Si pubblica, col consenso dell’Autrice e dell’Editore, le «Osservazioni finali» (163-174) della monografia di MARIA TERESA CAPOZZA, Sacerdotium nelle Novelle di Giustiniano. Consonantia (συμφωνία) e amplificatio della res Publica, [Lumsa-Università. Collana di Scienze Giuridiche e Sociali, 17] Torino, G. Giappichelli Editore, 2018, pp. XIV-186. ISBN/EAN 978-88-921-1948-2

Indice del volume

 

 

 

Maria Teresa Capozza

Università Europea di Roma

 

Osservazioni finali

 

 

SOMMARIO: 1. Consonantia (συμφωνία): a proposito dell’amplificatio della res publica e dell’imperium quod semper est. – 2. A proposito del cosiddetto “cesaropapismo”. – 3. “Religione del popolo”.

 

 

1. – Consonantia (συμφωνα): a proposito dell’amplificatio della res publica e dell’imperium quod semper est

 

I dati acquisiti nel corso della presente indagine forniscono un più chiaro quadro di riferimento in ordine alle modalita in cui si estrinseca il rapporto tra sacerdotium e imperium nella legislazione novellare e consentono di prospettare alcune considerazioni di sintesi, dense di implicazioni giuridico-religiose.

Giustiniano nella praefatio della Novella 6 qualifica in termini di “consonantia” (συμφωνία) la relazione che deve intercorrere tra sacerdotium e imperium e immediatamente precisa che siffatta interazione è posta a presidio dell’utilitas del genere umano ([…] erit consonantia quaedam bona, omne quicquid utile est humano conferens generi).

È, dunque, di manifesta percezione quella dialettica tra sacerdotium e imperium – e su un piano più generale tra Dio e popolo – che si pone quale leitmotiv della legislazione novellare e, in questa prospettiva, l’idea di consonantia (συμφωνία) costituisce la sintesi concettuale di una complessa costruzione dogmatica di cui le Novelle presentano al contempo gli aspetti divini e popolari.

Ritengo, invero, possa individuarsi nella praefatio della Novella 6 un “manifesto” del disegno universalistico di ricostituzione dell’orbis Romanus che secondo Giustiniano può compiutamente realizzarsi solo mediante una mirabile e continua collaborazione tra poteri religiosi e istituzioni (politiche e giuridiche), funzionale al perseguimento dell’utilitas publica e mediante il costante ausilio della volontà divina.

L’Imperatore una volta asceso al potere avverte sin da subito, quindi già nel 535, l’esigenza di affermare come tra sacerdotium e imperium debba intercorrere bona consonantia (συμφωνία τις ἀγαθή) e il riscontro condotto attraverso l’esame delle costituzioni oggetto della presente ricerca lascia emergere come, lungo tutto l’arco di tempo in cui egli presiede l’imperium, concretamente da attuazione all’idea di “sinfonia”.

Basti pensare che ancora nel 565 Giustiniano nella Novella 137 torna ad affrontare il tema dell’ordinazione di vescovi e chierici, evidenziando la necessita della testimonianza di una vita onesta, vissuta secondo i precetti evangelici, e dell’importanza della loro preghiera per l’intercessione presso Dio, in favore del popolo[1].

La consonantia (συμφωνία) di sacerdotium e imperium non rimane, dunque, un mero “ideale” ma diventa una teoria giuridico-religiosa concretamente attuata nel rapporto tra i due poteri, che si manifesta sotto un duplice profilo.

Da un lato, il sacerdotium coadiuva l’imperium nell’esercizio di delicate funzioni al fine di garantire un’efficace gestione della res publica; basti richiamare a tal proposito le esaminate disposizioni che assegnano a coloro i quali geriscono il munus sacerdotalis specifiche competenze di supervisione e controllo di quegli organi dell’imperium particolarmente rilevanti dal punto di vista “sociale”: dalla nomina del governatore provinciale, a quella del defensor civitatis, del pater civitatis e del frumentarius (App. Nov. 7,12; Nov. 15 epil.; Nov. 128,16).

Il sacerdotium è investito dall’imperium di siffatte competenze in quanto la sua partecipazione alla nomina dei funzionari imperiali è considerata sigillo di onesta, affidabilità e trasparenza e si pone a difesa degli interessi non solo dell’imperium ma più ampiamente della res publica, in quanto volta a eliminare ogni malversazione a danno del popolo.

Dall’altro, l’imperium è particolarmente attento a che il sacerdotium si comporti rettamente e Giustiniano promulga con riferimento a esso “plurimae leges” (Nov. 83 praef.), volte a tutelarne l’honestas, la pudicitia e la puritas.

Nella prospettiva universalista dell’Imperatore l’osservanza di una condotta di vita irreprensibile garantisce non solo la pax communis delle sanctissimae ecclesiae, ma più ampiamente la superna pax reipublicae (Nov. 42,3,3) e da questo punto di vista la sensibilità verso la religio garantisce la salvezza dell’imperium e del popolo.

I rilievi che precedono si inseriscono nel solco della concezione originaria secondo cui l’osservanza dei doveri religiosi si pone a presidio dell’amplificatio della res publica: in apertura del presente lavoro abbiamo evidenziato il profondo rapporto sussistente sin dagli albori del sistema romano tra religio, populus e imperium che risulta perfettamente chiarito da Cicerone allorquando afferma che […] intellegi potest eorum imperiis rem publicam amplificatam qui religionibus paruissent (Cic., De nat. deor. 2,8).

Si tratta, invero, di una consapevolezza che attraversa un lungo arco di secoli e che rimane intatta ancora con Giustiniano, il quale pero vi aggiunge un elemento: quello della consonantia (συμφωνία) tra sacerdotium e imperium posta a beneficio del genere umano cui si ricollega il costante riferimento alla preghiera del sacerdotium che sola può assicurare la prosperità della res publica, il successo degli eserciti e la retta amministrazione delle civitates (Nov. 133,5,1).

Si delinea cosi quell’idea dell’imperium quod semper est (Nov. 6 epil.), strettamente correlata alla devozione del sacerdotium e alla volontà divina, cui consegue che senza la religione la nozione giuridica di “Impero” è incomprensibile e altrettanto incomprensibile è il concetto di “Impero universale”.

La consonantia tra sacerdotium e imperium è, invero, strettamente connessa all’idea dell’Impero universale secondo una precisa linea di continuità: nella suggestiva rogatio del tribuno Canuelio, riportata da Livio, imperia e sacerdotia sono richiamati quali elementi su cui si fonda l’aeternitas dell’urbs: Quis dubitat quin in aeternum urbe condita, in immensum crescente, nova imperia, sacerdotia, iura gentium hominumque instituantur? (Livio 4,4,4)[2].

Nella medesima linea di continuità, l’eternità dell’imperium tratteggiata da Giustiniano si ricollega da un punto di vista storico-giuridico all’idea dell’imperium sine fine che Iuppiter promette ai Romani subito dopo la fondazione dell’urbs[3]: l’elemento religioso è posto a fondamento della magnificenza e dell’universalità dell’imperium e costituisce principio unificante del sistema giuridico-religioso romano dalla nascita dell’urbs sino al VI secolo.

 

 

2. A proposito del cosiddetto “cesaropapismo”

 

Un ulteriore dato emerge con straordinaria evidenza se si ascolta il linguaggio delle fonti, che assume un rilievo centrale nel quadro delle teorizzazioni sedimentatesi nel corso del tempo in ordine al rapporto tra sacerdotium e imperium.

Il riferimento è al concetto (errato e fuorviante) di “cesaropapismo”, frequentemente adoperato dagli studiosi per indicare le relazioni tra i due poteri nel sistema romano, in particolare con riferimento all’epoca di Giustiniano.

Come è noto, l’interpretazione del rapporto tra sacerdotium e imperium alla luce del concetto di “cesaropapismo” costituisce una stratificazione che viene da lontano e, considerata la notevole complessità del problema anche per le implicazioni storico-giuridiche che ne discendono, se non si scorge o si perde di vista tale complessità si cade nell’illusione che esso sia – ed a molti è effettivamente sembrato essere – semplice o, addirittura, assai semplice[4].

Occorre, dunque, preliminarmente precisare che quello di “cesaropapismo” è termine assente nelle fonti[5], che si risolve in una “semplificazione” indebita della relazione tra il potere sacerdotale e il potere imperiale[6].

Il termine “cesaropapismo” nasce, infatti, nel XVIII secolo a opera del canonista protestante Justus Henning Bohmer, peraltro proprio con riferimento a Giustiniano, il quale – a dire dell’Autore – a clero deceptus, sub praetextu salutis ecclesiae mirum in modum caesaro-papiam exercuit[7].

Esso viene per lo più adoperato per indicare il sistema di relazioni fra potere civile (Cesare) e potere religioso (Papa), nel quale il primo estende la sua giurisdizione anche su terreni tradizionalmente riservati al secondo, come la definizione di controversie dogmatiche o l’organizzazione disciplinare interna della Chiesa[8].

Non è questa la sede per esaminare la molteplicità e la complessità delle implicazioni storico-giuridiche sottese a siffatta concettualizzazione; basti dare conto del fatto che sul punto la dottrina romanistica tende generalmente a sostenere che il sistema dei rapporti tra sacerdotium e imperium sarebbe stato connotato, in particolare al tempo di Giustiniano, da una subordinazione della Chiesa al potere imperiale, tanto da essere intesa come una sorta di “organo” dell’imperium e quasi fusa con esso.

Mi limito sotto tale profilo a richiamare il pensiero del De Francisci, il quale considera Giustiniano il “rappresentante tipico” del cesaropapismo in quanto egli avrebbe mirato a sostituirsi o a sovrapporsi al capo della Chiesa, a fare di questa un proprio strumento di governo[9].

Anche l’Orestano qualifica Giustiniano l’esponente più tipico di questo atteggiamento in quanto, secondo l’illustre Autore, nel corso del VI secolo il potere imperiale avrebbe preso il sopravvento su quello sacerdotale e l’imperatore si sarebbe posto come suprema autorità anche in campo religioso[10].

Tali affermazioni si basano, invero, su un’errata analisi delle fonti e, segnatamente, della legislazione di Giustiniano con riferimento al sacerdotium, (malamente) interpretata come sintomatica della tendenza dell’Imperatore di esercitare la propria competenza in un campo riservato al potere sacerdotale e di porre il sacerdotium sotto una pressante tutela, limitandone la liberta.

È proprio alla luce delle costituzioni esaminate nel corso del presente lavoro che il concetto di “cesaropapismo” dimostra la propria assoluta sterilità, atteso che tali fonti smentiscono chiaramente l’asserita tendenza di Giustiniano a definire controversie dommatiche, a indebitamente disciplinare questioni inerenti il sacerdotium e a rendere la ecclesia un mero “strumento” dell’imperium.

Sin dalle prime battute della Novella 6 Giustiniano tiene a precisare che sacerdotium e imperium sono due realtà istituzionali distinte e siffatta distinzione emerge con riferimento al differente fondamento del potere, divino per il sacerdotium e popolare per l’imperium, nonché dalle specifiche e diverse competenze loro assegnate, “divinis ministrare” per il primo e “humanis praesidere” per il secondo.

Tuttavia, se tale separazione implica autonomia reciproca, essa non esclude punti di contatto: da un lato ‘Dio’, comune origine di sacerdotium e imperium, dall’altro il ‘popolo’ posto che entrambi i poteri sono chiamati a collaborare per adornare la vita degli uomini.

Peraltro, tale dato risulta evidente anche al cap. 2,1 della Novella 7 ove, a proposito degli scambi immobiliari tra ecclesia e Imperatore, sacerdotium e imperium sono posti su piani distinti, sebbene i due poteri – precisa Giustiniano – non differiscono molto tra loro (nec multo differant ab alterutro sacerdotium et imperium), al pari di come le res sacrae non si distanziano molto dalle res communes e publicae.

Il dettato delle fonti smentisce poi nettamente anche l’asserita volontà dell’Imperatore di intervenire nella definizione di controversie aventi carattere religioso.

Abbiamo, infatti, posto in rilievo come Giustiniano abbia ben chiaro che al sacerdotium spettino le decisioni dommatiche, mentre l’imperium si limita a tradurle in legge[11]: nella praefatio della Novella 42 l’Imperatore conferma mediante un proprio provvedimento quanto già disposto dai decreta sacerdotum in ordine alla deposizione dalle sedes sacerdotales dei capi della setta monofisita.

Egli si limita, invero, a condannarli all’esilio a fronte della già intervenuta deposizione a opera dell’autorità religiosa; ne consegue che alcuna interferenza è esercitata dall’Imperatore in siffatte controversie.

Allo stesso modo, al cap. 21,1 della Novella 123 è sancito che nelle materie di competenza dell’autorità religiosa la giurisdizione è esclusivamente ecclesiastica e la sanzione che ne discende è quella della destituzione dal sacerdotium secundum ecclesiasticas regulas”, mentre il tribunale “secolare” si limita a esaminare la questione “secundum leges”.

Emergono, dunque, nitidamente i differenti ambiti di competenza dei due poteri, al pari di come le rispettive decisioni producono effetti su piani diversi: da un lato il piano strettamente “ecclesiastico”, dall’altro quello imperiale.

Quanto alla solerte attenzione manifestata da Giustiniano nei confronti del sacerdotium e della conseguente volontà di intervenire a disciplinare questioni attinenti gli interna corporis della Chiesa, mette conto evidenziare come – ai fini di un corretto intendimento delle intenzioni dell’Imperatore – tali elementi debbano essere contestualizzati ed esaminati in relazione al fine cui gli stessi risultano orientati.

Ebbene, secondo quanto chiaramente emerge dalle fonti esaminate, ogni qualvolta Giustiniano si occupa del sacerdotium non lo fa perché intende sostituirsi ai vertici della gerarchia ecclesiastica o per rendere la Chiesa uno “strumento” dell’imperium: egli mira esclusivamente a garantire la prosperità della res publica e a salvaguardare il populus.

L’Imperatore detta specifiche disposizioni volte a preservare l’onesta e la purezza del sacerdotium affinché esso non si distragga con alcuna “humana cogitatio” e si concentri soltanto sulla cura delle cose divine e sulla preghiera finalizzata alla propiziazione del favore divino per l’imperium e per la res publica.

L’alta “funzione sociale” riconosciuta al sacerdotium quale guida per il popolo, e soprattutto per i più deboli, costituisce altresì il fine cui sono preordinate le ulteriori prescrizioni legislative sancite dall’Imperatore con riferimento al munus sacerdotalis.

A mio modo di vedere sono, dunque, queste le motivazioni che inducono Giustiniano a disciplinare alcuni aspetti concernenti il sacerdotium, che non denotano affatto la volontà di sopraffazione del potere sacerdotale da parte dell’imperium.

Certamente, come già rilevato, è innegabile che l’Imperatore del VI secolo abbia legiferato largamente in materia religiosa, tuttavia ciò non implica che egli abbia inteso usurpare il potere del sacerdotium o invaderne le competenze, ne che egli abbia confuso sia teoricamente che praticamente il potere sacerdotale con quello imperiale.

Ne consegue che il profondo rapporto tra sacerdotium e imperium non può essere compreso attraverso il concetto di “cesaropapismo”, il quale – utilizzando le parole del Biondi – costituisce un’aperta falsificazione storica[12], sfatata sul terreno giuridico anche sulla scorta delle fonti esaminate nel corso della presente ricerca.

Emerge, invece, quella mirabile idea di protezione dell’imperium per il sacerdotium, che non importa necessariamente una signoria del protettore sul protetto[13] ma sottende la consapevolezza della fondamentale importanza della collaborazione tra i due poteri e del sostegno della Chiesa per la prosperità della res publica.

 

 

3. “Religione del popolo”

 

Abbiamo più volte posto in rilievo lo stretto rapporto di continuità tra la distinzione “repubblicana” di sacerdotes e magistratus di D. 1,1,1,2 e quella “imperiale” di sacerdotium e imperium, emergente dalla legislazione novellare.

L’incessante interazione tra potere religioso e potere di “governo” giunge sino all’Impero ove trova espressa definizione in termini di consonantia (συμφωνία) e nelle cui dinamiche il popolo continua a rivestire un ruolo centrale.

Tale dato emerge inequivocabilmente dalle fonti esaminate: sacerdotium e imperium sono chiamati a collaborare per l’utilitas del genere umano e le disposizioni emanate dall’Imperatore a tutela del munus sacerdotalis risultano complessivamente preordinate a garantire la prosperità della res publica.

Una concreta pluralità di uomini, dunque, operante nella realtà del tempo[14] per la cui difesa nulla viene omesso dall’Imperatore che trascorre ogni notte e ogni giorno a meditare su ciò che possa ridondare all’utilitas publica per il presente e per l’avvenire, mediante il costante ausilio della volontà divina (Nov. 8 praef.).

Il concetto di res publica (res populi) è richiamato da Giustiniano in stretta connessione a quello di imperium e di fides: Unam nobis esse in omni nostrae reipublicae et imperii vita in deo spem credimus (Nov. 109 praef.).

Orbene, si intravede con chiarezza il profondo carattere “popolare” della Romana religio, cosi vivo ancora nel VI secolo.

Il dato mi sembra significativo a fronte delle astrazioni moderne e contemporanee su questi temi; mi riferisco, in particolare, al concetto di “religione di stato” frequentemente adoperato dalla dottrina per indicare le relazioni tra sacerdotium e imperium nel sistema giuridico romano, a partire dalla nota interpretazione mommseniana della Romana religio in termini di “Staatsreligion[15].

Non è questa la sede per discorrere dell’inadeguatezza e della pericolosità insita nell’utilizzo del concetto di “Stato” per definire e interpretare la concreta realtà dello ius publicum, trattandosi di tema già ampiamente approfondito da illustri studiosi[16].

Mi limito a rilevare come il concetto di “Stato” – e, conseguentemente, quello di “religione di stato” – costituisca una “autoproiezione” sulle fonti giuridiche romane, che comporta la deformazione o la cancellazione di categorie e concetti propri dello ius publicum, nonché di quei principi che contrastano con le teorie borghesi dominanti[17]. Siffatte teorie tendono a espungere l’elemento religioso dal sistema giuridico mediante l’identificazione del diritto con entità astratte, quale quella di “Stato”, che impedisce di cogliere unita ed esclusioni che riguardano l’universalità degli uomini, insite nei concetti di sacerdotium e imperium, di religio e ius Romanum[18].

Parlare, dunque, di una “religione di Stato” o addirittura identificare questa entità astratta con il “soprannaturale” significa appiattire realtà universali distinte.

Emerge, invece, la straordinaria aderenza al dettato delle fonti del concetto di “religione del popolo”; a riguardo Baccari ha posto in rilievo l’attualità di tale espressione, che si collega all’antica nozione di populus: quasi per paradosso l’attualità coincide con la tradizione[19].

È il popolo che professa la religione e, secondo quanto emerso nel corso della presente ricerca, il sistema romano si caratterizza sin dall’epoca più antica per un profondo rapporto tra religio, populus e imperium, nonché tra potere religioso e potere di “governo”, che rappresenta una caratteristica essenziale dello ius publicum ed elemento centrale dell’imperium populi Romani anche nel corso dei secoli successivi.

 

 

 



[1] Vedi S. PULIATTI, Ricerche sulle Novelle di Giustino II, II, cit., p. 164 s.: la Chiesa è sostegno dell’Impero e, in quanto res divina, è un quid superius rispetto alle cose umane, è ispirata a fini soprannaturali operando per l’eternità, è intermediaria tra l’uomo e Dio, come pure tra potere politico e regno celeste.

[2] Vedi M.P. BACCARI, “All’origine della sinfonia di sacerdotium e imperium: da Costantino a Giustiniano”, cit.

[3] Particolarmente suggestivi sono i noti versi di Virg., Aen. 1,278-279 riferiti alla solenne promessa di Iuppiter sul futuro potere dei Romani: His ego nec metas rerum nec tempora pono: imperium sine fine dedi. Vedi anche Servio, Ad Aen. 1, 278. Sul concetto di eternità dell’imperium come emergente dalle Novelle, oltre a Nov. 6 epil. vedi anche Nov. 47 praef. Sul rapporto tra imperium sine fine e aeternitas dell’urbs vedi R. TURCAN, s. v. Aeternitas, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., p. 43 s.; più in generale su questi temi vedi F. PASCHOUD, Roma Aeterna. Études sur le patriotisme romain dans l’Occident latin à l’époque des grandes invasions, Neuchatel 1967; P. SINISCALCO, “L’idea dell’eternità e della fine di Roma negli autori cristiani primitivi”, in Studi romani, 25, 1977, p. 1 ss.; ID., “Roma e le concezioni cristiane del tempo e della storia nei primi secoli della nostra era”, in Roma, Costantinopoli, Mosca, Atti del I Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma”, cit., p. 31 ss.; M. CAMPOLUNGHI, “‘Urbs Aeterna’. Una ricerca su testi giuridici”, in Popoli e spazio romano tra diritto e profezia, cit., p. 163 ss.; F. SINI, Bellum nefandum, cit., p. 74 ss.

[4] C. CAPIZZI, “Sul Cesaropapismo di Giustiniano”, in Studi Salentini, 69, 1992, p. 85.

[5] Vedi P. CATALANO, “Apertura dei lavori: alcuni sviluppi del concetto giuridico di imperium populi Romani”, cit., p. 30, nt. 72; M.P. BACCARI, Cittadini popoli e comunione, cit., p. 3.

[6] Vedi J. MEYENDORFF, “Justinian, the Empire and the Church”, cit., p. 43 ss.; ID., s. v. “Byzanz”, in Theologische Realenzyklopädie, VII, 1981, p. 501 s.; G. DRAGON, Empereur et prêtre. Étude sur le “césaropapisme” byzantin, Paris 1996, p. 290 ss.; p. 314 ss.

[7] I.H. BOHMER, Ius ecclesiasticum protestantium, I.14 Dissertatio praeliminaris, Halle 1738, p. 10 s. Sul punto vedi G. DRAGON, Empereur et prêtres. Étude sur le “césaropapisme” byzantin, cit., pp. 290-303.

[8] C. CAPIZZI, “Sul Cesaropapismo di Giustiniano”, cit., p. 88; ID., “La pax romana e Giustiniano”, in Concezioni della pace, Atti dell’VIII Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma”, a cura P. Catalano e P. Siniscalco, Roma 2006, p. 3 ss. In tal senso vedi anche J. GOUILLARD, s. v. Césaropapisme, in Encyclopedia universalis, IV, Paris 1980, p. 86 ss.; A. PIOLA, s. v. Cesaropapismo, in Noviss. Dig. it., III, Torino 1959, p. 136; U. SCHEUNER, “Caesaropapismus”, in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, 3, Aufl., I, Tubinga 1957, col. 1582; A.C. JEMOLO, “Chiesa e Stato”, in Dizionario di politica, a cura del Partito Nazionale Fascista, Roma 1940, p. 464 ss.

[9] P. DE FRANCISCI, Arcana Imperii, III.II, cit., p. 180; p. 192; p. 265 ss.; in tal senso, tra gli altri, F.G. SAVAGNONE, “Studi sul diritto romano ecclesiastico”, cit., p. 1 ss.; E. STEIN, Histoire du Bas-Empire, II, cit., p. 397. Da ultimo su questi temi, anche per una ricognizione bibliografica, J.A. BUENO DELGADO, La legislación religiosa en la compilación justinianea, cit., p. 163 ss., in part. p. 163, nt. 245.

[10] R. ORESTANO, Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano, cit., p. 268.

[11] Sul punto vedi S. PULIATTI, Ricerche sulle Novelle di Giustino II, II, cit., p. 163 s., nt. 24.

[12] B. BIONDI, Giustiniano Primo, cit., p. 84; ID., “Giustiniano”, in IURA, 16, 1965, p. 4. Riserve sul “cesaropapismo”, tra gli altri, anche in M. AMELOTTI, “Giustiniano tra teologia e diritto”, cit., p. 133 ss.; A.W. ZIEGLER, “Die byzantinische Religionspolitik und der sogenannte Casaropapismus”, in Münchener Beiträge zur Sklavenkunde. Festschrift für P. Diels, a cura di E. Koschmieder e A. Schmaus, München 1953, p. 81-97; D.J. GEANAKOPLOS, “Church and State in the Byzantine Empire. A Reconsideration of the Problem of Caesaropapism”, in Church History, 34, 1965, p. 381 ss.; H. AHRWEILER, L’idéologie politique de l’Empire byzantin, Paris 1975, pp. 129-133.

[13] B. BIONDI, Il diritto romano cristiano, I, cit., p. 191. In tal senso, da ultimo, J.A. BUENO DELGADO, La legislación religiosa en la compilación justinianea, cit., p. 169 s.

[14] In Ambrogio si rinviene sovente il termine populus, adoperato per indicare coloro che svolgono una funzione attiva: il vescovo non prendeva decisioni senza aver interpellato il suo popolo (Ambr., Explan. in Psalm. 40,36 [PL 14,1082]: et populus respondet: fiat, fiat [...] populus respondet: amen). Inoltre, esso talvolta veniva convocato per giudicare su determinati scandali che si verificavano nella comunità: qui volebamus eum, praesentibus clericis, et fideli populo in Ecclesia, patienter audiri, et servari in persona eius cum omni timore Dei, et mansuetudine Ecclesiasticam regulam (Hier., Ep. 92,3 [PL 22,765]). Vedi M.P. BACCARI, Cittadini popoli e comunione, cit., p. 203 s.; p. 317.

[15] Mommsen nel libro IV del Römisches Strafrecht afferma che a partire da Teodosio I e Graziano la Chiesa si sarebbe trovata sotto la dipendenza dello “Stato” e, pertanto, il Cristianesimo avrebbe potuto essere a giusta guisa definito come “religione di stato”. Mentre tratta del giudaismo, l’illustre studioso utilizza i concetti di “Stato cristianizzato” (verchristlichten Staat) e di “religione di Stato” (Staatsreligion). Vedi TH. MOMMSEN, Römisches Strafrecht, Leipzig 1899, p. 597; p. 610. A riguardo M.P. BACCARI, Cittadini popoli e comunione, cit., p. 4 ss., osserva come forse più grave, sia per le sue implicazioni teoriche, sia perché accolto pressoché acriticamente dalla dottrina, è l’uso del termine (o del concetto) “religione di stato” per indicare (e comprendere) le relazioni tra Impero e Chiesa, nel sistema giuridico romano. L’A. evidenzia altresì come occorra prendere le distanze non solo dal concetto di “religione di stato” ma altresì da quello di “religione dello stato” sovente adoperato, sebbene con qualche eccezione, quale sinonimo del primo, fatta eccezione per alcuni più attenti autori (tra cui, ad es., G. LOMBARDI, Persecuzioni laicità libertà religiosa, cit., p. 147). Sul concetto di “religione dello stato” vedi per tutti, L. SPINELLI, s. v. Religione dello stato, in Noviss. Dig. it., VI, Torino 1986, p. 624 s.

[16] Vedi R. ORESTANO, Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano, cit., p. 185 ss. Nella stessa linea dell’Orestano, evidenziando la pericolosità dell’uso di astrazioni concettuali quale quella di “Stato”, si muovono P. CATALANO, Diritto e persone, cit., passim e M.P. BACCARI, Cittadini popoli e comunione, cit., passim. Seguono l’Orestano, fra gli altri, anche M. CAMPOLUNGHI, Potere imperiale e giurisprudenza in Pomponio e in Giustiniano, II.II, cit., p. 303 e A. MANTELLO, Diritto privato romano. Lezioni, I, Torino 2009, p. 71. Adopera recentemente il concetto di “Stato” in riferimento al sistema romano G. VALDITARA, Lo Stato nell’antica Roma, Soveria Mannelli 2008, p. 491 ss.

[17] Alla nota affermazione di Mommsen secondo cui Populus ist der Staat, insofern er auf der nationalen Zusammengehörigkeit der Personen ruht consegue un procedimento di cancellazione della memoria storica del popolo che conduce all’affermazione della sovranità dello Stato, all’annullamento della differenza tra “Impero” e “Stato”, alla subordinazione dell’individualità concreta dei cives all’astratto Stato (quindi all’eliminazione della “contrapposizione storica” tra popolo, senato e magistrati) e all’interpretazione della religione in chiave statualistica. Su questi temi vedi ampiamente R. ORESTANO, Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano, cit., p. 196 ss.; P. CATALANO, “La divisione del potere in Roma”, cit., p. 667 ss.; ID., “Imperium, Staat, Civitas. Ein kritischer Beitrag zum postmodernen Konzept der Macht. Imperium, Stato, Civitas. Contributo critico alla concezione postmoderna del potere”, a cura di E. Calore e R. Marini, Stuttgart 2015, p. 11 ss.; G. LOBRANO, Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1983, p. 96 ss.; M.P. BACCARI, Cittadini popoli e comunione, cit., p. 4; p. 6 ss., cui si rinvia per una profonda analisi dei concetti di “Staatsreligion”, “Staatsbürger” e “bürgerliche Zurücksetzung”; V. MANNINO, “Riflessioni intorno alla giuridicizzazione della ‘persona’ nella res publica”, in Individui e res publica. Dall’esperienza giuridica romana alle concezioni contemporanee. Il problema della ‘persona’, Atti del VI Seminario Internazionale ‘Diritto romano e attualità’ (S. Maria C.V. – Napoli 26-29 ottobre 2010), a cura di L. Monaco e O. Sacchi, Napoli 2013, p. 189 ss.

[18] M.P. BACCARI, Cittadini popoli e comunione, cit., p. 8. Sul punto vedi anche quanto osservato da K.H. ZIEGLER, rc. a M.P. BACCARI, Cittadini popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, in ZSS, 118, 2000, p. 603 ss.

[19] M.P. BACCARI, Cittadini popoli e comunione, cit., p. 315. Vedi anche P. CATALANO, “La religione romana ‘internamente’”, cit., p. 145 ss.: questo concetto di popolo che professa la religione è centrale: in tal senso, si può, si deve parlare di religione del popolo; R. PETTAZZONI, “Per lo studio della religione dei Romani. Riassunto”, in Atti del I Congresso Nazionale di Studi Romani, I, Roma 1929, p. 244 ss., il quale adopera l’espressione “religione collettiva”. Sul punto mette conto rilevare come G. NOCERA, “Il pensiero pubblicistico romano”, in Studi in onore di P. De Francisci, II, Milano, 1956, p. 575 ss., analizzando l’aspetto strutturale della religione romana, ne riconosca un primitivo carattere “popolare”, sebbene concluda in favore di una successiva “statalizzazione” della stessa. Circa l’attualità dell’espressione “religione del popolo”, vedi R. BACCARI, “La religione cattolica da religione dello Stato a patrimonio del popolo”, in Il Diritto ecclesiastico, 98, 1987, p. 13 ss.