Si pubblica, col consenso dell’Autrice e
dell’Editore, il Capitolo IV, Testamentum e religio: sacerdoti, sacra
e schemi sacerdotali (205-252) della monografia di Cristiana M.A. Rinolfi, Testamentorum
autem genera initio duo fuerunt: nam aut calatis comitiis testamentum faciebant
... aut in procinctu. Testamenti, diritto e religione in Roma antica,
[Università degli Studi di Sassari - Dipartimento di Giurisprudenza - Seminario
di Diritto Romano. Collana a cura di Giovanni Lobrano e Francesco Sini
22], Torino, G. Giappichelli Editore, 2020, pp. VI-282. ISBN/EAN
978-88-921-3729-5
Università di Sassari
Testamentum e religio: sacerdoti, sacra e schemi sacerdotali
SOMMARIO: 1. I pontefici e il
testamento comiziale. – 2. Le competenze
pontificali: i funebria. – 3. I pontefici e i tria
genera testamentorum. – 4. I sacra e
l’interpretatio pontificale.
La
partecipazione dei pontifices alla confezione del testamentum calatis
comitiis è stata affermata specialmente dai sostenitori dell’ipotesi del
testamento-adozione, in quanto, come emerge dalle fonti, specialmente da Gell.,
noct. Att. 5.19.5-8 [1],
a questi sacerdoti era attribuita la funzione di coordinamento e verifica della
procedura di arrogazione[2],
anche al fine di evitare atti in frode ai creditori[3].
Secondo Gellio, i pontefici erano gli arbitri dell’intero procedimento[4],
essi, inoltre, effettuavano un controllo preventivo dei requisiti richiesti[5],
come l’età dei due soggetti[6],
e la situazione patrimoniale dell’arrogato. Il termine arbiter si
rinviene anche nella glossa festina Ordo sacerdotum, per cui il
pontefice massimo era iudex atque arbiter ... rerum divinarum humanarumque
(p. 198 L.), e ciò farebbe propendere per la tecnicità del termine in ambito
giuridico-religioso. La figura del massimo esponente del collegio appare in
questa testimonianza munito di una competenza onnicomprensiva nel campo del
diritto, divino e umano[7].
Nelle Noctes
Atticae si fa riferimento a una riforma in materia realizzata dal giurista
e pontifex maximus Quinto Mucio, qui ricordato soltanto nella sua carica
sacerdotale, il quale avrebbe introdotto un giuramento nella procedura
dell’arrogazione[8]. Tale innovazione è indice di come
l’istituto fosse oggetto d’interpretatio pontificale in piena età
repubblicana, sussistendo ancora il rapporto tra ius civile e ius
sacrum, nonostante il fas si fosse concettualmente distinto dal ius.
Un’altra testimonianza, che conferma la lezione gelliana
in merito agli interventi pontificali nelle procedure della adoptio per
populum, è offerta da Cicerone nell’orazione De domo sua, in cui
contesta la validità della arrogazione di Clodio a opera del ventisettenne
plebeo P. Fonteio[9]:
de dom. 34: Quod est, pontifices, ius
adoptionis? Nempe ut is adoptet qui neque procreare iam liberos possit, et, cum
potuerit, sit expertus. Quae deinde causa cuique sit adoptionis, quae ratio
generum ac dignitatis, quae sacrorum, quaeri a pontificum collegio solet.
Come evidenzia l’oratore, il ius adoptionis
concerneva la procedura di supervisione attraverso un’indagine che teneva conto
della situazione familiare, della posizione sociale e dei sacra
dell’arrogato[10]. I pontifices, infatti,
effettuavano una verifica preventiva dei requisiti indispensabili richiesti,
del resto, un mutamento in seno agli assetti familiari, e i rilevanti risvolti
religiosi, richiedevano un accurato controllo.
La
competenza pontificale per l’adrogatio dovette perdurare a lungo, stando
alla notizia fornita da Gaio[11],
per cui l’imperatore Antonino[12]
si rivolse a questi sacerdoti per ottenere un parere intorno a una iusta
causa adoptionis[13].
Qualsiasi
soluzione si voglia seguire circa la natura dei comizi dinanzi a cui si
compivano i testamenti, appare chiaramente confermata la presenza pontificale
all’atto di testare. È ferma convinzione di chi scrive che si debba accettare
l’ipotesi dell’esistenza di specifici comitia calata in cui il cittadino
poteva disporre mortis causa dinnanzi ai pontefici, è, infatti,
impossibile prescindere dal disposto delle attestazioni di Labeone e Lelio
Felice apud Gell., noct. Att. 15.27.1-3, da cui si evince che si
testava pro conlegio pontificum[14].
Durante
il Regnum, la presidenza e la convocazione dei comizi per la
confezione degli antichi testamenti spettavano al re. La stessa sigla Q.R.C.F.,
analizzata supra, collegata al confezionamento dei testamenta calatis
comitiis, conferma la presenza regia. Nel porre in essere il comitiare
fas, il rex era coadiuvato da pontefici per il compimento
dell’operazione sacrale[15].
In tale periodo contrassegnato da un formalismo portato all’estremo[16],
al fine di evitare una rottura della pace con gli dèi, si può supporre, con un
certo grado di certezza, che i sacerdoti ricoprissero anche in questa occasione
la veste di suggeritori, attestata dalle fonti per altre occorrenze[17],
al fine di ottenere l’esatto proferimento della formula sacrale regia, e forse
anche della solenne disposizione dei testatori[18].
Agli
albori dell’età repubblicana, le attribuzioni di presidenza e di convocazione
dei comizi calati furono assunte dal rex sacrorum, per poi essere
assorbite, ma solo officiosamente, dal pontefice massimo[19].
Come detto supra al cap. II, § 5, la glossa festina Ordo sacerdotum[20],
da attribuire a Verrio Flacco, testimonia come il rex sacrorum detenesse
ancora una collocazione apicale in seno alla gerarchia sacerdotale, non solo
ricordando che egli era potentissimus, ma anche affermando che,
nei convivi, Rex supra omnis accumbat licet. Che si trattasse di
mera preminenza nominale, per quanto attiene all’età repubblicana, è dimostrato
da quanto dice Livio intorno alla creazione del rex sacrorum, per cui il
sacerdote sarebbe stato sottomesso al pontefice massimo[21],
affinché la carica unitamente al nomen non potesse rappresentare un
pericolo per la libertas[22].
Quella descritta dal grammatico era quindi un’antica gerarchia sacerdotale
risalente al Regnum, ma che formalmente sussisteva ancora specialmente
nei convivi sacerdotali. Altre fonti, al contrario, descrivono l’ampiamento dei
poteri del pontefice massimo nei confronti di altri sacerdotes[23].
Cicerone, in riferimento alla intricata vicenda intorno alla sua casa[24],
nel ricordare chi si era pronunciato sull’assenza di interdizioni religiose,
pone il rex sacrorum al terzo posto dei personaggi di cui ricorda le
cariche (citando per primi nell’ordine il console-pontefice P. Lentulo e L.
Lentulo, flamine di Marte), confermando, almeno nella prassi, una diminuzione
di importanza di questo sacerdozio[25].
L’oratore, inoltre, in de dom. 38, nel criticare le adozioni di
convenienza di patrizi da parte di plebei, afferma che Ita populus Romanus
brevi tempore neque regem sacrorum neque flamines nec Salios habebit nec ex
parte dimidia reliquos sacerdotes neque auctores centuriatorum et curiatorum
comitiorum, auspiciaque populi Romani, si magistratus patricii creati non sint,
intereant necesse est, cum interrex nullus sit, quod et ipsum patricium esse et
a patriciis prodi necesse est. Questo passo, dove comunque non si citano i
pontefici, proverebbe l’esistenza di ulteriori classificazioni dei sacerdoti
rispetto all’ordo prospettato dalla glossa festina[26],
poiché nella citazione dopo il rex sacrorum, seguono i flamini e i salii;
mentre in Liv. 1.20.2-5, i sacerdozi istituiti da Numa sarebbero stati,
nell’ordine, flamen Dialis, flamini di Marte e di Quirino, vestali,
salii, pontefice massimo[27].
L’ordine
gerarchico illustrato da Verrio Flacco non appare seguito nemmeno nel resoconto
della vetustissima cena[28],
organizzata per la inauguratio di Lucio Cornelio Lentulo Nigro come
flamine di Marte, riferito dal pontefice massimo Quinto Cecilio Metello
Pio in indice quarto, di cui Macrobio riporta il testo originale. In
tale occasione furono allestite diverse sale da pranzo, dove i sacerdoti
presero posto, e nell’elenco il re dei sacrifici è nominato dopo i pontefici[29]:
questo racconto, seppure di parte, mostra che sostanzialmente i pontifices
acquisirono un ruolo sempre più ampio nel sistema sacerdotale repubblicano.
La
presenza pontificale nei comitia calata, come si è detto, è attestata da
Labeone in Gell., noct. Att. 15.27.1-2, per le inaugurazioni e, sulla
base del frammento di Lelio Felice al § 3, anche per i testamenti comiziali, e
le detestationes sacrorum. Queste fonti, però, non si riferiscono
apertamente al pontifex maximus, utilizzando la generica espressione pro
conlegio pontificum. Sebbene pro sia un termine dalle differenti
accezioni[30], come evidenzia Aulo Gellio in un’altra
occasione[31], si deve affermare che nel frammento
labeoniano è difficile attribuire alla preposizione una accezione differente
rispetto al suo primario significato, che è quello di “dinanzi”. Così, la
locuzione pro conlegio pontificum si deve intendere come “dinanzi al”, o
“in presenza del” collegio dei pontefici[32]. Questa lettura, che non richiama né l’azione di
convocazione né di presidenza dei comitia calata, appare molto generica,
e sorge il dubbio che l’indeterminatezza fosse voluta a causa di un differente
regime per i singoli atti svolti in seno a queste assemblee.
Appare
evidente, infatti, che, fin dal Regnum, i comizi calati si sarebbero
svolti sotto la conduzione del pontefice massimo nel caso di inaugurazione del
re, nell’impossibilità per quest’ultimo, non ancora inaugurato, di assumere la
presidenza della assemblea religiosa[33].
La direzione dei comitia calata per l’inauguratio regis era
espressione della facoltà di sostituzione pontificale attestata dalle fonti in
particolari casi di assenza. Un esempio si rinviene in Livio, il quale narra
che, dopo l’animata abdicazione dei decemviri legibus scribundis, il pontifex
maximus presiedette i concilia plebis per la creatio dei
tribuni[34].
Per il
tramite di tale capacità di supplenza, nel corso dell’età repubblicana, in
seguito al crescente ruolo del pontifex maximus in seno al sistema
religioso, ma anche a fronte della necessità, al pari dell’istituto dell’adrogatio,
di un controllo formale per atti come i testamenti strettamente legati ai sacra,
si arrivò alla effettiva conduzione pontificale degli istituti che si
svolgevano nei comitia calata.
Nessuna
fonte, invece, riferisce di pontefici in relazione al testamentum in
procinctu[35]; ma essendo attestata la presenza di
questi sacerdoti nel campo di battaglia, non si può escludere, in forma del
tutto ipotetica, una sporadica assistenza pontificale per suggerire al
comandante militare le esatte formule da proferire, come nel caso della devotio
del console P. Decio P. f.[36].
Non appare rilevante, comunque, sforzarsi di supporre un intervento dei pontifices
durante la confezione dei testamenti prima della battaglia, piuttosto si deve
sottolineare come l’azione pontificale sia alla base della creazione del
concetto stesso di testamento. Sul tema, l’interpretatio del collegio
rappresentò fin dalle origini un’attenta opera di analisi e sviluppo delle
norme giuridico-religiose.
I
pontefici[37], come chiaramente emerge dalle fonti,
erano gli autorevoli giuristi dei rituali[38],
gli interpreti del diritto sacro a cui spettava la verifica del corretto compimento
delle cerimonie[39],
pubbliche e private[40]. Valerio Massimo ricorda come Maiores
statas sollemnesque caerimonias pontificum scientia[41],
poiché le conoscenze del collegio erano tese al rispetto dell’exactissimus
cultus[42]. Questa massima cautela derivava dal
fatto che la religio Romana era fondata esclusivamente sui riti
da porre in essere scevri da vizi, al fine di impedire qualsiasi incrinatura
della pace con gli dèi.
Questa
impostazione, che dava centralità all’attivo ruolo sacerdotale in seno alla civitas,
caratterizzava il sistema costituzionale romano: nel famoso frammento delle
Istituzioni di Ulpiano si legge che Publicum ius in sacris in sacerdotibus,
in magistratibus consistit[43].
Non soltanto i sacra e i sacerdoti erano elementi del diritto pubblico,
ma dall’ordine di esposizione si evince che fossero la parte principale del
sistema. Si tratta di una concezione precedente all’epoca in cui il giurista
scrive, risalente fin dalla prima età repubblicana. Come è stato dimostrato, la
tripartizione ulpianea derivava dalla sistematica ciceroniana[44],
ma questa prospettiva pubblicistica trovava origine da riflessioni sacerdotali,
sostanzialmente conservatrici, precedenti o coeve alla lotta tra patrizi e
plebei[45].
Come
accennato supra, la continua e costante interpretazione dei riti da
parte del collegio nell’ambito del sistema romano rimase fortemente intrecciata
al ius civile ancora sul finire della repubblica, quando il ius
già da tempo aveva conseguito piena autonomia concettuale rispetto al fas.
Del resto bisogna accettare quanto sostiene G. Franciosi, il quale afferma
l’originaria coincidenza tra il diritto sacro e quello umano: «Immaginare che
volta a volta i pontefici indossassero la stola per dare responsa in
materia di ius pontificum o se ne spogliassero per fare i giuristi laici
è concezione decisamente antistorica»[46].
Cicerone
nel secondo libro del De legibus sminuisce lo stretto collegamento tra
il ius pontificium e gli istituti inerenti a interessi privati[47],
al fine di affermare l’autonomia acquisita dal diritto civile rispetto
al sacro[48]. L’oratore sostiene che i pontifices
si dedicavano a quei settori del ius civile soltanto qualora fossero
strumentali ai loro interessi religiosi, ovvero, sacra, vota, feriae,
sepulcra, e materie simili. In tal modo egli ridimensiona quanto
espresso da Publio Mucio Scevola[49] per cui pontificem bonum neminem
esse, nisi qui ius civile cognosset[50].
Questa conoscenza del diritto civile, che l’oratore minimizza (Cur igitur
haec tanta facimus?), si pone in connessione con lo sforzo dei pontefici
teso a ottemperare a una non ben determinata lex che prescriveva la
continuità dei riti. In realtà, la polemica di Cicerone è frutto di “odiosa
strumentalizzazione” contro i Mucii[51],
poiché in altri luoghi è lui stesso ad attestare lo stretto rapporto tra l’interpretatio
pontificale e il ius civile[52].
L’elencazione
ciceroniana delle materie strumentali all’interpretazione dei pontefici (De
sacris, credo, de votis, de feriis et de sepulchris, et si quid eius modi est)
si correla ad alcune delle vaste funzioni originarie del collegio ricordate da
Tito Livio (hostiae, dies, templa, pecunia, cetera
omnia publica privataque sacra, funebria, prodigia)[53],
che furono accordate, secondo la tradizione, da Numa Pompilio all’atto della
creazione del pontifex maximus, nell’ambito della sua ampia riforma
nella sfera religiosa[54].
È del
tutto evidente che tutte, o almeno alcune, delle attribuzioni originali dei
pontefici potevano collegarsi alla complessa materia delle successioni mortis
causa. Intorno alla natura dell’hereditas, infatti, non pare sia da
accettare la posizione di chi traccia una netta separazione tra i sacra,
che sarebbero rientrati nella sfera del diritto pontificale, e l’eredità,
intesa come esclusiva materia di diritto civile[55].
Nell’antica eredità rientravano, innanzitutto, come primo officio dell’heres,
i riti funerari finalizzati a placare i Mani[56]
e l’inumazione del defunto. Come attesta Cicerone[57],
le cerimonie funebri e la sanctitudo delle sepolture[58]
furono oggetto di scrupolosa osservanza e attenta riflessione pontificale[59],
poiché, sottolinea l’oratore, una lex de religione sanciva che deorum Manium iura
sancta sunto[60].
La
disciplina non era disgiunta dalla sfera del ius civile[61],
Gaio, infatti, richiama la partizione derivata dall’interpretatio
pontificale[62] nella sua classificazione delle res
divini iuris[63],
da cui, in ragione della specifica qualificazione, conseguiva una differente
modalità di consacrazione: si tratta della distinzione tra gli dèi superi e i di
Manes[64] simmetrica alla dicotomia caelestes
caerimonias/funebria presente in Liv. 1.20.7. In questa occasione,
il giurista antoniniano riflette intorno ai requisiti al fine di determinare la
religiosità del luogo in cui era seppellito un cadavere. Si trattava di una
delle prospettive con cui la giurisprudenza classica indagò la materia inerente
agli iura sepulchrorum[65];
tali riflessioni portarono alla “oscura” classificazione tra sepulchra
familiaria e sepulchra hereditaria, prospettata dalle fonti
giuridiche che, sebbene sollevino ancora molti dubbi intorno alla natura di
tale distinzione, mostrano la connessione, che si deve ritenere originaria, tra
il diritto dei sepolcri e il diritto ereditario[66].
Tra gli
elementi per rendere un luogo religiosus attraverso la inumazione di un
defunto, Gaio indica la necessaria pertinenza dei riti funerari in capo a chi
seppelliva. Seppur in contesti che talvolta esulano dal tema della religiosità
del luogo di inumazione, sussistono ulteriori fonti giuridiche, come quelle
inserite nel titolo 11.7 del Digesto De religiosis et sumptibus funerum et
ut funus ducere liceat, che rimandano al tema della spettanza sia del funus[67], sia
delle sepolture, e delle relative spese[68]. In particolare, l’inumazione è
collegata alla legittimità di provvedere al funus per ciò che concerne
l’actio funeraria[69]
attribuita dal pretore a colui che aveva provveduto a seppellire il defunto
contro l’onerato a tale ufficio[70].
Ulpiano ricorda che questo editto fu iusta ex causa propositum affinché
fosse rifuso delle spese colui che funeravit, oltre a ciò egli si
sofferma sull’impatto che ebbe tale provvedimento, sostenendo che le spoglie
dei defunti non rimasero prive di sepoltura e che a nessuno fu fatto il
funerale de alieno: così, in tale contesto i due profili funus e
sepoltura risultano congiunti. Secondo il giurista, oportet che a fare
il funerale fosse la persona prescelta dall’estinto, ma nel caso quest’ultimo
non avesse provveduto a indicare l’onerato a tale compito, questo sarebbe
spettato agli eredi istituiti; in assenza di heres scriptus l’incombenza
sarebbe gravata sui legitimos vel cognatos: quosque suo ordine quo succedunt[71]. Tale
prospettiva, che dava ampio rilievo alla voluntas del defunto e soltanto
in subordine si volgeva agli eredi, sovvertendo l’originale attinenza
dell’onere in esame all’hereditas rappresentava una tappa successiva di
un lungo percorso iniziato dall’interpretazione del collegio pontificale.
La
pertinenza del funus, richiamata da Gaio e da altri giuristi
classici, è da porre, infatti, in relazione al rimedio elaborato dai pontefici
al fine di sollevare l’erede dall’onere dei culti domestici in presenza di
beneficiari di tutto o gran parte del patrimonio del de cuius. Sulla
base di questo indirizzo prudenziale, che verrà illustrato infra § 4, i pontifices
non solo legarono la pecunia ai sacra, ma da Cicerone si apprende
che essi ascrissero alle stesse persone tenute alla perpetuazione dei culti
domestici anche isdemque ferias et caerimonias[72],
tra questi riti, data la materia, non è difficile individuare anche quelli
attinenti al funus e ai sepulchra.
Questo
intervento pontificale si inserì in seno a una complessa disciplina dei funebria,
la cui trattazione unitaria comportò che i due profili, quello inerente al
funerale e quello relativo alla sepoltura, rimasero concettualmente connessi
ancora nelle riflessioni della giurisprudenza classica. I problemi affrontati
da Gaio in merito alla religiosità del luogo in cui si era inumato un cadavere
erano già stati affrontati dall’interpretatio pontificale che codificò
una serie di adempimenti liturgici, del resto le fonti ricordano i loro decreta
intorno alla connotazione giuridico-religiosa di ciò che era sacrum,
profanum, sanctum e religiosum[73]. Secondo Cicerone, infatti, l’inumazione
coinvolgeva multa religiosa iura e rilevava al fine della qualificazione
giuridica dello stesso sepulcrum[74].
Il luogo diveniva religioso qualora si svolgessero i riti necessari (iusta
facta) e si procedesse all’uccisione di un porcum[75]. Le prescritte cerimonie funebri[76]
sono ricordate anche in una glossa di Paolo Diacono in cui si rinviene il
riferimento a iusta facere[77]. Qui inoltre si afferma che l’onere di
compiere questi riti era in capo a qui iure accepta hereditate,
rimandando così a un’antica cerimonia connessa all’eredità, di natura non
patrimoniale.
Intorno
alla competenza dei funebria, oltre a Livio, si deve ricordare la
notizia offerta da Plutarco per cui Numa avrebbe assegnato ai pontefici la
funzione di spiegare le norme relative alle sepolture[78].
Di questa attività respondente resta qualche traccia nelle testimonianze
antiche. Il diritto pontificale prescriveva l’inumazione dei resti del defunto[79],
pratica che a Roma in età risalente prevaleva sull’incinerazione[80].
Le fonti ribadiscono la necessità di offrire sepoltura alle spoglie umane,
anche se solo simbolica[81],
e questo mostra che i pontefici con le loro riflessioni stemperarono il
principio che prescriveva l’inumazione. Essi indicarono l’esatto rituale quando
non si poteva procedere alla tumulazione dei resti, come nel caso in cui il
corpo fosse disperso in mare[82],
o si preferisse la cremazione del cadavere[83].
L’interpretatio
pontificale concerneva anche la riesumazione e la traslazione delle spoglie[84];
questa competenza dovette perdurare a lungo poiché è attestata ancora in età
classica[85]. In un frammento dei commentari ad
edictum di Ulpiano conservato nel Digesto si stabiliva che nel caso il dominus
dovesse effodere vel eruere resti umani, per procedere a scavi nei
luoghi dove riposassero delle spoglie, o per disseppellire le ossa, egli doveva
ottenere il parere dei pontefici o il iussum del princeps[86].
Come si è
appena illustrato, i pontefici, individuando prescrizioni rituali finalizzate
al rispetto della sanctitudo del diritto dei Mani e alla perpetuazione
delle cerimonie a esso collegate, incisero su alcuni profili inerenti
l’eredità. Per lungo tempo, come noto, il collegio pontificale interpretò il
diritto civile[87],
non solo in risposta ai dubbi legati alla ritualità, ma anche per assecondare
le modificazioni emergenti in seno alla società. Sebbene in assenza di fonti
esplicite, si può sostenere con un certo grado di certezza che questi
sacerdoti, quali artefici delle creazioni e delle trasformazioni nelle
differenti sfere del ius, operarono anche in ambito del diritto
ereditario, o meglio fondarono il diritto successorio mortis causa,
poiché incideva sensibilmente sugli assetti giuridici della famiglia[88].
È probabile che anche in questa sfera i pontefici ricorsero all’impiego di
strumenti lessicali e logiche analitiche di cui sono rimasti chiari, seppur
rari, esempi[89]. La necessità della perpetuazione dei
culti avrà portato loro, su richiesta di parte visto il ruolo istituzionale di
consulenza ricoperto[90],
a sopperire alla lamentata mancanza di sui, attraverso l’utilizzo di
formulari preesistenti piegati all’occorrenza, al fine di evitare l’estinzione
giuridico-religiosa della singola famiglia alla morte del pater. Come
più volte accennato, l’estrema cura per i culti, sia pubblici sia privati, era
essenziale per la vita della civitas. Ogni cerimonia, infatti, era
funzionale alla pace che intercorreva tra le due parti del sistema, cives
e dèi, poiché eventuali errori e omissioni ne avrebbero compromesso i rapporti.
In tal modo il collegio forgiò la dichiarazione solenne del testatore, per rendere
heres il successore del de cuius, e individuò il luogo, le
modalità e i dies per la sua pronuncia. I pontefici, inoltre, potevano
sovrintendere al proferimento della nuncupatio per l’istituzione di
erede, in veste di suggeritori delle formule. Come si è visto ivi al § 1, tale
presenza è attestata, tuttavia, soltanto per il testamentum calatis comitiis,
ma resta ferma sempre in merito la possibilità di istruire coloro che
richiedessero chiarificazioni sulla liceità, o sul corretto compimento,
dell’atto testamentario, anche di quello compiuto in procinctu.
In
materia di successioni, l’intervento pontificale non si arrestò soltanto alle
forme dei due antichi testamenti. La mancipatio familiae è un chiaro
esempio dell’opera di una giurisprudenza attenta e sensibile alle nuove
esigenze emergenti in seno alla società che, attraverso l’estensione di un
istituto già esistente, ottenne effetti del tutto nuovi[91].
La necessità che spinse i pontefici a ideare un simile strumento si può
scorgere nella stessa lezione di Gai. 2.103: qui neque calatis comitiis
neque in procinctu testamentum fecerat, is si subita morte urguebatur …
La mancipatio
familiae, tuttavia, presentava delle criticità, infatti, l’atto era posto
in essere in una situazione di emergenza che portava a effettuare una vendita
del patrimonio familiare, circostanza di cui l’acquirente poteva approfittare[92];
del resto, nella descrizione dell’istituto in Gai. 2.102 si impiega il verbo rogare
(mancipio dabat, eumque rogabat quid cuique post mortem suam dari vellet),
che sicuramente non sottende il sorgere di un’obbligazione in capo a colui la
preghiera era diretta, ma che attesta il ricorso a strumenti quali la fides[93].
Il
collegio quindi integrò la mancipatio familiae con la nuncupatio dell’emptor
familiae[94], ma, nonostante questo espediente,
probabilmente non si erano risolti tutti i problemi che l’istituto
generava. Si trattava pur sempre di un’alienazione inter vivos, il cui
schema fu piegato dai pontefici fino ai limiti delle possibilità di astrazione
e di forzatura logica[95].
In tale atto, infatti, l’acquirente dell’intero patrimonio, come ricorda Gaio,
non era un erede vero e proprio, ma loco heredis[96],
e solo con il passare del tempo divenne mero esecutore testamentario[97].
Nemmeno le persone designate erano successori dell’alienante della familia,
ma acquistavano direttamente dall’emptor, perciò esse non erano tenute
al culto dei sacra familiari, della cui cura furono onerate
probabilmente solo dopo l’enunciazione del principio pontificale sacra cum
pecunia[98]. Tali persone, inoltre, non erano
responsabili dei debiti del mancipio dans e, per contro, non potevano
esigere i crediti di questo[99].
Si profilò, così, una situazione incompatibile con i fini per i quali l’atto
era sorto. Se quindi non appare un coinvolgimento dei disegnati dal disponente
con gli effetti dell’atto, sembrerebbe che la locuzione loco heredis
fosse un modo per spostare tali esiti almeno in capo all’emptor familiae.
In un
lungo percorso fatto di continui assestamenti emerge la minuzia
dell’interpretazione prudenziale. Ogni singola formula che appare nel testamentum
per aes et libram non è messa a caso. Si ottenne una completa astrazione in
cui la forma dell’atto librale era talmente snaturata da apparire come un
guscio ormai vuoto, una mera formalità che fu chiamata dalle stesse fonti imaginaria
venditio. La compiutezza dell’iter logico è tale da far ritenere non
del tutto fondate le considerazioni che, più di cento anni fa, facevano
esprimere in termini negativi P.F. Girard, nei confronti del testamento
librale:
«Cet amas de
complications, de détours, de précautions, de termes superflus, révèle une
construction doctrinale, une œuvre d’interprètes, comme l’in jure cessio,
l’émancipation, l’adoption. Il y a là une création de jurisconsultes, de
jurisconsultes d’une époque peu avancée où les interprètes avaient, dans le
maniement du droit encore mal connu, une liberté qu’ils n’auraient pas eue en
un temps où la science juridique eût été plus répandue, probablement des
pontifes qui n’avaient plus d’intérêt au maintien du testament comitial depuis
que les XII Tables l’avaient soustrait à leur contrôle»[100].
La nota
“questione” relativa ai sacra, le cerimonie legate ai culti familiari
indissolubilmente collegate all’hereditas, rappresenta un chiaro
esempio di come questi sacerdoti coniugassero nell’interpretazione i profili
giuridici a quelli religiosi, anche dopo l’avvento di una giurisprudenza
“laica”[101].
Cicerone,
nel secondo libro del De legibus, avvalora più volte la perpetuità
dell’osservanza delle cerimonie familiari, ricordando in merito alcune leggi
relative alla religione. Nel dialogo in cui l’opera si sviluppa, è lo
stesso oratore a ricordare il testo normativo, dichiarando ai suoi
interlocutori che non avrebbe illustrato le leges de religione nella
loro estensione testuale, ma che avrebbe offerto soltanto il sommario (summae
rerum) e il contenuto (sententiae)[102].
La derivazione pontificale delle sententiae in esame è evidente, non
solo in rapporto alla materia, ma anche dalla loro collocazione in seno alle
norme elencate dall’oratore, di cui appare necessario offrire un breve cenno.
Cicerone
inizia la sua esposizione con una serie di disposizioni inerenti al culto degli
dèi[103],
in particolare riporta una norma, da cui emerge una uniformità concettuale tra
i culti privati e quelli pubblici, che vietava di onorare separatim le
divinità non pubblicamente riconosciute[104]
e raccomandava ai singoli di seguire i riti accolti a patribus (privatim
colunto, quos rite a patribus cultos acceperint)[105].
Nella
rassegna ciceroniana, dopo una legge intorno ai luoghi di culto[106],
si ritorna al tema della conservazione dei culti familiari (Ritus familiae patrumque
servanto), e si cita la prescrizione di onorare gli dèi, sia quelli
celesti, sia quos endo caelo merita locaverint, di cui si ricordano i
nomi[107].
Tutte queste leges rimandano apertamente alle competenze attribuite al
collegio da Numa Pompilio di cui parla Liv. 1.20.5-7, in particolare, la
classificazione delle divinità celesti si connette alla compilazione per
iscritto degli indigitamenta, i nomina deorum et rationes ipsorum
nominum[108]. Questa raccolta, la cui
paternità è attribuita dalla tradizione al secondo re di Roma[109],
confluì successivamente nei libri pontificali[110].
Le sententiae
che seguono nell’esposizione ciceroniana in materia di dies e di
sacrifici sono da collegarsi sempre ad argomenti di spettanza del collegio come
più volte sottolineato supra[111].
L’oratore
riporta inoltre una norma generale per cui vi doveva essere una divinità per
ogni sacerdote con la specifica che per tutti gli dèi vi fosse il pontefice,
cita flamini e Vestali, che in età repubblicana appaiono astretti al collegio[112], e
poi richiama l’opera di consulenza: qui la prospettiva pontificale è evidente[113].
Il
dettato della legge, illustrato nel discorso che segue, dispone una
tripartizione dei sacerdoti[114]
che può collegarsi alla notizia di Cicerone nel De natura deorum,
secondo cui la religio si divideva in sacra, auspicia, e tertium
adiunctum sit si quid praedictionis causa ex portentis et monstris Sybillae
interpretes haruspicesve monuerunt[115]. Questa suddivisione si può riscontrare
nello stesso ordine anche in Valerio Massimo, il quale l’ascrive ai maiores[116].
Nell’esposizione
del De legibus si prosegue con una rassegna di principi relativi agli
auguri, a cui si dà maggiore spazio, ai feziali e agli aruspici[117].
Dopo questa cesura si ritorna alle materie di competenza pontificale:
espiazione delle folgori, cerimonie sacre, azioni sacrileghe, con la specifica
della punizione dell’incestum da parte dei pontefici, voti, consecratio[118].
Si ricorda poi la norma relativa ai riti privati: Sacra privata perpetua
manento, a cui fanno seguito in chiusura alcune disposizioni relative ai Manium
iura, legate alla stesso argomento[119].
Che la
quasi totalità di questi dettami fosse di pertinenza pontificale risulta anche
dalla considerazione di Attico: … ut mihi quidem videtur, non multum
discrepat ista constitutio religionum a legibus Numae nostrisque moribus[120];
come si è già rilevato supra, secondo la tradizione, infatti, il
re sabino affidò al pontefice sacra omnia exscripta exsignataque[121].
Le leges de religione ricordate dall’oratore sono l’estrinsecazione
della antica concezione teologia romana, a cui più volte si è fatto
riferimento, per cui le cerimonie religiose, fulcro della religio,
dovevano essere officiate secondo rigidi schemi cautelari.
Riassumendo,
dal discorso ciceroniano, dunque, si possono individuare tre adagi relativi ai
riti in ambito domestico. Il primo, privatim colunto, quos rite a patribus
cultos acceperint, appare espressione di un differente contesto rispetto
agli altri, in quanto, più che alla perpetuazione delle cerimonie familiari,
prescrive l’esclusiva celebrazione di culti pubblicamente riconosciuti, è
infatti preceduto dal divieto secondo cui Separatim nemo habessit deos neve
novos neve advenas nisi publice adscitos, a dimostrazione che nella sfera
del sacro le liturgie private difformi rispetto a quanto accolto dalla intera civitas
potevano alterare la pax deorum.
Le altre
due prescrizioni sono invece collegate alle divinità a cui doveva dedicarsi il
culto domestico, poiché la norma Ritus familiae patrumque servanto è
preceduta dal riferimento alle Larum sedes[122],
mentre Sacra privata perpetua manento, come si è appena sottolineato,
alla normativa relativa agli dèi Mani. Il principio della perpetuazione dei
riti era da considerarsi unitario, come evidenzia Cicerone, il quale così
sintetizza: … de sacris …, qui locus patet latius, haec sit una sententia,
ut conserventur semper et deinceps familiis prodantur et, ut in lege posui,
perpetua sint sacra[123].
I tre precetti estrapolati dall’elenco ciceroniano, tuttavia, erano il
risultato di differenti interventi pontificali, probabilmente decreti dato il
loro tenore, che testimoniano come l’attività interpretativa sacerdotale fu reiterata
nel tempo a dimostrazione della complessità della materia e dell’importanza
vitale per Roma.
Nei due
antichi testamenti il problema della tutela dei sacra familiari
si dovette presentare, in quanto in mancanza di sui si nominava erede un
estraneo alla famiglia. Secondo A. Magdelain, l’heres extraneus non
riceveva gli elementi extrapatrimoniali, per questo motivo «il y a fallu une
intervention expresse des pontifes sous forme de décrets pour lui imposer la
charge des sacra»[124]. Tuttavia,
si può anche ipotizzare che il collegio disponesse il passaggio dei culti
familiari per mezzo di una clausola espressa nella dichiarazione del testatore,
congeniata attraverso la tipica estensione della massima simulata pro veris
accipiuntur[125]. L’estrema solennità del testamentum
calatis comitiis non può essere giustificata solo dalla deroga ai mores
avversa agli interessi degli agnati o dei gentili[126],
ma anche dalla necessità di tutelare i sacra familiari attraverso il
trasferimento dell’onere del culto nella persona dell’erede estraneo[127],
che in nessun modo diveniva suus del de cuius.
Dopo
l’introduzione del tertium genus testamentorum, con il passare del
tempo, nonostante i sacra familiari rappresentassero un istituto
inviolabile, il loro onere fu sentito talmente gravoso da farli definire da
Cicerone come “sacrorum molestia”[128],
a causa di alcune storture che si potevano presentare negli istituti
successori, quale ad esempio la possibilità che l’intero patrimonio ereditario
fosse disperso attraverso legati, e all’erede restasse solo l’onere dei culti
domestici. Come attestano alcune fonti, dire che una eredità non aveva sacra
significò ben presto ottenere un beneficio senza alcun onere[129].
Questo uso proverbiale della locuzione sine sacris hereditas è attestato anche da Festo, il quale ricorda
come olim l’erede ricevesse unitamente pecunia e sacra e
che questi ultimi diligentissime administrare esset necessarium[130].
Come sostiene de Visscher, questo fenomeno è da
rintracciare in seno alla società romana: «le sentiment de la solidarité
familiale a pendant longtemps suffi à assurer, au moins dans les classes
aisées, la continuité de ce culte. Cependant les rapides transformations
sociales, le défaut de traditions, l’absence ou la brièveté de la postérité
diminuaient sans cesse ses chances de durée»[131].
Per
superare tali distorsioni, i pontifices prescrissero alcune disposizioni
in materia in qualità di «difensori ad oltranza innanzi tutto (è ovvio e
comprensibile) della necessità che i sacra fossero continuati»[132].
Queste
prescrizioni pontificali sono illustrate nel celebre passaggio del De
legibus contro l’indebolimento del ius pontificium attraverso il ius
civile[133]. Qui Cicerone procede a un duro attacco
contro gli Scevola, responsabili, secondo il suo aspro giudizio, di aver
trascurato i doveri derivanti dalla carica di pontefici, poiché nella loro
funzione di giuristi avevano suggerito opportuni espedienti per l’elusione dei sacra.
In
letteratura è stato affermato che il testo in questione segua un ordine inverso
rispetto alla successione cronologica[134],
in realtà si potrebbe parlare invece di contorta distribuzione dell’argomento[135].
Innanzitutto, l’oratore evidenzia che tutta la materia, sulla quale i giuristi
procedettero a numerose riflessioni, si basava sul fondamentale principio dei sacra
cum pecunia (At postea ― libri). Egli passa poi a
rispondere intorno a qui adstringatur sacris, offrendo la disciplina
contemporanea che stabiliva un preciso ordine degli onerati ai sacra (Quaeruntur
― ab antiquis). Ricorda quindi il tentativo elaborato dagli
antichi di classificazione della materia, sviluppata in maniera più articolata
nei periodi successivi (Nam illi ― quippiam ceperit). Nel
passo, in seguito, Cicerone ribadisce il principio basilare secondo cui la
celebrazione delle ferie e delle cerimonie doveva essere attribuita a coloro i
quali avevano percepito il patrimonio (Sed pontificem ― adscribendas
putant). Nel passaggio seguente riafferma ancora il precetto fondamentale
stabilito dal diritto pontificio eluso, a quanto pare, dai due giuristi, i
quali consigliavano per le multae quaestunculae i modi per sfuggire dai sacra
(Atque etiam dant ― eluditis); richiama poi la regola del tantundem
accostata a P. Scevola, a T. Coruncanio e ad altri pontefici massimi (Placuit
― sacris alligari).
Si
cercherà qui di dare un ordine cronologico alla materia esposta da Cicerone al
fine di apprezzare al meglio in che modo i pontefici apportarono dei correttivi
in merito.
Il primo
intervento pontificale fu l’enunciazione del dettame sacra cum pecunia[136]
che rappresentava la soluzione alla necessità di trovare un mezzo per far
passare l’onere dei riti domestici insieme all’acquisto del patrimonio
ereditario, verosimilmente come correttivo alla mancipatio familiae, in
cui i sui restavano eredi, e quindi gravati dai culti, mentre la pecunia
poteva non pervenire loro, o giungere in minima parte[137].
La regola in esame è ricordata per ben tre volte nel testo ciceroniano, con
tutta probabilità si tratta di un espediente tecnico per evidenziare l’asserita
negligenza degli Scevola. Cicerone, infatti, afferma che l’auctoritas
dei pontifices legò la pecunia ai sacra per evitare
l’estinzione di questi ultimi, evidenziando poi che questo principio,
sufficiente al fine della conoscenza dell’argomento (quod est ad cognitionem
disciplinae satis), fu comunque oggetto di ulteriori e numerose riflessioni
giurisprudenziali, alludendo così ad elaborazioni dei giuristi laici.
Non si
conosce la forma di questo primo intervento, se di decreto o di responso, ma è
altamente probabile che gli stessi pontefici ritornarono più volte
sull’argomento in veste di respondenti per ribadire e reiterare quanto già
enunciato; del resto l’oratore, sebbene faccia riferimento all’auctoritas
e affermi al contempo come i pontefici volunt la regola, accosta il
verbo putant relativamente alla attribuzione a coloro su cui gravava
l’obbligo di perpetuare i sacra anche dell’onere di compiere feriae et
caerimoniae dell’ereditando.
Il tema,
del resto, doveva avere un’importanza centrale in seno alla società, tanto che
al primo enunciato seguirono ulteriori interventi pontificali ricordati
dall’oratore[138]. Si elaborò così una primitiva
classificazione tripartita degli onerati ai culti domestici che Cicerone
attribuisce agli antichi. Questa ripartizione, che riaffermava come l’eredità
fosse il primo mezzo con il quale si era vincolati ai sacra, era tesa a
sollevarne l’erede che non aveva ricevuto una parte rilevante del patrimonio.
Seguì poi
il principio del tantundem, in base al quale coloro che acquistavano
nella stessa misura delle quote spettanti a tutti gli eredi (quantum omnes
heredes) erano vincolati al culto dei sacra familiari. La regola del
tantundem rifletteva una più attenta elaborazione e ricomprendeva i casi esposti nella
precedente classificazione come base del secondo ordine di onerati[139].
L’enunciazione
del tantundem si deve ascrivere al primo pontifex maximus plebeo,
Tiberio Coruncanio[140],
sebbene il passo del De legibus accosti il principio anche a P. Scevola
e ad altri non ben identificati pontefici massimi, secondo una successione
cronologica discendente: P. Scaevola-Ti. Coruncanius-ceteros
pontifici maximi[141].
La regola, che si poteva rinvenire in nuce già nella prima
ripartizione in materia, fu poi enunciata nella sua forma compiuta dal
pontefice-giurista del III sec. a.C., e infine inserita nella classificazione
attribuita da Cicerone agli Scevola.
Qualche
studioso, tuttavia, ha negato l’attribuzione a Coruncanio del dettame in esame,
avanzando l’ipotesi che il tantundem presupponesse la lex Voconia[142],
limitativa della capacità delle donne di essere istituite eredi da coloro
che aveva un patrimonio superiore ai 100.000 assi[143],
che fu emanata nel 169 a.C., quasi un secolo dopo quello in cui viveva e
operava il primo pontefice massimo plebeo. Secondo Gaio, questa legge disponeva
cui plus legatorum nomine mortisve causa capere liceret, quam heredes
caperent, quindi poneva un tetto massimo alle disposizioni mortis causa[144].
Il principio del tantundem, invece, fu creato per regolare l’onere dei sacra
proprio nel caso in cui vi fosse qualcuno estraneo alla famiglia che avesse
ricevuto parte o tutto il patrimonio ereditario, e non per porre un limite
massimo all’acquisto.
Vi è
anche chi ha affermato che Cicerone citasse Coruncanio a titolo di mero
esempio, «sólo como uno de los “antiguos”»[145].
Si deve sottolineare, tuttavia, che l’oratore aveva conoscenza dell’elevata
perizia negli affari sacri del pontefice-giurista[146],
per cui parrebbe alquanto singolare in merito una citazione meramente
esemplificativa.
Il
decreto sul tantundem[147],
dunque, è da ricondursi all’attività interpretativa di Coruncanio, il
quale consolidò la precedente regolamentazione del collegio attraverso una
disposizione di ius pontificium dai sensibili riflessi in campo
civilistico[148].
Successivamente
vi furono altri accorgimenti intorno a qui adstringatur sacris. In
particolare Cicerone offre un quadro della disciplina contemporanea, appresa
dagli Scevola[149],
presentando in forma unitaria quanto disposto da Publio e Quinto Mucio, i quali
avrebbero individuato cinque classi di onerati alla celebrazione dei sacra
in base a un ordine decrescente[150].
Data la
sua importanza, il problema della prosecuzione del culto familiare non fu
ignorato dal ius civile in materia di diritto successorio, e l’esistenza
dell’usucapio pro herede[151]
ne è prova. Gaio ricorda che l’istituto fu creato per sopperire alla
situazione derivata dalla diffusa pratica degli eredi a fare la cretio in
ritardo per evitare di pagare i debiti e di onorare i legati, mentre
continuavano a goderne i frutti[152].
Il giurista inoltre afferma che i veteres elaborarono l’usucapio pro
herede anche per la continuazione delle cerimonie familiari: è del tutto
evidente che i veteres in questione fossero i pontefici, i quali anche
in questa occasione si pronunciarono per la salvaguardia dei sacra privata.
[1] Gell., noct. Att. 5.19.5-8: Sed adrogationes
non temere nec inexplorate committuntur; 6. nam comitia arbitris
pontificibus praebentur, quae ‘curiata’ appellantur, aetasque eius, qui adrogare
vult, an liberis potius gignundis idonea sit, bonaque eius, qui adrogatur, ne
insidiose adpetita sint, consideratur, iusque iurandum a Q. Mucio pontifice
maximo conceptum dicitur, 7. quod in adrogando iuraretur. 8. Sed
adrogari non potest, nisi iam vesticeps. ‘Adrogati’ autem dicta, quia genus hoc
in alienam familiam transitus per populi rogationem fit.
[2] La giustificazione è offerta da A. Bouché-Leclercq, Les pontifes dans
l’ancienne Rome. Étude historique sur les institutions religieuses de Rome,
Paris 1871 [rist. an., New York 1975], p. 206, secondo il quale l’adrogatio
era connessa al diritto divino e alla costituzione religiosa romana, per cui,
prima di essere sancita dalle curie doveva essere precedentemente approvata dai
«directeurs de la conscience publique».
[3] In D. 1.7.17 pr. (Ulp. 26 ad Sab.) si afferma il
divieto per curatori e tutori di arrogare l’incapace di età inferiore ai 25
anni, al fine di impedire che l’atto fosse l’espediente per non ottemperare
all’obbligo di rendicontazione. Inoltre nel frammento si attesta l’esistenza di
un’indagine volta a impedire che ne forte turpis causa adrogandi subsit.
[4] Intorno a questo accertamento, F. Serrao, Diritto privato economia e
società nella storia di Roma. 1. Dalla società gentilizia alle origini
dell’economia schiavistica, Napoli 2006, p. 157, sostiene che non si
tratterebbe di un’originaria competenza pontificale, ma fosse di pertinenza del
rex, il quale in epoca antica partecipava attivamente al compimento
dell’atto.
[5] Per quanto riguarda altri requisiti, vedi: Gai. 1.101: Item
per populum feminae non adoptantur, nam it magis placuit; apud praetorem vero vel
in provinciis apud proconsulem legatumve etiam feminae solent adoptari;
Gell., noct. Att. 5.19.10: Neque pupillus autem neque mulier, quae in
parentis potestate non est, adrogari possunt: quoniam et cum feminis nulla
comitiorum communio est et tutoribus in pupillos tantam esse auctoritatem
potestatemque fas non est, ut caput liberum fidei suae commissum alienae
dicioni subiciant, dove il riferimento al fas potrebbe rimandare a
una elaborazione sacerdotale del testo.
[6] Intorno all’età dei soggetti coinvolti come requisito
per il compimento dell’istituto, vedi: D. 1.7.15.2 s. (Ulp. 26 ad Sab.);
D. 1.7.40 (Mod. 1 diff.), in cui si afferma che nell’arrogazione, così
come nell’adozione, l’adrogante doveva possedere la maggiore età e almeno
diciotto anni in più dell’arrogato. In letteratura si è rilevato come da un
iniziale disinteresse del diritto sull’argomento, grazie alla successiva
attenzione prestata dalla giurisprudenza (i cui contrasti si possono cogliere
dalle incertezze di Gai. 1.106: Sed et illa quaestio, an minor natu maiorem
natu adoptare possit, utriusque adoptionis communis est), si è arrivati
all’affermazione del principio giuridico in base al quale l’adozione doveva
rispecchiare la filiazione naturale. Questa nuova concezione mirava alla tutela
di interessi prettamente individuali, mentre in origine l’istituto era volto
alla continuazione delle famiglie e dei loro culti, così, ad es.: G. Donatuti, Contributi allo studio
dell’adrogatio impuberis: la restituzione dei beni passati
all’arrogatore per effetto dell’arrogazione, in Bullettino dell’Istituto
di Diritto Romano 64, 1961, pp. 127 ss. (ora in Id., Studi di diritto romano, II, a cura di R. Reggi,
Milano 1977, pp. 879 ss.); R. Quadrato, Le
Institutiones nell’insegnamento di Gaio. Omissioni e rinvii, Napoli 1979,
pp. 98 ss. Per l’inesistenza in epoca antica del divieto di arrogare un
cittadino più anziano rispetto all’adottante, si segnala ancora: C. Castello, Il problema evolutivo
della ‘adrogatio’, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 33,
1967, pp. 140 s., Id., Sui
principii ispiratori delle norme sull’età dell’adottante e dell’adottato in
diritto romano, in Studi in onore di G. Grosso, VI, Torino 1974, pp.
200 ss. (entrambi ora in Id., Scritti
scelti di diritto romano. Servi filii nuptiae, Genova 2002, pp. 312 s. e
pp. 294 ss.). Vedi, invece, V.
Mitolo, L’arrogazione di Clodio ed il principio “adoptio imitatur
naturam”, Trani 1928 [estr. da Foro delle Puglie 29.3], per il
quale la norma che prescriveva un’età maggiore per l’adrogator rispetto
a quella dell’arrogato era una disposizione derivata dal fas, dai mores,
oppure dalla disciplina pontificale.
[7] Questa caratteristica del pontefice massimo emerge anche
in Tac., hist. 2.91.1, quando ricorda il pessimo pontificato di
Vitellio: Apud civitatem cuncta interpretantem funesti ominis loco acceptum
est, quod maximum pontificatum adeptus Vitellius de caerimoniis publicis XV
kalendas Augustas edixisset, antiquitus infausto die Cremerensi Alliensique
cladibus: adeo omnis humani divinique iuris expers, pari libertorum, amicorum
socordia, velut inter temulentos agebat.
[8] Intorno all’innovazione di Q. Mucio in seno alla
procedura dell’arrogazione, M. d’Orta,
Saggio sulla ‘heredis institutio’. Problemi di origine, Torino 1996, pp.
124 ss., individua i motivi l’intervento: «Alla fine della repubblica l’adrogatio
accusava una sensibile involuzione dovuta al diffondersi, nella civitas,
di modi e di comportamenti sempre più estranei ai valori antichi. Si sceglieva
di arrogare per procurarsi il filius; ma anche, sovente, per
impossessarsi del suo patrimonio».
[9] Quando Clodio fu adottato nel 59 a.C., i comizi curiati
si svolgevano già attraverso 30 littori: Cic., de leg. agr. 2.31: Sint
igitur xviri neque veris comitiis, hoc est, populi suffragiis, neque illis ad
speciem atque ad usurpationem vetustatis per xxx
lictores auspiciorum causa adumbratis constituti. Vedi sul punto A. Corbino, La capacità deliberativa
dei ‘comitia curiata’. Appunti, in L. Capogrossi
Colognesi-A. Corbino-L. Labruna-B. Santalucia, Le Strade del Potere,
Catania 1994, p. 70. Per la funzione politica dell’arrogazione, J. Bleicken, Lex publica. Gesetz und Recht in der römischen
Republik, Berlin-New York 1975,
p. 107.
[10] Secondo C. Russo
Ruggeri, La datio in adoptionem. I. Origine, regime giuridico
e riflessi politico-sociali in età repubblicana ed imperiale, Milano 1990,
pp. 101 ss., le argomentazioni dell’oratore, da riferire all’adoptio in
senso lato, mostrano come l’istituto fosse orientato prevalentemente ad
assicurare la continuazione delle famiglie prive di sui heredes.
[11] Gai. 1.102: Item impuberum apud populum adoptari
aliquando prohibitum est, aliquando permissum est: <nam> nunc ex epistula
optimi imperatoris Antonini, quam scripsit pontificibus, si iusta causa
adoptionis esse videbitur, cum quibusdam condicionibus permissum est (cfr.
anche Tit. Ulp. 8.5: per populum vero Romanum feminae non adrogantur:
pupilli antea quidem non poterant adrogari, nunc autem possunt ex constitutione
divi Antonini), il quale, anche se parla di iusta causa adoptionis,
si riferisce all’adrogatio; è frequente nelle fonti giuridiche l’uso del
termine generico adoptio in luogo di adrogatio, vedi ad esempio
D. 1.7.1 pr. (Mod. 2 reg.): Filios
familias non solum natura, verum et adoptiones faciunt. Per gli aspetti
terminologici, si rimanda a B. Albanese,
Le persone del diritto privato romano, Palermo 1979, p. 220 e nt. 63.
[12] Sulla politica antoniniana in materia di arrogazione,
vedi: C. Castello, Sull’età
dell’adottante e dell’adottato in diritto romano, cit., pp. 293 ss., Id., L’intervento statuale negli
atti costitutivi di adozione in diritto romano, in Annali della Facoltà
di Giurisprudenza dell’Università di Genova 16, 1977, pp. 705 s., 721 s.
(ora in Id., Scritti scelti di
diritto romano, cit., pp. 301 ss., 355 s., 371 s.); K.P. Müller-Eiselt, Divus Pius constituit.
Kaiserliches Erbrecht, Berlin 1982, pp. 138 ss., 166 ss. In generale per la legislazione di
Antonino Pio, vedi per tutti V. Marotta,
Multa de iure sanxit. Aspetti della politica del diritto di Antonino
Pio, Milano 1988.
[13] Sul rilievo indiscutibile dell’attività pontificale nel
campo del diritto civile, vedi, ad esempio: F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, tr. it. di
G. Nocera, Firenze 1968, pp. 19 ss.; C.A.
Cannata, Per una storia della scienza giuridica europea. I.
Dalle origini all’opera di Labeone, Torino 1997; F. Wieacker, Pontifex iurisconsultis. Zur
Hinterlassenschaft der römischen Pontifikaljurisprudenz, in Hommage à R.
Dekkers, Bruxelles 1982, pp. 213 ss.;
F. Cancelli, La
giurisprudenza unica dei pontefici e Gneo Flavio tra fantasie e favole romane e
romanistiche, Roma 1996; S. Tondo, Appunti
sulla giurisprudenza pontificale, in Per la storia del pensiero
giuridico romano. Dall’età dei pontefici alla scuola di Servio. Atti del
seminario di S. Marino, 7-9 gennaio 1993, a cura di D. Mantovani, Torino
1996, pp. 1 ss.
[14] Th. Mommsen, Le droit public romain, III, tr. fr. di P.F. Girard,
Paris 1893, p. 42 nt. 2, sottolinea con forza l’azione pontificale nei comitia
calata: «il faut considérer comme calata tous les comices tenus pro
collegium pontificum; car, d’une part, Labéon le dit expressément et,
d’autre part, le rapprochement de l’emploi des mots calare, calator,
curia calabra indique clairement que calatus ne signifie pas
autre chose que pontifical».
[15] Per questa collaborazione pontificale, vedi, ad esempio: R. Seguin, Remarques sur les origines
des pontifes romains: Pontifex maximus et rex sacrorum, in Hommages à H.
Le Bonniec. Res sacrae, a cura di D. Porte e J.-P. Nérandau, Bruxelles
1988, p. 411: «le pontifex est étroitement rattaché à la personne du roi
[…]. Si le roi est le grand prêtre et l’organisateur de la religion d’État, le
pontife est en quelque sorte son vicaire»; D. Porte,
Le prête à Rome. Les donneurs de sacré, 2a ed., Paris 2007,
p. 142, secondo la quale il re aveva la presidenza dei comizi calati nei giorni
indicati con la sigla Q.R.C.F., ma i pontefici ne avevano
l’organizzazione.
[16] Intorno al concetto di formalismo, per il periodo
arcaico vedi, da ultimo, G. Zarro,
Formalismo e consensualismo: una lettura agli antipodi dell’esperienza romana,
in Seminarios Complutenses de Derecho Romano 27, 2014, pp. 351 ss.
(bibl. ivi).
[17] Si tratta di una specifica competenza rituale dei
pontefici su cui, ad esempio: Liv. 4.27.1; 8.9.4-8; 9.46.6; 10.28.14; 31.9.9;
36.2.3; 42.28.9; Varr., de ling. Lat. 6.61; Tac., hist. 4.53.3.
In merito, vedi per tutti F. Sini, A
quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo
a.C., Torino 1995, p. 126 nt. 23.
[18] I pontefici, in seguito alla richiesta del singolo,
indicavano i certa verba da proferire sulla base di formulari conservati
nei loro archivi; in merito si deve ricordare, da ultimo, L. Franchini, Il problema
dell’esistenza di un ius controversum in età arcaica, in Diritto
@ Storia 13, 2015, § 3 nt. 10 (http://www.dirittoestoria.it/13/memorie/Franchini-Problema-esistenza-ius-controversum-eta-arcaica.htm): «Al principio della efficacia
rituale delle parole correttamente pronunciate si ispirava il formalismo
pontificale, che, come noto, era principalmente orale. Innumerevoli sono gli
esempi da cui si può trarre il convincimento che, in ambito tanto sacrale
quanto civile, il perfezionamento di un atto richiedesse la nuncupatio delle
parole fissate nei formulari, che non erano modificabili senza l’autorizzazione
dei pontefici, a meno che non si trattasse di meri aggiustamenti, quelli che la
situazione contingente richiedeva. In tali frangenti, per la verità, non si
trattava di modificare i formulari, quanto piuttosto di completarli inserendo
dati di mero dettaglio, che adeguassero i certa verba alla situazione
concreta».
[19] Così, ad esempio, G. De
Sanctis, Storia dei Romani, IV. La fondazione dell’impero,
II.1. Vita e pensiero nell’età delle grandi conquiste, Firenze 1953
[rist., Firenze 1963], p. 356, e P. Catalano,
Contributi allo studio del diritto augurale. I, Torino 1960, p.
368, i quali affermano che per tutta l’età repubblicana il rex sacrorum rivestisse
la presidenza “nominale”, mentre i pontefici sarebbero stati presidenti
“effettivi”. In letteratura la questione è ancora aperta: alcuni studiosi hanno
affermato che il potere di convocazione e di presidenza dei comizi calati
spettasse fin dall’origine ai pontefici (vedi, tra questi: P.F. Girard, Manuale elementare di
diritto romano, tr. it. sulla 4a ed. fr. di C. Longo, Milano 1909, p. 813,
il quale avanza l’ipotesi che i comizi calati fossero presieduti dal pontifex
maximus «o forse nominalmente, per conto dei pontefici, dal rex sacrorum»;
G. Wissowa, Religion und
Kultus der Römer, 2a ed., München 1912 [rist., München 1971],
pp. 490, 511 s.; B. Kübler, Geschichte
des Römischen Rechts. Ein Lehrbuch, Leipzig 1925, p. 58; N. Turchi, La religione di Roma
antica, Bologna 1939, p. 44, il quale sostiene che nei giorni
contrassegnati con la sigla Q.R.C.F. il popolo che si riuniva per la
confezione dei testamenti era convocato e presieduto dal rex sacrorum ma
«a nome del collegio sacerdotale»; J. Paoli,
Le testament calatis comitiis et l’adrogation d’Octave, in Studi
in onore di E. Betti, III, Milano 1962, p. 532; F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, cit., p.
41); altri autori hanno sostenuto che queste funzioni passarono dal re al rex
sacrorum e successivamente, nel corso della repubblica, al pontefice
massimo (ad esempio: A. Bouché-Leclercq,
Manuel des institutions romaines, Paris 1886, p. 512; P. de Francisci, Storia del diritto
romano, I, Milano 1941, pp. 165 s., Id.,
Primordia civitatis, Romae 1959, pp. 489, 494 s. e nt. 392, 545,
577 e nt. 87, 587 ss. e nt. 144, il quale parla in proposito di usurpazione; C.
Ferrini, Manuale di pandette,
ed. curata ed integrata da G. Grosso, 4a ed., Milano 1953, p. 597; C.W. Westrup, Sur les gentes
et les curiae de la royauté primitive de Rome, in Revue
Internationale des Droits de l’Antiquité 1, 1954, pp. 467 e 470; G.J. Szemler, The Priests of the Roman
Republic. A Study of Interactions Between Priesthoods and Magistracies,
Bruxelles 1972, p. 63, per cui i vasti poteri del pontefice massimo furono
acquisiti in maniera graduale; A. Magdelain,
La loi à Rome. Histoire d’un concept, Paris 1978, pp. 82 s.; Id., «Quando
rex comitiavit fas», in Revue Historique des Droits de l’Antiquité 58,
1980, p. 7, ora in Id., Jus
imperium auctoritas. études de
droit romain, Rome 1990, p. 273, che sostiene «un long processus
d’usurpations»; G. Radke, Fasti
Romani. Betrachtungen zur Frühgeschichte des römischen Kalenders, Münster 1990, p.
15), oppure all’intero collegio (J.
Heurgon, Rome et la Méditerranée occidentale jusqu’aux guerres
puniques, 2a ed., Paris 1980, p. 218, per il quale «partout le collège
réussit à éliminer le rex sacrorum»); di tutt’altra opinione, invece,
coloro che asseriscono la presidenza repubblicana del pontefice massimo dei comitia
calata fin dall’indomani della cacciata dei re: (ad esempio: Th. Mommsen,
Le droit public romain, III, cit., pp. 41, 42 nt. 3; F. Schwind, Römisches Recht. I. Geschichte,
Rechtsgang, System des Privatrechtes, Wien 1950, p. 374; M. Amelotti, Le forme classiche di
testamento, I. Lezioni di Diritto romano raccolte da R. Martini,
Torino 1966, p. 29; A. Momigliano, Il
‘rex sacrorum’ e l’origine della repubblica, in Studi in onore di E.
Volterra, I, Milano 1971, p. 362 (ora in Id.,
Quarto Contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico,
Roma 1969, p. 168 = Id., Roma
arcaica, Firenze 1989, p. 168).
[20] Fest., de verb. sign., p. 198 L.
[21] In tal senso, per i rapporti
tra il pontefice massimo e il rex sacrorum, R.D. Draper, The rule of the pontifex maximus and its
influence in Roman religion and politics, Dissertation, Ann Arbor 1988, pp.
145 ss.; E. Bianchi, Il rex
sacrorum a Roma e nell’Italia antica, Milano 2010, pp. 107 ss.
[22] Liv. 2.2.2: Id sacerdotium pontifici subiecere, ne
additus nomini honos aliquid libertati, cuius tunc prima erat cura, officeret.
[23] Come esempi di potere coercitivo del pontefice massimo
nei confronti di altri sacerdoti, vedi Cic., phil. 11.18, per la multa
inflitta nel 131 a.C. dal pontifex maximus e consul, P. Licinio
Crasso Muciano, al collega e flamen Martialis, L. Valerio Flacco;
Liv. 37.51.1-6 e Val. Max. 1.1.2, per il divieto pontificale ingiunto al flamen
Quirinalis e pretore di partire per la Sardegna.
[24] Per l’episodio, vedi, ad esempio: W. Allen Jr., Cicero’s House and
Libertas, in Transactions and Proceedings of the American Philological
Association 75, 1944, pp. 1 ss.; B. Berg, Cicero’s Palatine
home and Clodius’ shrine of liberty: alternative emblems of the Republic in Cicero’s
De domo sua, in Studies in Latin literature and Roman history, VIII,
a cura di C. Deroux, Bruxelles
1997, pp. 122 ss.; M. Beard-J. North-S. Price, Religions of Rome. I.
A History, Cambridge 1998, pp. 114 ss.; C.J. Classen, Diritto retorica, politica. La strategia retorica
di Cicerone, tr. it., Bologna 1998, pp. 219 ss.; W. Stroh, De Domo Sua: Legal Problem and
Structure, in Cicero. The Advocate, a cura di J. Powell e J.
Paterson, Oxford 2004, pp. 313 ss.
[25]
Cic., de har. resp. 12: At vero meam domum P. Lentulus consul et
pontifex, P. Servilius, M. Lucullus, Q. Metellus, M’. Glabrio, M. Messalla, L.
Lentulus flamen Martialis, P. Galba, Q. Metellus Scipio, C. Fannius, M.
Lepidus, L. Claudius rex sacrorum, M. Scaurus, M. Crassus, C. Curio, Sex.
Caesar flamen Quirinalis, Q. Cornelius, P. Albinovanus, Q. Terentius pontifices
minores causa cognita, duobus locis dicta, maxima frequentia amplissimorum ac
sapientissimorum civium adstante omni religione una mente omnes liberaverunt.
Cfr. invece de dom. 127, dove l’ordine dei sacerdoti proposto dalla
glossa festina appare rovesciato: Discite orationem, pontifices, et vos,
flamines; etiam tu, rex, disce a gentili tuo, quamquam ille gentem istam
reliquit, sed tamen disce ab homine religionibus dedito ius totum omnium
religionum.
[26] In tal senso, vedi, ad es., L.-R. Ménager, Les collèges
sacerdotaux, les tribus et la formation primordiale de Rome, in Mélanges
de l’École française de Rome. Antiquité 88, 1976, p. 466: «nos informations
permettent d’induire que la hiérarchie des sacerdoces a subi au fil des temps
républicains de notables vicissitudes».
[27] Nella lex tabulae Heracleensis alle ll. 62 s. si
citano nell’ordine vestali, rex sacrorum e flamini.
[28] La data in cui si svolse il banchetto non è certa, ad
esempio: Th. Mommsen, Römische
Forschungen, III, Berlin 1864, pp. 87 s. e nt. 34, data l’evento non prima del
63 a.C.; secondo L. Ross Taylor, Caesar’s
colleagues in the pontifical college, in The American Journal of
Philology 63, 1942, pp. 389 ss., il convivio si svolse tra il 74-73 e il 69
a.C.; mentre per N. Marinone, Il
banchetto dei pontefici in Macrobio, in Maia 22, 1970, pp. 271 ss.,
la cena ebbe luogo nel 69 a.C. (così anche L.-R. Ménager, Les collèges sacerdotaux, les tribus et la
formation primordiale de Rome, cit., p. 466 nt. 1); P. Tansey, The inauguration of Lentulus Niger, in The
American Journal of Philology 121.2, 2000, pp. 237 ss., considera probabile
la data del 22 agosto 70 a.C.; A.
Drummond, The Ban on Gentiles Holding the Same Priesthood and
Sulla’s Augurate, in Historia 57, 2008, pp. 381 ss., colloca
l’episodio tra il 74-73 e il 63 a.C.
[29] Macr., sat. 3.13.10 s.: Accipite inter
gravissimas personas non defuisse luxuriam. Refero enim pontificis
vetustissimam cenam quae scripta est in indice quarto Metelli illius pontificis
maximi in haec verba: 11. Ante diem nonum kalendas Septembres, quo die
Lentulus flamen Martialis inauguratus est, domus ornata fuit, triclinia lectis
eburneis strata fuerunt, duobus tricliniis pontifices cubuerunt, Q. Catulus, M.
Aemilius Lepidus, D. Silanus, C. Caesar, --- rex sacrorum, P. Scaevola, Sextus
---, Q. Cornelius, P. Volumnius, P. Albinovanus et L. Iulius Caesar augur qui
eum inauguravit, in tertio triclinio Popilia Perpennia Licinia Arruntia
virgines Vestales et ipsius uxor Publicia flaminica et Sempronia socrus eius.
Altre fonti prospettano ulteriori sequenze: Liv. 6.41.9: Vulgo ergo,
pontifices, augures, sacrificuli reges creentur; Lact., div. inst. 5.19.10: Procedant in medium pontifices seu minores seu maximi, flamines
augures, item reges sacrificuli quique sunt sacerdotes et antistites religionum
...
[30] Sulle varie accezioni del termine, [J.] Ramminger, v. prō, in Thesaurus Linguae Latinae, X.2,
Stuttgart-Leipzig 1996, coll. 1417 ss., il quale attribuisce all’uso di pro in
Gell., noct. Att. 15.27.1, il significato di «coetu quodam, sc. secundum
eius auctoritatem» (col. 1432).
[31] Gell., noct. Att. 11.3.2 s.: Aliter enim dici
videbam ‘pontifices pro conlegio decrevisse’, aliter ‘quempiam testem
introductum pro testimonio dixisse, aliter M. Catonem in originum quarto:
proelium factum depugnatumque pro castris scripsisse et item in quinto: urbes
insulasque omnis pro agro Illyrio esse, aliter etiam dici ‘pro aede Castoris’,
aliter ‘pro rostris’, aliter ‘pro tribunali’, aliter ‘pro contione’ atque
aliter ‘tribunum plebis pro potestate intercessisse’. 3. Sed has omnes
dictiones qui aut omnino similes et pares aut usquequaque diversas existimaret,
errare arbitrabar; nam varietatem istam eiusdem quidem fontis et capitis, non
eiusdem tamen esse finis putabam. Vedi anche Varr., de ling. Lat. 6.58:
Pronuntiare dictum <a pro> et nuntiare; pro
idem valet quod ante, ut in hoc: proludit.
[32] A tale proposito, si rinvia alla traduzione offerta da
R. Marache di Gell., noct. Att. 15.27.1: «Dans le premier livre du
commentaire de Laelius Felix à Quintus Mucius il est écrit que suivant Labéon
les comices calata sont ceux qui ont lieu devant le collège des pontifes
pour inaugurer ou le roi ou les flamines» (Aulu-Gelle, Les nuits
attiques, III, Livres XI-XV, Paris 1989, p. 173).
[33] Questa intuizione è di P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale,
cit., pp. 372 e 434.
[34] Liv. 3.54.5-13: Factum senatus consultum, ut
decemviri se primo quoque tempore magistratu abdicarent, Q. Furius pontifex
maximus tribunos plebis crearet, et ne cui fraudi esset secessio militum
plebisque. 6. His senatus consultis perfectis dimisso senatu decemviri
prodeunt in contionem abdicantque se magistratu ingenti hominum laetitia.
7. Nuntiantur haec plebi. Legatos quidquid in urbe hominum supererat
prosequitur. Huic multitudini laeta alia turba ex castris occurrit.
Congratulantur libertatem concordiamque civitati restitutam. 8. Legati
pro contione: “Quod bonum, faustum felixque sit vobis reique publicae, redite
in patriam ad penates, coniuges liberosque vestros; sed, qua hic modestia
fuistis, ubi nullius ager in tot rerum usu necessario tantae multitudini est
violatus, eam modestiam ferte in urbem! In Aventinum ite, unde profecti estis! 9.
Ibi felici loco, ubi prima initia inchoastis libertatis vestrae, tribunos
plebi creabitis. Praesto erit pontifex maximus, qui comitia habeat”. 10. Ingens
adsensus alacritasque cuncta adprobantium fuit. Convellunt inde signa
profectique Romam certant cum obviis gaudio. Armati per urbem silentio in
Aventinum perveniunt. 11. Ibi extemplo pontifice maximo comitia habente
tribunos plebis creaverunt, omnium primum L. Verginium, inde L. Icilium et P.
Numitorium, avunculum Vergini, 12. auctores secessionis, tum C.
Sicinium, progeniem eius, quem primum tribunum plebis creatum in Sacro monte
proditum memoriae est, et M. Duillium, qui tribunatum insignem ante decemviros
creatos gesserat nec in decemviralibus certaminibus plebi defuerat. 13. Spe deinde magis quam meritis electi M. Titinius, M. Pomponius,
C. Apronius, Ap. Villius, C. Oppius. Vedi anche Ascon., in Cornel., p.
69 (ed. A. Kiessling-R. Schoell). Per questo e altri esempi di sostituzione
pontificale, sia consentito rinviare a C.M.A. Rinolfi,
Plebe, pontefice massimo, tribuni della plebe: a proposito di Liv.
3.54.5-14, in Diritto @ Storia 5, 2006 (http://www.dirittoestoria.it/
5/Memorie/Rinolfi-Plebe-pontefice-massimo-tribuni-della-plebe.htm).
[35] Sostengono la presenza dei pontefici nella confezione
del testamento in procinto, ad esempio: Jo.G.
Heineccius, Dissertatio de origine testamenti factionis et ritu
testandi antiquo, alieno nomine conscripta, Lipsiae 1778, pp. 21 ss.; J. de Bas, Dissertatio Juridica
inauguralis de vi religionis in jus Romanorum civile usque ad Constantini Magni
tempora, Hagae Comitum 1831, pp. 89 s.; J. Rubino, Untersuchungen über römische Verfassung und Geschichte,
I. Ueber den Entwickelungsgang der römischen Verfassung bis zum Höhepunkte
der Republik, Cassel 1859, p. 252 nt. 2; E.
Hölder, Istituzioni di diritto romano, cit., p. 320, in quanto
considerano speculari le antiche forme testamentarie. Negano la presenza di pontefici
durante la confezione dei testamenti in procinctu: É. Cuq, Recherches historiques sur
le testament per aes et libram, in Nouvelle revue historique de droit
français et étranger 10, 1886, p. 539; Id.,
Les institutions juridiques des romains, 1. L’ancien droit,
Paris 1891, p. 281 nt. 2; G. Cornil, Ancien
droit romain. Le problème des origines, Bruxelles-Paris 1930,
p. 108, per cui il testamento in procinto fu «le plus ancien testament
autonome: par raison de nécessité il était affranchi de toute tutelle
pontificale et populaire»; L. Minieri, Il
‘testamentum in procinctu’, cit., pp. 273 s., in quanto è del parere che, a
parte il silenzio delle fonti, sarebbe stato improbabile l’assistenza di ogni
singolo testatore prima dell’inizio del combattimento.
[36] Liv. 10.29.3-4: At ex parte altera pontifex Livius,
cui lictores Decio tradiderat iusseratque pro praetore esse, vociferari vicisse
Romanos, defunctos consulis fato; Gallos Samnitesque Telluris matris ac deorum
Manium esse, rapere ad se ac vocare Decium devotam se cum aciem furiarumque ac
formidinis plena omnia ad hostes esse; de vir. illustr. 27.3: Quarto
consulatu cum Fabio Maximo, cum Galli, Samnites, Umbri, Tusci contra Romanos
conspirassent, ibi exercitu in aciem ducto et cornu inclinante exemplum patris
imitatus advocato Marco Livio pontifice hastae insistens et solemnia verba
respondens se et hostes diis manibus devovit. Sulla carriera del personaggio, T.R.S.
Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I. 509 B.C.
- 100 B.C., New York 1951 [rist., Atlanta, Ga. 1986], pp. 159, 164, 175,
177.
[37] Sui pontifices, diritto e interpretatio
pontificale, oltre alla fondamentale opera di A. Bouché-Leclercq, Les pontifes dans l’ancienne Rome,
cit., vedi specialmente: K.D. Hüllmann,
Ius pontificium der Römer, Bonn 1837; J. Cauvet, Le droit pontifical chez les anciens romains
dans ses rapports avec le droit civil. Étude sur les antiquités juridiques de
Rome, Caen 1869; J. Marquardt, Le
culte chez les Romains, I, tr. fr. di M. Brissaud, Paris 1889, pp. 281 ss.;
E. Aust, Die Religion der
Römer, Münster i. W. 1899, pp. 183 ss.;
G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., pp. 501 ss.; N.
Turchi, La religione di Roma antica, cit., pp. 40 ss.; P. de Francisci, Primordia civitatis,
cit., pp. 440 ss.; K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, München 1960, pp. 400 ss., 195 ss.; M. Le Glay, La religion romaine,
Paris 1971, pp. 142 ss.; J. Guillén, Los
sacerdotes romanos, in Helmantica 24, 1973, pp. 21 ss.; G. Dumézil, La religion romaine
archaïque, 2a ed., Paris
1974, pp. 116 ss.; G.J.
Szemler, v. Pontifex, in Paulys Real-Encyclopädie der
classischen Altertumswissenschaft, Suppl. XV, München 1978, coll. 331 ss.;
R. Seguin, Remarques sur les
origines des pontifes romains, cit., pp. 405 ss.; A.M. Smorchkov, Коллегия понтификов и понтификальное право в российской историографии, in Ius Antiquum - Древнее Право 5, 1999, pp. 109 ss.; Id., Коллегия понтификов, in Aa.Vv., Collegia sacerdotum Romae Primordialis. Ad
problemam de incremento iuris sacri et publici, Moskva 2001, pp. 100 ss.; F. Van Haeperen, Le collège
pontifical (3ème s. a. C.-4ème s. p. C.). Contribution à l’étude de la religion
publique romaine, Bruxelles-Rome 2002;
J.A. Delgado Delgado, La legislación pontifical sobre los alimentos
empleados en la práctica cultual romana: un modelo de gestión documental,
in ’Ilu 12, 2004, pp. 15 ss.; R.T.
Ridley, The Absent Pontifex Maximus, in Historia 54, 2005,
pp. 275 ss.; C.M.A. Rinolfi, Livio
1.20.5-7: pontefici, sacra, ius sacrum, in Diritto @ Storia
4, 2005,
http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Rinolfi-Pontefici-sacra-ius-sacrum.htm;
D. Porte, Le prêtre à Rome,
cit., pp. 131 ss.; L. Franchini, Aspetti
giuridici del pontificato romano. L’età di
Publio Licinio Crasso (212-183 a.C.), Napoli
2008 [rec. di N. Rampazzo, «Pontificalia»,
in Index 38, 2010, pp. 178 ss.];
Id., Il problema dell’esistenza di un ius controversum in età
arcaica, cit.; Id., Principi
di ius pontificium, in Religione e Diritto Romano. La cogenza del rito,
a cura di S. Randazzo, Tricase 2015, pp. 263 ss.; M. Trommino, Struttura e composizione del collegio dei
pontefici. Da Liv., urb. cond. 1.20.5 alla lex Ogulnia, una
panoramica delle fonti, in Rivista di diritto romano 14, 2014, pp. 1
ss. Cfr. per l’età
imperiale: F. Van Haeperen, Des pontifes païens aux
pontifes chrétiens. Transformations d’un titre: entre pouvoirs et
représentations, in Revue belge de philologie et d’histoire 81,
2003, pp. 137 ss.; A. Cameron, The
Imperial Pontifex, in Harvard Studies in Classical Philology 103,
2007, pp. 341 ss. Intorno alla etimologia del termine pontifex,
vedi: F. Ribezzo, Numa
Pompilio e la riforma etrusca della religione primitiva di Roma, in Rendiconti
della Accademia Nazionale dei Lincei ser. VIII, 5, 1950, p. 568; H. Fugier,
Recherches sur l’expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963,
pp. 161 ss.; E. Evangelisti, Per
l’etimologia di pontifex, Brescia 1969; J.P.
Hallett, “Over Troubled Waters”: The Meaning of the Title pontifex,
in Transactions and Proceedings of the American Philological Association 101,
1970, pp. 219 ss.; H. Le Bourdellès,
Nature profonde du pontificat romain. Tentative d’une étymologie, in Revue de l’histoire des
religions 189, 1976, pp. 53 ss.; P.
Flobert, La relation de sacrificare et de sacerdos, in Hommages
à H. Le Bonniec, cit., pp. 171 ss.; R. Del
Ponte, La religione dei Romani. La
religione e il sacro in Roma antica, Milano
1992, pp. 107 ss.; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la
langue latine. Histoire des mots, 4a ed. a cura di J. André, Paris 2001, p. 521. Per il pontefice massimo vedi spec.: J. Bleicken, Oberpontifex und
Pontifikalkollegium. Eine Studie zur römischen Sakralverfassung, in Hermes 85, 1957, pp. 345
ss. (ora in Id., Gesammelte
Schriften. I, 1. Griechische Geschichte. 2. Römische
Geschichte (Anfang), Stuttgart 1998, pp. 409 ss.); R.D. Draper, The
rule of the pontifex maximus and its influence in Roman religion and politics,
cit.
[38] L’autorevolezza dei pontefici, la cui opera era
finalizzata al prestigio della Res publica e a tutela di interessi
pubblici e privati, è celebrata specialmente da Cic., de dom. 1: Cum
multa divinitus, pontifices, a maioribus nostris inventa atque instituta sunt,
tum nihil praeclarius quam quod eosdem et religionibus deorum immortalium et
summae rei publicae praesse voluerunt, ut amplissimi et clarissimi civem rem
publicam bene gerendo religiones, religionibus sapienter interpretandorem
publicam conservarent. Quod si ullo tempore magna causa in sacerdotum populi
Romani iudicio ac potestate versata est, haec profecto tanta est, ut omnis rei publicae
dignitas, omnium civium salus, vita libertas, arae foci, di penates, bona,
fortunae, domicilia vestrae sapientiae, fidei, potestate commissa creditaque
esse videantur. In materia, per opinione di chi scrive, si rinvia a C.M.A. Rinolfi, Cicerone e la
“segretezza” della giurisprudenza pontificale, in Diritto @ Storia
15, 2017, § 2
(http://www.dirittoestoria.it/15/tradizione/Rinolfi-Cicerone-segretezza-giurisprudenza-pontificale.htm).
[39] Vedi, ad es.: Cic., de nat. deor. 1.122: sacris
pontifices; de har. resp. 14: ad pontifices
reicietur, quorum auctoritati, fidei, prudentiae maiores nostri sacra
religionesque et privatas et publicas commendarunt; de dom. 41: sacrorum
iure pontifices; Lucan., bell. civ. 1.595: pontifices, sacris
quibus est permissa potestas.
[40] Per i riti peregrini, vedi soprattutto: J. Marquardt, Le culte chez les Romains,
I, cit., pp. 44 ss.; G. Wissowa, Religion
und Kultus der Römer, cit.,
pp. 348 ss.; M. Van Doren, Peregrina
sacra. Offizielle Kultübertragungen im alten Rom, in Historia 3,
1955, pp. 488 ss.; R. Turcan, Rome
et ses dieux, Paris 1998, pp. 159 ss.;
F. Sini, Dai peregrina sacra alle pravae et externae
religiones dei Baccanali: alcune riflessioni su ‘alieni’ e sistema
giuridico-religioso romano, in Studia et Documenta Historiae et Iuris
60, 1994, pp. 49 ss.; Id., Sua
cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica,
Torino 2001, pp. 51 ss.; Id., Peregrina
sacra, evocatio, interpretatio Romana, in Diritto
@ Storia 10, 2011-2012,
http://dirittoestoria.it/10/D&Innovazione/Sini-Peregrina-sacra-evocatio-interpretatio-Romana.htm;
E.M. Orlin, Foreign Cults in
Republican Rome: Rethinking the Pomerial Rule, in Memoirs of the
American Academy in Rome 47, 2002, pp. 1 ss. Cfr. anche J. Scheid, Graeco
ritu: A Typically Roman Way of Honoring the Gods, in Harvard Studies
in Classical Philology 97, 1995, pp. 15 ss.
[41] Val. Max. 1.1.1.
[42] Val. Max. 1.5.8.
[43] D. 1.1.1.2 (Ulp. 1 inst.), si rinvia all’analisi
di G. Aricò Anselmo, Ius
publicum - ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in Annali
del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo 37, 1983, pp. 447 ss.,
che avvalora la genuinità del frammento; vedi anche M.P. Baccari, All’origine della sinfonia di sacerdotium
e imperium: da Costantino a Giustiniano, in Diritto @ Storia 10,
2011-2012, spec. § 3.1 (http://www.dirittoestoria.it/10/memorie/Baccari-Sinfonia-Sacerdotium-Imperium.htm),
la quale dimostra che la radice della testimonianza del giurista severiano è
l’antecedente storico della teoria giustinianea della sinfonia tra imperium
e sacerdotium.
[44] Cic., de leg. 2.19-22; 3.3-4; 3.6-11. Afferma
l’influenza ciceroniana in questa costruzione ulpianea P. Catalano, La divisione del potere in
Roma (a proposito di Polibio e di Catone), in Studi in onore di G.
Grosso, VI, cit., p. 670, seguito, ad esempio, da C. Nicolet, Notes complémentaires, in Polybe, Histoires,
Livre VI, Paris 1977, pp. 149 s. nt. 15, e J. Scheid, Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdoces et le droit public à la fin de la République, in Des ordres à Rome, sotto la direzione di C. Nicolet, Paris
1984, pp. 245 ss.
[45] Così, F. Sini, Documenti
sacerdotali di Roma antica. I. Libri e commentarii, Sassari 1983,
pp. 213 s.: «in entrambe le opere sembra predominare una uguale gerarchia,
anteponendo i sacerdoti ai magistrati. Questa simiglianza rappresenta un fatto
di notevole portata, in quanto consente di definire con precisione la matrice
ideologica della concezione ciceroniana e ulpianea del ius publicum.
Essa trae le sue radici da una gerarchizzazione assai antica delle parti del ius
publicum, sostanzialmente antiplebea, risalente di certo alla elaborazione
sacerdotale di età precedente al pareggiamento dei due ordini, o ad età
immediatamente successiva: prova di ciò può trovarsi nel fatto che con
l’avvento dei plebei alle magistrature, questi introdussero la consuetudine non
solo di cumulare magistratura e sacerdozio, ma di anteporre gli honores ai
sacerdotia (schema ancora conservato in Varrone, De ling. Lat.,
5, 80-86), che divenne tipica dell’età medio-repubblicana»; vedi anche Id., Sua cuique civitati religio,
cit., pp. 175 s.; Id., Diritto
e pax deorum in Roma antica, in Diritto @ Storia 5, 2006, §
2, http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Sini-Diritto-pax-deorum.htm.
[46] G. Franciosi,
Usucapio pro herede. Contributo allo studio dell’antica hereditas,
Napoli 1965, pp. 110 ss., (cit. a p. 111).
[47] Cic., de leg. 2.47: Sed iuris consulti sive
erroris obiciundi causa, quo plura et difficiliora scire videantur, sive, quod
similius veri est, ignoratione docendi (nam non solum scire aliquid artis est,
sed quaedam ars est etiam docendi) saepe, quod positum est in una cognitione,
id in infinitam dispertiuntur, velut in hoc ipso genere quam magnum illud
Scaevolae faciunt, pontifices ambo et eidem iuris peritissimi! ‘Saepe’, inquit
Publii filius, ‘ex patre audivi pontificem bonum neminem esse, nisi qui ius
civile cognosset’. Totum ne? quid ita? quid enim ad pontificem de iure parietum
aut aquarum aut ullo omnino nisi eo, quod cum religione coniunctum est? Id autem quantulum est! De sacris,
credo, de votis, de feriis et de sepulchris, et si quid eius modi est. Cur
igitur haec tanta facimus? Quom cetera perparva sint, de sacris autem, qui
locus patet latius, haec sit una sententia, ut conserventur semper et deinceps
familiis prodantur et, ut in lege posui, perpetua sint sacra.
[48] In tal senso, F. Bona,
“Ius pontificium” e “ius civile” nell’esperienza giuridica
tardo-repubblicana: un problema aperto, in Contractus e pactum.
Tipicità e libertà negoziale nell’esperienza tardo-repubblicana. Atti del
convegno di diritto romano e della presentazione della nuova riproduzione della
littera Florentina, Copanello 1-4 giugno 1988, a cura di F. Milazzo,
Napoli 1990, pp. 211 s. (ora in Id., Lectio
sua. Studi editi e inediti di diritto romano, II, Padova 2003, pp.
968 s.). Vedi anche A. Schiavone, Giuristi
e nobili nella Roma repubblicana. Il secolo della rivoluzione scientifica nel
pensiero giuridico antico, Roma-Bari 1987, p. 18: «Nell’ammonimento c’è di
nuovo tutto il segno dei tempi. Il vecchio modello di sapere è rovesciato: non
è più la pratica pontificale che fonda la conoscenza del ius civile - ma
è la dottrina civilistica che giustifica il ruolo pontificale. Si fa strada in
questo modo una immagine ‘laica’ dei compiti sacerdotali, anche se tuttora
ancorata ad una ‘paideia’ che rimane totalizzante». Vedi, invece, F. Fontanella, Ius pontificium, ius
civile e ius naturae in De legibus II, 45-53, in Athenaeum
84, 1996, p. 259: «la affermazione finale sulla necessità di tenere distinti i
due iura è […] dovuta alla volontà di mantenere autonomo, proprio
nell’ambito delle leges de religione, il valore del ius pontificium.
Il diritto pontificale traeva infatti forza e legittimazione dal suo legame col
sacro, dall’essere cioè formulato dagli specialisti, dai garanti del rapporto
con gli dèi». Sui rapporti tra ius
pontificium e ius civile, da ultimo, M. Johnson, The Pontifical Law and the Civil Law. Towards
an understanding of the Ius Pontificium, in Athenaeum 103, 2015, pp.
140 ss.
[49] Sul giurista, vedi, ad es.: E.S. Gruen, The political allegiance of P. Mucius Scaevola,
in Athenaeum 43, 1965, pp. 321 ss.; G.
Grosso, P. Mucio Scevola tra il diritto e la politica, in Archivio
Giuridico 175, 1968, pp. 204 ss. (ora in Id.,
Tradizione e misura umana del diritto, Milano 1976, pp. 105 ss.);
A.H. Bernstein, Prosopography
and the career of Publius Mucius Scaevola, in Classical Philology
67, 1972, pp. 42 ss.; A. Guarino,
La coerenza di Publio Mucio, Napoli 1981; M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani,
2a ed., Napoli 1982, pp. 255 ss.; R.A.
Bauman, Lawyers in Roman Republican Politics. A study of the Roman
jurists in their political setting, 316-82 BC, München 1983, pp. 230 ss.; A. Schiavone, Giuristi e nobili
nella Roma repubblicana, cit., pp. 3 ss.; Id.,
Publio Mucio e la nascita della letteratura giuridica romana, in Roma
tra oligarchia e democrazia. Classi sociali e formazione del diritto in epoca
medio-repubblicana. Atti del convegno di diritto romano. Copanello 28-31 maggio
1986, Napoli 1988, pp. 139 ss.; Id.,
Linee di storia del pensiero giuridico romano, Torino 1994, pp. 41 ss.; F. Wieacker, Römische
Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz und
Rechtsliteratur. I. Einleitung Quellenkunde Frühzeit und Republik,
München 1988, pp. 547 s.; A. Palma, Publio
Mucio Scevola e la ‘dote di Licinia’, in Fraterna munera. Studi in onore
di L. Amirante, Salerno 1997, pp. 323 ss.
[50] Questa testimonianza muciana è stata oggetto di diverse
interpretazioni, ad esempio, M. d’Orta, La
giurisprudenza tra Repubblica e Principato. Primi studi su C. Trebazio Testa,
Napoli 1990, p. 51, legge nel passo una “interdipendenza” tra la sfera del
sacro e quella del profano, ma vedi le critiche nella rec. di M. Talamanca, in Bullettino
dell’istituto di diritto romano 94-95, 1991-1992, p. 597: «Cic. Leg. 2,
47 non parla […] d’“interdipendenza” (fra il ius civile, ed il ius
sacrum) ma esprime soltanto il pensiero che i pontifices dovessero
ben conoscere il ius civile, il che è cosa abbastanza diversa».
[51] Così, F. Bona,
“Ius pontificium” e “ius civile” nell’esperienza giuridica
tardo-repubblicana, cit., pp. 211 s. (= Id.,
Lectio sua, II, cit., pp. 968 s.), il quale evidenzia
l’infondatezza dell’accusa ciceroniana contro i due giuristi.
[52] Vedi, ad es.: Cic., Brut. 156: audivi enim
nuper eum studiose et frequenter Sami cum ex eo ius nostrum pontificium, qua ex
parte cum iure civili coniunctum esset, vellem cognoscere; de orat.
3.136: Sin aliquis excellit unus e multis, effert se, si unum aliquid
adfert, aut bellicam virtutem aut usum aliquem militarem - quae sane nunc
quidem obsoleverunt -, aut iuris scientiam - ne eius quidem universi; nam
pontificium, quod est coniunctum, nemo discit -, aut eloquentiam, clam in
clamore et in verborum cursu positam putant.
[53] Liv. 1.20.5-7: [scil. Numa] Pontificem deinde
Numam Marcium Marci filium ex patribus legit eique sacra omnia exscripta
exsignataque attribuit, quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra
fierent, atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur. 6. Cetera quoque
omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit, ut esset quo
consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios ritus
peregrinosque adsciscendo turbaretur; 7. nec caelestes modo caerimonias,
sed iusta quoque funebria placandosque manes ut idem pontifex edoceret, quaeque
prodigia fulminibus aliove quo visu missa susciperentur atque curarentur. Ad ea
elicienda ex mentibus divinis Iovi Elicio aram in Aventino dicavit, deumque
consuluit auguriis quae suspicienda essent. Per un’analisi del passo, C.M.A. Rinolfi, Livio 1.20.5-7:
pontefici, sacra, ius sacrum, cit., passim.
[54] Sulla riforma religiosa del secondo re dei Romani, vedi: J.B. Carter, The Religion of Numa,
London 1906; F. Ribezzo, Numa
Pompilio e la riforma etrusca della religione primitiva di Roma, cit., pp.
553 ss.; S. Accame, I re di
Roma nella leggenda e nella storia, 2a ed., Napoli s.d. [1959?], pp. 219 ss.; E.M. Hooker, The Significance of Numa’s Religious Reforms,
in Numen 10, 1963, pp. 87 ss.; G.B. Pighi,
La religione romana, Torino 1967, pp. 31 s.; F. Della Corte, Numa e le streghe,
in Maia 26, 1974, pp. 3 ss.; M.A.
Levi, Il re Numa e i ‘penetralia pontificum’, in Rendiconti
dell’Istituto Lombardo. Classe di Lettere e Scienze morali e storiche 115,
1981 [ma 1984], pp. 161 ss.; J. Martínez-Pinna,
La reforma de Numa y la formación de Roma, in Gerión 3, 1985, pp.
97 ss.; L. Fascione, Il mondo
nuovo. La costituzione romana nella ‘Storia di Roma arcaica’ di Dionigi
d’Alicarnasso, I, Napoli 1988, pp. 128 ss.; G. Capdeville, Les institutions religieuses de la Rome
primitive d’après Denys d’Halicarnasse, in Pallas 39, 1993, pp. 153
ss.
[55] Il problema intorno alla natura dell’antica hereditas
fu fortemente discusso nel secolo scorso. Una eco di tale acceso dibattito si
ritrova, ad esempio, nelle pagine di S.
Solazzi, L’«in iure cessio hereditatis» e la natura dell’antica
«hereditas», in Iura 3, 1952, pp. 21 ss., il quale afferma con
fermezza il carattere non patrimoniale della hereditas romana, in
opposizione a Rodolfo Ambrosino, definito come colui che «vuol essere
considerato il massimo eversore della dottrina bonfantiana sull’hereditas».
Ambrosino, infatti, asserisce che fin dalle origini l’hereditas consistesse
in una res corporalis, priva di carattere politico (In iure cessio
hereditatis. Spunti per la valutazione della hereditas, in Studia et
Documenta Historiae et Iuris 10, 1944, pp. 91 s., 98 s.; Esercitazioni di
‘dommatica moderna’ sul diritto romano. (Risposte ai miei critici in tema di
eredità), in Studia et Documenta Historiae et Iuris 17, 1951, pp.
195 ss.). Tra coloro che sostengono l’indipendenza dalla hereditas degli
elementi di natura extrapatrimoniale, ad esempio: E. Rabel, Die Erbrechtstheorie Bonfantes, in Zeitschrift
der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Rom. Abt. 50, 1930, pp. 315 s. (ora in Id., Gesammelte Aufsätze, IV. Arbeiten
zur altgriechischen, hellenistischen und römischen Rechtsgeschichte 1905-1949,
a cura di H.J. Wolff, Tübingen 1971, pp. 426 s.); B. Biondi, Diritto ereditario romano. Parte generale (corso di lezioni), Milano 1954, pp. 67 ss.; Id., Obbietto dell’antica hereditas, in Iura 1,
1950, p. 32 (ora in Id., Scritti
giuridici. III. “Diritto romano”. Diritto privato, Milano 1965, p. 420); U. Coli, Il testamento nella legge
delle XII Tavole, in Iura 7, 1956, pp. 83 s. (ora in Id., Scritti di diritto romano,
II, Milano 1973, pp. 669 s.), sebbene non escluda che i sacra, unitamente
alle obbligazioni fossero ascritti all’erede, anche extraneus, da epoca
molto risalente; R. Quadrato, Hereditas
petitio possessoria, Napoli 1972, pp. 91 ss. Sostengono il contenuto non
patrimoniale dell’antica hereditas romana, ad esempio: C. Fadda, Concetti fondamentali del
diritto ereditario romano, I, Napoli 1900 [rist., Milano 1949], p. 3, per
cui l’hereditas «comprendeva tutta quanta la sfera giuridica del
defunto»; E. Albertario, Il
diritto romano, Milano 1940, p. 220; E.
Betti, “In iure cessio hereditatis”, “successio in ius” e titolo di
“heres”, e F. De Martino, Note
in tema di in iure cessio hereditatis, in Studi in onore di S.
Solazzi nel cinquantesimo anniversario del suo insegnamento universitario
(1899-1948), Napoli 1948, rispett. a pp. 594 ss. e pp. 568 ss.; G. Franciosi, Usucapio pro herede,
cit., pp. 51 ss., pp. 120 ss.; Id., Corso
istituzionale di diritto romano, 3a ed., Torino 2000, pp. 215 ss.; O Sacchi, L’antica eredità e la tutela. Argomenti a favore
del principio d’identità, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 68,
2002, pp. 592 s.
[56] Per una definizione di di Manes, ad esempio:
Fest., de verb. sign., p. 114 L.: Manias autem, quas nutrices
minitentur parvulis pueris, esse larvas, id est manes deos deasque, quod aut ab
inferis ad superos emanant, aut Mania est eorum avia materve; p. 132 L.: Manuos
in carminibus Saliaribus Aelius Stilo significare ait bonos; ut Inferi di Manes
pro boni dicantur a suppliciter eos venerantibus propter metum mortis; ut
immanes quoque pro valde <non bonis> dicantur; p. 146 L.: Manes di
ab auguribus invocantur, quod i per omnia aetheria terrenaque ma<nare
credantur. Idem di su>peri atque inferi <dicebantur> ---- augures,
quod sanctis -------minis; Aug. Hipp., de civ. Dei 8.26.1: Omitto
quod Varo dicit, omnes ab eis mortuos existimari Manes deos, et probat per ea
sacra, quae omnibus fere mortuis exhibentur, ubi et ludos commemorat funebres,
tamquam hoc sit maximum divinitatis indicium, quod non soleant ludi nisi
numinibus celebrari; Serv. et Serv. Dan., in Verg. Aen. 3.63:
Manibus manes sunt animae illo
tempore, quo de aliis recedentes corporibus necdum in alia transierunt. Sunt
autem noxiae, et dicuntur κατὰ ἀντίφρασιν: nam
manum, ut supra diximus, bonum est; unde et mane dictum est. Similiter etiam
Eumenidas dicimus, Parcas, bellum, lucum. Alii manes a manando dictos
intellegunt: nam animabus plena sunt loca inter lunarem et terrenum circulum, unde
et defluunt. Quidam manes deos infernos tradunt. Quidam alios manes, alios deos
infernos dicunt: plurimi ut deos caelestes vivorum, ita manes mortuorum
tradiderunt. Alii manes nocturnos esse eius spatii, quod inter caelum terramque
est, et ideo umoris qui noctu cadit potestatem habere: unde mane quoque ab
isdem manibus dictum. Su queste divinità, vedi: J. Marquardt, Le culte chez les Romains, I, cit., pp. 372
ss.; J.-A. Hild, v. Manes,
Mania, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, III.2, Paris
1904, pp. 1571 ss.; G. Wissowa, Religion
und Kultus der Römer, cit.,
pp. 238 ss.; [E.] Marbach, v. Manes, in Paulys Real-Encyclopädie der
classischen Altertumswissenschaft, XIV.1, Stuttgart 1928, coll. 1050 ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., pp. 99
s.; J. Bayet, La religion
romaine. Histoire politique et psychologique, 2a ed., Paris 1969 [rist.
1976], pp. 72 ss.; G. Dumézil, La
religion romaine archaïque, cit., pp. 370 ss.; B. Liou-Gille, Divinisation des morts dans la Rome
ancienne, in Revue belge de philologie et d’histoire 71, 1993, pp.
107 ss.; S. Tantimonaco, Stant
Manibus arae. I Manes
nell’Eneide di Virgilio, in Anuari de Filologia. Antiqua et
Mediaevalia 6, 2016, pp. 1 ss.
[57] Cic., de leg. 2.55:
totaque huius iuris conpositio pontificalis magnam religionem caerimoniamque
declarat (vedi il commento in F. de
Visscher, La lois des XII Tables et la protection des tombeaux,
in Mélanges P. Meylan. I. Droit romain, Lausanne 1963, pp. 360
ss.).
[58] Cic., de re publ. 4.8 fr. (p. 112 K. Ziegler) apud Non.
Marc., de comp. doct. 1 (p. 255 L.): Eosdem terminos hominum curae
atque vitae: sic pontificis in sanctitudo sepolturae.
[59] Un’ampia cura in materia è testimoniata, ad es., anche da Cic., tusc. 1.27: Itaque
unum illud era insitum priscis illis, quos cascos appellat Ennius, esse in
morte sensum neque excessu vitae sic deleri hominem, ut funditus interiret;
idque cum multis aliis rebus, tum e pontificio iure et e cerimonias
sepulcrorum intellegi licet, quam maxumis ingeniis praediti nec tanta cura
colissent nec violatas tam inexpiabili religione sanxissent, nisi haereret in
eorum mentibus mortem non interitum esse omnia tollentem atque delentem.
[60] Cic., de leg. 2.22. In materia vedi, ad esempio: K.M. Girardet, Die Ordnung der Welt.
Ein Beitrag zur philosophischen und politischen Interpretation von Ciceros
Schrift de Legibus, Wiesbaden 1983, pp. 90 ss.; A. Bernardi, Deorum Manium Iura Sancta Sunto (dalle XII
tavole) (I diritto degli dei Mani siano rispettati), in Id., Pietas loci. Riflessioni sulla
religiosità antica e altri saggi di storia romana, Como 1991, pp. 71
ss.
[61] Sulla pertinenza dei sacra e del ius Manium sia
al diritto civile, sia a quello pontificale, vedi anche Cic., de leg. 2.45
s.: Attic. Habeo ista; nunc de sacris
perpetuis et de Manium iure restat. Marc. O miram memoriam,
Pomponi, tuam! At mihi ista exciderant. Attic. Ita credo. Sed tamen hoc
magis eas res et memini et exspecto, quod et ad pontificium ius et ad civile
pertinent.
[62] Vedi, in merito, C.M.A.
Rinolfi, Livio 1.20.5-7: pontefici, sacra, ius sacrum,
cit., § 7.
[63] Gai. 2.3-6: Divini iuris sunt veluti res sacrae
et religiosae. 4. Sacrae sunt, quae diis superis consecratae sunt;
religiosae quae diis Manibus relictae sunt. 5. Sed sacrum quidem hoc
solum existimatur quod ex auctoritate populi Romani consecratum est, veluti
lege de ea re lata aut senatusconsulto facto. 6. Religiosum vero
nostra voluntate facimus mortuum inferentes in locum nostrum, si modo eius
mortui funus ad nos pertineat. Sul tema, vedi F. Fabbrini, Dai «religiosa loca» alle «res religiosae»,
in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano 73, 1970, pp. 197 ss., per
cui nel periodo antico sussistevano diversi criteri per definire un luogo come
religioso; successivamente nella teologia pontificale sacro e religioso
divennero termini tecnici, e religiosum indicò Dis Manibus relictum,
collegandosi così al sepolcro.
[64] La tripartizione delle res divini iuris in Gaio è
frutto di una estensione successiva, infatti, il giurista dapprima nel § 2
contempla tra le res divini iuris i beni sacri e religiosi, poi soltanto
al § 8 aggiunge all’originaria dicotomia le res sanctae,
definendole quodammodo divini iuris sunt. In merito a questo genere di res,
vedi per tutti E. Tassi Scandone,
Quodammodo divini iuris. Per una storia giuridica delle res sanctae,
Napoli 2013.
[65] Intorno al ius sepulchri, per l’età più
risalente, vedi G. Franciosi, Sepolcri
e riti di sepoltura delle antiche ‘gentes’, in Ricerche sulla
organizzazione gentilizia romana, I, a cura di G. Franciosi, Napoli 1984,
pp. 35 ss. (ora in Id., Opuscoli.
Scritti di G. Franciosi, II, a cura di L. Monaco, A. Franciosi, Napoli
2012, pp. 407 ss.), il quale indaga sulle antiche sepolture gentilizie. La
letteratura si è concentrata maggiormente sullo studio delle questioni relative
al periodo classico e postclassico, specie in riferimento alla distinzione tra
sepolcri familiari ed ereditari: C.
Ferrini, De iure sepulcrorum apud Romanos, in Archivio
Giuridico 30, 1883, pp. 447 ss. (ora in Id.,
Opere di C. Ferrini, IV. Studi vari di diritto romano e
moderno, a cura di E. Albertario, Milano 1930, pp. 1 ss.); Th. Mommsen, Zum römischen
Grabrecht, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Rom. Abt. 16, 1895, pp. 203
ss.; E. Albertario, Sepulchra
familiaria e sepulchra hereditaria, in Il Filangieri 35, 1910,
pp. 492 ss., Id., Sul
contenuto del ius sepulchri, in Rendiconti dell’Istituto Lombardo.
Classe di Lettere e Scienze morali e storiche 43, 1910, pp. 533 ss. (ora in
Id., Studi di diritto romano,
II. Cose - diritti reali - possesso, Milano 1941, pp. 1 ss. e pp. 29
ss.); M.E. Lucifredi Peterlongo, In
tema di jus sepulchri, in Studi in memoria di E. Albertario, II,
Milano 1953, pp. 27 ss.; F. de Visscher,
Le conflit entre la succession testamentaire et le régime des
tombeaux de famille, in Revue Internationale des droits de l’Antiquité 1,
1954, pp. 283 ss.; Id., De la
prescription du «ius sepulchri», in Studi in onore di E. Betti, II,
Milano 1962, pp. 393 ss.; G. Longo, Sul
diritto sepolcrale romano, in Iura 15, 1964, pp. 137 ss. (ora in Id., Ricerche romanistiche,
Milano 1966, pp. 259 ss.); P. Stein, Some
reflections on jus sepulchri, in Studi in onore di B. Biondi, II,
Milano 1965, pp. 111 ss.; M. de
Dominicis, Il «ius sepulchri» nel diritto successorio romano, in Revue
Internationale des Droits de l’Antiquité 13, 1966, pp. 177 ss. (ora in Id., Scritti
romanistici, Padova 1970, pp. 197 ss.);
M. Kaser, Zum römischen Grabrecht, in Zeitschrift der
Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Rom. Abt. 95, 1978, pp. 15
ss.; S. Lazzarini, “Sepulcrum
familiare” e “ius mortuum inferendi”, in Studi in onore di A. Biscardi,
V, Milano 1984, pp. 217 ss.; Id., Sepulcra
familiaria. Un’indagine epigrafico-giuridica, Padova 1991; O. Sacchi, Il passaggio dal sepolcro
gentilizio al sepolcro familiare e la successiva distinzione tra sepolcri
familiari e sepolcri ereditari, in Ricerche sulla organizzazione
gentilizia romana, III, a cura di G. Franciosi, Napoli 1995, pp. 169 ss.; P. Cuneo, La legislazione
tardo-imperiale in materia di sepolcri, in Studi in memoria di G.
Impallomeni, Milano 1999, pp. 133 ss., per l’età tardo antica.
[66] D. 11.7.5 (Gai. 19 ad ed. prov.): Familiaria
sepulchra dicuntur, quae quis sibi familiaeque suae constituit, hereditaria
autem, quae quis sibi heredibusque suis constituit; D. 11.7.6 pr. (Ulp. 25 ad
ed.): Vel quod pater familias iure hereditario adquisiit. Sed in utroque
heredibus quidem ceterisque successoribus qualescumque fuerint licet sepeliri
et mortuum inferre, etiamsi ex minima parte heredes ex testamento vel ab
intestato sint, licet non consentiant alii. Liberis autem cuiuscumque sexus vel gradus etiam filiis familiae et
emancipatis idem ius concessum est, sive extiterint heredes sive sese
abstineant. Exheredatis autem, nisi specialiter testator iusto odio commotus
eos vetuerit, humanitatis gratia tantum sepeliri, non etiam alios praeter suam
posteritatem inferre licet. Liberti autem nec sepeliri nec alios inferre
poterunt, nisi heredes extiterint patrono, quamvis quidam inscripserint
monumentum sibi libertisque suis fecisse: et ita Papinianus respondit et saepissime
idem constitutum est (il passo è considerato
interpolato, vedi la ricostruzione di O. Lenel,
Palingenesia Iuris Civilis. Iuris consultorum reliquiae quae Iustiniani
Digestis continentur, II, Lipsiae 1889 [rist. a cura di L. Capogrossi
Colognesi, Roma 2000], col. 562).
[67] Vedi, ad esempio: D. 11.7.14.15 (Ulp. 25 ad ed.):
… Si autem pupillus funus ad se pertinens; 17: Datur autem haec actio
adversus eos ad quos funus pertinent, ut puta adversus heredem bonorumve possessorem
ceterosque successores; C. 9.19.6: Imp. Iustinus A. Theodoro pu. … quos
funus mortui pertinet (a. 526). Vedi anche Paul. Sent. 1.21.10: Qui
alienum mortuum sepelerit, si in funus eius aliquid impenderit, recipere id ab
herede vel a patre vel a domino potest, dove il cadavere il cui funerale
non compete a chi procede alla sepoltura viene qualificato come alieno.
[68] Vedi, ad esempio: D. 11.7.14.1-2 (Ulp. 25 ad ed.):
Si colonus vel inquilinus sit is qui mortuus est nec sit unde funeretur, ex
invectis illatis eum funerandum Pomponius scribit et si quid superfluum
remanserit, hoc pro debita pensione teneri. Sed et si res legatae sint a
testatore de cuius funere agitur nec sit unde funeretur, ad eas quoque manus
mittere oportet: satius est enim de suo testatore funerari, quam aliquos legata
consequi. Sed si adita fuerit postea hereditas, res emptori auferenda non est,
quia bonae fidei possessor est et dominium habet, qui auctore iudice
comparavit. Legatarium tamen legato carere non oportet, si potest indemnis ab
herede praestari: quod si non potest, melius est legatarium non lucrari, quam
emptorem damno aedfici. 2. Si cui funeris sui curam testator mandaverit
et ille accepta pecunia funus non duxerit, de dolo actionem in eum dandam Mela
scripsit: credo tamen et extra ordinem eum a praetore compellendum funus ducere.
La letteratura non si è particolarmente soffermata sul rapporto tra la
legittimità a provvedere al funus in relazione alla religiosità della
sepoltura: É. Cuq, Manuel des
institutions juridiques des romains, 2a ed., Paris 1928, p. 240, rileva che
l’inumazione «suffit pour rendre le terrain religieux sous trois conditions:
qu’elle ait été faite par celui qui a la charge des funérailles, dans un
terrain lui appartenant en propriété quiritaire, après qu’il a rendu les
derniers devoirs au défunt»; F.
Fabbrini, Dai «religiosa loca» alle «res religiosae», cit., p.
199 nt. 8, accenna soltanto al locus noster e al ius funerarium
per la religiosità del sepolcro. Si deve, tuttavia, rilevare come da Gai. 2.6,
appare emergere la questione se la sepoltura effettuata da un soggetto privo di
ius funerarium fosse religiosa.
[69] Su tale actio, vedi, specialmente: G. Donatuti, Actio funeraria, in
Studia et Documenta Historiae et Iuris 8, 1942, pp. 48 ss. (ora in Id., Studi di diritto romano,
II, Milano 1977, pp. 641 ss.); A.
Cenderelli, Gestione d’affari ereditari, ed editto «de sumptibus
funerium»: punti di contatto ed elementi di differenziazione, in Studi
in onore di A. Biscardi, I, Milano 1981, pp. 265 ss. (ora in Id., Scritti romanistici, a cura
di C. Buzzacchi, Milano 2011, pp. 249 ss.).
[70] Vedi, ad esempio, D. 11.7.14.6 (Ulp. 25 ad ed.): Haec
actio quae funeraria dicitur ex bono ex aequo oritur: continet autem funeris
causa tantum impensam, non etiam ceterorum sumptuum. Aequum autem accipitur ex
dignitate eius qui funeratus est, ex causa, ex tempore et ex bona fide, ut
neque plus imputetur sumptus nomine quam factum est neque tantum quantum factum
est, si immodice factum est: deberet enim haberi ratio facultatium eius, in
quem factum est, et ipsius rei, quae ultra modum sine causa consumitur. Quid
ergo si ex voluntate testatoris impensum est? Sciendum est nec voluntatem
sequendam, si res egredietur iustam sumptus rationem, pro modo autem
facultatium sumptus fieri.
[71] D. 11.7.12.2-4 (Ulp. 25 ad ed.): Pretor ait:
‘Quod funeris causa sumptus factus erit, eius reciperandi nomine in eum, ad
quem ea res pertinet, iudicium dabo’. 3. Hoc edictum iusta ex causa
propositum est, ut qui funeravit persequatur id quod impendit: sic enim fieri,
ne insepulta corpora iacerent neve quis de alieno funeretur. 4. Funus
autem eum facere oportet, quem decedens elegit: sed si non ille fecit, nullam
esse huius rei poenam, nisi aliquid pro hoc emolumentum ei relictum est: tunc
enim, si non paruerit voluntati defuncti, ab hoc repellitur. Sin autem de hac
re defunctus non cavit nec ulli delegatum id munus est, scriptos heredes ea res
contingit: si nemo scriptus est, legitimos vel cognatos: quosque suo ordine quo
succedunt.
[72] Cic., de leg. 2.50.
[73] Macr., sat. 3.3.1: Et quia inter decreta
pontificum hoc maxime quaeritur quid sacrum, quid profanum, quid sanctum, quid
religiosum. V. Scialoja, Teoria
della proprietà nel diritto romano, I, a cura di P. Bonfante, Roma 1933, p.
139, sottolinea la rilevanza del passo in quanto «contiene un gruppo di definizioni
giuridiche dei più importanti giureconsulti della fine della repubblica»; M. Talamanca, Trebazio Testa fra
retorica e diritto, in Questioni di giurisprudenza tardo-repubblicana.
Atti di un seminario, Firenze 27-28 maggio 1983, a cura di G.G. Archi,
Milano 1985, pp. 52 s. nt. 58 e nt. 62, il quale rileva nella definizione
offerta da Macrobio oltre a una contrapposizione di carattere terminologico tra
profanum e religiosum, una antitesi di tipo sostanziale
tra profanum e sacrum.
[74] Cic., de leg. 2.57 (testo infra, nt. 83).
In D. 11.7.35 (Marc. 5 dig.) si rinviene, a contrario, per i
familiari un antico dovere di effettuare riti funebri: Minime maiores
lugendum putaverunt eum, qui ad patriam delendam et parentes et liberos
interficiendos venerit: quem si filius patrem aut pater filium occidisset, sine
scelere, etiam praemio adficiendum omnes constituerunt. In merito, si devono accogliere le considerazioni di A. Bouché-Leclercq, Les pontifes
dans l’ancienne Rome, cit., p. 150: «La présence d’un cadavre ou de ses
cendres ne suffisait pas pour conférer à un tombeau le caractère religieux; il
fallait encore que le mânes du défunt y fussent fixés et comme enfermés par le
pouvoir des formules et des cérémonies traditionnelles».
[75] Questo sacrificio è da collegarsi a quello della porca
praecidanea, a cui fanno riferimento diverse fonti, che veniva sacrificata
prima della mietitura, quam piaculi gratia, in rapporto alla
purificazione della familia, ad esempio: Gell., noct.
Att. 4.6.7-8: Eadem autem ratione verbi ‘praecidaneae’ quoque
hostiae dicuntur, quae ante sacrificia solemnia pridie caeduntur. 8.
‘Porca’ etiam ‘praecidanea’ appellata, quam piaculi gratia ante fruges novas
captas immolare Cereri mos fuit, si qui familiam funestam aut non purgaverant
aut aliter eam rem, quam oportuerat, procuraverant; Fest., de verb.
sign., p. 242 L.: <Praecidanea porca prod>ucta syllaba
<secunda pronuntianda est> --- ut ait L. Cin<cius> ---t familiae
pur<gandae causa> --- praecidanea dicitur. Così, G. Rohde, Die Kultsatzungen der
römischen Pontifices, Berlin 1936, p. 91: «In seiner ursprünglichen Gestalt
jedenfalls geht das Opfer der porca praecidanea, da es eine so
wesentliche Bedeutung für das Totenrecht, das ius manium, welches von
den pontifices bewahrt wurde, hat, auf dieses zurück».
[76] Intorno all’esperienza funebre in Roma antica, da
ultimo, A. Ramon, Il rituale della
morte: tra pollutio e apoteosi, in Il corpo in Roma antica
ricerche giuridiche, II, a cura di L. Garofalo, Pisa 2017, pp. 335 ss.
[77] Paul. Fest., excerpt. de verb. sign., p. 68 L.: Everriator
vocatur, qui iure accepta hereditate iusta facere defuncto debet; qui si non
fecerit, seu quid in ea re turbaverit, suo capite luat. Id nomen ductum a
verrendo. Nam exverriae sunt purgatio quaedam domus, ex qua mortuus ad
sepulturam ferendus est, quae fit per everriatorem certo genere scoparum
adhibito, ab extra verrendo dictarum. Il richiamo ai iusta e alla
sepoltura si rinviene anche nella disciplina numana in materia di folgorazione
di un uomo: Fontes Iuris Romani Antejustiniani, I. Leges, ed. S.
Riccobono, Florentiae 1968, p. 13, nnr. 14-15: 14. Si hominem fulmen
occisit, ne supra genua tollito. Homo si fulmine occisum est, ei iusta nulla
fieri oportet; 15. si quisquam aliuta faxit, ipsos Iovi sacer esto (Fest.,
de verb. sign., v. Occisum, p. 190 L.; Paul. Fest., excerpt.
de verb. sign., v. Aliuta, p. 5 L.). Per il termine iusta,
inteso come l’insieme di cerimonie prescritte per i defunti, vedi ancora,
ad esempio: Cic., pro Rosc. Am. 23: Interea iste T. Roscius, vir
optimus, procurator Chrysogoni, Ameriam venit, in praedia huius invadit, hunc
miserum luctu perditum, qui nondum etiam omnia paterno funeri iusta solvisset,
nudum eicit domo atque focis patriis disque penatibus praecipitem, iudices,
exturbat, ipse amplissimae pecuniae fit dominus; de leg. 2.63: Sequebantur
epulae, quas inibant propinqui coronati, apud quos de mortui laude, quom nisi
quid veri erat non praedicatum esset (nam mentiri nefas habebatur), iusta
confecta erant; 2.67: Sed videamus Platonem, qui iusta funerum reicit ad
interpretes religionum; quem nos morem tenemus; Sen. phil., cons. ad
Polyb. 17.4: C. Caesar, amissa sorore Drusilla, is homo, qui non magis
dolere quam gaudere principaliter posset, conspectum conversationemque civium
suorum profugit, exsequis sororis suae non interfuit, iusta sorori non
praestitit, sed in Albano suo tesseris ac foro et † pervocatis † et huiusmodi
aliis occupationibus acerbissimi funeris elevabat mala; Med. 997-1001:
Congere extremum tuis / natis, iason, funus, ac tumulum strue: / coniunx
socerque iusta iam functis habent, / a me sepulti; gnatus hic fatum tulit, /
hic te vidente dabitur exitio pari; Plin., nat. hist. 2.248: Hae
cum secutis diebus iusta peragerent, invenisse dicuntur in sepulchro epistulam
Dionysodori nomine ad superos scriptam: pervenisse eum a sepulchro ad infimam
terram; per questo termine riferito ai riti offerti ai Mani: Ov., fast.
2.569 s.: Hanc, quia iusta ferunt, dixere Feralia lucem; / ultima placandis
manibus illa dies; 3.559 s.: pellitur Anna domo, lacrimansque sororia
linquit / moenia; germanae iusta dat ante suae; Macr., sat. 1.13.3: lustrari
autem eo mense civitatem necesse erat, quo statuit ut iusta dis Manibus
solverentur.
[78] Plut., Num. 12.1:
Οἱ
δὲ Ποντίφικες
καὶ τὰ περὶ τὰς
ταφὰς πάτρια
τοῖς χρῄζουσιν
ἀφηγοῦνται, Νομᾶ
διδάξαντος
μηδὲν ἡγεῖσθαι
μίασμα τῶν
τοιούτων, ἀλλὰ
καὶ τοὺς ἐκεῖ
θεοὺς σέβεσθαι
τοῖς νενομισμένοις, ὡς
τὰ κυριώτατα τῶν
ἡμετέρων ὑποδεχομένους.
[79] Varr.,
de ling. Lat. 5.23: Terra, ut putant, eadem et humus; ideo Ennium in
terram cadentis dicere: ‘cubitis pinsibant humum’: et quod terra sit humus,
ideo is humatus mortuus, qui terra obrutus; ab eo qui Romanus combustus est,
<si> in sepulcrum eius abiecta gleba non est aut si os exceptum est
mortui ad familiam purgandam, donec in purgando humo est opertum (ut pontifices
dicunt, quod inhumatus sit), familia funesta manet. Vedi anche: Cic., de
leg. 2.56: At mihi quidem antiquissimum sepulturae genus illud fuisse
videtur, quo apud Xenophontem Cyrus utitur; redditur enim terrae corpus et ita
locatum ac situm quasi operimento matris obducitur. Eodemque ritu in eo
sepulchro, quod haud procul a Fontis ara est, regem nostrum Numam conditum
accepimus gentemque Corneliam usque ad memoriam nostram hac sepultura scimus
esse usam. C. Marii sitas reliquias apud Anienem dissipari iussit Sulla victor
acerbiore odio incitatus, quam si tam sapiens fuisset, quam fuit vehemens;
Plin., nat. hist. 7.187: Ipsum cremare apud Romanos non fuit veteris
instituti: terra condebantur. At postquam longinquis bellis obrutos erui
cognovere, tunc institutum. Et tamen multae familiae priscos servavere ritus,
sicut in Cornelia nemo ante Sullam dictatorem traditur crematus, idque voluisse
veritum talionem eruto C. Mari cadavere. <Sepultus vero intellegatur quoquo
modo conditus, humatus vero>.
[80] Per la prevalenza dell’inumazione vedi, ad esempio, F. de Visscher, Locus religiosus,
in Atti del congresso internazionale di diritto romano e di storia del
diritto. Verona 27-28-IX-1948, III, a cura di G. Moschetti, Milano 1953,
pp. 179 ss.; Id., Le droit des
tombeaux romains, Milano 1963, pp. 21 ss.; G. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche.
Contributo alla storia della famiglia romana. II, Napoli 1980, pp. 59 ss.; Id., Sepolcri e riti di sepoltura
delle antiche ‘gentes’, cit., pp. 35 ss. (= Id., Opuscoli, II, cit., pp. 407 ss.).
[81] Vedi, ad esempio: Horat., carm. 1.20.23-25: At
tu, nauta, vagae ne parce malignus harenae / ossibus et capiti inhumato /
particulam dare; Petr., sat. 114.11: ‘si nihil aliud, certe
diutius’ inquit ‘iuncta nos mors feret, vel si voluerit <mare> misericors
ad idem litus expellere, aut praeteriens aliquis tralaticia humanitate
lapidabit, aut quod ultimum est iratis etiam fluctibus, imprudens harena
componet’.
[82] Cic., de leg. 2.57, ricorda in merito un decreto
di Publio Mucio Scevola: Itaque in eo qui in nave necatus, deinde in mare
proiectus esset, decrevit P. Mucius familiam puram, quod os supra terram non
extaret; porcam heredi esse contractam, et habendas triduum ferias et porco
femina piaculum faciundum. Si in mari mortuus esset, eadem praeter piaculum et
ferias. Sull’argomento, B. Albanese, P. Mucio Scevola
pontefice e l’uccisione sulla nave, in Bullettino dell’Istituto di
Diritto Romano 98-99, 1995-1996 [ma 2000], pp. 25 ss. (ora in Id., Scritti giuridici, IV, a
cura di G. Falcone, Torino 2006, pp. 697 ss.).
[83] In tal caso i pontefici introdussero la pratica dell’os resectum e quella del glebam
in os inicere: Cic., de leg. 2.55: Neque
necesse est edisseri a nobis, quae finis funestae familiae, quod genus
sacrificii Lari vervecibus fiat, quem ad modum os resectum terra obtegatur,
quaeque in porca contracta iura sint, quo tempore incipiat sepulchrum esse et
religione teneatur; 2.57: Quod haud
scio an timens ne suo corpori posset accidere, primis e patriciis Corneliis
igni voluti cremari. Declarat enim Ennius de Africano: “Hic est ille situs”.
Vere, nam siti dicuntur ii, qui conditi sunt. Nec tamen eorum ante sepulcrum
est quam iusta facta et porcus caesus est. Et quod nunc communiter in omnibus
sepultis venit usu, ut humati dicantur, id erat proprium tum in iis, quos humus
iniecta contexerat, eumque morem ius pontificale confirmat. Nam priusquam in
ossa iniecta gleba est, locus ille ubi crematum est corpus, nihil habet
religionis; iniecta gleba tum et illic humatus est, et sepulcrum vocatur, ac
tum denique multa religiosa iura conplectitur. Vedi anche Serv., in Verg. Aen.
6.366: Terrae autem iniectio secundum pontificalem ritum poterat fieri et
circa cadaver et circa absentium corpora quibusdam sollemnibus sacris. G. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche, II, cit., pp. 93 s., parla in merito di “rituale
sostitutivo”.
[84] Menziona un decreto del collegio pontificale relativo al
trasporto delle spoglie di una fanciulla CIL X.2, nr. 8259, p. 985: <Dis>
m(anibus) <s(acrum). C>ollegi<u>m pon<tif>icum
d<e>crevit, si ea ita suntque libelo <c>ontenentur, placere
per ---re puela<m>, d(e) q(ua) agatu<r, s>acelo <eximere
et i>ter<um ex> pra<escr>ipto <d>eponere et scripturam
tituli at pristinam formam restituere piaculo prius dato operis faciendi ove
atra.
[85] Vedi inoltre una breve lettera di Plinio il Giovane
indirizzata all’imperatore Traiano, epist. 10.68: Petentibus
quibusdam, ut sibi reliquias suorum aut propter iniuriam vetustatis aut propter
fluminis incursum aliaque his similia quaeucumque secundum exemplum proconsulum
transferre permitterem, quia sciebam in urbe nostra ex eius modi causis
collegium pontificum adiri solere, te, domine, maximum pontificem consulendum putavi,
quid observare me veli. Come esempio di intervento pontificale nel caso si
dovesse completare il monumento funebre, cfr. D. 11.8.5 (Ulp. 1 opin.):
Si in eo monumento, quod imperfectum esse dicitur, reliquiae hominis conditae
sunt, nihil impedit quominus id perficiatur. 1. Sed si religiosus locus
iam factus sit, pontifices explorare debent, quatenus salva religione desiderio
reficiendi operis medendum sit.
[86] D. 11.7.8 pr. (Ulp. 25 ad ed.):
Ossa quae ab alio illata sunt vel corpus an liceat domino loci effodere vel
eruere sine decreto pontificum ‘seu iussu principis’, quaestionis est: et ait
Labeo expectandum ‘vel’ permissum pontificale ‘seu iussionem principis’,
alioquin iniuriarum fore actionem adversus eum qui eiecit. Il frammento è
considerato interpolato, ad esempio, da: C.
Ferrini, De iure sepulcrorum apud Romanos, cit., p. 448 e nt. 1
(= Id., Opere di Contardo
Ferrini, IV, cit., p. 2 e nt. 1): «Haec iam Labeo docuit ac
Tribonianus comprovabit (D. 11, 7, 8, pr.). Nec miramur cum ipse dicat hoc et
principis iussu fieri posse: constat enim principem Pontificem Maximum fuisse,
ita ut hinc quae diximur confirmentur», tuttavia, sostiene l’Autore,
«Tribonianus aut imprudens recepit aut aliam significationem attribuit»; P. Bonfante, Corso di diritto romano,
II.I. La proprietà, Roma 1926 [Opere complete di P. Bonfante VIII, rist.
a cura di G. Bonfante e G. Crifò, Milano 1966], p. 33 nt. 2, per cui nel passo
l’originaria competenza pontificale era attribuita alle autorità episcopali
cristiane; G. Longo, Comunità
cristiane primitive e res religiosae, in Studi giuridici in memoria di
F. Vassalli, II, Torino 1960, p. 1028 (ora in Id., Ricerche romanistiche, cit., p. 223):
«Dell’interpolazione relativa apportata in D. 11, 7, 8, pr., si desume che, per
diritto giustinianeo, e solamente per questo, si menziona, accanto
all’originaria, ed esclusiva competenza pontificale, che il giurista
rammentava, il potere del Princeps»; inoltre «in tal guisa, nel diritto
della Compilazione, l’esclusiva competenza del collegio sacerdotale è
eliminata. La tutela dell’eterno riposo dei morti di qualunque fede viene
demandata, […] agli organi del potere statuale» (p. 1037 = p. 234); F. de Visscher, Le droit des
tombeaux romains, cit., p. 62 nt. 65; A. Calonge,
El Pontifex Maximus y el problema de la distinción entre
magistraturas y sacerdocios, in Anuario de historia del derecho español 38,
1968, p. 23. Incerto B. Fabbrini, La
deposizione di Gesù nel sepolcro e il problema del divieto di sepoltura per i
condannati, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 61, 1995, p.
155: «forse l’aggiunta del iussus principis è posteriore, oppure vi è
inserita in quanto l’imperatore è pontefice».
[87] In modo quasi corale gli storici del diritto sostengono
il fenomeno del cosiddetto monopolio pontificale della giurisprudenza, vedi, ma
senza pretesa di completezza: R. von
Jhering, L’esprit du droit romain dans les diverses phases de son
développement, III, tr. fr. di O. de Meulenaere, 3a ed., Paris 1886-1888
[rist., Bologna 1969], pp. 82 ss.; P.F. Girard,
Manuale elementare di diritto romano, cit., pp. 56 s.; W. Warde Fowler, The Religious
Experience of the Roman People from the earliest times to the age of Augustus,
London 1911, pp. 270 ss.; F. De Martino,
La giurisdizione nel diritto romano, Padova 1937, pp. 31 ss.; Id., Storia della costituzione
romana, I, 2a ed., Napoli 1972, pp. 137 s.; P. Noailles, Du Droit sacré au Droit civil. Cours de Droit Romain
Approfondi 1941-1942, Paris 1949, pp. 30 ss.; R. Orestano, I fatti di normazione nell’esperienza romana
arcaica, Torino 1967, p. 159; G.
Nicosia, Lineamenti di storia della costituzione e del diritto di
Roma, I, Catania 1971 [rist. 1989], pp. 108 s.; G. Nocera, “Iurisprudentia”. Per una storia del pensiero
giuridico romano, Roma 1973, pp. 16 e 75 ss.; E. Pólay, Das Jurisprudenzmonopol des Pontifikalkollegiums
in Rom und seine Abschaffung, in Acta classica Universitatis Scientiarum
Debreceniensis 19, 1983, pp. 49 ss.; F. d’Ippolito, Das ius Flavianum und die
lex Ogulnia, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Rom. Abt. 102, 1985, pp. 91
ss.; R.E. Mitchell, The
Definition of patres and plebs: An End to the Struggle of the
Orders, in Social Struggles in Archaic Rome: New Perspectives on the
Conflict of the Orders, a cura di K.A. Raaflaub, Berkeley-Los Angeles 1986,
p. 156; A. Watson, The State,
Law and Religion: Pagan Rome, Athens, Georgia-London 1992, pp. 2 s., 63
ss.; Id., The Spirit of Roman
Law, Athens, Georgia-London 1995, pp. 3 e 37 ss.; S. Tondo, Appunti sulla giurisprudenza
pontificale, cit., pp. 1 ss.; C.A.
Cannata, Per una storia della scienza giuridica europea, cit.,
pp. 130 ss.; S. Randazzo, Leges
mancipii. Contributo allo studio dei limiti di
rilevanza dell’accordo negli atti formali di alienazione, Milano 1998, spec. pp. 138 ss.; F. Arcaria, in Le
fonti di produzione del diritto romano, Catania 2002, pp. 21 ss., 62 ss.; M.T. Fögen, Storie di diritto
romano. Origine ed evoluzione di un sistema sociale, tr. it. di A.
Mazzacane, Bologna 2005 [tit. orig.: Römische Rechtsgeschichten. Über
Ursprung und Evolution eines sozialen Systems, 2a ed., Göttingen 2003], pp.
129 ss.; Y. Berthelet, Légitimer
les experts religieux, sous la République romaine, in Hypothèses 14,
2010, pp. 119 ss., spec. 125; A. Corbino,
Fondamenti e forme del diritto nella concezione romana, in Studi
in onore di L. Arcidiacono, II, Torino 2010, p. 861; L. Franchini, La nozione di «laicità» nella giurisprudenza
romana, in Rivista di Diritto Romano 10, 2010, pp. 1 ss.; Id., Il problema dell’esistenza di
un ius controversum in età arcaica, cit., § 2; Id., Principi di ius pontificium,
cit., pp. 263 ss.; L. Vacca, La
giurisprudenza nel sistema delle fonti del diritto romano. Corso di Lezioni,
2a ed., Torino 2012, pp. 9 ss. Contra F. Cancelli, La giurisprudenza unica dei pontefici e Gneo
Flavio, cit., passim.
[88] Tac., ann. 1.10.5, testimonia il tradizionale ruolo
di consultazione di questi sacerdoti in merito al diritto di famiglia. Lo
storico ricorda che Augusto per ludibrium chiese ai pontefici se fosse
legittimo sposare Livia incinta, ma non ancora madre: appare evidente che
l’intento del princeps fosse quello di deridere le minuziose
elaborazioni della interpretatio pontificale. Per l’intervento
pontificale nella vita familiare romana, vedi ad esempio: F. Schulz, Storia della giurisprudenza
romana, cit., pp. 22 ss.; A.M.
Rabello, Effetti personali della “patria potestas”. I. Dalle
origini al periodo degli Antonini, Milano 1979, pp. 105 ss.; A. Watson, The State, Law and
Religion: Pagan Rome, cit., pp. 51 ss.; F. Cancelli, La giurisprudenza unica dei pontefici e Gneo
Flavio, cit., p. 33; F.J. Andrés
Santos, «Ius gentium» en la obra de Tácito, in Labeo 47,
2001, pp. 438 ss.
[89] È questo il caso del parere pontificale espresso in
merito al divieto di offrire sacrifici in onore dei defunti nei dies atri ricordato
da Macr., sat. 1.16.9 s.: Adfirmabant autem sacerdotes pollui ferias
si indictis conceptisque opus aliquod fieret. Praeterea regem sacrorum
flaminesque non licebat videre feriis opus fieri et ideo per praeconem
denuntiabant nequid tale ageretur, et praecepti neglegens multabatur. 10. Praeter
multam vero adfirmabatur eum qui talibus diebus imprudens aliquid egisset porco
piaculum dare debere. Prudentem expiare non posse Scaevola pontifex
adseverabat, sed Umbro negat eum pollui qui opus vel ad deos pertinens
sacrorumve causa fecisset, vel aliquid ad urgentem vitae utilitatem respiciens
actitasset (Ph.E. Huschke, Iurisprudentiae
anteiustinianae quae supersunt, 5a ed., Lipsiae 1886, p. 15, fr. 11; F.P. Bremer, Iurisprudentiae
antehadrianae quae supersunt, I. Liberae Reipublicae iuris consulti,
Lipsiae 1896, p. 57, fr. 1b). Dal brano è evidente il ricorso ad argomentazioni
razionali, in cui i funebria sono connessi all’idoneità dei giorni e
alle invocazioni rivolte agli dèi.
[90] L’opera di consulenza è attestata, ad esempio, da Cic., de
dom. 33: Quid est enim aut tam adrogans quam de religione, de rebus
divinis, caerimoniis, sacris pontificum collegium docere conari, aut tam
stultum quam, si quis quid in vestris libris invenerit, id narrare vobis, aut
tam curiosum quam ea scire velle de quibus maiores nostri vos solos et consuli
et scire voluerunt?; Liv. 1.20.6 (testo supra nt. 53); D. 1.2.2.6
(Pomp. lib. sing. ench.): Omnium tamen harum et interpretandi
scientia et actiones apud collegium pontificum erant, ex quibus constituebatur,
quis quoquo anno praeesset privatis. et fere populus annis propre centum hac
consuetudine usus est.
[91] Sull’istituto come derivazione della mancipatio vedi,
ma senza pretesa di completezza: A. Dernburg,
Diritto di famiglia e dell’eredità, tr. it. sulla 6a ed. di F.B. Cicala,
Torino 1905, pp. 245 ss.; B. Biondi,
Successione testamentaria e donazioni, 2a ed., Milano 1955, p. 36; Id., Obbietto dell’antica hereditas,
cit., pp. 150 ss. (= Id., Scritti
giuridici, III, cit., pp. 413 ss.); Id., Impostazione del testamento nella giurisprudenza
romana, nei codici e nella dommatica moderna, in Revue Internationale
des Droits de l’Antiquité 13, 1966, p. 112 (ora in Antologia giuridica
romanistica ed antiquaria. I, Milano 1968, p. 249): «il gerere per aes
et libram, sorto nella pratica della vita, corrispondente al
primordiale ed universale baratto, si allarga fino al punto da diventare lo
stampo, su cui i giuristi poterono modellare non pochi istituti, in guisa da
diventare il modo di costituzione di svariati rapporti, corrispondenti a quella
struttura»; G. Scherillo, Corso
di diritto romano. Il testamento. I, Milano 1965, pp. 34, 128, 261; C.St. Tomulescu, Le droit romain dans les triptyques de
Transylvanie. (Les actes de vente et de mancipation), in Revue
Internationale des Droits de l’Antiquité 18, 1971, pp. 697 e 705, il quale
a proposito della mancipatio familiae parla di “déformation” della mancipatio
classica; R.H. Brophy, Mancipium
and mancipatio in Plautus: one specimen of plautine legal humor and
metaphor, Ann Arbor-London 1978, p. 30; U.
Robbe, La «hereditas iacet» e il significato della «hereditas» in
diritto romano. I, Milano 1975, pp. 148 s.; S. Randazzo, Leges mancipii,
cit., p. 40, per cui nella mancipatio familiae «l’assetto formale
dell’atto si modificava parzialmente e la solenne rigidità del gestum veniva,
in una certa misura, ‘alterata’ dalla stessa flessibilità funzionale dello
schema tipico».
[92] Tra coloro che hanno sottolineato questa emergenza, vedi
P.F. Girard, Manuale
elementare di diritto romano, cit., pp. 819 s., 822 s., il quale,
estremizzando il dato gaiano, sostiene che l’antica mancipatio familiae
fosse uno strumento impiegato in extremis irrevocabile, in quanto
portava allo “spossessamento immediato” di colui che la poneva in essere.
[93] Sull’assenza per il mancipio dans di mezzi
giuridici per obbligare l’emptor a eseguire le istruzioni, potendo
ricorrere solo a semplici raccomandazioni e preghiere, ad esempio: C. Fadda, Concetti fondamentali del
diritto ereditario romano, I, cit., p. 53; C. Ferrini, Manuale di pandette, cit., p. 598; S.
Solazzi, Diritto ereditario romano (anno accademico 1931-32),
Napoli 1932, p. 92; Id., Glosse
a Gaio. Seconda puntata (II 5-146), in Per il XIV centenario della
codificazione giustinianea. Studi di diritto pubblicati dalla Facoltà di
Giurisprudenza della Università di Pavia, a cura di P. Ciapessoni, Pavia
1934, p. 404 (ora in Id., Scritti
di diritto romano. VI (Ultimi scritti - Glosse a Gaio - «Notae»),
Napoli 1972, p. 363); B. Biondi,
Successione testamentaria e donazioni, cit., p. 36; A. Magdelain, Les mots legare et heres
dans la loi des XII Tables, in Hommages à R. Schilling, a cura di H.
Zehnacker e G. Hentz, Paris 1983, p. 161 (ora in Id., Jus imperium auctoritas, cit., p. 661); Id., De la royauté et du droit de
Romulus à Sabinus, Roma 1995, p. 81; A.
García-Gallo, Del testamento romano al medieval las líneas de su
evolución en España, in Anuario de Historia del Derecho Español 47,
1977, p. 438; F. Longchamps de Bérier, Il
fedecommesso universale nel diritto romano classico, Warszawa 1997, pp. 35 s.
[94] Vedi, ad esempio, C.A.
Cannata, Per una storia
della scienza giuridica europea, cit., p. 69, e S. Randazzo, Leges mancipii, cit., pp. 40 e 136, i
quali evidenziano che il rigore formale della nuncupatio ridimensionò la
struttura del gestum originale e incise sul suo effetto costitutivo, in
quanto l’uso fittizio di un negozio preesistente fu piegato dalle dichiarazioni
delle parti.
[95] In merito, P.
Voci, Diritto ereditario romano, I. Introduzione, parte
generale, Milano 1960, p. 15, secondo cui il testamentum per aes et
libram «è un ritrovato della pratica, guidata dalla giurisprudenza
pontificale, e chiaramente contraddice quella che dovrebbe essere la struttura
di un atto mortis causa: è un ripiego tollerato perché introduce
benefici che altrimenti non si potevano conseguire».
[96] Ad esempio: Gai.
2.103: heredis locum optinebat; 2.105: heredis loco erat; 2.133: Postumorum
… loco … in sui heredis locum; 4.111: heredis loco; 4.172: heredum
loco. Come ha evidenziato V. Scialoja, Diritto ereditario romano. Concetti
fondamentali. Lezioni 1914-1915, a cura di E. Giammichele, Roma 1915 [rist.,
Roma 1934], p. 229, il giurista antoniniano afferma «che il familiae emptor fosse
heredis loco, cioè simile ma non eguale all’erede, e quindi se da
un lato egli ammette una somiglianza tra il compratore e l’erede, dall’altro
nega l’identità delle due posizioni giuridiche». Il ricorso al termine locus
che regge il genitivo per esprimere distinzione e non equivalenza ha, secondo U. Bartocci, Le Species Nuptiarum
nell’esperienza romana arcaica. Relazioni matrimoniali e sistemi di potere
nella testimonianza delle fonti, Roma 1999, pp. 141 ss., più una finalità
esemplificativa per l’esposizione didattica, piuttosto che una funzione
tecnica. Secondo l’Autore, l’espressione heredis locum optinebat esprime
«l’effetto della successione universale conseguente alla mancipatio familiae
della forma arcaica del testamento per aes et libram che,
realizzandosi come atto inter vivos escludeva ovviamente sul piano
teorico la qualificabilità del familiae emptor come heres» (p.
142 nt.).
[97] Gai. 2.103 afferma che la figura dell’emptor familiae
fu conservata propter veteris iuris imitationes. Secondo A. Magdelain, Les mots legare et
heres dans la loi des XII Tables, cit., p. 162 (= Id., Jus imperium auctoritas,
cit., p. 663), nella mancipatio familiae divenuta immaginaria l’emptor
non acquisiva alcun diritto reale, ma «l’ombre d’une garde», in quanto
attraverso l’inserimento della sua nuncupatio si annullavano gli effetti
della locuzione meum esse aio, sia attraverso il riferimento alla custodela,
sia con l’aggiunta della clausola quo tu iure testamentum facere possis
secundum legem publicam.
[98] Vedi infra, § s.
[99] A fronte dell’impossibilità di trasferire i debiti
attraverso la mancipatio familiae, P.
Voci, Diritto ereditario romano, I, cit., p. 92 e nt. 7, ipotizza
il correttivo di considerare i rapporti obbligatori come accessori ai beni
ereditari, permettendone così la trasmissione al familiae emptor.
[100] P.F. Girard,
Manuel élémentaire de droit romain, 6a ed., Paris 1918, p. 823 (= Manuale
elementare di diritto romano, cit., p. 822).
[101] Sul tema, vedi, specialmente: A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente,
Torino 2005, pp. 97 ss.; L. Franchini, La
nozione di «laicità» nella giurisprudenza romana, cit.; Id., Il diritto casistico:
esperienza romana arcaica e ‘common law’, in Diritto @ Storia 10,
2011-2012, spec. § 4 (http://www.dirittoestoria.it/10/Tradizione-Romana/Franchini-Esperienza-romana-arcaica-common-law.htm). Sulle numerose accezione dei termini
“laico” e “laicità” nel corso della storia e sulle ideologie connesse, vedi P. Catalano-P. Siniscalco, Laicità
tra diritto e religione. Documento introduttivo del XIV Seminario «Da Roma alla
Terza Roma», in Index 23, 1995, pp. 461 ss. Vedi inoltre F. Vallocchia, Collegi sacerdotali
ed assemblee popolari nella repubblica romana, Torino 2008, pp. 2 ss.
[102] Cic., de leg. 2.18: Sunt certa legum verba,
Quinte, neque ita prisca, ut in veteribus XII sacratisque legibus, et tamen,
quo plus auctoritatis habeant, paulo antiquiora, quam hic sermo est. Eum morem
igitur cum brevitate, si potuero, consequar. Leges autem a me edentur non
perfectae (nam esset infinitum), sed ipsae summae rerum atque sententiae.
[103] Cic., de leg. 2.19: Ad divos adeunto caste,
pietatem adhibento, opes amovento. Qui secus faxit, deus ipse vindex erit.
[104] Cic., de leg. 2.19: Separatim nemo habessit
deos neve novos neve advenas nisi publice adscitos.
[105] Per la competenza pontificale in materia di religione
domestica, Cic., de dom. 132: Si quid deliberares, si quid tibi aut
piandum aut instituendum fuisset religione domestica, tamen instituto maiorum
vetere ad pontificem retulisses.
[106] Cic., de leg. 2.19: In urbibus delubra
habento; lucos in agris habento et Larum sedes.
[107] Cic., de leg. 2.19: Divos et eos, qui
caelestes semper habiti, colunto et ollos, quos endo caelo merita locaverint,
Herculem, Liberum, Aesculapium, Castorem, Pollucem, Quirinum, ast olla, propter
quae datur homini ascensus in caelum, Mentem, Virtutem, Pietatem, Fidem,
earumque laudum delubra sunto, ne uncula vitiorum. Sacra sollemnia obeunto.
[108] Serv., in Verg. Georg. 1.21: Quod autem dicit
‘studium quibus arva tueri’ nomina haec numinum in indigitamentis inveniuntur,
id est in libris pontificalibus, qui et nomina deorum et rationes ipsorum
nominum continent, quae etiam Varro dicit.
[109] Arnob., adv. nat. 2.73: Non doctorum in
litteris continetur, Apollinis nomen Pompiliana indigitamenta nescire?;
Lact., div. inst. 1.22.4: [scil. Numa]
deos per familias descriptis. Per gli indigitamenta e gli di
indigetes, vedi, ad esempio: J. Marquardt, Le culte chez les Romains, II, tr. fr. di M.
Brissaud, Paris 1890, pp. 10 ss., 37 ss.;
A. Bouché-Leclercq, Les pontifes dans l’ancienne Rome, cit., pp. 24 ss.; G. Sérullaz, Essai sur la religion romaine et sur
les rapports de l’état romain avec quelques religions étrangères. Druidisme. -
Judaïsme. - Christianisme, Lyon 1889, pp. 7 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., pp. 18 ss.; K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, cit., pp. 43 ss.; N.
Turchi, La religione di Roma antica, cit., pp. 157 ss.; G.B. Pighi, La religione romana,
cit., pp. 46 ss.; G. Dumézil, La
religion romaine archaïque, cit., pp. 52
ss.; R.E.A. Palmer, Roman Religion and Roman Empire. Five Essays, Philadelphia 1974, pp. 128 ss.; P. Chini, La religione, Roma 1990,
pp. 9 s.; R. Del Ponte, La
religione dei Romani, cit., pp. 78 ss.; Id.,
Aspetti del lessico pontificale: gli «indigitamenta», in Ius
Antiquum - Древнее
Право 5, 1999, pp. 154 ss. (ora in Diritto
@ Storia 1, 2002, http://www.dirittoestoria.it/tradizione/R.%20Del%20Ponte%20-%20Aspetti%20del%20lessico%20pontificale.htm); M. Perfigli, Indigitamenta. Divinità funzionali e
Funzionalità divina nella Religione Romana, Pisa 2004; A. Zavaroni, Osservazioni su Lares
e Di Indigetes, in Grazer Beiträge 25, 2006, pp. 181 ss.
[110] Macr., sat. 1.12.21: Auctor est Cornelius
Labeo huic Maiae id est terrae aedem kalendis Maiis dedicatam sub nomine Bonae
Deae et eandem esse Bonam Deam et terram ex ipso ritu occultiore sacrorum
doceri posse confirmat. Hanc eandem Bonam
Faunamque, Opem et Fatuam pontificum libris indigitari.
[111] Cic., de leg. 2.19 s.: Feriis iurgia amovento easque in famulis
operibus patratis habento, itaque ut ita cadat in annuis anfractibus,
descriptum esto. Certasque fruges certasque bacas sacerdotes publice libanto;
hoc certis sacrificiis ac diebus; 20. itemque alios ad dies ubertatem
lactis feturaeque servanto; idque ne committi possit, ad eam rem, rationem
cursus annuos sacerdotes finiunto; quaeque quoique divo decorae grataeque sint
hostiae, providento.
[112] Vedi, oltre alle fonti citate supra, p. 211, nt.
23, ad esempio: Liv. 8.15.7-8, per i provvedimenti pontificali nei confronti
della vestale Minucia.
[113] Cic., de leg. 2.20: Divisque aliis alii sacerdotes, omnibus
pontifices, singulis flamines sunto. Virginesque Vestales in urbe custodiunto ignem
foci publici sempiternum. Quoque haec privatim et publice modo rituque fiant,
discunto ignari a publicis sacerdotibus.
[114] Cic., de leg. 2.20: Eorum autem genera sunto
tria, unum, quod praesit caerimoniis et sacris, alterum, quod interpretetur
fatidicorum et vatium ecfata incognita, quorum senatus populusque adsciverit.
[115] Cic., de nat. deor. 3.5.
[116] Val. Max. 1.1.1: Maiores
statas sollemnesque caerimonias pontificum scientia, bene
gerendarum rerum auctoritates augurum observatione, Apollinis praedictiones
vatum libris, portentorum depulsiones Etrusca disciplina explicari voluerunt.
[117] Cic., de leg. 2.20 s.: interpretes autem Iovis
optumi maxumi, publici augures, signis et auspiciis postea vidento, 21. disciplinam
tenento sacerdotesque, vineta virgetaque et salutem populi auguranto, quique
agent rem duelli quique popularem, auspicium praemonento, ollique obtemperanto,
divorumque iras providento sisque apparento caelique fulgora regionibus ratis
temperanto, urbemque et agros <et> templa liberata et effata habento.
Quaeque augur iniusta nefasta, vitiosa dira defixerit, inrita infectaque sunto;
quique non paruerit, capital esto. Foederum pacis, belli indotiarum ratorum
fetiales iudices, nontii sunto, bella disceptanto. Prodigia, portenta ad
Etruscos haruspices, si senatus iussit, deferunto, Etruriaque principes
disciplinam doceto.
[118] Cic., de leg. 2.21 s.: Quibus divis creverint,
procuranto, idemque fulgora atque obstita pianto. Nocturna mulierum sacrificia
ne sunto praeter olla, quae pro populo rite fient; neve quem initianto nisi, ut
adsolet, Cereri Graeco sacro. 22. Sacrum commissum, quod neque expiari
poterit, impie commissum esto; quod expiari poterit, publici sacerdotes
expianto. Loedis publicis, quod sine curriculo et sine certatione corporum
fiat, popularem laetitiam in cantu et fidibus et tibiis moderanto eamque cum
divum honore iungunto. Ex patriis ritibus optuma colunto. Praeter Idaeae matris
famulos, eosque iustis diebus, ne quis stipem cogito. Sacrum sacrove
commendatum qui clepsit rapsitve, parricida esto. Periurii poena divina
exitium, humana dedecus. Incestum pontifices supremo supplicio sanciunto.
Impius ne audeto placare donis iram deorum. Caute vota reddunto; poena violati
iuris esto. Quocirca ne quis agrum consecrato. Auri, argenti, eboris sacrandi
modus esto.
[119] Cic., de leg. 2.22: Deorum Manium iura sancta sunto. Bonos leto
datos divos habento; sumptum in ollos luctumque minuunto.
[120] Cic., de leg. 2.23.
[121] Liv. 1.20.5.
[122] In tal senso il commento di Cic., de leg. 2.27: Eandemque
rationem luci habent in agris. Neque ea, quae a maioribus prodita est quom
dominis, tum famulis posita in fundi villaeque conspectu, religio Larum,
repudianda est. Iam ritus familiae patrumque servare id est, quoniam antiquitas
proxume accedit ad deos, a dis quasi traditam religionem tueri. Sui Lari: L.G. Gyraldus, Historiae Deorum
Gentilium, Basileae 1548, pp. 604 ss.; J.A.
Hartung, Die Religion der Römer nach den Quellen dargestellt, I,
Erlangen 1836, pp. 56 ss.; A. Bouché-Leclercq,
Les pontifes dans l’ancienne Rome, cit., pp. 278 ss.; J. Marquardt, Le culte chez les Romains,
I, cit., pp. 148 ss.; A. De Marchi, Il
Culto Privato di Roma antica. I. La religione nella Vita Domestica
Iscrizioni e Offerte Votive, Milano 1896 [rist., Forlì 2003], pp. 37 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der
Römer, cit., pp. 166 ss.; G. Laing, The Origin of the Cult of
the Lares, in Classical Philology 16, 1921, pp. 124 ss.; E. Tabeling, Mater larum. Zum Wesen
der Larenreligion, Frankfurt am Main 1932 [rist., New York 1975]; K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, cit., pp. 90 ss.; D.G.
Orr, Roman Domestic Religion: The Evidence of the Household Shrines,
in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16.2, Berlin-New York
1978, pp. 1563 ss.; D.P. Harmon, The
Family Festivals of Rome, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt,
II.16.2, Berlin-New York 1978, pp. 1593 ss.; R. Del Ponte, La religione dei Romani, cit., pp. 59 ss.; A. Zavaroni, Osservazioni su Lares
e Di Indigetes, cit., pp. 181 ss. Nell’ambito di uno studio dedicato ai
penati, vedi, per un raffronto con i Lares, anche A. Dubourdieu, Les origines et le
développement du culte des pénates à Rome, Rome 1989, pp. 101 ss.
[123] Cic., de leg. 2.47.
[124] A. Magdelain, Les mots legare et heres dans la
loi des XII Tables, cit., p. 171 (= Id.,
Jus imperium auctoritas, cit., p. 675).
[125] Intorno a questo principio sacerdotale, vedi per tutti
E. Bianchi, Fictio iuris.
Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico all’epoca
augustea, Padova 1997.
[126] Pregnanti in proposito le deduzioni di P. Voci, Diritto ereditario romano,
I, cit., p. 19: «la designazione testamentaria dell’erede toglieva qualche cosa
agli agnati o alla gens; e il modo come la tradizione familiare
sarebbe stata continuata (dal punto di vista religioso, e da altri ancora) era
questione che interessava la comunità».
[127] Di questo avviso è M.
Kaser, Religione e diritto in Roma arcaica, in Annali del
Seminario Giuridico dell’Università di Catania 3, 1948-949, p. 91 (= in Ars
boni et aequi. Festschrift für W. Waldstein zum 65. Geburtstag, a cura di
M.J. Schermaier e Z. Végh, Stuttgart 1993, p. 161), il quale colloca, tra gli
istituti di diritto privato connessi a elementi religiosi, il testamentum
calatis comitiis in cui «la forma sacrale era eccezionalmente prescritta
per permettere che potesse effettuarsi il trasferimento anche dei sacra
familiaria».
[128] Cic., de leg. 2.53.
[129] Plaut., capt. 775: Sine sacris
hereditatem sum aptus effertissimam; trin. 484: Cena hac
annonast sine sacris hereditas. Il pesante carico dei sacra ricadeva
anche sulle donne, ma queste furono in seguito liberate da questo onere grazie
ad alcuni espedienti ideati dai giureconsulti: Cic., pro Mur. 27: Sacra
interire illi noluerunt; horum ingenio senes ad coemptiones faciendas
intermendorum sacrorum causa reperti sunt.
[130] Fest., de verb. sign., p. 370 L.: <Sine sacris hereditas> in proverbio dici
solet, --- sine ulla incommodi
appendice: quod olim sacra non solum publica curiosissime administrabant, sed
etiam privata; relictusque heres sic<ut> pecuniae, etiam sacrorum erat;
ut ea diligentissime administrare esset necessarium.
[131] F. de Visscher, Les fondations privées en droit romain classique, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité 2, 1955, p.
201 (ora in Études de droit
romain public et privé, IIIe ser., Milano 1966, p. 192).
[132] V. Giuffrè,
Il diritto dei privati nell’esperienza romana. I principali gangli, 2a
ed., Napoli 1998, p. 307.
[133] Cic., de leg. 2.48-52: At postea haec iura
pontificum auctoritate consecuta sunt, ut, ne morte patris familias sacrorum
memoria occideret, iis essent ea adiuncta, ad quos eiusdem morte pecunia
venerit. Hoc uno posito, quod est ad cognitionem disciplinae satis,
innumerabilia nascuntur, quibus implentur iuris consultorum libri. Quaeruntur
enim qui adstringatur sacris. Heredum causa iustissima est; nulla est enim
persona quae ad vicemeius qui e vita emigrarti proprius accedat. Deinde qui
morte testamentove eius tantundem capiat quantum omnes heredes: id quoque ordine;
est enim, ad id quod propositum est, ad commodatum. Tertio loco, si nemo
sit heres, is qui de bonis, quae eius fuerint, quom moritur, usu ceperit
plurimum possedendo. Quarto, si <qui> nemo sit qui ullam rem ceperit, de
creditoribus eius qui plurimum servet. 49. Extrema illa persona est
ut, is, si qui ei, qui mortuus sit, pecuniam debuerit neminique eam solverit,
proinde habeatur quasi eam pecuniam ceperit. Haec nos a Scaevola didicimus, non
ita descripta ab antiquis. Nam illi quidem his verbis docebant: tribus modis
sacris adstringitur: aut hereditate, aut si maiorem partem pecuniae capiat, aut
si maior pars pecuniae legata est, si inde quippiam ceperit. Sed pontificem
sequamur. 50. Videtis igitur omnia pendere ex uno illo, quod pontifices
cum pecunia sacra coniungi volunt isdemque ferias et caerimonias adscribendas
putant. Atque etiam dant hoc Scaevolae, quom est partitio, ut si in testamento
deducta scripta non sit, ipsique minus ceperint quam omnibus heredibus
relinquatur, sacris ne alligentur. In donatione hoc idem secus interpretantur:
et quod pater familias in eius donatione, qui in ipsius potestate est,
adprobavit ratum est; quod eo insciente factum est, si id is non adprobat,
ratum non est. 51. His propositis quaestiunculae multae nascuntur, quas
qui non intellegat, si ad caput referat, per se ipse facile perspiciat. Veluti
si minus quis cepisset, ne sacris alligaretur, et post de eius heredibus
aliquis exegisset pro sua parte, id quod ab eo, quoi ipse heres esset,
praetermissum fuisset eaque pecunia non minor esset facta cum superiore
exactione quam heredibus omnibus esset relicta, qui eam pecuniam exegisset,
solum sine coheredibus sacris alligari. Quin etiam cavent ut, cui plus legatum
sit quam sine religione capere liceat, is per aes et libram heredes testamenti
solvat, propterea quod eo loco res est ita soluta hereditate, quasi ea pecunia
legata non esset. 52. Hoc ego loco multisque aliis quaero a vobis,
Scaevolae, pontifices maximi et homines meo quidem iudicio acutissimi, quid sit
quod ad ius pontificium civile adplicetis. Civilis enim iuris scientia
pontificium quodam modo tollitis. Nam sacra cum pecunia pontificum auctoritate,
nulla lege coniuncta sunt. Itaque si vos tantummodo pontifices essetis, pontificalis
maneret auctoritas; sed quod idem iuris civilis estis peritissimi, hac scientia
illam eluditis. Placuit P. Scaevolae et Ti. Coruncanio pontificibus maximis
itemque ceteris, eos qui tantundem caperent quantum omnes heredes sacris
alligari.
[134] Così F. d’Ippolito,
I giuristi e la città. Ricerche sulla giurisprudenza romana della
Repubblica, Napoli 1978, p. 46.
[135] A. Watson, The
Law of Succession in the Later Roman Republic, Oxford 1971, p. 4, individua
solo due «rather different sets» relative alla materia, inoltre sottolinea come
gli interventi pontificali derivarono da decisioni di singoli casi e «not from
pontifical enactments».
[136] Secondo L. Amirante,
Una storia giuridica di Roma. Decimo quaderno di lezioni, con la
collaborazione di L. De Giovanni, Napoli 1992, p. 219: «il principio “sacra
cum pecunia” è l’estremo tentativo pontificale di salvare i sacra in
una società nella quale ormai prevalgono le attività che portano l’uomo lontano
da quel contatto con la divinità che il gioco delle stagioni sulla terra
suggeriva, per non dire imponeva».
[137] Per l’introduzione del principio pecuniario nella mancipatio
familiae, F. Bona, “Ius
pontificium” e “ius civile” nell’esperienza giuridica tardo-repubblicana,
cit., p. 221 (= Id., Lectio
sua, II, cit., pp. 979 s.).
[138] Rileva l’inefficacia di questo sistema, F.
de Visscher, Les fondations privées en droit romain classique,
cit., pp. 201 s. (= Études de
droit romain public et privé, cit., pp. 192 s.), secondo il quale una
maggiore incisività si ottenne attraverso le fondazioni in cui era presente «un
mécanisme exactement inverse de celui adopté par les Pontifes: chez ceux-ci les
sacra suivaient les bona; cette fois les bona suivront les
sacra en indemnisant et en récompensant ceux qui les accomplissent».
[139] In letteratura si offrono differenti interpretazioni
intorno a quali soggetti rientrassero in questo gruppo di onerati: secondo
alcuni si tratterebbero di donatori mortis causa (F. Senn, Études sur le Droit des Obligations. I. Étude d’un
acte juridique causal: la donation à cause de morte, Paris 1914, pp. 21
ss.), mentre altri fanno riferimento a coloro che acquistavano per legato (A. Watson, The State, Law and
Religion: Pagan Rome, cit., p. 80; F. Sini,
A quibus iura civibus praescribebantur, cit., p. 97), o a varie
tipologie (M. Amelotti, La
‘donatio mortis causa’ in diritto romano, Milano 1953, p. 77, per cui tale
norma obbligava ai sacra solo i legatari, ma anche «chi ha acquistato
sotto altre forme dirette a raggiungere lo stesso fine materiale; fra tali
forme è facile fosse compresa la d.m.c. come applicazione della mancipatio
(o in iure cessio) fiduciaria»; G. Franciosi,
Usucapio pro herede, cit., pp. 103 s., per cui il principio del tantundem
si applicava a «chiunque lucrasse quanto gli eredi»).
[140] Sul pontefice-giurista, ad esempio: W. Kunkel, Die Römischen Juristen.
Herkunft und soziale Stellung, 2a ed., Graz 1967 [rist., Köln-Weimar-Wien
2001], pp. 7 s.; F. d’Ippolito, I giuristi e la città,
cit., pp. 27 ss. (già in Labeo 23, 1977, pp. 131 ss.); R.A. Bauman, Lawyers in Roman
Republican Politics, cit., pp. 71 ss.; J.W.
Cairns, Tiberius Coruncanius and the Spread of Knowledge about Law in
Early Rome, in The Journal of Legal History 5, 1984, pp. 129 ss.; C.A. Cannata, Tiberius Coruncanius, qui
primus publice profiteri coepit. L’inizio dell’insegnamento pubblico del
diritto, in Mélanges en l’honneur de J.-M. Grossen,
Bâle-Francfort-sur-le-Main 1992, pp. 485 ss. (ora in Id., Scritti scelti di diritto romano, II, a cura di
L. Vacca, Torino 2012, pp. 31 ss.); Id.,
Per una storia della scienza giuridica europea, cit., pp. 145
ss.; F. Sini, A quibus iura
civibus praescribebantur, cit., pp. 81 ss.; Id., Sua cuique civitati religio, cit., pp. 218 ss.; G.
Viarengo, I giuristi arcaici:
Tiberio Coruncanio, in Ius Antiquum -
Древнее
Право 2.7, 2000, pp. 73 ss. Per il cursus
honorum, T.R.S. Broughton, The Magistrates of
the Roman Republic. I, cit., pp. 190 s., 210, 216, 218.
[141] Vedi per
l’attribuzione della regola a Coruncanio: F.
Desserteaux, Étude sur les Effets de l’Adrogation,
Dijon-Paris 1892, p. 26; G. Gandolfi, Sulla
evoluzione della ‘hereditas’ alla luce del regime dei ‘sacra’ (Cic., De
legibus 2, 19-20, 47-49), in Studia et Documenta Historiae et Iuris 21,
1955, p. 226; P. Simonius, Die
Donatio Mortis Causa im klassischen römischen Recht, Basel 1958, p. 36; A. Ormanni, Penus legata. Contributi alla storia dei legati disposti con clausole
penali in età repubblicana e classica, in Studi
in onore di E. Betti, IV, Milano 1962, p. 693; P. Voci,
Diritto ereditario romano, I, cit., p. 116; U. Wesel, Über den Zusammenhang der lex Furia, Voconia und
Falcidia, in Zeitschrift
der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Rom. Abt. 81, 1964, p. 313; F. d’Ippolito, I giuristi e la città,
cit., pp. 46 s.; F. Sini, A
quibus iura civibus praescribebantur, cit., p. 96; L. Amirante, Una storia giuridica di
Roma. Decimo quaderno di lezioni, cit., pp. 215 ss.; M. d’Orta, Saggio sulla ‘heredis
institutio’, cit., pp. 5 e 67. Vedi anche U.
von Lübtow, Die entwicklungsgeschichtlichen Grundlagen des römischen
Erbrechts, in Studi in onore di P. de Francisci, I, Milano 1956, p.
478, il quale, in merito al momento della prima regolamentazione pontificale in
materia, fa riferimento all’epoca in cui visse Tiberio Coruncanio, ma senza
attribuire esplicitamente la paternità al pontefice-giurista.
In senso
contrario vedi: G. Franciosi, I
creditori e l’obbligo dei «sacra», in Synteleia V. Arangio-Ruiz, II,
a cura di A. Guarino e L. Labruna, Napoli 1964, pp. 643 ss. (ora in Id., Opuscoli, I, cit., pp. 165
ss.); Id., Usucapio pro
herede, cit., pp. 136 ss.; A. Watson,
The Law of Succession in the Later Roman Republic, cit., p. 4; Id., The State, Law and Religion:
Pagan Rome, cit., p. 80; F. Bona,
“Ius pontificium” e “ius civile” nell’esperienza giuridica
tardo-repubblicana, cit., p. 222 (= Id.,
Lectio sua, II, cit., pp. 980 s.); M.G. Scacchetti, Manumissione
testamentaria e doloso depauperamento dell’eredità giacente. Lettura esegetica
del titolo 47, 4 del Digesto, Milano 1993, p. 17 nt. 45. Vedi anche P. Collinet, Les variations de
l’usucapion ‘pro herede’ avant Hadrien, in Studi in onore di S.
Riccobono nel XL anno del suo insegnamento, IV, Palermo 1936, p. 144 nt.
56, per cui il riferimento a T. Coruncanio appare sospetto.
[142] Su cui, ad esempio: Gai. 2.274: Item mulier quae ab
eo qui centum milia aeris census est, per legem Voconiam heres institui non
potest, tamen fideicommisso relictam sibi hereditatem capere potest; Paul.
Sent. 4.8.20(22): Feminae ad hereditates legitimas ultra consanguineas
successiones non admittuntur: idque iure civili Voconiana ratione videtur
effectum; I. 2.22 pr.: ... Et cum super hoc tam lex Furia quam lex
Voconia latae sunt, quarum neutra sufficiens ad rei consummationem videbatur.
Tra i numerosi lavori dedicati a questa legge, vedi, a titolo esemplificativo: S. Cassisi, L’editto di C. Verre e
la «lex Voconia», in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di
Catania 3, 1948-949, pp. 490 ss.; U.
Wesel, Über den Zusammenhang der lex Furia, Voconia und Falcidia, cit., pp. 308 ss., in part. pp. 312
ss.; M. Bartošek, Variazioni
metodologiche su tema ciceroniano (Lex Voconia, ius novum, retroattività),
in Studi in onore di G. Scherillo, II, Milano 1972, pp. 658 ss.; M. Kaser, Über Verbotsgesetze und
verbotswidrige Geschäfte im römischen Recht, Wien 1977, pp. 50 ss.; A.
Guarino, La «lex Voconia»,
in Labeo 28, 1982,
pp. 188 ss. (ora in Id., Pagine
di diritto romano III, Napoli 1994, pp. 259 ss.); G. Heyse, Mulier non debet abire nuda. Das Erbrecht und die Versorgung der Witwe in Rom, Frankfurt am Main-Berlin-Bern-New York-Paris-Wien 1994, pp. 47 ss.; T. van der Meer, The Voconian law: Nova
or Phoenix?, in Tijdschrift voor rechtsgeschiedenis 67, 1999, pp.
115 ss.; L. Monaco, Hereditas
e mulieres. Riflessioni in tema di capacità successoria della donna in Roma antica, Napoli 2000, pp.
185 ss.; M.G. Scacchetti, La
presunzione muciana, Milano 2002, pp. 97 ss.
[143] Per la posteriorità del principio del tantundem
rispetto alla legge Voconia vedi, ad esempio: Th.
Mommsen, rec. a J.J. Bachofen, Die
lex Voconia und die mit ihr zusammenhängenden Rechtsinstitute, eine rechtshistorische
Abhandlung, Basel 1843, in Neue kritische Jahrbücher für
Rechtswissenschaft 4.7, 1845, pp. 7 ss. (ora in Id., Gesammelte Schriften, III. Juristische
Schriften, Berlin 1907, pp. 513 ss.); U. Burckhard,
Zu Cicero de legibus II, 19-21, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtgeschichte 9,
1888, p. 300; Id., continuazione a F.C. Glück, Commentario alle Pandette,
XXXVII-XXXVIII, I., tr. e ann. da C. Ferrini, Milano 1902, pp. 141 ss.; U. Coli, Lo sviluppo delle varie
forme di legato nel diritto romano, Roma 1920, p. 87, per il quale il tantundem
capere «sembra presupporre la riforma di Q. Voconio Saxa»; Á. d’Ors, “Sacra, cum pecunia” (Sobre
Cic. De legib. 2, 19-21), in Estudios
Jurídicos en homenaje al Profesor Santa Cruz Teijeiro, II, Valencia 1974,
pp. 137 ss. (= Id., Parerga
historica, Navarra 1997, pp. 178 ss., da cui si cita); L. Monaco, Hereditas e mulieres,
cit., pp. 61 ss. Contra, ad esempio: O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, II. Privatrecht
und Civilprozess. Strafrecht und Strafprozess, I. Privatrecht,
Leipzig 1901, p. 901; S. Solazzi, Diritto
ereditario romano, cit., p. 115, che rovesciano la visuale per affermare
l’esatto contrario, cioè che la legge Voconia presupporrebbe il più antico
principio del tantundem. Vedi anche: M. Amelotti, La ‘donatio mortis causa’ in diritto romano,
cit., p. 77, il quale rinviene tra le due norme una certa corrispondenza
testuale «che fa pensare che una delle due disposizioni sia stata modello
dell’altra»; P. Voci, Diritto
ereditario romano, I, cit., pp. 111 ss., per cui vi furono due decreti, il
primo, che prevedeva le tre classi di onerati ai culti domestici, da ascrivere
a Tiberio Coruncanio, mentre il secondo, che regolava le cinque categorie in un
periodo successivo alla lex Voconia, da attribuire probabilmente a
Publio Mucio.
[144] Gai. 2.226: Ideo postea lata est lex Voconia, qua
cautum est, ne — caperent. Ex qua lege
plane quidem aliquid utique heredes habere videbantur; sed tamen fere vitium
simile nascebatur; nam in multas legatariorum personas distributo patrimonio
poterat <testator> adeo heredi minimum relinquere, ut non expediret
heredi huius lucri gratia totius hereditatis onera sustinere.
[145] Á. d’Ors, “Sacra, cum pecunia”
(Sobre Cic. De legib. 2, 19-21), cit., p. 190, il quale, inoltre, individua
nel brano ciceroniano due regimi, uno antico, per mezzo del quale si sarebbe
esteso l’onere dei sacra a coloro che lucravano, o potevano lucrare, la maior
pars della pecunia. Il regime moderno, al contrario, che si presentava più
completo, applicava il principio sacra cum pecunia più rigorosamente, e
qui si riflettevano nuovi istituti, quali la lex Voconia, la bonorum
possessio e la bonorum venditio.
[146] Vedi: Cic., de nat. deor. 1.115: ‘At etiam de sanctitate de
pietate adversus deos libros scripsit Epicurus’. At quo modo in his loquitur:
ut <Ti.> Coruncanium aut P.
Scaevolam pontifices maximos te audire dicas; 3.5: Sed cum de religione agitur, Ti. Coruncanium P. Scipionem P.
Scaevolam pontifices maximos. Cfr. anche de dom. 139: Quae si
omnia e Ti. Coruncani scientia, qui peritissimus pontifex fuisse dicitur, acta
esse constaret.
[147] La natura di questo intervento è discussa, alcuni
parlano in merito di editto (ad es.: O. Karlowa,
Römische Rechtsgeschichte, II.I, cit., pp. 901 s.; U. Burckhard, continuazione a F.C. Glück, cit., pp. 129 ss.; P.F. Girard, Manuale elementare di
diritto romano, cit., p. 890 nt. 5 e p. 901; U. Coli, Lo sviluppo delle varie forme di legato nel
diritto romano, cit., pp. 86 s.; H.
Siber, Römisches Recht in Grundzügen für die Vorlesung, II.
Römisches Privatrecht, Berlin W. 1928, p. 331; P. Bonfante, Corso di diritto romano, VI. Le
successioni. Parte generale, Roma 1930 [Opere complete di P. Bonfante VIII,
rist. a cura di G. Bonfante e G. Crifò, Milano 1974], pp. 134 s., 283 nt. 1; M. Amelotti,
La ‘donatio mortis causa’ in diritto romano, cit., pp. 75 s.), altri studiosi hanno considerato il
provvedimento un decreto (ad es.: V. Korošec,
Die Erbenhaftung nach römischem Recht, Leipzig 1927, pp. 100 s.; U. von Lübtow, Die
entwicklungsgeschichtlichen Grundlagen des römischen Erbrechts, cit., p.
478; F. Sini, A quibus iura
civibus praescribebantur, cit., p. 96), altri ancora lo considerano un
responso (così G. Gandolfi, Sulla
evoluzione della ‘hereditas’ alla luce del regime dei ‘sacra’, cit., pp.
227 s.). Vedi inoltre: S. Solazzi, Diritto
ereditario romano, cit., p. 108 nt. 1, il quale preferisce usare «la
locuzione anodina ordinanze»; E.F.
Bruck, Ciceros vs. the Scaevolas, re: Law of Inheritance and Decay of
Roman Religion (de legibus II, 19-21), in Seminar 3, 1945, p. 2 (= Cicero
gegen die Scaevolae in Sachen: Erbrecht und Verfall der Römischen Religion (De
Legibus, II, 19-21), in Id., Über
römisches Recht im Rahmen der Kulturgeschichte, Berlin-Göttingen-Heidelberg
1954, p. 25), per cui i pontefici, privi di ius edicendi, esercitavano
la loro capacità «to make law in the sphere of the sacra» attraverso
decreti o responsi.
[148] Così F. d’Ippolito,
I giuristi e la città, cit., p. 47.
[149] Secondo F. Bona, Cicerone
e i «libri iuris civilis» di Quinto Mucio Scevola, in Questioni di
giurisprudenza tardo-repubblicana, cit., p. 243 (ora in Id., Lectio sua, II, cit., pp. 871 s.),
«sia il catalogo degli obbligati ai sacra sia le misure cautelative -
queste, se ed in quanto muciane - sono state mediate a Cicerone direttamente da
Q. Mucio Scevola»; in un suo scritto precedente, Sulla fonte di Cicero, de oratore, 1, 56, 239-240
e sulla cronologia dei ‘decem libelli’ di P. Mucio Scevola, in Studia et
Documenta Historiae et Iuris 39, 1973, pp. 462 s. (ora in Id., Cicerone tra diritto e
oratoria. Saggi su retorica e giurisprudenza nella tarda repubblica, 1,
Como 1984, pp. 42 s.), l’Autore aveva già individuato in Quinto Mucio come la
fonte ciceroniana in materia: «quale possa essere stata la coincidenza tra la
dottrina del figlio e quella del padre, fu Quinto Mucio a mediare a Cicerone
anche la dottrina del padre, avendola ripresa e ripresentata». In tal senso, B. Albanese, P. Mucio Scevola
pontefice e l’uccisione sulla nave, cit., p. 27 (= Id., Scritti giuridici, IV, cit., p. 699), per cui in
merito alla notizia dell’interpretazione di Publio Mucio intorno ai sacra,
Cicerone lascia intendere che la sua fonte sia il figlio Quinto Mucio.
[150] Attribuiscono la formulazione delle cinque classi a P.
Scevola, ad esempio: P. Simonius, Die
Donatio Mortis Causa im klassischen römischen Recht, cit., pp. 35 ss.; P. Voci, Diritto ereditario romano,
I, cit., p. 111; F. Bona, Sulla
fonte di Cicero, de oratore, 1, 56, 239-40 e sulla cronologia dei ‘decem
libelli’ di P. Mucio Scevola, cit., pp. 459 ss. (= Id., Cicerone tra diritto e oratoria, cit., pp. 39
ss.); Id., “Ius pontificium” e
“ius civile” nell’esperienza giuridica tardo-repubblicana, cit., p. 216 (= Id., Lectio sua, II, cit., pp. 973 s.); G.
Negri, La clausola codicillare nel testamento inofficioso. Saggi
storico-giuridici, Milano 1975, pp. 153 ss.
[151] Sull’istituto, ad esempio: W. Marcusen, Die Lehre von der hereditans jacens in ihrem
Zusammenhange mit der alten usucapio pro herede, Bern 1883 [rist. 1970]; A. Ascoli, Studi sulla usucapio pro
herede, in Archivio Giuridico 38, 1887, pp. 317 ss.; R. von Jhering, La souricière de
l’ancien droit héréditaire, in Id.,
Études complémentaires de l’esprit du droit romain. IV Mélanges. III.
Satires et Vérités. II. Causeries d’un romaniste, tr. fr., Paris
1902, pp. 182 ss.; P. Bonfante, Corso
di diritto romano, VI, cit., pp. 276 ss.; U. Krüger, Die usucapio pro herede nach klassischem
Recht, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Rom.
Abt. 54, 1934, pp. 80 ss.; P.
Collinet, Les variations de l’usucapion ‘pro herede’ avant Hadrien,
cit., pp. 131 ss.; B. Biondi, Istituti fondamentali di
diritto ereditario romano. Capacità - acquisto dell’eredità ed effetti - divisione,
Milano 1948, pp. 114 ss.; Id., Diritto
ereditario romano, cit., pp. 313 ss.; U.
von Lübtow, Die entwicklungsgeschichtlichen Grundlagen des römischen
Erbrechts, cit., pp. 459 ss.; P. Voci,
Diritto ereditario romano, I, cit., pp. 104 ss.; G. Gandolfi, Sull’origine della
usucapio pro herede, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano 61,
1958, pp. 271 ss.; G. Franciosi, Usucapio
pro herede, cit.; Id., Due
ipotesi di interpretazione «formatrice»: dalle dodici Tavole a Gai 2,42 e il
caso dell’usucapio pro herede, in Nozione formazione e interpretazione
del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al
professor F. Gallo, I, Napoli 1997, pp. 247 ss. (ora in Id., Opuscoli, III, cit., pp.
767 ss.); C.A. Maschi, Il
diritto romano. I. La prospettiva storica della giurisprudenza classica
(Diritto privato e processuale), 2a ed., Milano 1966, pp. 216 ss.; G. Scherillo,
Corso di diritto romano, cit., pp. 113 ss.; C.St. Tomulescu, Gaius 2, 55 e l’«usucapio pro herede»,
in Studi in onore di G. Grosso, IV, cit., pp. 417 ss.; G. Mac Cormack, Usucapio pro herede,
res hereditariae and furtum, in Revue Internationale des Droits
de l’Antiquité 25, 1978, pp. 293 ss.; F.
Gnoli, Hereditatem expilare. I. Il principio ‘rei
hereditariae furtum non fit’ e la ‘usucapio hereditatis’, Milano 1984, pp.
45 ss.; L. Gutiérrez-Masson, La
carga de los sacra y la usucapio pro herede en relación con el consortium
ercto non cito, in Roma tra oligarchia e democrazia, cit., pp.
275 ss.; E. Gómez-Royo, Bona fides
und usucapio pro herede, in Revue Internationale des Droits de
l’Antiquité 39, 1992, pp. 167 ss.; G.
Nicosia, L’usus regolato dalle XII Tavole e le sue
sopravviventi tracce, in Il possesso. I. Dalle lezioni del corso
di diritto romano 1995-1996, Catania 1997, pp. 68 ss. (ora in Id., Silloge. Scritti 1956-1996.
II, Catania 1998, pp. 740 ss.); A.
Castro Sáenz, Aproximación a la usucapio pro herede, in Revue
Internationale des Droits de l’Antiquité 45, 1998, pp. 143 ss.; Id., Aproximación a la usucapio
pro herede (2). Una hipótesis, in Revue Internationale
des Droits de l’Antiquité 46, 1999, pp. 165 ss.; Id., Herencia y mundo antiguo. Estudio de Derecho sucesorio romano, Sevilla 2002, pp. 233 ss. Vedi anche un’analisi dell’istituto nel più generale
ambito della possessio pro herede: M. Talamanca,
Studi sulla legittimazione passiva alla “hereditas petitio”, Milano
1956, pp. 64 ss.
[152] Gai. 2.55: Quare autem omnino tam improba possessio et
usucapio concessa sit, illa ratio est, quod voluerunt veteres maturius
hereditates adiri, ut essent qui sacra facerent, quorum illis temporibus summa
observatio fuit, et ut creditores haberent, a quo suum consequerentur.