74] Così in L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 79.
[75] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 84.
[76] D. 8.3.9 (Paulus libro primo sententiarum), dove comunque si precisa che ai tempi del giurista cui appartiene il brano, hodie tamen ex quocumque loco constitui solet, la servitù d’acqua può costituirsi da qualunque luogo.
[77] Peraltro questa sarebbe a ben vedere una inesattezza, in quanto sappiamo che la servitù d’acquedotto poteva costituirsi con derivazione di acque da un lacus pubblico, dunque perenne. Se non si tratta di un errore (come ritenuto da S. Perozzi, Perpetua causa nelle servitù prediali romane, in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche 14, 1893, 191), può immaginarsi che qui lacus stesse ad indicare una cisterna o un bacino di raccolta artificiale, non alimentato da acque vive.
[78] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 85.
[79] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 86 s.
[80] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 88.
[81] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 93.
[82] D. Mantovani, Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi, in Leges publicae. La legge nell’esperienza giuridica romana, a cura di J.-L. Ferrary, Pavia 2012, 707 ss.
[83] Tali idee non registrano un “punto di caduta” in G. Santucci, Legum inopia e diritto privato: riflessioni intorno ad un recente contributo, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 80, 2014, 373 ss.
[84] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 95.
[85] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 96.
[86] G. Branca, Non uso e prescrizione, in Scritti Ferrini, I, Milano 1947, 176.
[87] Così letteralmente G. Branca, Non uso e prescrizione, cit., 175 s.
[88] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 98.
[89] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 100.
[90] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 102.
[91] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 103.
[92] C.S. Tomulescu, Sur la loi Scribonia de usucapione servitutium, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité 17, 1970, 17.
[93] M. Rainer, Nochmals zu den Grunden und der Datierung der lex Scribonia, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung 104, 1987, 631 ss.
[94] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 110.
[95] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 111.
[96] L. Capogrossi Colognesi, La struttura della proprietà e la formazione dei ‘iura praediorum’ nell’età repubblicana, II, Milano 1976, 444 ss.
[97] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 114.
[98] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 116.
[99] CIL, XI, 3003, anche in FIRA, III, n. 106 o.
[100] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 124.
[101] Leggibile nel testo di L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 123 nt. 57.
[102] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 124.
[103] Cfr. però le note 105 e 115.
[104] L’interdetto uti possidetis tutelava per diritto romano il possesso non viziato di un immobile.
[105] Un’eccezione sembra essere costituita dall’interdetto de itinere actuque reficiendo, come è detto espressamente da Ulpiano in D. 43.19.3.13: qui bisognava provare l’esistenza del diritto reale di godimento.
[106] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 129.
[107] Cfr. D. 43.21.1.9: «Questo interdetto (sott. il de rivis) compete anche a colui che non ha il diritto di condurre l’acqua».
[108] Per questi e altri chiarimenti cfr. A. Guarino, Diritto privato romano, 8a ed., Napoli 1988, 648.
[109] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 130.
[110] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 134 e 141.
[111] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 140.
[112] Cfr. L. Capogrossi Colognesi, Ai margini della proprietà fondiaria, 3a ed., Roma 1998, 99.
[113] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 144.
[114] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 135 s.
[115] D. 43.19.3.13.
[116] L’interdetto era pertanto proibitorio, anche se talora poteva essere restitutorio: D. 43.20.1.1: hoc interdictum prohibitorium et interdum restitutorium est et pertinet ad aquam cottidianam.
[117] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 149.
[118] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 154.
[119] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 156.
[120] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 158 ss.
[121] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 161: «Di qui la tensione addirittura maggiore tra le forme nuove di circolazione dei beni immobili e l’arcaico modo di costituzione delle servitù su di essi: quasi che questi diritti fossero più importanti degli immobili stessi».
[122] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 163.
[123] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 165.
[124] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 168.
[125] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 167.
[126] Questa l’opinione comune: cfr. L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 169.
[127] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 173.
[128] La traduzione è ripresa alla lettera dal testo citato di Capogrossi Colognesi. Essa è leggibile in nota a pagina 174.
[129] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 176.
[130] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 178 s.
[131] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 187.
[132] Sembrano rilevanti anche il principio del frammento n. 49 e la testimonianza raccolta in D. 4.6.19 (Papinianus libro tertio quaestionum).
[133] D. 41.2.1.3 (Paulus libro quinquagensimo quarto ad edictum). Paolo si pone così agli antipodi rispetto agli assunti papinianei.
[134] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 188.
[135] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 192.
[136] Cfr. la sopra riferita definizione di proprietà.
[137] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 195.
[138] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 197.
[139] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 198. Per possesso ingiusto van Giffen intendeva il possesso conseguito clandestinamente o con la violenza, non quello concesso precariamente. Per la verità anche qui c’è il problema di capire come mai una possessio iniusta possa essere civilis: e qui il Van Giffen propone un sottile distinguo tra natura ed effetti del possesso. Gli effectus et commoda sono quasi tutti pertinenti al possesso giusto e di buona fede, mentre il possesso ingiusto e vizioso non ha quasi alcun commodum, anche se va considerato quello della tutela interdittale.
[140] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 202 s.
[141] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 205 e 210. Donello critica apertamente Bartolo e la sua definizione di possesso come ius insistendi.
[142] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 212.
[143] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 213.
[144] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 214.
[145] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 215.
[146] L. Capogrossi Colognesi, Proprietà e diritti reali, cit., 217.
[147] F. C. von Savigny, Das Recht des Besitzes. Eine civilistische Abhandlung, Giessen 1803, 3.
[148] Meglio ancora di diritti conseguenti al possesso, di iura possessionis.
[149] Il quale appartiene, nota il Savigny in una pagina celebre, alla teoria della proprietà.
[150] Sul punto può vedersi la trattazione di G. Berta, Appunti sulla distinzione fra possesso e detenzione in diritto romano, Bellinzona 1893, 1 ss.