Individui, comunità, comunicazione.
Rileggendo Karl O. Apel
Università di Siena
SommaRiO: 1. Contraenti solitari. – 2. Comunità e comunicazione. – 3. Una comunità proceduralmente corretta. – Abstract.
Alle soglie della modernità, i miti di fondazione narrati dai contrattualisti ci dicono che la società dovrebbe trarre origine dalla similitudine – e dalla solitudine – di individui separati. Le diverse concezioni dello ‘stato di natura’ espresse dai contrattualisti, in particolare quelle dei due apparentemente più distanti Hobbes e Rousseau, condividono infatti una concezione della condizione originaria sostanzialmente identica: l'essere umano viene descritto da entrambi come un individuo privo di relazione con i propri simili e avulso da un qualsiasi contesto comunitario. Un individuo solo, in attesa dello Stato. Niente famiglia, clan, tribù; nessun 'gruppo intermedio' cui appartenere per riceverne un'identità. Sia Hobbes che Rousseau disegnano i loro patti sociali sul profilo di un esemplare umano isolato e autosufficiente: il passaggio dall'io individuale all'Io collettivo non può essere altro che organicistico e totalitario. Che lo stato di natura di partenza sia un bellum omnium contra omnes oppure un'età dell'oro, fa ben poca differenza.
Nel modello di Hobbes ogni possibilità comunitaria viene negata perché all'origine della politica è posta la paura. Alimentata dal principio di autoconservazione individuale, essa spinge all'inflazione del potere in uno spazio economico competitivo, innescando la reazione a catena della mutua aggressione il cui unico esito possibile è l'annientamento e l'estinzione. Negando radicalmente il presupposto aristotelico del politikòn zôon, della naturale socievolezza dell'uomo, l'antropologia che sta alla base della teoria politica di Hobbes può essere interpretata come una reazione semplificatrice rispetto all'inestricabile complessità del 'con-' su cui si struttura qualsiasi esperienza comunitaria. Nel passaggio dallo stato di natura allo stato di diritto, ogni legame sociale viene significativamente eliminato: se la relazione comunitaria lasciata a se stessa è causa di continua aggressione e guerra, allora bisogna unire gli uomini con un patto che li renda immuni dal contatto tra loro. L'unità (e la pace) si ottiene per mezzo della divisione e della separazione: «gli uomini vanno adesso associati nella modalità della reciproca dissociazione, unificati nella eliminazione di ogni interesse che non sia quello puramente individuale. Artificialmente accomunati nella sottrazione della comunità»[1]. La violenza originaria che caratterizzava lo stato di natura si trasferisce così intatta nella violenza 'legittima' dello stato assoluto, del Leviatano, che rimane l'unico soggetto a conservare il diritto naturale in un contesto in cui tutti hanno deposto il proprio. Dalla somma di tante negazioni è difficile che possa derivare un potere positivo.
Rousseau si presenta come l'anti-Hobbes che accusa il filosofo inglese di avere confuso lo stato di natura con lo stato civile, caratterizzandolo con dei tratti storici derivati dal contesto sociale del suo tempo. Per Rousseau lo stato di natura sembra invece avere il senso di un inizio a-storico, di per sé né conflittuale né pacifico, caratterizzato dalla pura negatività dell'assenza di ogni rapporto tra gli esseri umani. Ma non resta a lungo fedele logicamente a questo assunto di partenza, perché ha bisogno di connotare positivamente lo stato originario (l'età dell'oro) per contrapporlo alla degenerazione della società civile. La civiltà nasce dalla colpa: c'è un 'prima' (lo stato di natura) e un 'dopo' (lo stato di diritto), legati tra loro dalla caduta e dalla corruzione. La storia, la tecnica, la civiltà, ma anche il tempo e la morte, si spiegherebbero con la perdita di quel precedente stato puro e innocente. Rousseau dunque critica Hobbes per la sua concezione che gli uomini siano uniti soltanto da una comune schiavitù, ma giunge a caratterizzare lo stato di natura sull'identico paradigma di un individuo chiuso nella sua assoluta, presunta compiutezza: «egli spezza il nesso consequenziale tra individualismo e assolutismo stabilito da Hobbes; ma lo fa attraverso una ridefinizione dello stato naturale connotata in chiave ancora più assolutamente individualistica»[2]. Se l'esito di Hobbes è assolutistico, quello di Rousseau appare esposto alla deriva totalitaria, perché una comunità modellata sull'idea di un individuo isolato e autosufficiente non può che evolversi nel mito di un Io-collettivo dominato dalla Volontà Generale: «nel mito, precisamente, di una comunità trasparente a se stessa in cui ciascuno comunica all'altro la propria essenza comunitaria. Il proprio sogno di autoimmanenza. Senza nessuna mediazione, filtro, segno che interrompa la fusione reciproca delle coscienze; senza nessuna distanza, discontinuità, differenza nei confronti di un altro che non è più tale perché fa parte integrante dell'uno»[3].
In questi scenari, solo la legge – generale e astratta, impersonale come lo sono i destinatari delle sue disposizioni – potrà mantenere l'ordine sociale con le sue decisioni. In queste nuove società, l'alternativa alla violenza deve infatti spostare inevitabilmente il suo baricentro dalla possibilità della comunicazione, più o meno diretta, tra i protagonisti di un conflitto, verso la certezza di un giudizio prodotto da un potere esterno detentore dell'unica forza legittima: “giudicare” diventa una delle parole-chiave della modernità, perché meglio capace di descrivere la condotta standard dell'uomo sociale attuale. Se a dominare è il timore che l'altro possa prevaricarmi, usarmi, oggettivarmi, l'unico rimedio che ora ho a disposizione è di ricorrere a leggi severe che tutelino i miei spazi, le mie libertà, le mie ragioni; una tutela in cui l'altro minaccioso viene a sua volta oggettivato. Questa 'insocievole socievolezza' sotto l'egida della legge, tende a deformare il mondo reale in un immenso tribunale, in cui ogni richiesta non correttamente formalizzata viene condannata, ogni desiderio spontaneo deve fare i conti col diritto dell'altro, non con la sua comprensione. Giudicare è comodo, anche se costoso, perché alla fatica del riconoscimento sostituisce il distacco che appiattisce l'identità dell'altro su un insieme di diritti e doveri da rispettare: aiuta a tenere alta la guardia e a stare pronti per evitare ogni attacco[4].
Nella maggior parte dei miti di fondazione delle società tradizionali studiate dagli antropologi, si vedono invece emergere costantemente i tratti di un modello comunitario in cui la differenziazione è il prolungamento di un'unità che rifiuta l'uniformità: le differenze sociali, politiche e normative sono interpretate come complementari e vengono integrate in uno schema complesso di relazioni che non è né individualista né collettivista. A differenza dei contrattualisti che fondano la società sulla similitudine, questi altri miti mostrano che gli individui non possono organizzarsi se prima non si sono differenziati, perché sul piano sociale ogni categoria ha bisogno della sua vicina: «l'agricoltore, che non ha il diritto di lavorare il metallo, ha bisogno del fabbro che, non potendo lavorare la terra, attende il proprio nutrimento dal contadino; lo stesso agricoltore ha bisogno del signore della terra e del signore della pioggia, che non servirebbero a niente senza di lui; la legge dell'esogamia rende ogni stirpe tributaria delle altre, e così via»[5]. E’ il ritratto di una Gemeinschaft tenuta insieme da reti di doveri, non di una Gesellschaft formata da individui che pretendono soprattutto di avere dei diritti[6]. Queste forme di aggregazione hanno necessariamente dei modi di affrontare i propri conflitti spesso molto diversi da quelli prevalentemente diffusi nei contesti che consideriamo 'moderni'. Possono forse insegnarci qualcosa, specie se consideriamo il fatto che tutte le società umane sono state tradizionali molto più a lungo di quanto qualsiasi società sia mai stata moderna.
Quasi mezzo secolo fa, Karl Otto Apel si chiedeva se fosse possibile (ri)costruire una comunità umana basata sul gioco etico della comunicazione. Su un logos normativo vincolante che esprimesse un’etica della logica capace di proporsi come «macroetica dell’umanità sulla terra finita»[7]: «da una parte, infatti, mai il bisogno di un’etica universale, vincolante cioè per la società umana nel suo complesso, è stato così pressante come nell’epoca di questa nostra unificata civiltà planetaria messa in atto dalle conseguenze tecnologiche della scienza. Dall’altra, mai il compito filosofico d’una fondazione razionale di un’etica universale sembra essere tanto difficile, anzi senza speranza, come nell’epoca della scienza»[8], segnata dalla inverificabilità intersoggettiva dei giudizi di valore e dal conseguente non-cognitivismo etico. Apel ha sostenuto e sviluppato soprattutto un’idea: quella di una comunicazione illimitata, di uno spazio ideale che fosse significativo non solo dal punto di vista socio-linguistico, ma anche etico e politico. Originale connubio tra teoria critica, ermeneutica e sociologia, il suo è stato anche un tentativo di suscitare dubbi e obiezioni radicali intorno alla scena culturale del cosiddetto ‘postmoderno’.
Nella prospettiva di Apel, il tentativo di ricercare un’etica condivisa a partire dall'esperienza qualificata di una comunità argomentante, può essere visto costituire già di per sé un risultato etico, almeno nella misura in cui la comunicazione argomentativa sviluppata all'interno di esso presenti delle caratteristiche riconducibili a un’etica della logica[9]. Si tratterebbe di vedere se l'esercizio ermeneutico della 'ragione', nella forma di dimostrazione logico-razionale in campo scientifico e (probabilmente a fortiori, dato il fine dell'indagine) in quella di argomentazione ragionevole in campo assiologico, sia in grado di determinare da solo il corretto svolgimento della funzione intellettiva; o invece se risulti vincolato da presupposti pragmatici che ne determinino le condizioni di possibilità. Secondo Apel, tali presupposti costituirebbero parte integrante della logica; non nel senso di essere dei suoi 'contenuti' determinati, ma perché si porrebbero in una relazione trascendentale di necessità rispetto al corretto svolgimento della funzione intellettiva e dell'argomentazione. Tali presupposti rivelerebbero cioè l'esistenza di un importante nesso di implicazione pragmatica tra logica ed etica, nel senso che soltanto un sistema etico capace di riflettere nella propria costruzione l'universalità teorica dei criteri di riferimento, consentirebbe il completo dispiegarsi delle facoltà argomentative: il pieno sviluppo delle potenzialità umane di crescita civile sarebbe quindi legato al pieno sviluppo di ben determinati livelli dell'etica e della logica, in costante riferimento all'esistenza di una comunità ideale di comunicazione.
Trattando del presupposto del 'gioco linguistico' come condizione dei criteri di prova, dunque della validità del senso delle regole e della loro osservanza, Wittgenstein aveva affermato che «non è possibile che un solo uomo abbia seguito una regola una sola volta [...]»[10]; ciò significa, secondo Apel, che 'uno' non può seguire una regola 'da solo' e procurare validità al suo pensiero nel quadro di un linguaggio 'privato', poiché questo tipo di pensiero è per principio pubblico. A differenza di quanto accade nei metodi deliberativi consensualistico-fattuali, convenzionali e comunque rivolti al contingente (come quello maggioritario), dove la diaspora etica e intellettuale non ha praticamente rilevanza ai fini della decisione, nella comunità argomentante dedita alla ricerca di 'verità' logiche o assiologiche sarebbe invece indispensabile che i singoli rispettassero almeno quelle regole comunicative senza le quali la comunità stessa non verrebbe posta in condizioni di esistere e di operare utilmente: il mentitore sistematico o l'ostinato, irrazionale assertore della propria prevaricatrice volontà personale, starebbero insomma alla comunità della comunicazione argomentante come l'aggressore caotico o il violento eslege stanno alla società organizzata in base a norme. Anche l'etica della logica sembra quindi in qualche modo rispondere a delle esigenze archetipiche (e antropologiche) analoghe a quelle che hanno consentito l'emergere dell'ordine attraverso la legge, in quanto risposta all'imprevedibilità (e all'improduttività) del caos[11].
In proposito, anche Peirce ha rilevato come la ricerca di una 'verità' conoscitiva, dato che richiede l'accettazione postulatoria delle regole necessarie a quella stessa ricerca, non possa essere mai intrapresa da un individuo realmente finito e isolato: l'appartenenza alla comunità dell'argomentazione implicherebbe perciò un superamento a priori dell'egoismo tipico degli esseri finiti; una forma di auto-sacrificio in nome di una sorta di 'socialismo' logico[12]. Fenomeno facilmente riscontrabile, anche a livello del comportamento etico-pratico, in tutti coloro che sono veramente impegnati nel fare-scienza[13].
Tra logica, ermeneutica ed etica esisterebbe insomma una sorta di nesso 'ontologico', una struttura condizionante complessiva che deve venire globalmente accettata; oppure, se possibile, altrettanto globalmente negata. Immaginiamo ad esempio che il diavolo prenda parte alla comunità dell'argomentazione, con una riserva mentale strumentale (per migliorare le sue capacità di convinzione, o per padroneggiare delle conoscenze scientifiche) e senza desistere dalla sua malvagia volontà. Per dirla col Kant della Ragion pratica, egli si comporterebbe conformemente al dovere, senza agire in base al dovere. Ma appunto nell'ambito dell'etica della logica tale distinzione diviene irrilevante, perché non è possibile discernere tra norme di comportamento 'conformi al dovere' e norme di comportamento 'in base al dovere': rilevante non è l'argomento kantiano secondo cui anche i diavoli che sanno usare il loro intelletto possono comportarsi per principio in maniera 'conforme al dovere', bensì l'argomento che anche i diavoli devono, se vogliono diventare partecipi della verità, comportarsi conformemente al dovere. Dunque anche il diavolo, in quanto volesse essere membro della comunità dell'argomentazione, dovrebbe comportarsi per sempre in riferimento ai suoi membri (che sono tutti esseri ragionevoli) come se avesse superato il proprio egoismo: la riserva strumentale che gli era stata imputata perde così il suo significato, perché non può per principio venire verificata. In proposito Apel rileva come la ricerca della verità, dovendo anticipare insieme al presupposto del consenso intersoggettivo anche la morale di una comunità ideale della comunicazione, assuma l'aspetto di un moderno analogo della dottrina classica dei 'trascendentali': «Ciò che la metafisica classica assumeva sub specie aeternitatis come ente - l'identità di unum, bonum, verum - la moderna filosofia [...] deve assumerlo ancor sempre come postulato necessario dal punto di vista della critica del senso e - riguardo alla realizzazione - come 'principio speranza'»[14].
Di qui deriverebbe l'universalizzazione - non solo ideale, ma il più possibile reale - della competenza comunicativa in quanto requisito etico dell'argomentazione: se infatti la comunicazione razionale prevede che tutti i comunicanti siano visti come partner virtuali di una comunità di comunicazione, allora implica un'esigenza di riconoscimento reciproco quale vero e proprio requisito etico della logica[15]. E proprio il richiamo al concetto di 'riconoscimento' permette di comprendere meglio come per Apel la posizione di una norma fondamentale che consenta l'argomentazione etico-razionale non possa avvenire sul terreno semantico-sintattico delle singole proposizioni prescrittive, ma avvenga invece sul terreno del gioco linguistico nel suo complesso: un terreno nel quale l'intersoggettività pratica prevale nettamente sugli svolgimenti solipsistici della mente[16]. Dunque, all'interno della comunità argomentante non basta la passiva tolleranza delle altrui opinioni; è necessario il riconoscimento attivo dell'altro con le sue ragioni. Almeno finché duri - e perché possa durare - la comune ricerca intrapresa, l'etica (della logica) deve prevalere sull'ontologia: l''altro' è veramente 'come me' nel suo condividere i miei stessi strumenti di metodo e i miei stessi scopi, che senza di lui non riuscirei a perseguire; non è tanto un imperativo categorico di ordine morale quello che mi spinge a superare l'egoismo del mio 'esserci' per riconoscere nell'altro un'identica dignità ontologica, quanto la consapevolezza del fatto che altrimenti mi autoescluderei dalla comunità argomentante e dalle sue regole. Trasparenza linguistica, apertura mentale, altruismo intellettuale non sono qui degli optionals morali, ma delle necessità costitutive. La comunità dell'argomentazione appare proporsi quasi come modello di un'umanità pacificata nel nome della 'ragione' comunicativa.
Le idee di Apel sono state riprese e ampiamente sviluppate da Jürgen Habermas[17], sempre nel tentativo di fondare l’intero discorso morale a partire dalle leggi che regolano la comunicazione argomentativa: quel tipo di comunicazione in cui si esprime ogni vera proposizione etica, che cerca nel destinatario un consenso libero e basato su argomenti convincenti. L’etica del discorso non consiste solo nell’enunciare le norme che devono regolare l’agire comunicativo, ma nella loro concreta utilizzazione come criterio di validità dell’intero pensiero morale. Infatti qualsiasi discorso etico, anche il più solipsistico e isolato, si forma e si articola con gli strumenti del linguaggio; perciò presuppone un riferimento, anche solo implicito, a una comunità di parlanti, anche solo ipotetica o ideale. Ricostruire i presupposti normativi del discorso etico coincide con l’individuare i criteri della sua validità e quindi col dargli una fondazione, perché se ogni forma di pensiero morale e di codice etico è sempre oggetto di una qualche forma di comunicazione, allora è proprio all’interno di questa comunicazione che possono essere verificati la verità di quel pensiero e la validità di quei codici.
In cosa consistono le meta-leggi che costituiscono il presupposto insuperabile di ogni forma di argomentazione? Né Apel né Habermas ci dicono molto in proposito. La loro ricostruzione viene in un certo senso data per scontata, e al tempo stesso rappresenta un compito sempre aperto che si articola principalmente intorno a tre nuclei di esigenze logico-etiche: l’imparzialità, la veracità e la dialogicità. Imparzialità, o universalizzabilità, significa che nessuno dei comunicanti deve contraddirsi e che il linguaggio utilizzato deve avere lo stesso significato per tutti. La veracità esige che ciascun parlante affermi solo ciò in cui veramente crede. La dialogicità pretende la presenza del ricorso reale al libero confronto tra tutti gli interessati, per misurare in base al loro ragionato consenso la pretesa di validità delle diverse proposizioni etiche che vengono via via affermate. Si tratta evidentemente di leggi con un carattere esclusivamente formale-procedurale, che stabiliscono le regole del gioco comunicativo, non il suo risultato. Non prescrivono contenuti etici categoriali, non dicono cosa è giusto e cosa non lo è, né identificano principi dai quali inferire particolari valutazioni etiche. Parlano del come, non del cosa: si limitano a ricostruire le regole sempre sottostanti a ogni possibile discorso etico-normativo.
La Diskursethik di Apel costituisce sicuramente un riferimento essenziale per ogni tentativo di traduzione dell'istanza etica nei diversi ambiti della vita sociale, dalle relazioni interpersonali all'educazione, dalla politica all'economia, dall'informazione alle attività culturali. Il filo conduttore della sua ricerca è stato quello dell'estensione - e della trasformazione - del trascendentale kantiano da meccanismo 'formale' della sola conoscenza a strumento di focalizzazione delle condizioni universali e decisive della comunicazione e dunque della coesistenza umana. Se conoscere, comunicare e convivere sono i tre versanti inseparabili dell'esistenza, allora la comunicazione è realmente trascendentale perché rappresenta il termine che media tra gli altri due, dato che conoscenza e convivenza non sono dei meri fatti, ma dei processi che si sviluppano nel mondo di senso fondato sul dialogo e sul linguaggio. Perché il fattore-dialogo è essenziale non solo per l'interazione tra esseri umani, ma per il pensiero in quanto tale[18].
Nella sua opera Apel ha insomma proposto di rileggere l'intera condizione umana e soprattutto la forza performativa dell'etica alla luce del principio trascendentale del dialogo che ci chiede di riconoscerci reciprocamente membri di una comunità reale della comunicazione. Come tutte le realtà umane, essa è imperfetta: vi convivono pacifico colloquio e sopraffazione, riconoscimento e violazione, ricerca di conoscenza e menzogna. Ma chi adotta veramente l'etica del discorso si impegna ad anticipare comunque le condizioni di una comunità ideale della comunicazione, dove le relazioni non siano più mediate dal dominio, dalla violenza e dall'inganno, ma dal rispetto reciproco: fa la cosa giusta per un mondo più giusto. Comincia a relazionarsi con il “volto dell'altro” e ad assumersi un “principio responsabilità”[19].
Superamento di ogni volontà di strumentalizzazione e di imperialismo etico. Accettazione e promozione disinteressata dell’altro. Capacità di creare comunione attraverso la fusione di più mondi personali. Questo il progetto di ricostruzione comunitaria attraverso l’etica della logica comunicativa: veramente moderno perché procedurale e non contenutistico.
Osservare dalla sua prospettiva l’attuale mondo virtuale dei social media e delle cosiddette communities che in esso proliferano, può essere estremamente istruttivo. Esse riproducono in forma deteriore alcune caratteristiche tipiche dei contesti tribali: chi è riuscito a entrarci e ad esserne accettato, esiste perché appartiene al gruppo; e quasi sempre preferirà conservare questa appartenenza, anche a scapito di una vera conoscenza. Non sono delle comunità di comunicazione, né reali né tanto meno ideali, ma soltanto delle ‘camere dell’eco’: degli spazi totalitari, popolati da individui isolati, in cui una sola cosa può essere detta.
In all
modern contract theories, civil societies originates from the aggregation of
isolated individuals: they are founding myths that completely neglect the
community dimension. Karl Otto Apel attempted to reconstruct a community of
communication based on the procedural rules of discourse ethics.
[1] Cfr. in proposito R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Torino 1998, 12 ss.
[2] Ivi, 40.
[3] Ivi, 43.
[4] «In America hanno tutti paura che gli si faccia causa: perciò ci sono tante regole e obblighi […]. Se hai la piscina la devi recintare, perché se qualcuno entra e si fa male il responsabile sei tu. In Nuova Guinea non erano in molti ad avere una piscina, ma anche nei fiumi dove andavamo a fare il bagno non c'era bisogno di cartelli che dicessero 'E' pericoloso tuffarsi'. Certo che lo è, ma se ti tuffi devi essere pronto ad affrontare le conseguenze. Invece in America la responsabilità non è di chi fa una determinata cosa, ma del proprietario o del costruttore della casa. Alla minima occasione, si cerca di scaricare la colpa sugli altri». J. Diamond, Il mondo fino a ieri, trad. it., Torino 2013, 462.
[5] N. Rouland, Antropologia giuridica, trad.it., Milano 1992, 198. Secondo Michel Alliot, una comunità tradizionale si definisce in base a tre caratteristiche essenziali: 1. I suoi membri condividono una stessa vita. Hanno cioè in comune una lingua, gli antenati e le divinità; condividono uno spazio vitale, hanno gli stessi amici e gli stessi nemici. - 2. Condividono la totalità delle specificità. Le comunità valorizzano più le specificità delle similitudini, le gerarchie piuttosto che l'uguaglianza. Ma queste particolarità sono condivise, poiché non costituiscono cause di tensione tra i singoli o i gruppi che ne sono portatori: al contrario, tendono a pensarsi come complementari. - 3. Condividono un comune campo decisionale. Ogni comunità si definisce attraverso un sistema di regole condiviso e determinato autonomamente. Queste regole sono essenzialmente consuetudinarie e prodotte dalla stessa comunità: rispetto ad esse la legge, nel significato moderno del termine, viene percepita come lo strumento di dominio di una frazione del gruppo sugli altri, o di un'autorità esterna sul gruppo stesso. (Cfr. M. Alliot, Institutions privées africaines et malgaches, Paris 1971).
[6] Il riferimento è ovviamente al classico Comunità e società di Ferdinand Tönnies (trad.it., Bari 2011). L’aggettivo “comune” e il sostantivo “comunità”, contengono entrambe un riferimento al munus, al dovere. La cum-munitas è un insieme – o meglio, un sistema – costruito intorno a relazioni e vincoli centrati più che su diritti, su doveri condivisi.
[7] K.O. Apel, L’apriori della comunità della comunicazione e i fondamenti dell’etica, in Id., Comunità e comunicazione, trad. it., Torino 1977, 206.
[8] Ivi, 205-6.
[9] Il termine è ripreso da K. Lorenz, Die Ethik der Logik, in H.G. Gadamer (a cura di), Das Problem der Sprache, München 1967, 80-86. Così Apel: «Non si può negare [...] che con la formula un po' vaga di 'etica della logica' si esprime qualcosa di giusto. Così è ad esempio falso sostenere - magari facendo riferimento a Kant - che anche il diavolo possa essere un logico. Certo non si può contestare che l'uso logicamente corretto dell'intelletto possa essere preso al proprio servizio, in quanto mero mezzo, da una volontà cattiva. Fin qui la logica, in quanto teoria dell'uso normativamente corretto dell'intelletto, è una tecnologia avalutativa dal punto di vista morale [...]. Tuttavia, si può affermare che la logica - e con essa al tempo stesso tutte le scienze e le tecnologie - presuppone come condizione di possibilità un'etica» (Comunità e comunicazione, cit., 238).
[10] Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, trad. it., Torino 1967, I, § 199.
[11] Rinvio in proposito al mio Il Logos del diritto, Torino 1993.
[12] Cfr. C.S. Peirce, Collected Papers, Cambridge (Minn.) 1935, vol. V, §§ 354 ss.
[13] In un gruppo di ricerca scientifico, come in ogni comunità di scopo, la trasparenza comunicativa è un requisito costitutivo: chi non la rispetta si autoesclude dall’impresa comune.
[14] K.O. Apel, Op.cit., 243.
[15] «Questa esigenza del riconoscimento reciproco delle persone come soggetti della argomentazione logica, non già l'uso logicamente corretto dell'intelletto degli individui, giustifica [...] il parlare di 'etica della logica'» (Ivi, 239).
[16] «Questo approccio differisce dalla filosofia trascendentale classica di Kant in quanto esso scorge quel 'punto supremo', in riferimento al quale bisogna disporre la riflessione trascendentale, non nell''unità della coscienza d'oggetto e dell'autocoscienza' determinata 'solipsisticamente dal punto di vista metodico', bensì nell''unità intersoggettiva dell'interpretazione' qua comprensione del senso e qua consenso alla verità. Questa unità dell'interpretazione si deve per principio poter raggiungere nella comunità illimitata degli argomentanti, sulla base dell'esperienza sperimentale e dell'esperienza dell'interazione, se si vuole che l'argomentazione in generale abbia senso. L'approccio va inteso pertanto come una trasformazione dal punto di vista della critica del senso della filosofia trascendentale, trasformazione che prende le mosse dal fatto apriori dell'argomentazione come da un punto d'approccio quasi-cartesiano oltre il quale non si può risalire» (Ivi, 248-249).
[17] Cfr. soprattutto Teoria dell’agire comunicativo (trad.it., Bologna 1988) e Etica del discorso (trad. it., Bari 1989).
[18] Sui rapporti tra logos e dia-logos, rinvio di nuovo al mio Il logos del diritto (cit.) e a F. Jullien, Strategie del senso in Cina e in Grecia, trad. it., Roma 2004.
[19] Il riferimento è, rispettivamente, a E. Lévinas, Etica come filosofia prima, trad. it., Milano 1985 e a H. Jonas, Il principio responsabilità, trad. it., Torino 1990.