Università di Torino
LA DEMOCRAZIA DI VIRGILIO MURA.
IN RICORDO DI UN RELATIVISTA IRONICO
«Riconoscere la validità relativa delle proprie convinzioni,
e tuttavia combattere inflessibilmente per esse,
è ciò che distingue l'uomo civile dal barbaro».
J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia
(tr. it. 1964)
Ci siamo conosciuti e ritrovati per più di mezzo secolo. La nostra era un’amicizia anzitutto personale e privata. Di cui non mette conto parlare. Ma era anche un’amicizia di studi. Abbiamo condiviso una prima stagione del nostro percorso postlaurea, allora non esisteva il dottorato di ricerca, abbiamo compiuto carriere parallele e sul terreno degli studi ci siamo incontrati e abbiamo discusso tante volte. Avevo piacere a inviargli le cose che scrivevo, magari solo le più impegnative, e mi piaceva ricevere le sue. I nostri campi disciplinari erano diversi. Lui era e si sentiva un filosofo politico, io mi occupavo di quella che si usa chiamare scienza politica. Non sono mondi distanti, anzi, a esser seri, si confondono. L’accademia ha una risaputa passione per le linee di confine, ma sono linee artificiose, dettate, manco a dirlo, da convenienze accademiche. Per carattere, avevamo una discreta inclinazione a ignorarle. Avevamo anche qualche sintonia politica. Senza manifestare troppi slanci, quando capitava, ne parlavamo: poco, a dire il vero, ma ci capivamo. Mi sono sempre ritrovato col relativismo civile, misurato, tenace, che ha ispirato gran parte dei suoi lavori, la sua attenzione per la politica e forsanche il suo modo di vivere la vita.
Tra i tanti suoi scritti c’è l’imbarazzo della scelta. Per quanto mi riguarda, uno spicca sugli altri. Ed è l’imponente volume dedicato e intitolato alle Categorie della politica. Con un sottotitolo molto rappresentativo, nel suo understatement, del temperamento del suo autore: Elementi per una teoria generale. Pubblicato da un editore torinese, Giappichelli, prova forse della sua affezione per Torino, il libro apparve nel 1997. Lui aveva da poco superato la soglia dei cinquant’anni, da almeno un decennio era professore ordinario – si diceva ancora «in cattedra» – e, evidentemente si era ritenuto maturo per compiere uno sforzo ambizioso di riordinamento, per tracciare una mappa circostanziata di temi e di concetti riguardanti la politica. Nasceva, quel libro, sta scritto in premessa, dalla sua esperienza didattica, aggiornava alcuni lavori precedenti, ma era sopra ogni cosa il frutto di un’enorme mole di letture, riflessioni, discussioni, animate anche da una passione civile tanto intensa, quanto discreta. Mura si ascriveva a una scuola, quella dell’«analisi concettuale» e proprio in quanto tale quel libro costituisce tuttora un contributo prezioso su ambedue i lati del confine che separa filosofia e scienza politica, in continuità con una tradizione nobilitata nell’ultimo mezzo secolo da Norberto Bobbio e da Giovanni Sartori.
Ho molto frequentato quelle pagine, perché i concetti, specie se non sacralizzati, ma accettando la loro fragilità, caducità, flessibilità, sono fondamentali per intendersi e farsi intendere. La mappa disegnata in quelle pagine l’ho utilizzata tante volte, anche con gli studenti, quantunque le sue dimensioni mi abbiano scoraggiato dal prescriverla come libro di testo. Non ne abbiamo mai discusso insieme, se non di fretta. Vorrei provare a rimediare, seppur limitandomi a ripercorre la sua ultima parte, quella dedicata alla democrazia. È l’omaggio che mi sento di rendergli. Avendo ultimamente ripreso in mano quel libro, perché s’incontra con le mie attuali curiosità, ci ho trovato un’aria di famiglia, ma mi è sorto anche qualche dubbio, pur se secondario, rispetto a qualche suo argomento. Proverò a manifestarlo. Purtroppo, la discussione è asimmetrica, lui non potrà controbattere. Esiste però forse, come sostiene qualche fisico illustre, qualche mondo parallelo in cui potrebbe capitare di ritrovarsi. Chissà?
Alla democrazia sono dedicate le ultime centoventi pagine del libro. Un quarto dell’intero volume. Non c’è tutto, ma vi sono molte delle cose che si potevano dire alla soglia del nuovo millennio. Non era una stagione qualsiasi. Otto anni prima era caduto il Muro di Berlino. Il crollo si era portato appresso il socialismo reale, che comunque vacillava fin dalla primavera di Praga, e anche la socialdemocrazia ne fu coinvolta. Si era caratterizzata per il tentativo di conciliare, tramite le politiche egualitarie e redistributive del welfare, la democrazia liberale, quella che Bobbio ha identificato con le procedure, con quella che sempre Bobbio chiamava la democrazia sostanziale. Non aveva, la socialdemocrazia, suscitato una grande teoria: forse lo sforzo più prossimo era quello compiuto da T.H. Marshall, estendendo l’impiego del linguaggio dei diritti e includendo tra questi ultimi i diritti sociali, che comunque, per loro natura, erano subordinati ai diritti politici: dipendevano dall’azione attiva dello Stato. Dunque, da scelte politiche, effettuate nel rispetto dei diritti politici.
Quando vent’anni prima, intercettando il travaglio del Partito comunista sulla via che conduce dall’opposizione «di sistema» al governo, Bobbio aveva ribadito la centralità e la preminenza delle procedure, ne era nato un dibattito molto animato, che aveva coinvolto personalità politiche e figure intellettuali di alto livello, appartenenti alla sinistra. Ma l’esito era stato modesto. L’idea di arricchire la democrazia e di non tagliare i ponti col socialismo, formulata con grande passione da Pietro Ingrao, stava divenendo un orizzonte irraggiungibile. Alla fine degli anni ‘80, il socialismo era stato archiviato; la democrazia appariva l’unica prospettiva possibile ed era diventata esclusivamente liberale.
Cosa liberale significhi non è chiarissimo: erano liberali tanto Keynes quanto Beveridge. Confrontarli coi liberali in circolo di questi tempi sarebbe far loro un torto gravissimo. Comunque, negli anni ’90 nessuno aveva cancellato i diritti sociali, ma era chiaro come fossero ormai a piena disposizione della politica. Che, lungi dal difenderli, li ha senza esitazioni sottomessi alle sue convenienze elettorali e alle pretese del mercato. Come vi ha sottomesso tutto il resto. L’autoreferenzialità della politica era uno dei suoi vizi più gravi: insormontabile, secondo Danilo Zolo, uno dei principali interlocutori intellettuali di Virgilio Mura. Dalla democrazia, pertanto, non c’era da aspettarsi granché, anzi c’era da aspettarsi pochissimo, specie a seguito delle enormi capacità di manipolazione che essa aveva concesso ai mass media, a loro volta sottomessi pressoché integralmente alle logiche commerciali. Quel poco che restava, i diritti civili e politici, non era insignificante e andava difeso tenacemente, ma il rischio che fossero compressi ulteriormente, confermato dagli eventi successivi, era attualissimo. Mura offriva il suo severo contributo critico, ma compiva anche un gesto politico. Nessun lamento nostalgico del bel tempo che fu, né alcun segno alla resa. Ma un’attenta ricognizione della realtà effettuale e un invito accorato al civismo: era per lui un’arma essenziale per consentire alla democrazia, anche ridotta al suo nocciolo minimo, di sopravvivere.
La ricognizione inizia dai fondamenti. Dalla parola e dal suo significato: dal demos e dal kratos. Ovvero dall’esperienza della democrazia greca, che è un precedente perennemente citato e anche trasfigurato in prospettiva normativa, anche se del tutto inattuale. Il popolo della democrazia greca era un popolo ristretto, che, escludeva le donne, gli schiavi, gli stranieri insediati in città. Era, stando alla definizione aristotelica, il governo di molti, opposto a quello dei pochi o di uno solo, ma i molti erano pochi ed erano un gruppo privilegiato. I cui membri si ritenevano liberi e uguali tra loro in quanto si riunivano in assemblea per governarsi, partecipando attivamente alla vita pubblica, ma che non riusciva comunque a prescindere da una qualche divisione del lavoro, seppure fluida e non professionale, per svolgere le funzioni esecutive. A suo modo, nel contesto della polis, il modello funzionava, ma neanche troppo. Non solo le sue manifestazioni storiche erano instabili quanto mai, ma di continuo lo inquinavano, anche nei momenti più felici, palesi tensioni oligarchiche. È esemplare la contraddittorietà dell’elogio pronunciato da Pericle. Ammesso che sia credibile, cos’hanno allora da imparare dalla polis le moderne tecniche di governo, alla luce del numero infinitamente più elevato dei loro sottoposti e della complessità delle questioni che tocca loro trattare?
Se la polis va lasciata alla sua storia, non è più realistica la prospettiva normativa di Rousseau, un autore che Mura ha molto frequentato. In nome della piena libertà degli individui, proponeva apertamente l’esercizio diretto da parte del popolo della propria sovranità, evidenziando i limiti insormontabili della rappresentanza politica, salvo accettare, quanto meno entro la sfera del potere esecutivo, l’istituto della delega: seppur vincolante e fondata sul mandato imperativo. Alla possibilità di realizzare il suo modello Rousseau non credeva neanche un poco. Eppure, le sue idee che periodicamente si riaffacciano nel dibattito pubblico e sono fonte d’ispirazione per chiunque immagini qualche alternativa radicale al regime rappresentativo che voglia definirsi democratica. Vi si sono ispirate altresì le varie concezioni «partecipazioniste» e antielitiste fiorite, specie nel mondo anglosassone, nell’ultimo mezzo secolo e perfino i modesti correttivi partecipativi da qualche tempo in voga un po’ dappertutto, che lasciano filtrare qualche modestissimo refolo – a volte anche ambivalente – di governo del popolo nella spessa corazza elitista delle democrazie avanzate. Fondamentali e ineludibili sono rimasti in compenso gli argomenti della critica di Rousseau alla rappresentanza e ad essi si sono appellati sia i critici conservatori del regime rappresentativo, sia i sostenitori di quest’ultimo, che si sono rassegnati a considerarla una «finzione», seppure senza rinunciarvi.
Posto che il grande inghippo in cui s’imbatte la teoria democratica sono le aporie della rappresentanza, che realisticamente è irrinunciabile, non resta che una possibilità: rivedere le aspettative, o i principi fondanti, della rappresentanza stessa e della democrazia. Ritenendo troppo costoso rinunciare alla capacità evocativa e all’efficacia legittimante del governo del popolo, il quale era vieppiù chiamato in causa dalle liturgie elettorali, il significato della parola democrazia è stato ridisegnato. Il «ridimensionamento dell’ideale» è quanto hanno fatto sia coloro che adottavano una prospettiva normativa, sia quanti ne adottavano una empirica. I teorici della democrazia liberale hanno così confermato il principio dei limiti dello Stato a tutela della libertà degli individui e hanno attribuito alla rappresentanza politica, pur con tutti i suoi limiti, e alle elezioni, un qualche valore democratico, in quanto dispositivo di ascolto, seppur imperfetto, delle preferenze degli elettori. Sono capacità di ascolto molto circoscritte, difficili da misurare. Chi ha dovuto definirle in termini di «rispondenza» alle preferenze e esigenze degli elettori, ha dovuto rinunciare all’idea, anche se nei testi canonici il concetto rimane. Sartori la mette in termini di feedback: ai pretendenti alla rappresentanza conviene anticipare le preferenze degli elettori. Dopotutto, se così fosse, ciò renderebbe la rappresentanza almeno un poco rappresentativa. Anche se sull’anticipazione ha probabilmente da ultimo avuto il sopravvento la manipolazione – quella che i media di ultima generazione hanno largamente facilitato – in qualche modo bilanciata dalle luci dell’accountability.
I ridimensionamenti dell’ideale democratico sono numerosi. Mura si sofferma in special modo su tre. Sul ridimensionamento operato dal pluralismo democratico americano, su quello kelseniano e su quello schumpeteriano. E li esamina in dettaglio. Il primo ridimensionamento è, sono in pieno accordo, quanto mai deludente. È una dottrina che, da un lato corrisponde alla diffidenza ben radicata oltre oceano nei confronti del governo e dall’altro attribuisce valore democratico al pluralismo sociale che struttura, anche politicamente la società, storicamente refrattaria al concetto di classe. A qualificare la democrazia americana sarebbero, oltre alle modalità di funzionamento e d’azione delle autorità democraticamente elette, le spontanee armonie suscitate dall’autogoverno concorrenziale dei gruppi che affollano la vita collettiva. Non fosse che l’esperienza americana mette in mostra effetti che ledono gravemente i principi di libertà e di uguaglianza. Tali che pure coloro che hanno ricavato un modello da quell’esperienza hanno finito per denunciarli: non tutti i gruppi sono uguali tra loro, le capacità negoziali sono vistosamente asimmetriche, i potentati economici fruiscono di una condizione impressionante di vantaggio. Ancora meno il modello regge a tener conto degli sviluppi più recenti della democrazia americana: l’esaurimento della grande tradizione associativa, la liberalizzazione dei finanziamenti privati alle campagne elettorali, le gravi distorsioni introdotte nelle procedure di voto. Negli stati a guida repubblicana è stato attivamente promosso uno spregiudicato processo di disenfranchisement a spese dell’elettorato afroamericano e ispanico. Se in passato le elezioni riuscivano ad attenuare la preminenza dei potentati economici, di recente, questa possibilità si è gravemente indebolita.
Un secondo ridimensionamento è quello operato da Kelsen, che ripropone l’ideale dell’autogoverno, ma lo riduce ad autogoverno dei più, filtrato – e inficiato – dalla finzione della rappresentanza politica. L’idea di fondare l’azione di governo sull’unanimità è del tutto implausibile, fra le altre cose perché attribuirebbe alle minoranze un assurdo potere di veto. Quindi la decisione a maggioranza è un’approssimazione accettabile, specie se accompagnata da un’effettiva disponibilità al «compromesso», che, sia pure in misura diversa, soddisfi tutte le parti in causa, riducendo le controindicazioni esclusive del governo dei più. L’istituzione per sua conformazione più vocata alla stipula di compromessi sarebbe il parlamento. La conclusione è discutibile, perché, come insegna l’esperienza, se da un lato gli incentivi parlamentari al compromesso hanno solitamente operato con efficacia, il parlamento può essere anche il luogo in cui si esibiscono e aggravano i contrasti. Kelsen però non si arresta a questo punto, in quanto aggiunge un altro elemento, per nulla secondario alle istituzioni della democrazia. Non c’è democrazia, egli sostiene, senza partiti politici. Posto che è la stessa competizione elettorale che induce a dar vita ai partiti, questi ultimi costituiscono un rimedio alla fragilità dell’«individuo isolato», il quale, ove non si aggreghi con altri, è condannato all’irrilevanza. Kelsen ha letto Michels e ben conosce la «legge di ferro dell’oligarchia». È consapevole che i partiti sono portavoce d’interessi parziali. Ma, mentre l’ideale dell’interesse generale gli appare una mistificazione conservatrice, tramite il compromesso ritiene si possano conciliare interessi eterogenei veicolati dai partiti e lasciare al tempo stesso filtrare un sottile refolo di autogoverno – mediato quanto basta e non proprio imputabile agli individui. Se non che: questa è stata l’esperienza nell’età d’oro dei partiti, che si è esaurita da tempo. Da quando, per varie ragioni, questi ultimi si sono trasformati in istituzioni autoreferenziali, quel refolo è stato soffocato e ancora non s’intravedono accettabili sostituti: i tempi danno ragione, pertanto, alle riserve di Mura nei confronti di Kelsen.
In fine: la preferenza di Mura va dichiaratamente a Schumpeter. Mi piace pensare che a ravvicinarli fosse anche il temperamento ironico condiviso da entrambi. Molto vivace quello dell’economista americano, molto misurato quello del nostro amico di Sassari. Schumpeter era un economista nostalgico del capitalismo concorrenziale, che constatava la sua imminente atrofia e che però ritrovava la concorrenza nella sfera politica. Questo il suo argomento. Posto che gli individui, allorché entrano nella sfera della politica, perdono più o meno il senno, non c’è da far troppo conto nemmeno sulle loro capacità di scelta tra le élites che partecipano alla contesa per la rappresentanza. Del resto, è l’offerta che guida la domanda e piuttosto le élites che si contendono il consenso popolare. Di autogoverno, nemmeno un minimo refolo. La selezione competitiva ha però il pregio di assicurare qualche spazio alla libertà degli individui. Per Mura, che condivide il ridimensionamento di Schumpeter, il «governo approvato dal popolo» tramite elezioni competitive, è in conclusione la definizione più realistica di democrazia che si possa formulare. Ma il realismo non mette la democrazia al riparo da due vizi capitali e che sono la ragione della loro attuale crisi: da un lato la clandestinizzazione del potere, dall’altro il particolarismo esasperato degli interessi. Come si tutela la democrazia?
Mura condivide l’idea schumpeteriana, che vanta anche illustri precedenti, dell’«autocontrollo» dei cittadini, singoli e organizzati. Ovvero, la divisione del lavoro tra governanti e governati andrebbe rispettata, tra un’elezione e l’altra. Se non che, è una contraddizione aspettarselo e Schumpeter lo sapeva. Che i governati si risveglino solo in occasione delle elezioni e consentano ai governanti di governare in piena indipendenza è una chimera. Si può allora puntare su un’azione di vigilanza esercitata dai cittadini, quantomeno a favore dei loro diritti fondamentali? Forse si. Ma andrebbero educati a questo fine. Da chi? Chi, di questi tempi, ha convenienza a educarli, quando può profittare della loro scarsa educazione? In passato, qualche convenienza l’avevano i partiti, che si opponevano all’ordine stabilito delle cose e ne immaginavano – strumentalmente per Schumpeter, ma poco importa – uno diverso e che, mentre trasformavamo in rivendicazioni gli interessi latenti dei governati, al tempo stesso li coinvolgevano e li educavano. Ma chi, all’alba del terzo millennio, ha una siffatta convenienza, quando può avvalersi a costi più bassi, o comunque con meno fatica, dei media, trattando i cittadini da consumatori da sedurre? È semmai da notare la convergenza: per plasmare i cittadini quali consumatori il Mercato ha mezzi ben più possenti e al tempo stesso li plasma come elettori. Questi ultimi spesse volte si sottraggono. Sono meno passivi di quanto sembri. Ma in assenza di offerte alternative, il dissenso alimenta soprattutto il bacino del non voto.
La democrazia elitista di Schumpeter promette poco, ma non si autosostiene ed è anch’essa condannata all’instabilità. Resta ancora qualche alternativa che renda apprezzabile il preteso governo del popolo? Virgilio Mura, purtroppo, non può rispondermi: ma per quanto mi riguarda l’alternativa richiede di abbassare un’altra volta le attese e pensare la democrazia in altro modo. La disputa tra le prospettive assiologiche, empiriche e intermedie verte in primo luogo sulla quantità di autogoverno che le istituzioni democratiche consentono o devono consentire. Schumpeter, che è il più severo, riduce l’autogoverno al momento del voto, ma non lo considera nemmeno tale. Forse sarebbe più realistico ammettere che i regimi democratici non sono fatti per mantenere la promessa che portano nel nome, ma hanno altri scopi. Cosa li qualifica allora? Proviamo a rivolgerci alla storia: come, perché, in quali circostanze tali regimi sono nati, e come si sono evoluti? Anche questa è una scelta discutibile. Ciascuno la storia la legge e la racconta a modo suo. Ma forse è un terreno su cui è più facile trovare un’intesa.
Un autore che ho trovato di grande aiuto, illustre di suo, ma rafforzato dalla sua ispirazione weberiana, è Norbert Elias. Il quale, avendo in mente l’impianto del regime rappresentativo, avvenuto in Inghilterra, all’indomani della guerra civile e della dittatura del Lord Protettore, sostiene che i regimi democratici furono inventati per pacificare la conduzione dei conflitti e l’azione di governo. È un punto di vista che merita attenzione e nemmeno troppo riduttivo. E in fin dei conti un fondamento hobbesiano: il regime rappresentativo-democratico si fonda sull’istinto di sopravvivenza. Anziché sottomettersi a un sovrano, stavolta più realisticamente sono i pretendenti al potere che hanno deciso di civilizzare le relazioni tra loro e quelle coi governati. Hanno perciò escogitato un metodo pacifico sia per misurare i rispettivi rapporti di forza, sia per dirimere le loro controversie, sia per coinvolgere i governati: le elezioni e la discussione in parlamento. Le circostanze storiche hanno indotto i contendenti a stipulare un «armistizio». Il quale prevedeva il riconoscimento tanto del pluralismo sociale, religioso, politico, quanto di spazi di autonomia ai governati. Al fondo si può perfino intravedere un ristretto, ma non troppo, nucleo valoriale. Era una scelta tra il ragionamento e la forza, tra la vita e la morte e un omaggio alla finitezza umana: nessuna ragione aveva titoli sufficienti per sopraffare le ragioni altrui. Una vocazione al relativismo, tanto caro all’amico Mura, era inscritta nel nuovo metodo di governo.
È inutile precisare che le applicazioni pratiche di tale metodo sono state intrinsecamente tanto imperfette quanto instabili. In primo luogo, una quota non secondaria di pluralismo è stata sempre censurata: da un lato circoscrivendo il perimetro della rappresentanza, dall’altro affidando una quota dell’azione di governo a istituzioni non democratiche, come la burocrazia. In secondo luogo, anche nei momenti più propizi la violenza circolante nella vita collettiva non è stata rimossa per intero. Una parte è stata utilizzata, legittimamente e non, nell’esercizio del potere e nella contesa per esso: la linea di confine tra esercizio e contesa è spesso vaga. Soprattutto però, allorquando l’equilibrio per qualche ragione si è spezzato, quando qualche parte politica ha ritenuto conveniente sconfessare l’armistizio, se non ha incontrato chi la contrastasse efficacemente, è ricomparsa la violenza: il fascismo è stato uno di questi casi, non il solo, né il primo. Alla violenza hanno fatto ricorso anche i più deboli, quando le loro ragioni non hanno trovato ascolto mediante i complicati percorsi della rappresentanza. Nei tempi lunghi della storia, le situazioni di squilibrio e di violenza, quelle in cui le forze «messe a regime» dal regime rappresentativo-democratico, se è consentito il bisticcio, traboccano e prendono un altro corso, non vanno pertanto ritenute l’eccezione, ma sono solo una scomoda e imbarazzante parte della regola. Per fortuna, anche il ritorno alla violenza è instabile e prima o dopo sollecita altre forze che, magari con la violenza, concorrono alla stipula di un nuovo armistizio e al ripristino del metodo pacifico di soluzione dei conflitti.
La conclusione non è consolatoria. Il ragionamento testé condotto vuol solo rammentare che lo stato armistiziale su cui si regge ogni regime democratico è fragile e dipende sempre da un qualche equilibrio di forze, non agevole da mantenere. Anzitutto perché, le forze in campo sono esse stesse instabili: c’è chi guadagna potere e chi ne perde, chi dispone di capacità tattiche e strategiche e chi ne è privo, chi può far valere qualche minaccia di ricorso alla coercizione e chi dispone del potenziale persuasivo del denaro. E altro ancora: nonostante la centralità delle elezioni, le partite di potere non si giocano solo in quella sede. Tanta fragilità dovrebbe essere un invito alla democrazia affinché sia molto umile e ai suoi attori a non disarmare.
Un ulteriore motivo di umiltà sta nel fatto che la violenza risparmiata forse non svanisce nel nulla. Storicamente, è più che un’ipotesi: si è riversata fuori dai confini nazionali e continentali e di lì spesso è tornata indietro. Negli ultimi tempi la violenza risparmiata sta tornando di nuovo a riversarsi massicciamente all’esterno e sono forse già in atto nuovi ritorni all’indietro. Stavolta, le apparenze dei regimi democratici a prima vista resistono. Ma i poteri di fatto sono divenuti più opprimenti e la contesa politica e l’azione di governo si mostrano più brutali. È questo il segno che l’equilibrio si è spezzato e che l’armistizio democratico è stato sovvertito, seppur risparmiando o mimetizzando la violenza? Rispetto al passato sarebbe un’innovazione. Che mimetizzerebbe il fatto che, in assenza di contropoteri, qualcuno ha preso il sopravvento. Quanto ci vorrà perché qualcun altro lo bilanci?