Iussum quia iustum o iustum quia iussum?
Sulla controversa relazione tra diritto e giustizia.
Una prospettiva di diritto costituzionale *
Associato di Diritto costituzionale
Università di Siena
«Dal fatto che a me – o a tutti – sembri così,
non segue che sia così»
(L. Wittgenstein, Della Certezza, Satz 2)
SOMMARIO: 1. Per iniziare. – 2. Quattro modi di
intendere il binomio diritto-morale. – 3. L’esperienza giuridica e la filosofia del diritto.
– 4. Tre riduzionismi da evitare. – 5. Giusnaturalismo. – 6. Giuspositivismo. – 7. Una
esemplificazione delle difficoltà ìnsite nel discorso: il processo di
Norimberga. – 8. Giustizia. – 9. Certezza. – 10. Concludendo.
– Riferimenti bibliografici. – Abstract.
Il più grande monumento lasciatoci in eredità dalla civiltà romana – anche se il più delle volte non ci si fa caso – è il sistema legale (Diritto romano, Ius), del quale oggi ci portiamo appresso in Occidente almeno due caratteristiche strutturali nonché una tensione irrisolta.
Le caratteristiche strutturali sono, da un lato, separazione tra ordine politico e ordine religioso (che può farsi risalire – con una certa approssimazione ma altrettanta carica simbolica – all’approvazione della legge delle XII Tavole) e, dall’altro, un meccanismo di formazione delle regole giuridiche di matrice pretoria[1], apprezzabile soprattutto negli ordinamenti di Common Law (innanzitutto il Regno Unito e gli Stati Uniti, ma non solo).
La tensione irrisolta riguarda invece la perdurante ambiguità della relazione tra sistema legale e sistema morale, scolpito nelle note definizioni di diritto – da questo punto di vista antitetiche – espresse da due celebri giuristi dell’epoca classica, Celso e Ulpiano: il primo fornisce una definizione etica del diritto, il secondo una che – con terminologia moderna – definiremmo avalutativa (Weber 1958, 309 ss.)[2].
D’altra parte, queste due definizioni di cosa sia “diritto”, l’una – ripeto – legata alla sfera morale (diritto come “giustizia”, Celso), l’altra indipendente da essa (diritto come comando del legittimo sovrano, Ulpiano), ripercorrono dal versante giuridico una più generale questione etica (almeno diritto e morale, infatti, compongono la sfera dell’etica) che si può far risalire a Platone, e segnatamente alla polemica tra Socrate e Trasimaco su cosa sia la “giustizia”, che il sofista riconduce all’utile del più forte, fino a perorare i benefici di una vita orientata esclusivamente al proprio interesse in opposizione a una onesta, rispettosa delle leggi e degli interessi comuni[3].
Tale duplicità di posizioni si ritrova per molti versi ancora oggi tra i filosofi morali, divisi tra sostenitori delle etiche c.d. teleologiche e difensori di quelle c.d. deontologiche, a seconda che ritengano necessario oppure no, per valutare una condotta umana, considerare (anche) i fini cui il comportamento stesso è orientato (Deigh 2010, 15 ss.).
Pare opportuno partire da qui per effettuare tre veloci precisazioni, finalizzate a delineare con maggior nettezza i contorni del tema che intendo trattare, e cioè il rapporto – se c’è un rapporto – tra (mondo del) diritto e (mondo della) morale nelle società contemporanee[4].
A ben vedere, molte polemiche tra coloro che studiano questa tormentata relazione verrebbero sdrammatizzate se solo si avesse piena coscienza del fatto che spesso gli addetti ai lavori non dicono cose incompatibili, ma semplicemente fanno riferimento a cose diverse (Barberis 2005, 41 ss.).
In effetti, “diritto”, contrapposto a “morale” (nel senso specifico di “giustizia”), può significare sia “diritto positivo” – il diritto oggettivo di un determinato ordinamento storicamente esistente o esistito – sia “diritto ideale”, un insieme di valori (quali ad es. la libertà, la democrazia ecc.) che potremmo sintetizzare nel termine legalità (come suggerisce lo stesso Barberis 2005) o certezza del diritto (come preferirei fare io, seguendo sul punto Lopez de Oñate 1968, 155 ss., e Bobbio 1993, 23-44, passim).
Nel primo caso, il diritto (positivo) è un fatto, e come tale può essere conosciuto; nel secondo (legalità/certezza) è un valore, e quindi va studiato come concetto ed eventualmente accettato.
Similmente, “morale” può significare tanto morale positiva (l’insieme delle convinzioni di un dato popolo in un dato momento storico, o giustizia relativa) – e allora è un fatto – quanto morale critica (o giustizia assoluta, o Giustizia, con la g maiuscola) – e allora è un valore.
Quindi: nell’interrogarci sul rapporto tra diritto e giustizia, intendiamo confrontare due fatti (diritto positivo e morale positiva), due valori (legalità/certezza e Giustizia) oppure un fatto con un valore (diritto positivo e Giustizia ovvero legalità/certezza e morale positiva)?
Ritengo altresì utile precisare che l’approccio al diritto dal versante della sua “giustizia” (in una delle due accezioni di cui sopra) non è quello esclusivo adottato dai filosofi del diritto.
Esistono infatti almeno altre due prospettive dalle quali è possibile accostarsi al fenomeno giuridico: quello della sua validità e quello della sua efficacia.
Più precisamente, «il problema della giustizia [del diritto, scil.] è il problema della corrispondenza o meno della norma ai valori ultimi o finali che ispirano un determinato ordinamento giuridico» ed è quindi chiamato anche problema deontologico del diritto (Bobbio 1993, 23); diversamente da questo, il problema della validità del diritto è «il problema dell’esistenza della regola in quanto tale, indipendentemente dal giudizio di valore se sia giusta o no», per cui si parla in proposito di problema ontologico del diritto (ivi, 24-25); infine, quello «dell’efficacia di una norma è il problema se quella norma sia o no seguita dalle persone a cui è diretta (i cosiddetti destinatari della norma giuridica) e, nel caso in cui sia violata, sia fatta valere con mezzi coercitivi dall’autorità che l’ha posta», per cui si parla di problema fenomenologico del diritto (ivi, 25).
Tali criteri di indagine sono indipendenti l’uno dall’altro ma vanno combinati se si vuole analizzare in modo compiuto la c.d. esperienza giuridica (ivi, 26 ss.).
Dal primo filone di indagine, infatti, si sviluppa la filosofia del diritto in quanto teoria della giustizia; dal secondo si dipana la filosofia del diritto in quanto teoria generale del diritto; dal terzo ha scaturigine la sociologia del diritto (ivi, 29).
A questa tripartizione prospettica corrisponde grosso modo la tripartizione programmatica dell’odierna filosofia del diritto, che ha appunto il triplice compito di risolvere i tre problemi cui ho accennato poc’anzi: deontologico, ontologico e fenomenologico.
Confondere i piani, le prospettive e i compiti dell’indagine filosofica non può – all’evidenza – portare a niente di buono, poiché impedisce di (provare a) venire a capo dell’unico problema centrale della stessa filosofia del diritto: il problema della migliore organizzazione della vita degli uomini associati (ivi, 31).
Esistono almeno tre teorie che sembrano essere incorse in un siffatto errore, ora riducendo la validità a giustizia (giusnaturalismo, almeno antico e moderno); ora riducendo la giustizia a validità (positivismo giuridico ideologico, nella variante del c.d. legalismo etico); ora riducendo la validità a efficacia (realismo giuridico, o giusrealismo).
Qui interessano peraltro soprattutto le prime due tesi riduzioniste, poiché toccano direttamente il tema che si sta affrontando, e cioè il rapporto tra diritto e giustizia, mentre rileva solo marginalmente la terza tesi, quella giusrealistica, alla quale dedicherò un cenno a tempo debito[5].
D’altro canto, non può esservi dubbio sul fatto che la giustizia sia il valore di riferimento per qualunque giurista e che, in particolare, le questioni di giustizia del diritto siano «questioni di giustificazione […] nel senso genuinamente normativo, per cui le ragioni per scegliere e agire in certi modi dipendono dai migliori argomenti disponibili, e questi ultimi, a loro volta, assumono un senso determinato nell’ambito di più ampie teorie di sfondo» (Maffettone e Veca 2020, VIII).
Opportunamente individuati i limiti del discorso, si può ora entrare in medias res.
Per “giusnaturalismo” si intendono diverse scuole di pensiero, inquadrabili in base a un criterio cronologico: giusnaturalismo antico, o “giusnaturalismo” tout court; giusnaturalismo moderno, o “giusrazionalismo”; giusnaturalismo contemporaneo, o “neogiusnaturalismo”, all’interno del quale va isolata, almeno per la sua importanza all’interno dei sistemi giuridici euro-occidentali, la corrente del neocostituzionalismo[6].
Tutte tali dottrine predicano la tesi della necessaria connessione tra diritto e morale (nello specifico senso di giustizia): il diritto moralmente ingiusto non è “diritto” (Barberis 2005).
A tale proposizione di base sono spesso associate – con delle varianti cui accennerò tra poco – altre due caratteristiche ricorrenti: il c.d. oggettivismo etico (le norme giuridiche sono valutabili in termini di giustizia o ingiustizia oggettiva) e il c.d. formalismo interpretativo (ogni disposizione giuridica, se ben interpretata, ha un unico significato).
Nondimeno, esistono autori non giusnaturalisti che predicano posizioni di oggettivismo etico (ad es. gli utilitaristi inglesi come Bentham e Austin) e il formalismo interpretativo (ad es. gli esponenti della Scuola dell’Esegesi francese o quelli della Scuola storica tedesca); ragion per cui la caratteristica decisiva per individuare un pensatore giusnaturalista è solo la prima che ho elencato (connessione necessaria tra diritto e morale).
La connessione tra diritto e morale, peraltro, può essere a sua volta intesa in almeno tre accezioni: definitoria, giustificativa e (meramente) interpretativa.
La prima forma di connessione (definitoria) riguarda i concetti (di diritto e di giustizia) e implica, come visto, la perdita del carattere di giuridicità per il diritto moralmente ingiusto; tuttavia tale connessione può avere un andamento forte (qualsiasi deviazione della norma dall’ideale di giustizia la rende non giuridica) o debole (solo le deviazioni intollerabili dall’ideale di giustizia fanno perdere alla norma l’attributo della giuridicità: c.d. formula di Radbruch).
La seconda forma di connessione (quella giustificativa) afferma che al diritto ingiusto, che resta pur sempre diritto, non si debba obbedire.
La connessione interpretativa esige invece che il diritto debba essere interpretato alla luce dei valori morali, in modo da estrarne precetti giusti, e afferma che tale operazione sia sempre possibile.
Quest’ultima posizione è caratteristica degli autori giusnaturalisti contemporanei e, con delle precisazioni che effettuerò tra poco, soprattutto dei neocostituzionalisti.
I filosofi e i giuristi positivisti si collocano agli antipodi delle posizioni testé elencate e quindi sostengono: a) la tesi della separabilità (o della connessione non necessaria) tra diritto e morale: il diritto moralmente ingiusto è pur sempre “diritto”; b) la tesi del soggettivismo etico (le norme giuridiche sono valutabili soltanto in termini di giustizia o ingiustizia soggettiva); c) una teoria c.d. eclettica dell’interpretazione (nel sistema giuridico vi sono norme di significato univoco e altre suscettibili di diverse interpretazioni, tutte ugualmente plausibili: Hart) o, in alternativa, una teoria c.d. scettica dell’interpretazione (nel sistema giuridico tutte le norme sono suscettibili di più interpretazioni: Kelsen, Ross).
Anche in questo caso, peraltro, il soggettivismo etico non è una proprietà caratteristica di tutte le correnti del positivismo giuridico (ricordo nuovamente il caso degli utilitaristi inglesi), così come i vari autori certamente giuspositivisti sposano diverse teorie interpretative, come detto, rigettando semplicemente l’opzione del formalismo interpretativo.
Nuovamente, quindi, è decisiva una sola tesi, la prima: in questo caso, quella della separabilità (o connessione non necessaria) tra diritto e morale; e anche in questo caso possiamo osservarne tre varianti.
Per gli alfieri del positivismo giuridico, cioè, diritto e morale possono essere definiti concettualmente in modo indipendente l’uno dall’altro (separabilità definitoria): del resto, quando si definisce il diritto come insieme di norme sanzionate e istituzionalizzate si prescinde chiaramente da ogni sua connessione con la sfera morale[7].
La tesi della separabilità giustificativa espone invece il fatto che è pur possibile che l’obbedienza al diritto venga sostenuta da argomentazioni morali, ma che tale giustificazione non sia necessaria. Nella nostra Costituzione una traccia molto chiara di ciò la rinveniamo nell’art. 101, 2° comma, ove si dispone che «i giudici sono soggetti soltanto alla legge» (corsivo mio); il senso è che il diritto si giustifica essenzialmente su basi giuridiche, non morali, e (che) se una argomentazione etica dell’obbedienza è allegata, lo è in base a un dispositivo giuridico di rinvio alla morale stessa[8].
Anche la tesi della separabilità interpretativa si premura di scindere il fatto contingente che il diritto possa essere interpretato alla luce di valori morali, dalla necessità che ciò debba avvenire: l’interpretazione orientata dai valori morali non sarebbe quindi tassativa[9].
Al termine di questa veloce panoramica, restano quindi sul campo una serie di prospettive da considerare più nel dettaglio per (provare a) risolvere il dilemma che si sta esaminando.
Da un lato, le linee di pensiero neocostituzionaliste, che oggidì si poggiano per lo più sulla dottrina della connessione giustificativa e, soprattutto, interpretativa tra diritto e morale; dall’altra, quei filoni del pensiero giuspositivista metodologico che affermano che il diritto sia un fenomeno da conoscere senza formulare giudizi di valore.
Le tesi neocostituzionaliste, in realtà, sosterrebbero – sulla base di una argomentazione di tipo essenzialmente storico – la triplice connessione necessaria tra morale e diritto vista sopra (definitoria, giustificativa e interpretativa), sebbene limitata ai moderni stati c.d. costituzionali, ossia quegli stati dotati di una costituzione rigida (come la nostra), i cui precetti sono sovente formulati in termini chiaramente assiologici, evocando, appunto, grandezze metagiuridiche quali la libertà, l’uguaglianza, la solidarietà e via discorrendo (Barberis 2006).
Tuttavia entro queste tesi si agita a mio parere una contraddizione: la connessione definitoria, infatti, se davvero fosse necessaria, dovrebbe esserlo per tutti gli stati e non solo per quelli costituzionali, andando a legare concetti (“diritto” e “giustizia”), non fatti (per questa critica, v. Barberis 2005, 34).
L’approccio andrebbe quindi limitato alle due restanti forme della connessione (predicata come) necessaria: giustificativa (bisogna obbedire al diritto moralmente giusto) e interpretativa (bisogna interpretare le norme giuridiche in coerenza coi valori morali).
Riguardo alle tesi giuspositiviste non riduzioniste, esse – alla fine dei conti – non contengono altro che prescrizioni metodologiche (come indagare il proprio oggetto: astenendosi dall’esprimere valutazioni morali) ovvero limitative (cosa indagare: la struttura formale dell’ordinamento, in termini di validità) e quindi, a ben pensarci, non inibiscono l’accoglimento in fatto delle tesi neocostituzionaliste sotto il profilo sostanziale, nella misura in cui queste ultime si dimostrino consistenti, ossia intrinsecamente coerenti: tale constatazione non intacca infatti il postulato fondamentale della connessione meramente incidentale tra diritto e morale.
Per capire quanto sia esile il filo su cui ci si sta muovendo, mi sia consentito addurre un esempio a tutti (tristemente) noto: il Processo di Norimberga del 1945-1946, celebrato all’indomani della fine della Seconda Guerra mondiale dalle Potenze vincitrici contro i gerarchi nazisti e culminato in una serie di dure condanne, anche capitali, della maggior parte degli imputati[10].
Se c’è un singolo evento in grado di rappresentare plasticamente tutte le complessità della relazione tra diritto e giustizia, infatti, a me pare sia proprio questo[11].
I fatti sono abbastanza noti da darli quasi integralmente per scontati: darei per acquisito alla verità storica, in particolare, che il conflitto in Europa sia stato causato dal regime nazionalsocialista e che quest’ultimo, oltre ad attentare alla pace e aver violato varie convenzioni di guerra (crimini già previsti dall’ordinamento internazionale) effettivamente praticò lo sterminio di massa, all’interno dei campi di concentramento, su base etnica, politica e persino biologica, servendosi della macchina statale (da ultimo, Scevola 2020).
Darei però per acquisito anche un ulteriore fatto, più scomodo: sebbene processare e punire i vertici di quel regime rispondesse a un diffuso sentimento di giustizia, non può revocarsi seriamente in dubbio, da un lato, che il Tribunale incaricato di valutare i fatti venne istituito ex post e, dall’altro, che persino il titolo di reato più grave («crimini contro l’Umanità») venne introdotto retroattivamente con l’istituzione di quella Corte, tramite estrapolazione dalla figura dei crimini di guerra (Zolo 2014).
Il Processo di Norimberga, quindi, sotto diversi profili, fu un processo giuridicamente illegittimo (con terminologia anglosassone, curiosamente, dovremmo dirlo unfair, cioè ingiusto!), al netto di alcune (tutto sommato fisiologiche) violazioni processuali interne, di portata comunque minore[12].
Quel che è certo, in sintesi, è che a Norimberga ragioni morali di un qualche genere prevalsero su quelle giuridiche (Kelsen 1990).
Ma in che termini e a quale prezzo?
Quale diritto e quale giustizia vennero effettivamente evocati e applicati in quella sede?
Tornando alla quadripartizione del binomio isolata nel § 2 e provando a rispondere:
a) se Norimberga si sono confrontati due fatti (il diritto positivo internazionale, lacunoso, e la morale positiva internazionale, per lo meno incerta[13]), occorrerà concludere che il processo sia stato illegittimo poiché giudice e reato (più grave) sono stati introdotti ex post facto;
b) se a Norimberga si sono confrontati due valori (legalità/certezza e Giustizia), hanno senz’altro prevalso le ragioni morali di giustizia su quelle legali di certezza, e questo può essere considerato accettabile, a patto che non fosse possibile realizzare altrimenti l’istanza di giustizia oggettiva;
c) se a Norimberga si sono confrontati il diritto positivo (fatto)[14] e il concetto assoluto di Giustizia (valore), la soluzione è stata corretta, poiché il contemperamento tra un fatto e un valore non può che risolversi in favore del secondo. Sempre che, anche qui, non fosse possibile realizzare altrimenti (leggi: con minor sacrificio del diritto positivo) l’istanza di Giustizia;
d) se, infine, a Norimberga si sono confrontati il valore della legalità/certezza con la morale positiva del diritto internazionale (fatto), occorrerà concludere come nel caso a: il processo è stato illegittimo, poiché giudice e reato (più grave) sono stati introdotti ex post facto e in più un valore (certezza) è stato sacrificato in nome di un fatto (la lacunosa e incerta morale internazionale positiva).
Insomma: nel confronto tra diritto e morale una giustificazione (giuridicamente accettabile) del Processo di Norimberga appare possibile solo in due casi su quattro; solo, cioè, se il confronto sia intercorso tra il diritto (comunque inteso, come fatto o come valore) e il concetto assoluto, oggettivo, di giustizia (valore); e sempre a patto che non fosse possibile individuare una soluzione in grado di contemperare in maniera meno traumatica i due termini della relazione, soprattutto ove anche “diritto” venisse assunto nella sua dimensione assiologica.
Sfortunatamente però a me le cose non sembrano stare così, vuoi per una circostanza storica documentata che riguarda specificamente quell’evento, vuoi – in termini più generali – per un’assunzione implicita alquanto delicata, ossia che esista un concetto oggettivo e metapositivo di giustizia.
Di quest’ultimo aspetto mi occuperò nel prossimo paragrafo.
Qui di seguito, invece, espongo la mia personale critica alla legittimità, oltre che alla legalità, della Corte di Norimberga e del suo operato.
Una soluzione per punire i criminali nazisti non meno cruda (anzi: se adottata, probabilmente, avrebbe portato a conseguenze più radicali e diffuse), eppure maggiormente rispettosa (delle ragioni) della legalità/certezza e persino del diritto positivo, era stata prospettata nei mesi precedenti la fine della guerra dal Primo ministro inglese: il diritto consuetudinario britannico conosceva infatti sin dal Medioevo l’istituto della felony.
In base a tale istituto (legale) un rappresentante dello stato poteva dichiarare “fuorilegge” o “bandito” un criminale anche in contumacia; questi – a seguito di tale dichiarazione – poteva essere legalmente ucciso da chiunque lo avesse successivamente catturato.
Possiamo certamente discutere (in termini morali) sul livello di civiltà di un simile istituto; tuttavia non può negarsi che, nella fattispecie, esso si sarebbe prestato a realizzare meglio di quanto storicamente avvenuto un equilibrio tra (ragioni del) diritto e (ragioni della) giustizia, anche alla luce della c.d. formula di Radbruch.
Tale soluzione venne però avversata soprattutto da Stalin, assai pratico sin dagli anni Trenta del Millenovecento nell’allestimento e nella conduzione di processi politici (Vergès 1969, spec. 66 ss.) e, alla fine, anche da Roosevelt, cosicché Churchill dovette piegarsi alla scelta degli esponenti delle due nascenti superpotenze, accettando le secche e le ombre di un processo non solo radicalmente estraneo alla tradizione giuridica occidentale ma anche connotato da una evidente matrice propagandistica (Overy 2001, 9 ss.).
In definitiva, la soluzione adottata a Norimberga fu in un qualche modo “giusta” ma non fu a mio avviso la soluzione ottimale, per lo meno se si abbia un’idea di processo, e meglio ancora di giusto processo (art. 111, 1° comma, Cost.), non collimante con lo schema del processo-purga di matrice staliniana.
Non va sottaciuto, peraltro, che anche la soluzione à la Churchill sopra evocata avrebbe potuto portare con sé qualche dubbio sul terreno prettamente legale (in particolare, la circostanza che quella regola medievale non venisse concretamente applicata da secoli).
Il che porterebbe a concludere che, intralcio per intralcio, l’applicazione della felony non avrebbe comunque messo a tacere i critici, esattamente come avvenuto a seguito della scelta del modulo processuale ad hoc di Norimberga.
Anche a voler abbracciare questa versione, più benevola, dei fatti di allora – e torno così al vero tema della presente riflessione, passando nuovamente dal particolare al generale – rimarrebbe però da discutere cosa si debba intendere esattamente per giustizia; se essa cioè vada concepita in senso assoluto, e quindi oggettivo, come morale critica, ovvero relativo, e quindi soggettivo, come morale positiva.
Solo nel primo caso, infatti, il dilemma sui fatti (processuali) di Norimberga potrebbe dirsi sciolto in modo convincente, almeno agli occhi del giurista[15].
Si introduce in tal modo una questione prettamente metaetica, e cioè ci si chiede, adesso, non “cosa sia il diritto”, come fatto in esordio, bensì cosa sia la giustizia, intesa quale “morale critica”.
Una carrellata, anche veloce, dei vari apporti succedutisi nel tempo sul tema sembrerebbe dare ragione a quella linea – detta soggettivismo etico – che definisce la giustizia assoluta, semplicemente, un «ideale irrazionale», una «eterna illusione» (Kelsen, 2000, rispettivamente 66 e 67).
In particolare, basterebbe osservare le considerazioni sul punto dei tanti che si sono affaticati sulla questione per concludere, in base all’estrema variabilità delle soluzioni proposte, che i giudizi morali siano sempre soggettivi.
Ad esempio in Platone la giustizia viene risolta (banalizzo e allittero in termini più familiari per un giurista che per un filosofo) nella coincidenza tra interesse pubblico e interesse privato[16], mentre Aristotele preferiva procedere all’analitica (e celebre) tripartizione tipologica della giustizia in commutativa, retributiva e distributiva; non prima, però, di aver distinto (cosa particolarmente calzante rispetto al presente discorso) la giustizia come rispetto della legge dalla giustizia come equità[17].
Venendo a tempi più prossimi a noi, Hobbes individuava il principio della giustizia nella volontà legislativa del Sovrano[18] mentre Locke la agganciava al rispetto delle leggi di natura[19]; Kant immaginava la giustizia come l’esito di un progetto giuridico-costituzionale nel quale «l’arbitrio di ognuno può coesistere con l’arbitrio di ogni altro secondo una legge universale»[20], mentre Rousseau la identificava con l’uguaglianza tra le persone[21].
In seguito, la tematica si è ibridata con la c.d. questione sociale, sino al limite estremo dell’identificazione dell’una con l’altra[22] tanto che, in epoca contemporanea, la giustizia per eccellenza è soltanto quella sociale, intesa quale equità[23], seppur variamente declinata[24].
Nondimeno, tanta differenza di posizioni non dovrebbe distoglierci dalla ricerca di un minimum condiviso del termine, poiché, se è senz’altro vero che tali autori «parlano sicuramente di questioni di giustizia ma, al tempo stesso si riferiscono a cose diverse tra loro», è altrettanto vero che le loro teorie «non costituiscono tentativi di soluzione ai medesimi dilemmi nel tempo» (Maffettone e Veca, 2010, X).
Inoltre, oggi appare comunque ineludibile elaborare un concetto (oggettivo) di giustizia sufficientemente esteso per vincere le sfide che propone la filosofia politica odierna (ivi, XVI).
Ai suddetti argomenti (l’uno fattuale, l’altro pratico) se ne somma un ultimo – a mio parere decisivo – di segno teorico: limitarsi a censire ed elencare tutti i possibili significati che nel tempo ha assunto il valore della giustizia (Kelsen 2000, 15 ss.), infatti, non fa altro che appiattire «i vari contenuti del valore di giustizia in un’irreale sincronia, mentre, nella realtà storica, quei valori non coesistono, ma si succedono nel tempo, sia pur con inevitabili sovrapposizioni parziali» (Losano 1975, Introduzione a Kelsen 2000, XXXIX).
La tematica dell’oggettivismo etico, in definitiva, pare risolvibile storicizzandola in qualche modo, dato che un sistema legale che non sia anche (percepito come moralmente) giusto, sarebbe difficilmente giustificabile, almeno qui e ora (Rawls 2002, 201 ss.).
Tale ampiamente condivisa acquisizione, peraltro, non risolve tutti i problemi sul tavolo.
In effetti, le dottrine contemporanee della giustizia si trovano al cospetto di un ulteriore dilemma, tipico soprattutto degli stati costituzionali (o, per dirla in altro modo, delle democrazie liberaldemocratiche), le cui costituzioni legali si richiamano esplicitamente nel testo a valori sovente antinomici.
Ciò significa che è impossibile perseguirli, e tantomeno realizzarli, contestualmente; occorre quindi scegliere quale valore privilegiare e quale sacrificare; e per far ciò bisogna inevitabilmente optare tra monismo e pluralismo etico.
In base al monismo etico, in particolare, dovrebbe essere possibile stabilire una volta per tutte una gerarchia assiologica, individuando il valore che dovrebbe sempre prevalere sull’altro; in base al pluralismo etico, invece, la scelta dovrebbe avvenire caso per caso[25].
In ambedue i casi, all’evidenza, “giustizia” (in senso almeno morale) verrebbe fatta; ma solo nel primo caso non si sarebbe sacrificato completamente il valore propriamente giuridico della certezza.
Si arriva così al punto cruciale (nella mia prospettiva) di tutta la questione, nel quale recuperare anche i filoni di pensiero prima intavolati.
Ripartendo dal primissimo riferimento storico che si era fatto alle XII Tavole, è possibile ora chiedersi: perché i cittadini romani le pretesero?
Le fonti suggeriscono che essi non volessero più sottostare all’arbitrio delle ondivaghe decisioni della casta dei sacerdoti, che davano sentenze in maniera oscura[26].
Sottesa a tale rivendicazione era quindi un’istanza di certezza, che rendesse i comandi dell’autorità accettabili da parte della collettività perché in un qualche modo prevedibili anche dai suoi destinatari (Grosso 1965, 121)[27]; una prevedibilità magari non assoluta ma almeno graduabile, e quindi pur sempre tale (Gometz 2005, 268 ss.).
D’altro canto, se ai sacerdoti, già depositari delle chiavi del sistema morale (religioso), venne sottratta l’amministrazione della giustizia, occorrerà dare un senso non schizofrenico a tale movimento.
Tale senso non può a mio avviso che essere il seguente: per il fatto stesso che, all’interno della sfera etica, il diritto (comunque inteso) si autonomizzi dalla morale (comunque intesa), occorrerà concordare con l’idea che «nella certezza del diritto è la sua equità»; che, cioè, nella certezza va individuata «la specifica eticità del diritto» (Lopez de Oñate 1968, 161).
Se si condivide questa interpretazione si impone un’unica conclusione: nella tensione tra diritto e giustizia, ogni qual volta si stia utilizzando il termine diritto in senso ideale – come sinonimo di certezza – dovrà essere questo a prevalere; e dovrà essere così sempre, in accordo col principio del monismo etico.
Diversamente, infatti, non vi sarebbe più una vera relazione tra diritto e morale, né un binomio “certezza-giustizia” da esaminare, ma soltanto un (più o meno oggettivo) valore tirannico (Schmitt 2013), la Giustizia, che avrebbe distrutto il suo antagonista[28].
Insomma: almeno nel mondo Occidentale – e proprio negli stati costituzionali! – mi sembra che la giustizia oggettiva comprenda innanzitutto la certezza del diritto, quest’ultimo (diritto) inteso, come mi pare corretto, quale rappresentazione grammaticale e convenzionale della realtà (Wittgenstein 1978; Searle 2019, 254 ss.).
All’interno di tale rappresentazione, poi, occorrerà tener conto dell’identificazione della giustizia con la c.d. questione sociale (Marx 1990, 7 ss.), cosicché, attualmente, la giustizia per eccellenza è soltanto quella sociale, intesa quale equità (Rawls 2002, 21 ss.).
Storicizzando quindi l’idea di giustizia (come sinonimo di equità) si arriva a una soluzione coerente, anche se così si è costretti a ripiegare su quella che, in termini teorici, è una morale positiva, ossia l’idea che un determinato popolo ha in un preciso momento storico del progetto umano e sociale che intende realizzare: d’altronde quella che agli occhi del filosofo morale può sembrare una dimidiazione, per il giurista è probabilmente l’unica via praticabile in un contesto di democrazia liberale, qual è la nostra.
Attraverso la mediazione del concetto di certezza, quindi, il diritto positivo attinge anche a quella dimensione valoriale che lo mette in comunicazione con un’idea di giustizia (con la g minuscola) in grado di consentire al sistema legale di essere effettivo, oltre che valido.
Per chiosare l’esposizione propongo una veloce serie di corollari discendenti in via diretta dall’impianto concettuale appena illustrato e una postilla finale.
Se la “certezza” è “Giustizia”, si capiscono meglio innanzitutto le critiche di Bobbio 1993 non solo alle tesi riduzioniste giusnaturalistiche (33-34) ma anche a quelle giusrealistiche (42): in questo caso, infatti, è la risoluzione della validità del diritto nella dimensione fenomenologica dell’effettività a rendere il diritto imprevedibile, e quindi ingiusto.
Conclusioni non dissimili sembrerebbero poi valere anche per le posizioni giusnaturalistiche contemporanee – e neocostituzionalistiche – che continuino a privilegiare, come in effetti fanno, la posizione del pluralismo etico.
Infine anche il legalismo etico, ossia quella posizione estrema del positivismo giuridico ideologico secondo la quale il diritto positivo è sempre moralmente giusto va respinta poiché – come tutte le precedenti – annulla un termine del binomio (in questo caso, però, la Giustizia) aprendo così, seppur da altra strada, all’arbitrio del potere e quindi all’incertezza.
Ciò che tiene assieme tutte le concezioni “supersititi” – e che contiene una risposta a mio avviso plausibile al dilemma sul tavolo – è semplicemente la tesi della connessione non necessaria tra diritto e morale, ossia talune correnti del formalismo giuridico e la teoria giuspositivistica metodologica.
Venendo alla postilla finale, va chiarito – se mai ve ne fosse bisogno – che dall’accoglimento o dal rigetto della ricostruzione effettuata non discende necessariamente un riscontro empirico coerente. Più esattamente, va rammentato che si è al cospetto di teorie conoscitive in senso stretto, ossia non orientate all’applicazione pratica del diritto vigente e, pertanto, destinate a uno sparuto manipolo di studiosi della materia, essenzialmente in funzione tassonomica.
Il diritto vivente esige, al contrario, di essere praticato, oltre che conosciuto: pretende decisioni e soluzioni; decisioni e soluzioni che possono essere argomentate più o meno convincentemente, richiamandosi o meno a valori etici, purché interni all’ordinamento; ecco perché – alla fine – si può essere giuspositivisti nel metodo e, contemporaneamente, interpreti-applicatori del diritto in chiave assiologica, quindi neogiusnaturalisti e/o neocostituzionalisti.
Basta non dimenticare – questa mi pare l’unica enunciazione di stampo normativo che si può estrarre dalle presenti riflessioni – che l’interpretazione e l’applicazione morale delle norme giuridiche, certamente finalizzata alla realizzazione di un ideale di giustizia, è un’attività possibile ma non necessaria; facoltizzata ma non doverosa e anzi in principio preclusa quando metta in crisi il valore supremo della certezza, l’unico in grado di preservare al diritto la sua «funzione di verità» (Opocher 1983, 314).
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L’A. espone una tesi che tenta di sciogliere la classica contrapposizione tra diritto e giustizia, avvalendosi della mediazione del concetto di certezza giuridica.
L’operazione viene preceduta da una precisazione concettuale sulle diverse possibili accezioni dei termini diritto e giustizia; quindi dalla sintetica esposizione delle principali linee di pensiero sul fenomeno; ancora, dalla rievocazione del precedente storico del Processo di Norimberga, visto come episodio-chiave nel percorso di soluzione del dilemma.
Anche alla luce delle critiche mosse a quel processo, si tenta quindi una composizione del binomio che veda nella certezza giuridica non soltanto l’esito della corretta applicazione del diritto oggettivo ma anche l’elemento costitutivo della stessa giustizia del sistema legale.
The
A. exposes a thesis that tries to dissolve the classic contrast between Law and
Justice through the concept of legal certainty.
This
operation is preceded by a conceptual clarification on the different meanings
of the terms Law and Justice; therefore, by a brief illustration
of the main lines of tought on the phenomenon; still, by the reference to the
Nuremberg Trial, interpreted as a key moment for the solution of the dilemma.
Also
based on the criticism addressed to that trial, the A. then attemps a
composition that sees legal certainty not only as the result of the correct
application of Law, but also as the constitutive element of the Justice of the
legal system.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind. Continuano ad essere valutati i fuori ruolo delle Università italiane; mentre per gli studiosi stranieri valutazione solo se richiesta.]
* Il presente scritto costituisce rielaborazione della relazione esposta il 28 gennaio 2021, nell’ambito del XV Corso di cultura politica e dottrina sociale cristiana, sul tema “La Giustizia”, organizzato dalla Fondazione Mons. O. Donati-Facoltà Teologica dell’Italia Centrale e dal Dipartimento di Scienze Politiche e Internazionali dell’Università di Siena.
[1] Gli edicta del prætor peregrinus erano infatti vere e proprie fonti legali, che integravano e sostituivano i sistemi di regole consuetudinarie locali, armonizzandole col sistema romano.
[2] Per il primo il diritto è infatti ars boni et æqui (l’arte del buono e dell’equo, ossia del giusto), con evidente connessione del concetto, quindi, alla sfera morale; per il secondo, invece, quod principi placuit, legis habuit vigorem, e pertanto nessuna relazione necessaria sussiste tra diritto e morale (rectius: giustizia): cfr. Dig. I.4.1 pr.
[3] Repubblica I,336b-354b, in Platone, Opere complete, 9ª ed., Roma-Bari, Laterza, 1993, 39 ss.
[4] Che connessione vi sia, nelle società antiche, credo infatti che sia incontrovertibile, come attestano anche tracce linguistiche piuttosto univoche: nella lingua greca, infatti, ‘diritto’ e ‘giustizia’ si designano sovente con la medesima parola (δίκη/-αιον), mentre in quella latina ‘ius’ (diritto) è la radice di ‘ius-tum’ (giusto) e quindi di ‘ius-titia’ (giustizia).
[5] Su ciascuno di questi filoni di pensiero occorrerebbe indicare una serie sterminata di riferimenti bibliografici e – ammesso e non concesso che sia per me possibile farlo – non è questa la sede per tentare una simile operazione; mi sarà concesso, pertanto, un generale rinvio alla manualistica corrente che si occupa di storia della filosofia del diritto e, tra gli altri, a quella da me compulsata (Fassò 2001a, 2001b e 2006).
[6] Il giusnaturalismo antico e quello contemporaneo asseriscono che la “giustizia” sia una qualità intrinseca delle norme e dei comportamenti umani, mentre il giusrazionalismo ritiene si tratti di qualità attribuite dalla ragione tramite un giudizio (Barberis 2005). In una posizione mediana affatto peculiare va invece collocato il giusnaturalismo tomistico, dottrina ufficiosa della Chiesa cattolica, che distingue non due ma tre sistemi di diritto: quello divino (intrinsecamente giusto), quello naturale (ricavato dalla ragione umana tramite procedimento deduttivo dal diritto divino) e quello positivo (Cotta 1955).
[7] Diverso problema, che qui può solo essere accennato, è quello se il diritto non debba includere necessariamente valori morali (Hart 1961, 250 ss.) oppure se necessariamente non debba includere valori morali (Raz 1972, 823 ss.). Nel primo caso il giuspositivismo viene aggettivato come inclusivo; nel secondo come esclusivo.
[8] A rafforzare quanto detto, almeno per quanto riguarda l’ordinamento italiano, ricordo che, in sede di approvazione del testo dell’art. 101 (art. 94 del Progetto) venne non a caso bocciata – nella seduta pomeridiana del 20 novembre 1947 – la proposta di scrivere un 2° comma del seguente tenore: «il giudice è soggetto solo alla legge che interpreta e applica secondo coscienza» (corsivo mio). L’espunzione della relativa finale (emendamento Conti-Perassi-Bettiol-Leone-Reale; parere favorevole di Ruini) conferma, almeno a mio parere, l’idea di aver voluto rigettare il meccanismo di un rinvio alla sfera morale di carattere propriamente normativo.
[9] Almeno il giudice (italiano), cioè, applica il diritto oggettivo e lo interpreta sulla base dei valori positivizzati nell’ordinamento tramite quella classe specifica di norme che sono i principi e le singole clausole generali (v. anche nt. precedente).
[10] La bibliografia, sia storiografica sia giuridica, su tale evento è sterminata: tra i numerosi contributi, limitatamente ai profili che qui affronto, segnalo, in lingua italiana, C. Schmitt, Risposte a Norimberga, Bari, Laterza, 2006; M. Cattaruzza e I. Deák, Il processo di Norimberga tra storia e giustizia, Torino, Utet, 2006 (con dvd contenente le interviste ai superstiti); T. Taylor, Anatomia dei processi di Norimberga, 2ª ed., Milano, Rizzoli, 2008 (testimone oculare); infine, tra i più recenti, R. Scevola, Norimberga. Il processo, Milano, Solferino, 2020. In lingua inglese, possono leggersi in particolare G. Mettraux (a cura di), Perspectives on the Nuremberg Trial, Oxford, OUP, 2008 e J. Hafetz, Punishing Atrocities through a Fair Trial: International Criminal Law from Nuremberg to the Age of global Terrorism, Cambridge, CUP, 2018.
[11] Complessità che si riflettono sul processo stesso: sulla controversa valutazione dei fatti di Norimberga mi limito a rinviare, per un efficace inquadramento, a D. Zolo, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, Bari, Laterza, 2014, e in ispecie alla sua acuta critica al modello di giustizia internazionale che ne è derivato.
[12] Ad es., vi fu una violazione dell’equità processuale almeno nei confronti di uno degli imputati, l’ammiraglio e comandante in capo della Kriegsmarine Karl Dönitz, imputato, tra le altre cose, per aver emanato un ordine generale agli ufficiali dei sommergibili U-Boot di non prestare soccorso ai naufraghi del naviglio nemico affondato durante la Battaglia dell’Atlantico. Purtuttavia, un analogo ordine era stato diffuso anche dai comandanti in capo delle forze belligeranti alleate (in particolare statunitensi), che tuttavia non furono chiamati alla sbarra (Goldensohn 2005), contravvenendo in tal modo al divieto processuale del doppio standard.
[13] Evito di considerare l’ipotesi che a essere chiamati in causa fossero il diritto tedesco e/o la morale del popolo tedesco dell’epoca: in quel caso, infatti, il processo sarebbe stato semplicemente insensato, poiché gli imputati – per lo meno nella stragrande maggioranza dei casi – non fecero effettivamente altro che obbedire al diritto vigente e quel diritto era certamente conforme alla morale positiva nazista.
[14] In questo caso lascio il termine “diritto” senza aggettivazioni poiché la conclusione è la medesima, tanto se il diritto positivo contrapposto alla morale critica fosse quello nazista, quanto se fosse quello internazionale vigente.
[15] Va infatti da sé, mi pare, che solo la possibilità di individuare un principio assoluto di giustizia, secondo quanto predicato dalle dottrine (neo)giusnaturalistiche, giustificherebbe – in caso di contrasto insanabile - il sacrificio del diritto, soprattutto se inteso a sua volta come valore di legalità/certezza.
[16] Repubblica, II.355-367, in Platone, Opere complete, cit., 63 ss.; la definizione, in altre parole, è di tipo giustificativo («perché perseguire la giustizia») e non strettamente concettuale («cosa è giusto»).
[17] Etica Nicomachea, V (E), 1.1129a-11,1138b, in Aristotele, Opere, 3ª ed., Roma-Bari, Laterza, 1988, 105 ss.; la definizione, in altre parole, è di tipo giustificativo («perché perseguire la giustizia») e non strettamente concettuale («cosa è giusto»).
[18] Leviatano, XIII-XV, in T. Hobbes, Leviatano, Roma-Bari, Laterza, 1992, 99 ss.
[19] Secondo Trattato sul governo civile, V, in J. Locke, Trattato sul governo, Roma, Editori Riuniti, 1995, 22 ss.
[20] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, 3ª ed., Roma-Bari, Laterza, 1990, 63 ss.
[21] J.J. Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, in Scritti politici, Roma-Bari, Laterza, 1994, 173 ss.
[22] Cfr. K. Marx, Critica al programma di Gotha, Roma, Editori Riuniti, 1990, 7 ss.
[23] Cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 1982, spec. 21 ss.
[24] Cfr. ad es. le divergenti considerazioni di Hart e Hayek: per il primo la giustizia sociale per eccellenza è solo quella distributiva (Hart 1965, 182 ss.), che il secondo respinge decisamente, sia sotto il profilo teorico, sia sotto quello pratico (Hayek 1986, 262 ss.).
[25] E il Processo di Norimberga, tanto per intendersi, sarebbe proprio uno di quei casi, in base alla c.d. formula di Radbruch (retro § 5), nei quali la violazione intollerabile della morale (critica) avrebbe attitudine a giustificare la violazione del diritto, persino nella sua accezione alta di legalità/certezza (Hafetz 2018).
[26] Pare essere, questa, notazione comune nelle fonti tradizionali (in particolare in Cicerone, Livio e Diodoro Siculo).
[27] V. le sue Lezioni di Storia del Diritto romano, 5ª ed., Torino, Giappichelli: «Il monopolio dei pontefici andò sgretolandosi attraverso un processo progressivo. Già la legge delle XII Tavole sottraeva a questo monopolio interpretativo, in quanto fissava e pubblicava delle norme» (corsivo aggiunto).
[28] … Dovendosi semplicemente chiarire se ciò sia avvenuto in un’unica soluzione (con la priorità gerarchica della morale critica sulla legalità) ovvero un po’ alla volta (pluralismo etico, magari temperato dalla formula di Radbruch, ma comunque fonte di incertezza).