Si pubblica, su proposta dell’Autore l'esito del riesame della monografia di RICCARDO ASTOLFI, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, Napoli, Jovene, 2018, XII-524, ISBN 978-88-243-2577-6

Indice del volume

 

 

 

https://www.dirittoestoria.it/15/monografie/Astolfi-Definizione-e-liberta-di-matrimonio_file/image003.jpgRiccardo Astolfi

Università di Padova

 

Il matrimonio nella Roma preclassica:

considerazioni generali e conclusioni

 

 

Sommario: I. Matrimonio. – II. Manus. – III. Ius sacrum.

 

 

 

 

I. – Matrimonio

 

A) In età arcaica il ius sacrum concepisce il matrimonio quale unione di un uomo e una donna, contratta allo scopo di procreare figli legittimi. Risale cioè al ius sacrum la concezione secondo la quale la legittimità dei figli è data dalla validità del matrimonio dei loro genitori e in questo sta l’essenza del matrimonio. La concezione rimane la stessa anche quando il ius sacrum perde progressivamente di importanza nel disciplinare l’istituto. Continuerà ad avere rilievo fondamentale nel diritto classico, postclassico e giustinianeo. Trova conforto nella cultura ellenistica della giurisprudenza e, in particolare, anche se non esclusivamente, nella elaborazione del concetto di ius naturale da parte della dottrina stoica. Sono, queste, le circostanze storiche che permettono di ritenere come già nella prima metà del III sec. d.C. si pongano i presupposti della concezione giustinianea del matrimonio quale istituzione giustificata dalla natura umana e confermata dalla volontà divina (§ 2)[1].

 

B) Il ius sacrum disciplina il matrimonio nei presupposti. Non può contrarre matrimonio chi è già sposato. Sono nefariae le nozze tra parenti in linea retta entro il terzo grado e originariamente in linea collaterale entro il sesto, sia la parentela maschile che femminile. La vedova deve rispettare il tempus lugendi.

Il ius sacrum disciplina il matrimonio negli effetti. Determina la posizione della moglie nella struttura gerarchica e religiosa della famiglia. Ne indica i doveri: la fedeltà al marito, la morigeratezza dei costumi, il portare a termine la gravidanza. Attribuisce al marito un potere di correzione sulla moglie, che si estrinseca addirittura nella facoltà di ripudiarla e metterla a morte, e disciplina tale potere. Il matrimonio è fondamento della manus e il ius sacrum la regola nelle sue espressioni massime: il ius vendendi e il ius occidendi.

Il ius sacrum disciplina lo scioglimento del matrimonio. Stabilisce quali sono le cause che giustificano il ripudio della moglie e punisce il marito che non le rispetta. L’elenco è infatti tassativo (§§ 14; 16).

Se il ius sacrum disciplina i presupposti, gli effetti e lo scioglimento del matrimonio, è presumibile che in età risalente ne abbia disciplinato la contrazione, imponendo agli sposi un sacrificio agli dei. Un esempio è la confarreatio, la cui forma ad substantiam è caratterizzata dall’offerta di un pane di farro a Giove (§ 29). Al sacrificio seguiva, ma non necessariamente, la deductio della moglie in domum mariti. Con il tempo si considera il sacrificio soltanto un modo per manifestare la volontà di contrarre matrimonio (§ 3). Se ne conobbero altri. Ad esempio la stessa deductio in domum, la mancipatio della donna matrimonii causa e, in età posteriore alle XII tavole, la coemptio. Nella deductio, il consenso della moglie era esplicito (§ 3). Nella mancipatio, risultava implicitamente dall’essere la donna presente all’acquisto che il marito faceva di lei per averla come moglie (§ 27). Nella coemptio il consenso della donna era implicito nella volontà della donna di porsi, quale moglie, nella manus del marito (§ 41). A questo modo il ius sacrum cessava di regolare l’atto di contrazione del matrimonio: il sacrificio agli dei poteva mancare e nel ius civile la manifestazione della volontà dei coniugi si liberava progressivamente da ogni forma. Restava però la struttura imposta dal ius sacrum al matrimonio: occorreva un atto di volontà di entrambi i coniugi per dare inizio al rapporto matrimoniale. Occorreva la cosiddetta volontà iniziale (§ 3), anche se la presunzione, nella moglie, di una volontà implicita, fu però segno, in età risalente, della ridotta importanza concreta di tale volontà.

Sopravvisse la confarreatio almeno per tutto il principato. In età arcaica la confarreatio, sorta probabilmente quale matrimonio intergentilizio, era il matrimonio richiesto per ricoprire le cariche più importanti nell’organizzazione politico-religiosa della civitas (§ 29). Conservò la sua forma ad substantiam anche dopo, per due motivi. Il primo fu che la confarreatio era sempre necessaria per l’accesso ad alti sacerdozii pubblici. Il secondo motivo fu che la confarreatio era anche conventio in manum, così come lo era la più recente coemptio, e pure alla coemptio, quale conventio in manum, fu imposta una forma ad substantiam (§ 33).

 

C) Per la validità del matrimonio occorre nei coniugi la capacità giuridica a contrarlo, cioè il conubium. Poiché il matrimonio arcaico è disciplinato dal ius sacrum, il conubium sarebbe da definirsi la capacità di contrarre un matrimonio valido per il ius sacrum.

Esso rende legittimo il coniuge e quindi rende legittimi i figli che si procreano con il coniuge.

Stabilito a questo modo quando un figlio è da considerarsi legittimo, occorre determinare se esso segua la condizione del padre o della madre, se cioè la famiglia sia fondata sul rapporto di parentela in linea maschile (agnatio) o femminile (cognatio). Fu stabilito che i figli seguano la condizione del padre. Contava l’agnatio ed era il padre ad esercitare l’autorità sui figli. La regola è comune alla civiltà storica di cui Roma fa parte ed è regola antica. Addirittura, per la sua importanza, sembra essere di ius sacrum e deriva a sua volta da una regola basilare per una civiltà contadina, secondo la quale i frutti appartengono a chi è legittimato a seminarli. Il padre è legittimato, se i figli gli nascono dalla moglie e ciò lo stabilisce per principio il ius sacrum (§ 4). In Roma questo significa che il figlio cade nella potestas del padre e appartiene alla famiglia, alla gens e alla civitas del padre.

Il conubium, quale fondamento della regola per cui il figlio segue la condizione del padre, è istituto antico e appartiene alla civitas arcaica. Vi appartiene anche come strumento di cui si serve il diritto per attuare il principio dell’endogamia.

Applicata alla comunità cittadina, l’endogamia costringe i romani a sposare fra loro: nega al romano il conubium con lo straniero e viceversa. L’endogamia cittadina è antica. Secondo la tradizione sarebbe coeva alla costituzione della civitas, come sarebbe antica l’attribuzione eccezionale del conubium per superarla e permettere i matrimoni fra romani e stranieri (§ 8).

All’interno della civitas arcaica l’endogamia sarebbe praticata secondo Mommsen anche da ciascuna delle gentes ormai organizzate e concorrenti nella formazione della civitas stessa e continuerebbe a essere imposta ai clienti della gens ancora all’inizio del II sec. a.C. (§ 6).

Le fonti ricorrono al concetto di conubium per spiegare il divieto di matrimonio fra patrizi e plebei. Secondo la tradizione il divieto fu tolto da una rogatio Canuleia del 445, la quale concesse ai due ordini il conubium reciproco (§ 7).

Lo stesso sarebbe avvenuto per il matrimonio fra ingenui e liberti. Le due classi sociali avrebbero praticato l’endogamia e l’avrebbero superata mediante la concessione reciproca del conubium. All’inizio del II sec. a.C. il conubium era attribuito eccezionalmente ai singoli. Nel secolo successivo appare acquisito da tutti (§ 6).

L’endogamia risulta un criterio di comportamento proprio delle comunità e delle classi nella fase più risalente della civitas romana. Ha un fondamento politico, sociale ed economico, ma anche religioso. È favorita dalla struttura religiosa del matrimonio arcaico. Ogni comunità tende ad avere propri dei esclusivi: così è per la civitas, per la gens, per i patrizi e per i plebei. Il sacrificio che il ius sacrum impone agli sposi per contrarre matrimonio è un sacrificio a una divinità comune a entrambi gli sposi. Gli sposi, cioè, debbono appartenere alla medesima comunità religiosa.

All’interno della civitas l’endogamia è destinata ad attenuarsi e a scomparire con il tempo. Viene meno l’endogamia della gens, dei patrizi, dei plebei, degli ingenui e dei liberti. Augusto limita l’endogamia degli ingenui a quelli soltanto che appartengono all’ordine senatorio (§ 6).

Il diritto arcaico proibisce il matrimonio con i parenti in linea retta sino al terzo grado e con i collaterali sino al sesto. Il diritto arcaico non conosce grado di parentela oltre al terzo in linea retta e oltre al sesto in linea collaterale. Quindi proibisce in assoluto il matrimonio fra consanguinei. Il divieto di sposare parenti in linea retta rimase. Quello di sposare parenti in linea collaterale si restrinse nel II sec. a.C., ma probabilmente già nel III, ai parenti collaterali sino al terzo grado. Anche in questo caso le fonti adoperano il concetto di conubium: i parenti ne sono privi e il matrimonio è nullo (§ 5).

La famiglia paterna o proprio iure dicta è composta dai parenti in linea maschile, che si trovino tutti nella potestà di un solo pater familias vivente. Alla sua morte questi parenti costituiscono la famiglia fraterna o communi iure dicta. Le due famiglie praticano l’esogamia. È loro imposta dalla parentela in quanto tale o cognatio. Quindi da un elemento estraneo alla struttura della famiglia romana, basata sull’agnatio o parentela in linea maschile. L’estraneità dell’esogamia alla struttura della famiglia è confermata dalla circostanza che il matrimonio è proibito anche tra parenti che appartengono a famiglie diverse. Anzi la famiglia controlla l’esogamia dei suoi componenti attraverso il pater familias, il cui consenso è necessario per la validità del matrimonio (§ 5). Se l’esogamia è estranea alla struttura della familia, perché basata sull’agnatio, lo dovrebbe essere anche alla struttura della gens, basata pur essa sull’agnatio (§ 6).

 

D) Posseggono la capacità di contrarre matrimonio le persone sui iuris. La posseggono altresì le persone alieni iuris, secondo questo elenco.

a) Gli uomini e le donne nella potestas del pater familias.

b) Le donne in manu. Contratto ad esempio matrimonio con un uomo alieni iuris, titolare della manus è il padre del marito. Morto il marito, la manus non si estingue e il suocero continua a essere titolare della manus sulla nuora, che, divenuta vedova, può risposare.

c) Gli uomini e le donne in mancipio (cap. III). Non solo possono contrarre matrimonio, ma, se posti in mancipio dopo la contrazione del matrimonio, già il diritto arcaico non considera sciolto il loro matrimonio (§§ 25; 26).

 

E) a) Oltre alla capacità giuridica di contrarre matrimonio, gli sposi debbono avere la capacità naturale di procreare: la pubertà.

In età arcaica il requisito è richiesto e disciplinato dal ius sacrum, sia perché il ius sacrum attribuisce al matrimonio la finalità della procreazione, sia perché il ius sacrum disciplina i momenti essenziali della vita umana: la nascita, la morte e quindi la pubertà, quale momento in cui l’individuo diviene capace di trasmettere la vita.

Il diritto arcaico sembra avere della pubertà una concezione articolata e complessa. In ordine al matrimonio la concepisce come capacità fisiologica a procreare. In ordine all’organizzazione della civitas, la concepisce come l’attitudine fisica a difendere la collettività. Spetta al padre accertare quando il figlio diviene pubere, e l’accertamento, per la figlia, di solito coincide, in età risalente, con il consenso paterno alle nozze, così come spetta allo stato stabilire quando il cittadino diviene un soggetto attivo per la collettività. Però l’accertamento della pubertà avviene tramite una funzione religiosa, celebrata in privato di fronte ai Lari domestici, e in pubblico nei templi deputati. Mediante questa funzione religiosa e i sacerdoti che la presiedono, il ius sacrum controlla l’accertamento della pubertà. La circostanza che fosse il padre a decidere, in pratica, non solo del matrimonio, ma anche della pubertà della figlia, spiega perché anche in Roma, durante l’età arcaica, la sposa potesse essere ancora una bambina.

I riti religiosi di iniziazione e di passaggio all’età adulta appaiono quindi essenziali all’età arcaica. Non lo sono più per la giurisprudenza laica degli ultimi secoli della repubblica, anche se essa li conosce e vi fa riferimento. Ormai si giudica della pubertà non per i riti, che possono anche mancare, ma per lo sviluppo del corpo e l’età del ragazzo.

b) I riti di iniziazione mostrano che il diritto arcaico possedeva il concetto di pubertà, la cui assenza rende impossibile e quindi invalido il matrimonio. Sapeva quindi distinguere la pubertà dalla sterilità. Considerava la sterilità soltanto motivo di risoluzione di un matrimonio valido. Non era causa di inesistenza e quindi di invalidità del rapporto matrimoniale (§ 14).

Particolare rilievo ha la sterilità della moglie conventa in manum dal marito mediante usus. In questo caso la sterilità è la principale, anche se non l’unica, causa che giustifica sin dall’età remota il ripudio della moglie a opera del marito. Il ripudio è interruzione del matrimonio, ma non dell’usus. Saranno più tardi le XII tavole a permettere alla donna l’interruzione dell’usus mediante il trinoctium (cap. V).

c) L’anzianità di un coniuge ha analogia con la sterilità. Perciò si può ritenere che anche in età preclassica il matrimonio degli anziani non fosse invalido, perché proibito, ma soltanto risolubile, come lo è il matrimonio della moglie sterile. All’inizio del Principato la lex Iulia et Papia impone l’onere del matrimonio agli uomini dai 25 ai 60 anni di età e alle donne dai 20 ai 50, ma considera legittimi i figli degli anziani che abbiano superato questa età (§ 9).

d) Non è certo se la validità del matrimonio preclassico fosse subordinata alla sua consumazione. Sicuramente non lo era quello classico (§ 10).

 

F) Per la validità del matrimonio dei filii familias occorre che il pater familias consenta l’instaurarsi del rapporto. Occorre, inoltre, che il suo consenso continui per tutta la durata del matrimonio. Nella ductio della filia familias, sposata e non in manu del marito, è implicita la volontà del pater familias di porre termine al matrimonio della figlia (§ 10).

Inoltre il ius sacrum pretende il consenso degli sposi, anche se filii familias. Lo pretende nella confarreatio, nella quale autori del sacrificio a Giove, in cui si sostanzia l’atto, sono personalmente gli sposi, anche se filii familias. Lo pretenderà nelle altre forme religiose di contrazione del matrimonio, se queste forme, come in effetti sembra, esistono, perché saranno anch’esse caratterizzate da un sacrificio alla divinità e autori del sacrificio continueranno a non poter essere se non gli sposi. Infatti sono essi che contraggono con il matrimonio obblighi nei confronti della divinità e sono essi a essere puniti, se contravvengono a questi obblighi. Ad esempio l’adulterio della moglie è innanzi tutto offesa alla divinità e come tale è punito con la morte inflitta dal marito (§§ 12; 14). Analogamente costituisce offesa alla divinità il ripudio ingiustificato della moglie a opera del marito e come tale viene punito mediante la consecratio al dio della metà del patrimonio del marito (§§ 14; 16).

Di fatto, la soggezione in cui si trovano i figli nei confronti del padre, e in particolare la figlia, fa spesso, della decisione dei figli, una decisione del padre. Ciò non toglie che per la religione, e quindi per il ius sacrum, siano i figli a contrarre ritualmente e formalmente il matrimonio.

Quando il ius sacrum cessa di disciplinare l’atto di contrazione del matrimonio, resta il principio che autori dell’atto sono gli sposi, anche se filii familias. Resta cioè il principio che se il matrimonio attribuisce a ciascuno degli sposi facoltà e obblighi di natura personale, analoghi per contenuto a quelli attribuiti loro dal ius sacrum, debbano sempre essere gli sposi a contrarre matrimonio, anche se filii familias (§ 10).

Lo conferma la struttura delle conventiones in manum, che richiama quella del matrimonio.

La confarreatio, oltre a essere matrimonio, è anche conventio in manum. Per il ius sacrum i soggetti della confarreatio, quale conventio in manum, sono gli sposi, anche se alieni iuris, come lo sono della confarreatio, quale matrimonio (§ 29).

Il diritto arcaico non sacrale conosce altre forme di conventio in manum: la coemptio e l’usus. Sono soltanto conventiones in manum e non anche matrimonio, come lo è, invece, la confarreatio. Ma poiché in antico la manus non può stare senza matrimonio, la coemptio e l’usus arcaici si accompagnano necessariamente al matrimonio e ne ripetono la struttura: i soggetti della coemptio e dell’usus sono gli sposi, anche se alieni iuris, come lo sono della confarreatio (§§ 34; 41). I patres familias si limitano a prestare la loro auctoritas, peraltro necessaria, così come la prestano in ordine all’atto di matrimonio.

 

G) Il matrimonio determina, fra i coniugi, una comunanza di vita che assume un’espressione non solo fisica, ma anche religiosa, patrimoniale e sociale e nella quale il marito occupa una posizione di preminenza (§ 11). La moglie deve onorare il marito. Ma anche il marito deve onorare la moglie. È la stessa religione a riconoscerlo. La moglie è la padrona di casa e ne assume le funzioni, celebrando un sacrificio solenne all’indomani della sua entrata nella casa del marito (§ 11).

 

H) Non si può escludere che in epoca arcaica il ius sacrum abbia ammesso l’indissolubilità del matrimonio. Sarebbe stato tale, secondo Dionigi d’Alicarnasso (2.25.3), il matrimonio confarreato. La confarreatio è matrimonio e conventio in manum. Ponendo la moglie nella manus del marito, ne fa una specie di figlia del marito (loco filiae). La figlia non cessa di essere tale per suo padre. Dionigi ritiene che in origine anche la moglie non cessasse di essere tale per il marito. La patria potestas trova fondamento nel rapporto di parentela tra padre e figlia e la perpetuità di tale rapporto  si riflette sulla perpetuità della patria potestas. Prima delle XII tavole il padre non può liberare la figlia dalla sua potestà. La figlia non può liberarsi dalla potestà del padre o costringerlo a liberarla. Anche la manus è perpetua. Prima delle XII tavole la moglie non può sottrarsi alla manus del marito o costringerlo a liberarla. La manus nella sua concezione originaria postula necessariamente il matrimonio e trova in esso il suo presupposto. È credibile che originariamente anche il matrimonio confarreato, fondamento di una potestà perpetua qual è la manus, fosse perpetuo, come lo è il rapporto di filiazione, fondamento di un’altra potestà perpetua, la paterna, analoga alla manus (§ 12).

 

I) Comunque, se non all’origine, successivamente, il ius sacrum ammise, con la diffarreatio, la risolubilità del matrimonio nascente da confarreatio. La diffarreatio sembra essere un atto formale con cui il marito ripudia la moglie, presente quale destinataria passiva della dichiarazione del marito (§ 31).

Il ius sacrum riconobbe anche al marito non confarreato la facoltà di ripudiare la moglie e lo punì, se la ripudiava fuori dai casi previsti. Il ripudio, benché illecito, non era nullo. Il matrimonio si risolveva, ma il marito perdeva il patrimonio. Metà spettava alla moglie e l’altra metà era consacrata a Cerere. La moglie era in colpa e ne era giustificato il ripudio quando comprometteva il conseguimento dello scopo essenziale del matrimonio, cioè la procreazione di figli legittimi. Quindi, se commetteva adulterio, se teneva un comportamento che lo poteva favorire, quale il bere vino, o se si procurava l’aborto. Giustificava il suo ripudio anche la sterilità  ed è da credere sin dall’età risalente, come si è già rilevato. Bisogna però a questo proposito distinguere il matrimonium cum da quello sine manu. Se la moglie è nella manus del marito, il ripudio scioglie il matrimonio, ma non estingue la manus, perché la manus è perpetua, come lo è la patria potestas. La moglie ripudiata non è più nella manus di un marito, ma di un estraneo. Non fa più parte loco filiae della familia del marito, non ne gode più i diritti e i benefici ed è esposta senza limitazioni al rigore della manus quale potestà. Le conseguenze sono inique per la moglie sterile, non essendo essa in colpa, e il ius sacrum ne ostacola il ripudio tramite il iudicium censorium. Il noto episodio di Carvilio Ruga mostra però che già nel III sec. a.C. la manus aveva cessato di essere elemento usuale del matrimonio. Il matrimonium rimaneva per regola sine manu e quindi risolubile per regola a causa della sterilità della moglie. Divenne norma che lo fosse in quanto tale, anche se cum manu. Carvilio Ruga non introduce nel diritto romano la sterilità quale nuovo motivo di ripudio giustificato della moglie. Si limita a constatare, e con lui i censori, che lo permette la struttura ordinaria del matrimonio a lui contemporaneo. Si tratta di un aspetto della progressiva perdita di importanza della manus e della sua ulteriore autonomia, anche concettuale, rispetto al matrimonio (§§ 14; 16).

Se il ius sacrum imponeva una forma all’atto costitutivo di un matrimonio non confarreato, è da credere che la imponesse anche all’atto risolutivo di un matrimonio non confarreato. Lo farebbe credere la stessa confarreatio, atto formale che ha bisogno della diffarreatio, anch’essa atto formale, per essere risolta nei suoi effetti.

Il diritto laico riceve da quello sacro il principio che il matrimonio può essere risolto per volere del marito, anche se privo di giustificazione. Il diritto laico andrà oltre il diritto sacro, consentendo pure alla moglie, negli ultimi secoli della repubblica, di divorziare dal marito (§ 21). Però il diritto laico non imporrà al divorzio una forma, dato che non la impone all’atto costitutivo del rapporto (§ 13).

 

L) Il ius sacrum, imponendo una forma alla contrazione del matrimonio, pretende che un atto di volontà dei coniugi dia inizio al rapporto. Pretende, cioè, quella che si chiama la volontà iniziale.

Se il matrimonio confarreato è, in origine, irrisolubile, la volontà dei coniugi di contrarlo è necessaria, ma anche sufficiente. Benchè i coniugi non vogliano, rimangono tali in forza del diritto. La volontà iniziale non è più sufficiente, quando il matrimonio confarreato diviene risolubile per diffarreatio e, più in generale, quando il ius sacrum permette al marito di ripudiare la moglie. Alla volontà di iniziare il rapporto deve aggiungersi nel coniuge la volontà di continuarlo. Se questa volontà cessa, cessa il rapporto. Per il ius sacrum la volontà di por fine al rapporto dovrebbe essere formale, come lo è quella di darvi inizio. È certamente formale, infatti, la diffarreatio.

Il diritto laico riceve da quello sacro sia la necessità che un atto di volontà dei coniugi inizi il rapporto sia l’attribuzione al marito della facoltà di risolvere il rapporto anche senza motivo. Riceve cioè dal diritto sacro la struttura del matrimonio quale rapporto costituito da una volontà iniziale e sorretto da una volontà continua. Rifiuta soltanto la regola del diritto sacro, secondo cui l’atto costitutivo e quello risolutivo debbono avere una forma (§§ 3; 13).

 

M) Il diritto sacro pare consenta che una donna sia venduta per essere poi sposata, anche se ha ritenuto necessario porre limitazioni al ius vendendi del titolare della manus (§ 16) e forse al ius vendendi del titolare della patria potestas (§ 25). Più in generale il ius sacrum ammetterebbe il matrimonio delle persone in mancipio. Distinguerebbe però l’atto con il quale la donna è comprata (mancipatio) dall’atto con il quale la donna è sposata. Infatti imporrebbe all’atto di matrimonio una forma propria, diversa dalla mancipatio, e caratterizzata da un sacrificio dei coniugi agli dei.

Anche il diritto laico ammetterebbe, sia pure con limitazioni, che una donna possa essere acquistata a scopo di matrimonio; ammetterebbe, cioè, una mancipatio matrimonii causa. Continua però a distinguere tra atto di compera e atto di matrimonio, anche se non impone più all’atto di matrimonio una forma ad substantiam e quindi possa darsi persino il caso in cui l’atto di matrimonio sia implicito nella mancipatio. Ciò è vero quando la mancipatio è vendita effettiva, ma lo è anche quando diviene vendita fittizia. Come tale, la mancipatio è negozio giuridico tipico: il suo effetto consiste sempre e soltanto nel porre la donna in mancipio dell’uomo. Inoltre la mancipatio è negozio giuridico astratto: pone la donna nel mancipium dell’uomo, sposino essi oppure no. Se quindi sposano, l’atto di matrimonio, anche se implicito nella mancipatio, è sempre distinto dalla mancipatio (§ 26).

 

N) Il matrimonio poteva avvenire per ratto. La pratica non sembra estranea alla civiltà più antica. Anzi Roma avrebbe talvolta favorito il ratto a scopo di matrimonio, se avveniva a danno delle popolazioni straniere. La tradizione ricorda il ratto delle sabine. Ma come si distingueva l’atto di compera della sposa dal matrimonio, così si distingueva il rapimento della sposa dal matrimonio. Questo era soltanto la causa di quello. La distinzione era presente al ius sacrum, perché imponeva ai coniugi, come sembra, un sacrificio alla divinità per contrarre matrimonio. Ma la distinzione era presente anche al diritto laico. Lo era certamente quando la sposa rapita si trovava nella potestà del padre. Il consenso del padre era necessario alla validità del matrimonio.

Il matrimonio si distingueva quindi dal ratto. Era certamente distinto, se il matrimonio aveva funzioni riparatrici. Qualora si voglia dar credito a fonti retoriche dell’inizio del principato e quindi attribuire validità al matrimonio riparatore all’inizio dell’età classica e probabilmente anche in quelle precedenti, il perseguimento del ratto di una donna a scopo di matrimonio veniva rimesso alla discrezionalità dei privati. Dipendeva dalla contrazione o meno del matrimonio fra rapitore e rapita. Se le parti giungevano alla composizione del loro contrasto mediante questo atto, il rapimento restava impunito.

Il principio costituirebbe il contenuto di una legge repubblicana e sarebbe già conosciuto dai comici latini, per influenza del diritto greco e della civiltà ellenistica. Il conformarsi a questo criterio della prassi seguita nei rapporti fra cittadini romani, sarà ostacolato dal diritto giurisprudenziale dell’ultima età classica e vietato drasticamente dalla legislazione del dominato (§ 3).

 

O) Il matrimonio arcaico si completa con la manus. Lo mostra la struttura della confarreatio: essa è, nel contempo, matrimonio e conventio in manum. Lo conferma la natura della manus. Nasce per integrare il matrimonio e non può costituirsi senza di esso. Soltanto negli ultimi secoli della repubblica la giurisprudenza crea, accanto alla coemptio matrimonii causa, la coemptio fiduciae causa e consente a un uomo di esercitare la manus su una donna che non gli è moglie. Si assiste cioè a una progressiva separazione e autonomia della manus rispetto al matrimonio. I due istituti diventano indipendenti l’uno dall’altro (§§ 43-45). Ma se la manus arcaica non può costituirsi senza matrimonio, già il matrimonio arcaico può stare senza la manus. Lo prova, in particolare, il matrimonio delle persone in manicipio. La moglie è posta nel mancipium e non nella manus del marito e tuttavia il matrimonio è valido (§§ 26; 27).

 

 

II – Manus

 

A) La manus è una potestà che un uomo esercita su una donna libera. La patria potestà viene anch’essa esercitata da un uomo su persone libere, ma queste possono essere tanto uomini che donne.

B) La manus può essere costituita, almeno formalmente, per volere della donna mediante atto giuridico o fatto. Gli atti giuridici sono la confarreatio e la coemptio, entrambi posti in essere dalla donna. Il fatto giuridico è l’usus, quando la donna può interromperlo con il trinoctium e quindi soltanto dopo le XII tavole: precedentemente l’usus non ne richiedeva la volontà. La donna può essere sui o alieni iuris e vi è bisogno, rispettivamente, del consenso del tutore o del pater familias.

Titolare della manus, intesa quale potestà, è un uomo sui iuris. Egli acquista la potestà direttamente o tramite un filius familias a seconda che sia lui o il figlio a esercitare l’usus o a porre in essere la confarreatio o la coemptio. Se l’acquisto avviene tramite il figlio, il figlio deve avere il consenso del padre.

Anche il titolare della patria potestas deve essere sui iuris. Ma i modi di costituzione della manus sono all’evidenza del tutto diversi da quelli con i quali si costituisce la patria potestas.

 

C) Come la patria potestas, la manus è una potestà perpetua: si estingue soltanto con la morte del titolare.

Le XII tavole limitarono il principio e tolsero la potestas al padre che vendeva tre volte il figlio. La giurisprudenza pontificale si avvalse della norma per liberare la figlia dalla potestà paterna. Era sufficiente che il padre alienasse anche una sola volta la figlia mediante mancipatio. L’acquirente la manometteva. Il padre non poteva esercitare di nuovo la potestà sulla figlia, avendola perduta con l’alienazione. La norma limitativa della patria potestas fu estesa dalla giurisprudenza pontificale alla manus e il procedimento per liberare la figlia dalla potestà paterna fu applicato per liberare la donna dalla manus.

 

D) La manus, come la patria potestas, è assoluta. Entrambe le potestà non possono avere per oggetto, contemporaneamente, la medesima persona. La manus esclude definitivamente la potestà paterna esercitata sulla figlia prima della conventio in manum[2].

Il principio subisce delle limitazioni all’inizio del principato e nell’ambito del processo involutivo della manus. Augusto consente che per il diritto profano la figlia confarreata rimanga nella potestà del padre. Essa si limita ad abbandonare la religione familiare e gentilizia del padre per seguire quella del marito (§ 33). È ancora Augusto a consentire al pater familias di mettere a morte la figlia che egli ha posto nella manus del marito, se colta in flagranza di adulterio (§ 62).

Un uomo non può avere contemporaneamente manus e patria potestas sulla medesima persona, ma può averle contemporaneamente su persone diverse. Il marito sui iuris ha la manus sulla moglie e la patria potestas sul figlio. Analogamente un suocero ha la manus sulla nuora e la patria potestas sul figlio che l’ha sposata. La patria potestas non assorbe la manus e il suocero non esercita contemporaneamente la patria potestas tanto sul figlio quanto sulla nuora[3].

 

E) La manus, come la patria potestas, è intrasmissibile.

L’avo esercita la patria potestas sulla nipote. Alla morte dell’avo, la patria potestas viene esercitata dal padre divenuto sui iuris. L’acquista in quel momento e a titolo originario e in forza del rapporto di agnatio che lo legava alla figlia già prima della morte dell’avo.

Lo stesso accade per la manus. Il suocero esercita la manus sulla nuora. Alla morte del suocero, l’esercita il marito, divenuto sui iuris. L’acquista in quel momento e a titolo originario, per il rapporto di quasi agnatio che lo legava alla moglie già prima della morte di suo padre e che aveva fatto della moglie una specie di figlia per il marito e conseguentemente una specie di nipote per il suocero[4].

 

F) Al pari della patria potestas, anche la manus, quando si accompagna al matrimonio, non può essere in alcun modo vincolata o limitata dalla persona che ne è soggetta. È inefficace l’atto con cui il marito promette alla moglie di liberarla dalla manus, così come non vincola il patto con cui il padre si impegna a emancipare la figlia. Occorre il divorzio, perché la moglie possa costringere il marito a rispettare la promessa e a liberarla dalla manus. Se invece la manus non si accompagna al matrimonio, la donna può validamente obbligare il titolare a liberarla (§§ 42; 44).

 

G) Il contenuto della manus, intesa quale potestà, è il seguente.

a) Il titolare della manus puniva la donna anche con la morte. Gli si riconosceva cioè un ius occidendi analogo al ius vitae ac necis attribuito al pater familias (§ 53). L’alienava mediante mancipatio (ius vendendi), così come poteva fare il pater familias della figlia (§ 54). Acquistava per suo tramite diritti reali mediante mancipatio e traditio. È probabile che originariamente possedesse la donna e quindi acquistasse il possesso delle cose possedute dalla donna e le usucapisse per suo tramite. In prosieguo di tempo gli fu negato il possesso della donna, ma si continuò ad ammettere, sia pure fra contrasti, che egli acquistasse mediante la donna il possesso e che la donna usucapisse per lui (§ 56). Egli diveniva creditore in virtù delle stipulationes (escluse le adstipulationes) e dei contratti posti in essere dalla donna (§ 56). Poiché acquistava tramite la donna, il titolare della manus poteva proporre l’actio furti contro chi gli sottraeva la donna (§ 65). Se si ingiuriava la donna, si ingiuriava anche lui ed egli intentava per conto suo e di lei l’azione penale (§ 66). Il ius civile non riteneva il titolare della manus responsabile delle obbligazioni nascenti da contratto e, più in generale, da atto lecito, di cui fosse autrice la donna[5]. Il principio subiva limitazioni e temperamenti a opera del pretore. Il titolare della manus era invece responsabile dei delitti della donna e si liberava dandola in nossa all’offeso (noxae deditio: § 55). Lucrava l’eredità e il legato disposti a favore della donna (§ 56). Inoltre si appropriava del patrimonio della donna sui iuris che si fosse posta nella sua manus, e lo faceva proprio definitivamente (§ 56).

b) quando la manus si accompagnava al matrimonio, il contenuto della manus si modificava al modo seguente.

La moglie entrava a far parte della familia (e quindi anche della gens) del marito, contraendo con i membri di questa un rapporto che può definirsi sostanzialmente di agnatio. Le fonti specificano che la moglie assumeva nei confronti del marito e del suocero rispettivamente una posizione analoga a quella di una figlia e di una nipote. Era loco filiae e neptis. Conseguentemente in età arcaica partecipava con il marito, i figli e i nipoti al consorzio familiare (§§ 15; 30).

Più tardi il pater familias diviene l’unico titolare del patrimonio familiare e il diritto della moglie e dei discendenti al patrimonio della famiglia si traduce nel diritto di succedere in esso alla morte del pater familias. Ciò significa che il diritto civile e pretorio consideravano la donna loco filiae e neptis quando disciplinavano la sua successione ab intestato e testamentaria al marito e al suocero (§ 63). Il titolare della manus le nominava per testamento il tutore, come avrebbe fatto per la figlia e la nipote in potestà (§ 63).

La moglie partecipava ai sacra familiari e gentilizi del marito (§ 57) e occupava nella famiglia la posizione onorifica di mater familias, titolo che in età risalente è probabile spettasse a lei sola (§ 59).

Per quanto riguarda le colpe della moglie nei confronti della famiglia e della onorabilità del marito, il ius sacrum consentì al marito di punirla con la morte soltanto se commetteva adulterio o se beveva vino, sentito il parere non vincolante dei propinqui. Il marito poteva fare a meno del loro parere, se l’adulterio era flagrante. Poi gli fu addirittura proibito di uccidere la moglie adultera o non morigerata, e questo nel II sec. a.C. se non già nel III. Continuò a farlo, ma soltanto sino ad Augusto, se la coglieva in flagranza di adulterio e lo faceva non perché avesse la manus sulla moglie, ma per il solo fatto di esserle marito. Per quanto riguarda le colpe della moglie nei confronti della civitas e dei suoi membri, rimase la pena di morte, se l’imponeva la gravità del reato, ma il marito divenne soltanto colui che attuava una sentenza emessa dagli organi della civitas. Con il tempo fu tolta anche questa facoltà, che già nel II sec. a.C. sembra fosse eccezionale (§ 60).

In epoca arcaica il suocero poteva uccidere immediatamente la nuora in manu che l’avesse percosso, purché fosse ricorso alla ploratio, avesse cioè egli invocato aiuto e quindi testimonianza. La displina era la stessa applicata al caso in cui fosse la figlia a percuotere il padre che l’aveva in potestà (§ 61).

Il ius sacrum puniva addirittura con la morte il marito che vendeva la moglie. Consentì però al marito di usare il ius vendendi, se divorziava e alienava la moglie a chi intendeva sposarla per averne figli (mancipatio liberorum quaerendorum causa: § 27). Il ius civile delle XII tavole, nell’interpretazione della giurisprudenza pontificale, si limitò invece a privare della manus il marito che operava la mancipatio della moglie e si servì di questa norma, così interpretata, per consentire al marito di liberare la moglie dalla manus. Bastava che l’alienasse mediante mancipatio e l’acquirente la manomettesse. La moglie non ricadeva nella manus del marito, estinta dalla mancipatio, e diveniva sui iuris. Applicò cioè per analogia alla manus quanto la stessa giurisprudenza aveva deciso per la patria potestas. In base al disposto delle XII tavole, il padre la perdeva, se mancipava la figlia ed essa venisse poi manomessa. L’espediente fu generalizzato. L’utilizzò anche chi non era il marito della donna in manu e l’utilizzò per tutto il tempo in cui venne usata la coemptio. Certamente nel II sec. d.C., se non addirittura per tutta l’età del principato. Il ius vendendi del marito è disciplinato dal ius sacrum precedente le XII tavole e il ius sacrum conosce la confarreatio. Le XII tavole conoscono l’usus e l’interpretazione pontificale delle XII tavole conosce anche la coemptio. Quindi tutte e tre le forme di conventio in manum attribuiscono al marito il ius vendendi. Ai tempi di Gaio l’usus è scomparso e la confarreatio dà luogo a una manus ridotta ai sacra. Perciò Gaio è costretto a trattare del ius vendendi e delle relative applicazioni limitatamente alla sola coemptio (§§ 54 e 62).

Dopo le XII tavole il marito usa normalmente il ius vendendi per liberare la moglie dalla manus, così come lo usa il pater familias per liberare la figlia dalla sua potestà. Eccezionalmente lo può usare per dare la moglie colpevole di un delitto in nossa alla vittima, così come fa il pater familias nel caso in cui il delitto sia commesso dalla figlia; e questo ancora nel II sec. d.C., se non addirittura per tutto il principato (§ 55).

Il ius occidendi e il ius vendendi fanno quindi parte della manus, qualunque sia la conventio che l’ha costituita, e ne fanno parte anche se la manus grava sulla moglie[6]. Sono facoltà proprie della struttura giuridica della manus, così come lo sono della patria potestas. Sono però sottoposte a un processo storico di atrofizzazione più rapido e radicale di quello che le colpisce, quando fanno parte della patria potestas. Il marito manca del ius occidendi nel II sec. a.C., ma probabilmente l’ha già perduto prima. Il marito conserva il ius vendendi probabilmente sino a tutta l’epoca classica soltanto per liberare la moglie dalla manus e per darla in nossa alla vittima dei suoi delitti.

Prima delle XII tavole il marito che pratica l’usus della moglie probabilmente la possiede. Dopo le XII tavole e l’introduzione del trinoctium non la possiede più. Si possiede un essere intelligente, quando lo stato di soggezione in cui lo si tiene non dipende dalla sua volontà. Dopo le XII tavole lo stato di soggezione in cui si trova la donna durante l’usus dipende dalla sua volontà. Può ricorrere al trinoctium e interrompere l’usus. Quindi non la si possiede più (§ 35). È probabile che in età risalente la moglie acquistasse al marito il possesso delle cose da lei possedute, perché si consentiva al marito di possedere la moglie che aveva in manu. In prosieguo di tempo si negò al marito il possesso della moglie in manu, pur consentendogli di possedere le cose possedute dalla moglie. Anche questa è una probabile influenza del matrimonio sulla manus. La regola fu estesa prima di Gaio alla manus in quanto tale, fosse oppure no la donna moglie del titolare. Ai tempi dei Severi venne applicata alla patria potestas: i figli acquistavano al padre le cose da loro possedute, anche se finalmnente si escluse che essi fossero posseduti dal padre (§ 56).

Se la moglie sui iuris, ponendosi nella manus del marito, aveva un patrimonio, l’acquistava al marito. L’acquisto non sempre era definitivo. Allo scioglimento del matrimonio per divorzio la moglie ne avrebbe preteso la restituzione come avrebbe preteso la restituzione della dote (§ 20).

 

H) La tutela della manus avviene con mezzi processuali esperibili anche in assenza di matrimonio. Sono gli stessi che vengono impiegati per la tutela della potestà paterna e sono i seguenti.

Se la donna era sottratta furtivamente al titolare della manus, egli poteva esperire l’actio furti (§ 56). Si riteneva ingiuriato, quando era ingiuriata la donna. Esperiva contro l’offensore l’actio iniuriarum, che si aggiungeva a quella esperita, sempre da lui, a nome della donna ingiuriata (§ 66). Poteva operare la ductio della donna allontanatasi, servendosi, a questo scopo, sia di mezzi civili, sia di mezzi pretori. I mezzi civili sarebbero stati, nell’ambito del procedimento per legis actiones, la legis actio sacramento in rem; nell’ambito del processo formulare, il praeiudicium. I mezzi processuali pretori sarebbero stati degli interdetti, analoghi per struttura e funzione all’interdictum de liberis exhibendis e l’interdictum de liberis ducendis, concessi al pater familias per riavere presso di sé i figli. D. 6.1.1.2 menziona anche una cognitio praetoria (cognitio extra ordinem), da intendersi per il tardo diritto classico (§ 67).

 

I) Dall’esposizione precedente risulta che la manus ha punti di contatto con la patria potestas, ma anche elementi di differenziazione e li ha in quantità diversa a seconda che si accompagni oppure no al matrimonio.

La manus è una potestà che, al pari di quella paterna, viene esercitata da un uomo sui iuris su una persona libera, ed è anch’essa perpetua, assoluta e intrasmissibile. I mezzi processuali per la tutela della manus sono gli stessi impiegati per la tutela della patria potestas. La manus nasce storicamente come una potestà che presuppone e completa un rapporto matrimoniale. Solo successivamente può stare senza matrimonio. Si spiega a questo modo perché la persona soggetta alla manus deve essere una donna, mentre la potestà paterna viene esercitata anche sugli uomini. I modi costitutivi della manus son diversi da quelli costitutivi della patria potestas, ma quando si accompagnano al matrimonio imitano, negli effetti, il modo fondamentale che dà luogo alla patria potestas, cioè la procreazione. Al pari della procreazione, i modi costitutivi della manus danno vita, tra i loro autori, cioè tra i coniugi, a un rapporto di parentela (quasi agnatio) che imita quello cui dà vita la procreazione (agnatio): la moglie è come se fosse parente di primo grado in linea maschile del marito: cioè è loco filiae. L’espressione è contenuta, con questo significato generale, nella definzione, ad esempio, che Gaio dà dell’usus (Gai. 1.111) e della coemptio (Gai. 1.114). Da qui un analogo rapporto di parentela tra la nuora e il suocero, di cui la nuora è neptis loco[7], e tra la nuova sposa e gli altri membri della familia (Gai. 3.14) e della gens del marito. Da qui, inoltre, un’analogia di regime tra la figlia o la nipote e la moglie o la nuora, la quale è, come si esprimono testualmente le fonti, loco filiae, neptis, ac filia, neptis e proneptis. Lo è, scrivono testualmente le fonti, sia in ordine agli effetti patrimoniali, a lei favorevoli, della manus, in primo luogo quelli ereditari[8], sia in ordine agli effetti personali; e questi tanto se favorevoli, quali, ad esempio, la nomina per lei del tutore testamentario e l’optio del medesimo (Gai. 1.148 e 150) o addirittura l’essere mancipata per essere liberata dalla manus (Gai. 1.118 e 136), quanto se sfavorevoli, quali, ad esempio, l’impossibilità per la moglie di costringere il marito a liberarla dalla manus (Gai. 1.137a) o l’essere data in nossa alla vittima del suo delitto[9]. Infatti l’equiparazione della moglie alla figlia non avviene solo quando ne nascono benefici per la moglie, ma anche quando ne derivano svantaggi per lei. In particolare deve essere tenuto presente che la moglie, come la figlia, viene venduta e uccisa[10].

La sostanziale identità di natura fra manus e patria potestas porta necessariamente a una identità di stato e di regime fra moglie e figlia. Identità che si basa sulla finzione che la moglie sia una figlia. Ma la finzione giuridica non muta la realtà naturale, familiare, sociale e anche religiosa che la moglie non è una figlia. Nell’evolversi dei costumi, la realtà reagisce sulla finzione mantenendola solo in parte e a vantaggio, per quanto possibile, della moglie.

Già nell’organizzazione familiare della civitas arcaica la moglie in manu assume lo stato di mater familias, che la distingue dalla figlia e la pone in una posizione di superiorità accanto al marito e già il ius sacrum della civitas monarchica limita profondamente la facoltà del marito di uccidere e vendere la moglie. Il diritto laico della repubblica prosegue, togliendogli gradualmente entrambe le facoltà. Augusto gli impedisce persino di uccidere la moglie colta in flagranza di adulterio e gli viene conservata la facoltà di manciparla soltanto per liberarla dalla manus o darla in nossa alla vittima di un delitto commesso da lei. Anzi si considera il rifiuto del marito di mancipare la moglie per liberarla dalla manus un giusto motivo, perché la moglie divorzi. Una volta divorziata, la donna può costringere l’uomo a liberarla dalla manus. Non lo poteva, quando era sua moglie, perché parificata a una figlia e la figlia non può costringere il padre a emanciparla.

Se la moglie sui iuris, ponendosi nella mano del marito, aveva un patrimonio, l’acquistava al marito. Negli ultimi secoli della repubblica si negò che l’acquisto fosse definitivo e irrisolubile, come lo sarebbe stato se l’uomo avesse adottato la donna (Gai. 1.101). Al caso venne esteso, in quanto possibile, il regime dotale. Divorziando senza colpa, la moglie pretendeva la restituzione del suo patrimonio, come avrebbe preteso la restituzione della dote.

Soltanto la giurisprudenza dei Severi negò al padre il possesso dei figli. Le XII tavole, introducendo il trinoctium, avevano già negato al marito il possesso della moglie.

Le diversità fra manus e potestas sono quindi notevoli e il trascorrere del tempo le accentua. Ma divengono ancor più numerose ed evidenti, se alla manus non si accompagna il matrimonio. Ciò avviene sin dall’antichità in caso di divorzio: il ripudio della moglie non estingue la manus. Ciò avviene dopo le XII tavole, quando la giurisprudenza crea la coemptio fiduciaria e ne permette l’uso anche a chi non è sposato.

Mancando il matrimonio, manca la parentela analoga all’agnatio che lega la donna all’uomo. Essa non fa parte della sua familia e della sua gens. Non partecipa ai sacra dell’uomo, non vanta diritti successorii nei suoi confronti, né egli provvede alla sua tutela. Il contenuto patrimoniale della manus è soltanto quello indicato qui sub G, a.

L’uomo possiede il ius occidendi senza i limiti imposti dal matrimonio e non si può escludere che in età risalente lo usasse sulla moglie ripudiata. Alla donna rimaneva soltanto, come protezione, il vincolo di sangue o cognatio che la legava ai figli e ai membri della famiglia di origine.

L’uomo possiede il ius vendendi e se l’usava prima delle XII tavole, non avrebbe dovuto subire i limiti che gli imponeva il matrimonio. Dopo le XII tavole e con l’uso della coemptio fiduciaria da parte di chi non è sposato, il ius vendendi viene impiegato oltre che per dare la donna in nossa alla vittima del suo delitto, soltanto per liberarla dalla manus. Anzi la donna può obbligare l’uomo a liberarla, proprio perché non è suo marito, così come può costringerlo a restituirle il patrimonio, che egli abbia fatto suo con l’acquisto della manus (§ 45).

Concludendo, la manus è una potestà analoga, per natura, alla patria potestas, ma in parte diversa per contenuto, e la diversità si accentua con il trascorrere del tempo. Conseguentemente le fonti da un lato accostano[11] e dall’altro distinguono[12] manus e patria potestas[13].

Taluno dubita che la manus sia una potestà. Osserva come alcune fonti giuridiche attribuiscano la manus al marito alieni iuris. Conseguentemente Volterra[14] intende per manus soltanto il rapporto personale che lega la moglie al marito e che ne fa una specie di figlia del marito. In forza di questo rapporto la moglie viene assoggettata come la figlia alla patria potestas del pater familias, il quale è il marito stesso, se sui iuris, altrimenti il padre di lui. La potestà esercitata sulla donna in manu è sempre e soltanto la patria potestas. Il suocero non ha mai la nuora in manu, neanche quando gli premuore il figlio che l’ha sposata. La manus è sempre e soltanto del marito.

In contrario si osserva che quando manca il matrimonio, l’uomo esercita sulla donna in manu una potestà e certamente questa potestà non è quella paterna. Essa rimane sostanzialmente la stessa quando il marito l’esercita sulla moglie in manu e anche in questo caso non è quella paterna. La differenza di contenuto con la patria potestas continua a crescere con l’evolversi dei costumi, anche se non è mai così marcata come quando la manus viene esercitata in assenza di matrimonio. L’estraneo, il suocero e il marito sui iuris esercitano tutti la medesima potestà, di cui varia il contenuto ma non la natura. Le fonti, giuridiche e no, chiamano questa potestà manus. Alcune fonti giuridiche chiamano manus anche il rapporto di quasi agnatio intercorrente fra la moglie e il marito alieni iuris. Ma questo non toglie che accanto a tale significato vi sia anche l’altro, quello di manus, intesa quale potestà distinta, pur se analoga, a quella paterna (§§ 41 e 68).

Altri[15] negano che il suocero eserciti sulla nuora in manu la medesima potestà che esercita il marito sui iuris sulla moglie. Soltanto il marito sui iuris eserciterebbe la potestà chiamata manus. Il suocero eserciterebbe la patria potestas. Questo perché la manus non comprenderebbe la facoltà di uccidere e vendere la donna che le è soggetta, mentre è noto che queste facoltà sono comprese nella patria potestas. In contrario si osserva come sembra un assurdo che il suocero possa fare ciò che è negato al marito. La manus esercitata dal marito comprende la facoltà di uccidere e vendere la donna. Inoltre, quando la manus viene esercitata dal suocero, la facoltà di vendere e uccidere la nuora sono soggette agli stessi limiti cui sono soggette, quando la manus viene esercitata dal marito. Semmai è il marito che può fare più del suocero. Sino ad Augusto egli soltanto uccide la moglie colta in flagranza di adulterio (§§ 54; 59).

 

L) a) Descrivendo sub G il contenuto della manus, i suoi effetti sono stati divisi a seconda che si producano sempre, anche in assenza di matrimonio, o si producano soltanto in presenza di matrimonio, siano cioè generali o speciali.

b) Rappresentano inoltre tutti gli effetti costitutivi della manus. Essa però produce anche effetti estintivi. La donna subisce una capitis deminutio minima; tronca il rapporto di agnatio con la familia e la gens di origine; non partecipa più ai loro sacra; esce dalla potestà paterna e dalla tutela agnatizia; perde i diritti successorii disciplinati dal ius civile vetus nei confronti della familia e della gens di origine; perde il patrimonio, che diviene del titolare della manus (§§ 51; 52). Anche questi sono effetti generali, propri della manus e che si producono pure in assenza di matrimonio.

c) Gli effetti religiosi, cioè la perdita e l’acquisizione dei sacra, si distinguono da tutti gli altri effetti e possono rimanere da soli, come avviene dopo Augusto e Tiberio per la moglie confarreata (§§ 33; 51; 57).

d) Vi sono effetti di natura personale. Sono quelli religiosi; la rottura e la costituzione del rapporto di agnatio; la perdita della potestà paterna e della tutela agnatizia; l’assunzione del nomen  del marito (§ 58) e della qualifica di mater familias (§ 59); la soggezione al ius occidendi e vendendi del titolare della manus (§§ 53-33; 62; 63); la nomina testamentaria del tutore (§ 63). Gli altri effetti sono di natura patrimoniale.

 

M) La manus è una potestà atta per sua natura a integrare il matrimonio. Lo provano le considerazioni seguenti.

a) La manus lega un uomo a una donna.

b) Soltanto un uomo e una donna possono compiere insieme l’atto (confarreatio, coemptio) o permettere il verificarsi del fatto (usus), che dà vita tra loro al rapporto chiamato manus.

c) Tutte e tre le forme di conventio in manum sono collegate al matrimonio. La confarreatio è, nel contempo, conventio in manum e matrimonio. L’usus presuppone l’esistenza del matrimonio. La funzione originaria della coemptio e per la quale la coemptio fu creata dalla giurisprudenza pontificale è quella di integrare il matrimonio[16].

d) Quando matrimonio e manus coesistono, si integrano obbiettivamente e fanno della moglie una specie di figlia del marito, anche se i coniugi non vogliono (§ 43; Gai. 1.115b). Analogamente, quando un marito ha una figlia da sua moglie, la figlia è legittima e cade nella potestà del padre, anche se egli non vuole.

e) Soltanto in presenza del matrimonio il contenuto della manus diviene completo: agli effetti generali, che la manus produce sempre, si aggiungono quelli speciali, che la manus produce quando si accompagna al matrimonio.

f) Soltanto il matrimonio spiega perché la manus sia una potestà analoga, nella sua sostanza, a quella paterna: il matrimonio fa della donna una specie di figlia per l’uomo che l’ha in manu. Tuttavia soltanto in presenza del matrimonio ci si rende conto della differenza di contenuto fra manus e patria potestas: la donna che si finge essere una figlia, in realtà è una moglie.

g) La manus accentua e completa gli effetti propri del matrimonio, cioè la creazione di una società coniugale e familiare. Al vincolo di coniugio che lega la moglie al marito, si aggiunge quello di quasi agnatio. Esso rafforza anche il rapporto di sangue e di affinità che lega la moglie ai propri figli e con i parenti del marito. La partecipazione della moglie alla religione domestica del marito diviene, con la manus, partecipazione ai sacra del marito, cioè al culto dei Mani del marito. L’appartenenza, anche sotto l’aspetto dei rapporti sociali, della moglie al marito si traduce, con la manus, nell’assunzione del nomen gentilizio del marito. La preminenza che ha la moglie nell’organizzazione interna della famiglia, si specifica, con la manus, nell’attribuzione alla moglie della qualifica di mater familias. La manus potenzia il compito della moglie di dirigere l’economia della casa e la facoltà di disporre a tale scopo dei beni del marito come fossero comuni. Infatti la manus attribuiva alla moglie addirittura la titolarità dei beni familiari, assieme al marito e ai figli. In un secondo momento, divenuto il patrimonio familiare di proprietà del solo marito, la manus riconosce alla moglie dei diritti successorii in ordine al medesimo. Correlativamente, il potere disciplinare e coercitivo che il marito esercita sulla moglie si qualifica, con la manus, nel ius occidendi e nel ius vendendi.

h) A sua volta il matrimonio completa la sua disciplina, derivandola dalla manus. L’actio iniuriarum e la ductio della moglie furono concesse al marito anche quando non aveva la manus sulla moglie. Da mezzi di difesa della manus divennero mezzi di tutela del matrimonio.

i) Quando i coniugi divorziano, la manus non si estingue automaticamente. Il diritto la fa perpetua, come perpetua è la patria potestas. Però la moglie può, dopo le XII tavole, costringere il marito a liberarla dalla manus[17].

 

N) Benché la manus sia una potestà atta per sua natura a integrare il matrimonio, tuttavia può stare senza di esso.

Può starvi temporaneamente. Esempio: la coemptio viene contratta in vista di un matrimonio futuro (§ 41). Può starvi definitivamente. Esempio: la coemptio fiduciaria cum extraneo esclude nei suoi autori la volontà di contrarre matrimonio (§ 43).

Le ragioni per cui la manus può restare senza matrimonio sono storiche, si verificano cioè nel progresso del tempo e con il mutare delle esigenze.

La conventio in manum, nella fase iniziale della sua storia, non ha altra ragione di essere che inserire la moglie nella familia del marito in qualità di figlia e la manus viene costituita soltanto per essere esercitata sulla moglie. La si crea come una potestà analoga a quella del padre e che il marito esercita sulla moglie, divenutagli una specie di figlia.

Padre e figlia rimangono tali per tutta la vita. Quindi la potestà che il padre esercita sulla figlia è perpetua. Lo è anche la manus, modellata sulla patria potestas. Del resto, secondo Dionigi d’Alicarnasso, il matrimonio confarreato era in origine indissolubile. Quindi anche il marito e la moglie sarebbero rimasti tali per tutta la vita (§ 12).

Successivamente la manus si stacca dal matrimonio e può restare senza di esso. La prima ragione storica è il divorzio. In età arcaica si consente al marito di punire la moglie, ripudiandola. Il ripudio scioglie il matrimonio, ma non estingue la manus, la quale conserva la natura di potestà perpetua e viene esercitata su una donna che per sua colpa non fa più parte della familia del marito. Privata dello stato di moglie, è privata dei diritti e dei benefici che le derivano dall’essere loco filiae. La manus viene cioè esercitata su un’estranea (§ 42). Soltanto successivamente,quando entrambi i coniugi possono divorziare e lo possono senza che la colpa dell’uno giustifichi il divorzio dell’altro, si obbliga il marito a liberare la moglie dalla manus (§ 45). La libererà servendosi del disposto delle XII tavole, il quale, nell’interpretazione della giurisprudenza pontificale, gli toglie la manus, se mancipa la moglie. Con questo disposto, infatti, la manus, come la patria potestas, cessa di essere perpetua (§ 44).

La seconda ragione storica che consente alla manus di esistere senza il matrimonio è la creazione a opera della giurisprudenza pontificale della coemptio. Essa è creata per aggiungere la manus al matrimonio, evitando le formalità eccessive della confarreatio e le incertezze e le lungaggini dell’usus. Però la coemptio, in quanto mancipatio, è negozio giuridico astratto. I suoi effetti rimangono e la manus è costituita anche se non vi è ancora (Gai. 2.139) o non vi sarà mai matrimonio fra gli autori della coemptio. Infatti con il tempo la coemptio può essere attuata anche fiduciae causa e cum extraneo.

Quando la manus rimane senza matrimonio, muta parzialmente di contenuto, ma conserva sostanzialmente la sua natura. Al sopravvenire del matrimonio, riacquista automaticamente la struttura originaria, perché è quella sua propria e naturale, e ciò avviene anche contro la volontà dei suoi autori.

 

 

III – Ius sacrum*

 

A) La definizione di ius sacrum è la seguente.

La norma di ius sacrum è nel contempo religiosa e giuridica. La norma è religiosa, perché impone al soggetto un comportamento che egli deve tenere nei confronti della divinità. La norma è giuridica, perché è posta nell’interesse della collettività e quindi la collettività punisce il soggetto che lo compromette.

Il ius sacrum permette alla civitas arcaica di conservare l’amicizia e la benevolenza degli dei: la pax deorum. La compromette il cittadino che non osserva la norma di ius sacrum. Egli suscita l’avversione degli dei non solo nei suoi confronti, ma nei confronti di tutta la collettività. È proprio infatti del pensiero giuridico e religioso dell’età arcaica il criterio della responsabilità collettiva. Della colpa di uno rispondono tutti.

La norma di ius sacrum è posta nell’interesse della collettività. Quindi è parte del suo ordinamento giuridico. Se è posta nell’interesse della collettività, sarà creata dalla civitas stessa.

Colui che contravviene alla norma di ius sacrum, offende la divinità. Inoltre la colpa lo macchia, rendendolo impuro. Per il principio della responsabilità collettiva, l’impurità colpisce non soltanto lui, ma la civitas stessa. L’offesa può essere riparata e l’impurità può essere tolta mediante un sacrificio alla divinità. L’offerta di un piaculum al dio lo placa e nel contempo purifica l’offensore e la collettività cui egli appartiene. La colpa è quindi espiabile.

Però non tutte le colpe lo sono. Non sempre il reo può lavare la sua impurità mediante un’offerta al dio di un piaculum. In questi casi è lui stesso (homo sacer) a venir sacrificato (consecratio capitis). Il dio sarà placato dal sacrificio capitale e la collettività purificata con l’espulsione radicale e definitiva del colpevole (§ 1)[18].

 

B) Il ius sacrum assume una importanza fondamentale nel regime arcaico del matrimonio e della manus.

a) Determina la natura essenziale del matrimonio, considerandolo un rapporto fra uomo e donna volto alla procreazione.

Impone ai coniugi che intendono contrarlo un sacrificio alla divinità. Considera autori del sacrificio e quindi dell’atto di contrazione del matrimonio i coniugi anche se alieni iuris. Impone loro un’endogamia religiosa, perché la divinità cui sacrificano deve essere comune a entrambi e quindi entrambi debbono appartenere alla medesima comunità religiosa. Non li vuole legati da vincoli di sangue, considerandoli altrimenti incestuosi. Vieta loro la bigamia. Pretende che siano puberi, controllandone l’attitudine alla procreazione. Impone un tempus lugendi alla vedova che si risposa.

Fa del marito il sacerdote della famiglia e gli consente di punire la moglie, nei casi previsti, con il ripudio e la morte. Determina la posizione della moglie nella struttura gerarchica e religiosa della famiglia, ne diciplina la condotta, imponendole, in particolare, di non tradire il marito, di astenersi dal vino e di non interrompere volontariamente la gravidanza.

Attribuisce al marito la facoltà di ripudiare con atto formale la moglie, a eccezione, probabilmente, di quella confarreata nella fase più risalente di questo tipo di matrimonio. Punisce però il marito che ripudia la moglie fuori dai casi tassativamente previsti.

Richiede per il matrimonio la volontà dei coniugi di darvi inizio e quella, distinta, del marito di continuarlo, non ripudiando la moglie.

b) Consentirebbe che la sposa possa essere acquistata dal marito e posta nel suo mancipium. Permetterebbe, cioè, il matrimonio delle persone in mancipio.

c) Consente l’acquisizione della manus del marito sulla moglie. Conosce, a questo scopo, una forma di conventio in manum, la quale è, nel contempo, anche matrimonio: la confarreatio. Ritiene conseguentemente autori della conventio in manum i coniugi, pur se alieni iuris.

Disciplina la manus, così come disciplina la patria potestas, in ordine al loro contenuto personale. Limita il ius occidendi del titolare della manus, anche se è il suocero della donna, ed evita gli abusi del ius vendendi spettante al marito. Controlla il ius vitae ac necis del pater familias e forse anche il ius vendendi a lui riconosciuto.

Considera la manus elemento integrante e ordinario del matrimonio, ma non essenziale alla sua natura. Consentirebbe infatti che la moglie possa trovarsi anche nel mancipium del marito.

 

C) Le leges regiae risultano essere fonti importanti del diritto sacro che disciplina il matrimonio e la manus (§ 1). Ciò permette di ritenere l’età monarchica l’epoca in cui il matrimonio può definirsi con proprietà un istituto di diritto sacro.

La sacralità dell’istituto viene progressivamente meno e si attenua, ma non scompare. Basta por mente alla confarreatio e alla qualifica di nefariae conservata dalle nozze fra parenti. Indizi del processo di secolarizzazione dell’istituto sono già evidenti nella stessa età monarchica. Il ripudio immotivato offende la moglie, oltre che la divinità. Perciò metà del patrimonio del marito spetta alla moglie e soltanto l’altra metà al dio. Così stabilisce una legge regia. Il fenomeno di secolarizzazione si accentua nell’alta repubblica. L’usus è una forma non sacrale di conventio in manum che sostituisce la confarreatio ed è conosciuto dalle XII tavole. Ma se il diritto ammette una forma non religiosa di conventio in manum, probabilmente ammette anche una forma non religiosa di matrimonio, dato il rapporto di complementarietà che esiste, in età arcaica, tra matrimonio e manus. Se il matrimonio è costituito da un atto di natura non religiosa, potrà essere risolto da un atto anch’esso privo di natura religiosa. Infatti le XII tavole sembrano conoscere un atto di ripudio non religioso e diverso dalla diffarreatio: il marito caccia di casa la moglie. I censori sono magistrati di origine religiosa e probabilmente all’inizio giudicano del ripudio alla stregua del ius sacrum. Ma i costumi si evolvono e nel III sec. a.C., se non già prima, i censori si mostrano propensi ad aumentare le ipotesi di ripudio giustificato della moglie e quando il ripudio avviene senza motivo, sostituiscono alle antiche pene religiose, ormai incomprensibili e desuete, sanzioni di natura politica e sociale, le quali peggiorano lo stato che il colpevole occupa nell’organizzazione amministrativo-costituzionale dello stato. Nel III sec. a.C. al giudizio dei censori si affianca la giurisdizione del pretore, che rimane la sola dal II sec. a.C. in poi. I censori tutelavano l’interesse morale, anche se non più religioso, della collettività alla conservazione del vincolo matrimoniale. Il pretore tutela, invece, l’interesse privato alla conservazione del matrimonio, interesse che assume una natura squisitamente patrimoniale, se al matrimonio si affianca la costituzione di dote oppure (ma il fenomeno è sempre più raro) la conventio in manum. Sul finire della repubblica il conflitto degli interessi economici fra coniugi si aggrava ulteriormente, perché la facoltà di divorziare è riconosciuta anche alla moglie.

 

D) Nonostante il processo di secolarizzazione dell’istituto matrimoniale, l’influenza del ius sacrum sul ius civile o laico che dir si voglia della repubblica resta determinante e fondamentale. Non tanto per la sopravvivenza durante tutta la repubblica di norme di ius sacrum, quanto per la ricezione nel ius civile di aspetti essenziali della struttura assunta dal matrimonio nel ius sacrum. Il matrimonio resta anche per il ius civile un rapporto instaurato dai coniugi per la procreazione. Anche per il ius civile a contrarlo sono i coniugi, benché alieni iuris. Continua a costituirlo un loro atto di volontà iniziale, cui segue la volontà continua di mantenerlo in vita. Per il ius sacrum era sufficiente la volontà continua del marito. Per il ius civile dell’ultima repubblica si aggiunge la volontà continua della moglie, poiché anch’essa ha la facoltà di divorziare. Per il ius sacrum pare non fosse essenziale al matrimonio l’esercizio della manus del marito sulla moglie. Per il ius civile questo dato diviene sempre più certo e sicuro con il trascorrere del tempo.

Il ius civile accoglie e accentua aspetti fondamentali del matrimonio sacro. Altri, invece, sono progressivamente attenuati o respinti, mediante un processo storico che abbastanza frequentemente trova nello stesso ius sacrum il punto di partenza. Viene abbandonato il formalismo religioso dell’atto costitutivo e risolutivo del rapporto matrimoniale. Si limita fortemente il principio dell’endogamia. Avrebbe però iniziato lo stesso ius sacrum, creando la confarreatio quale matrimonio intergentilizio. Nell’alta repubblica cade il divieto di matrimonio fra plebei e patrizi; nell’ultima repubblica anche i clienti possono sposare fuori dalla gens cui appartengono e si riconosce validità al matrimonio fra ingenui e liberti. Rimane proibito, almeno in linea di principio, il matrimonio con gli stranieri. Il ius sacrum riconosce al titolare della manus il ius occidendi e vendendi. Il ius civile comprime drasticamente questi diritti, ma già il ius sacrum ne avrebbe evitato gli abusi.

In un punto fondamentale la concezione sacra del matrimonio si contrappone irriducibilmente a quella laica: nel considerare le contravvenzioni agli obblighi assunti con il matrimonio quali offese alla divinità e non quali lesioni dei diritti spettanti all’altro soggetto del rapporto coniugale. Ma ciò dipende non da un modo diverso di concepire il matrimonio, ma da un diverso modo di concepire il diritto, quale insieme di norme che regolano i rapporti di una collettività di soggetti con la divinità e non quale insieme di norme che regolano i rapporti che i soggetti di una collettività instaurano tra loro. Ma anche sotto questo aspetto vi è un momento storico di contatto fra ius sacrum e ius civile. Lo si ha quando i censori tutelano il valore che per la collettività intera ha il matrimonio e puniscono il marito che divorzia senza motivo, sia pure infliggendogli sanzioni che non sono più di natura religiosa.

 

E) Se la secolarizzazione dell’istituto matrimoniale comincia già dall’età monarchica e procede per gradi, il ius sacrum coesiste, in questo processo storico, con il ius civile. Ma la coesistenza dei due ordinamenti, oltre che per ragioni storiche, si imporrebbe per ragioni di sostanza. Già in età risalente non tutti gli effetti del matrimonio sono disciplinati dal ius sacrum. È il ius civile ad esempio a stabilire che sia il marito ad attribuire alla moglie il domicilio, il nome, la posizione sociale e a determinarne la condizione patrimoniale della famiglia.

 

 

 



[1] Il numero tra parentesi è quello, cui si rimanda, di un paragrafo del libro seguente: R. Astolfi, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, Napoli 2017. Così anche in tutte le pagine successive.

[2] La critica alla teoria contraria è contenuta nei §§ 51; 55; 56; 62; 66; 67.

[3] Una critica alla tesi dell’assorbimento è nei §§ 54; 59.

[4] Se invece il marito divenisse sui iuris per emancipazione, la manus resterebbe al padre. Alla morte del padre si estinguerebbe e la moglie diverrebbe sui iuris anche se il marito fosse ancora vivo.

[5] Gai. 3.84 e 104; 4.38; § 52.

[6] Per un’analisi critica della tesi che lo nega cfr. §§ 53-55; 60; 62.

[7] Gai. 1.148; 3.159; 3.41; Coll. 16.2.3.

[8] Gai. 1.115b; 2.139 e 159; 3.14 e 41.

[9] Gai. 1.118 e 118a; 4.80; § 55.

[10] Per un’analisi critica della tesi che limita l’equiparazione della moglie alla figlia nei soli casi in cui ciò torna di vantaggio alla moglie cfr. §§ 41; 55; 62.

[11] L’accostamento con la patria potestas è fatto mediante elencazione, la quale, di solito, è la seguente: potestas, manus, mancipium. All’elencazione si accompagna, di regola, l’indicazione del regime comune. Esempi di fonti legislative: Vat. frag. 298; lex Salp. 22. Esempi di fonti giurispr.: Gai. 1.49; 1.142; 2.86; 2.90; 2.96; 3.163; 3.104; 3.114; Vat. frag. 51; Ep. Ulp. 19.18; 24.23 e 24. Esempi di fonti letterarie: Val. Prob. notae iuris 6.24, MMP (FIRA 22, 1968, 458).

[12] Distinzione fra patria potestas e manus. Esempi: Gai. 2.90; 1.55 ss.; 1.108 ss.; 4.80.

[13] Va però ricordato come talvolta le fonti indichino con manus sia la patria potestas sia ogni potere, compreso quello del tutore, che si esercita su una persona libera o schiava. Esempi di fonti giuridiche ove manus equivale a patria potestas: I. 1.12.6; C. 7.40.1.2 (a. 530); C. 8.48.6 (a. 531). Esempi di fonti giuridiche ove manus indica la dominica potestas: D. 1.1.4; I. 1.3.3; I. 1.5 pr.; C. 6.2.21.1 (a. 530). Esempi di fonti non giuridiche in cui manus indica patria potestas: Liv. 3.45.2; 34.2.11; Plin. ep. 8.18.4; Tac. ann. 15.19.1. Esempi di fonti non giuridiche in cui manus significa tutela: Liv. 34.2.11; 39.9.7; Quint. inst. orat. 7.7.9. Le citazioni di fonti in questa nota e nelle due precedenti provengono dalla preziosa ricerca di E. Volterra, Nuove ricerche sulla conventio in manum, Roma, 1966, in part. pagg. 262; 272.

[14] Nuove ricerche sulla conventio in manum cit. 251.

[15] R. Fiori, Homo sacer, Napoli, 1996, 232; 519; BIDR 96-97, 1993-94, 465; 477.

[16] Nel § 50 la critica all’ipotesi di Hanard, che ritiene essere quella fiduciaria la funzione originaria della coemptio.

[17] Gai. 1.137a; §§ 20; 42; 45.

* In questa terza parte dell’elaborato, la denominazione ius civile significa “diritto laico”, in contrapposto alla denominazione ius sacrum.

[18] Questa definizione di ius sacrum è dovuta a P. Voci, Studi di diritto romano 1, Padova, 1985, 211 ss.