“SARDA RIVOLUZIONE”:
UNIONI DI COMUNITÀ LOCALI (“VILLE”) CONTRO FEUDALESIMO STAMENTALE.
TERMINI DELLO SCONTRO GIURIDICO
Università di Sassari
SommaRiO: I. RIVOLUZIONE
FRANCESE E FEDERAZIONI DELLE MUNICIPALITÀ. – 1. Risposta giuridica alla domanda di cambiamento socio-economico
e, quindi, politico. – 2. Unicità e
specificità storiche e scientifiche del confronto tra sistemi giuridici.
– 3. Progettazioni ministeriali e
realizzazioni ‘dal basso’: di federazioni municipali. – II. SARDA RIVOLUZIONE E UNIONI DELLE VILLE. – 1.
Contesto sardo di crisi: ville contro feudatari.
– 2. Riforma civica del ministro Bogino. – 3.
Unioni di ville e loro richiesta – straordinariamente
puntuale – di riforma della “rappresentanza”. – 4. Funzione “ausiliaria” di Giovanni Maria Angioy.
– Abstract.
Per cercare di comprendere i termini essenziali della “Sarda rivoluzione”, occorre, previamente, cercare di comprenderne i termini essenziali del suo contesto[1].
La Europa della epoca moderna è caratterizzata dalle grandi “monarchie nazionali”, tra le quali spicca, anche per la durata, quella di Luigi XIV, il “Re Sole”[2]. La crisi di questa monarchia[3] fa della Francia l’epicentro europeo della domanda settecentesca di cambiamento socio-economico.
Tale domanda diventa domanda di cambiamento politico ricorrendo a una precisa epistemologia scientifica: auto-interpretandosi e auto-proponendosi attraverso categorie giuridiche. Si tratta delle categorie fondamentali di ogni organizzazione collettiva in generale e in particolare di quella pubblica per eccellenza, il popolo. Tali categorie fondamentali sono: α) la concezione della sua natura e β) il regime della sua volizione, entrambe (natura e volizione) “unitarie”. Il serrato confronto “illuminista” tra “philosophes”, sulle diverse soluzioni da dare ai problemi socio-economici, si concentra così sullo strumento giuridico della “constitution”, anzi delle costituzioni, perché due sono le soluzioni (aristocratica feudale/parlamentare e democratica-civica/municipale) e, corrispondentemente, due sono i tipi di costituzioni.
Il ricorso alla epistemologia giuridica per rispondere alla domanda socio-economica e quindi politica ha una spiegazione altrettanto precisa, la quale rende unici, nella storia, il confronto scientifico e lo scontro politico settecenteschi e imprescindibile il loro esame.
Al di là della tripartizione erodotea e della sua variante eptapartita polibiana di “forme di governo” o politeíai, sino al 1651 – cioè sino alla redazione hobbesiana del Leviathan – esiste una sola costruzione dogmatica-sistematica giuridica[4]. È quella di diritto romano, le cui ‘categorie fondamentali’ sono: α) la concezione concreta della natura unitaria del popolo[5] come “società”[6] e, quindi, β) il regime partecipativo della sua volizione unitaria.
È una costruzione complessa, la quale comporta una duplice articolazione:
- sia della volizione del popolo (nel comando generale dei cittadini/soci sovrani[7] e nel comando particolare dei magistrati di governo esecutori[8])
- sia della natura del popolo (nella dimensione piccola della città, per potere venire in essere, e nella dimensione grande della confederazione di città, per non dovere venire meno)[9].
Nel 1651, con il Leviathan, Thomas Hobbes, propone invece: α) la concezione astratta della natura unitaria del popolo come “persona artificiale” e, quindi, β) il regime sostitutivo della sua volizione unitaria da parte di concreti “rappresentanti” sovrani[10]. Hobbes fornisce, così, la base teorica alla prassi feudale della volizione unitaria collettiva mediante trasferimento del potere volitivo dalla collettività delegante ai propri delegati (prassi introdotta nel Parlamento, sin dal 1295, dal re d’Inghilterra Edoardo I, con il cosiddetto ‘Model Parliament’)[11].
Il confronto tra gli oramai due, alternativi sistemi giuridici – ovviamente, impossibile nei secoli precedenti – diventa nel Settecento non soltanto possibile ma anche oggetto massimo di attenzione, di riflessione e di proposta.
Sempre per ‘cercare di comprendere il contesto’, dobbiamo, inoltre, sapere e tenere presente che il confronto tra sistemi giuridici torna ad essere impossibile nel secolo successivo e fino ai giorni nostri. Ciò dipende dalla dottrina formulata dai giuristi tedeschi dell’Ottocento e tuttora assolutamente dominante. Il tentativo della storiografia francese (con autori quali Augustin Tierry, Edgar Quinet, Ernest Renan) di proporre ancora la interpretazione del diritto romano come alternativo al potere feudale precisamente attraverso la istituzione comunale, è “travolto” dai giuristi-storici (ossia romanisti) tedeschi, i quali (con grande sfoggio di citazioni di fonti romane) ne impongono una interpretazione che è stata correttamente definita “immagine eterna”[12]. Non deve, però, sfuggire che tale “immagine” è costruita mediante la interpretazione come ‘postulato di ragione’ delle fondamentali categorie dogmatico-sistematiche specifiche del diritto feudale inglese e, pertanto, le loro necessarie attribuzione già al diritto romano e proiezione anche nel futuro. È, appunto, la loro “eternizzazione”[13].
Tornando al Settecento, osserviamo che il confronto di riflessioni scientifiche è anche confronto di esperienze collettive e che i due livelli di coscienza si sostengono reciprocamente.
La componente aristocratica (feudale) della ‘società’ francese si riconosce naturalmente nel sistema giuridico medievale-moderno inglese recentemente perfezionato e (con la mediazione scientifica principalmente di “Montesqueiu le moderne”)[14] trova in esso il proprio “modello costituzionale”, quindi tradotto nella Costituzione del 1791, a sovranità parlamentare. Il Parlamento del secolo XVIII non è più quello di León, introdotto da Alfonso IX nel 1188 per dare potere ai Comuni contro lo strapotere feudale, ma è ormai quello di Westminster, chirurgicamente ma profondamente riformato (come abbiamo ricordato) da Edoardo I nel 1295 per togliere potere ai Comuni[15].
La componente democratica dispone del sistema giuridico antico romano e (con la mediazione scientifica principalmente di “Rousseau l’ancien”)[16] trova in esso il proprio “modello costituzionale”, quindi tradotto nella Costituzione del 1793, a sovranità municipale. Le municipalità del secolo XVIII, invece, restano la prosecuzione – per quanto flebile – della organizzazione municipale romana[17], vertice della ‘complessa’ esperienza democratica antica, realizzato nelle assemblee di città (i concilia provinciarum) della repubblica imperiale[18].
Il confronto scientifico tra i due sistemi giuridici maturerà (come ricordato) con i contributi di Montesquieu e di Rousseau ma si delinea già con le opere del campione della feudalità, marchese di Boulainvilliers (1658-1722), Histoire de l’ancien gouvernement de la France, 1727 (pubblicata postuma), e del campione del terzo stato, abbé Dubos, Histoire critique de l’établissement de la monarchie française dans les Gaules, 1734 [19].
È, quindi, lo stesso
governo regio a cercare di affrontare la crisi ed è notevole che i tentativi ‘governativi’
di porre mano a una riforma della eredità di Luigi XIV, nel senso della
efficienza della macchina pubblica, preferiscono guardare alla istituzione
municipale. Nel 1737, René-Louis Marquis d’Argenson (dal 1744 al 1747
segretario di stato per gli Affari esteri di Luigi XV [1710-1774]) scrive le Considérations
sur le gouvernement ancien et présent de la France, le quali (pubblicate
nel 1764) propongono, la rivitalizzazione e la diffusione in tutta la Francia
della antica organizzazione comunale. Nel 1775, Jacques Turgot (dal 1774 al
1776 ministro delle finanze di Luigi XVI [1774-1792]) propone, con una Mémoire
au roi sur les municipalités, un progetto di “costituzione del regno”
fondato sulle “municipalità autonome”, che appare «ricordare le antiche libertà
delle città romane»[20].
Il progetto è parzialmente realizzato da altri ministri come Jacques Necker nel
1778, Charles-Alexandre de Calonne nel 1787 e persino Étienne-Charles de
Loménie Comte de Brienne (già presidente della Assemblea dei notabili) nel
1788. Nello stesso anno, è difeso anche da Nicolas de Condorcet
nell’Essai sur la constitution et les fonctions des assemblées provinciales[21].
In questo quadro, si colloca il contributo scientifico di Rousseau, il quale, nel 1762, propugna la “confédération” delle “pétites cités”[22] e, qualche anno dopo, fa l’elogio delle “pièves” della Corsica[23].
L’8 agosto 1788, la componente aristocratica cioè feudale-parlamentare (apertamente rivoltatasi con sommosse a Pau, Rennes, Grenoble) ottiene però, da Loménie de Brienne, la convocazione degli Stati generali, ossia del Parlamento, per il 1º maggio 1789 [24].
Tuttavia, la linea municipale federativa non scompare dopo tale data. Si assiste, anzi, alla mobilitazione civica. Nel novembre 1789, 14 Città della Franche-Comté si stringono in lega con patto giurato, esteso quindi a tutta la Francia con le parole d’ordine “Unité et fraternité”. Il 14 dicembre 1789, la ‘Assemblée nationale’ emana la “loi municipale”, a seguito della quale le municipalità e le province si federano tra loro per fondersi infine in federazione nazionale a Parigi, il 14 luglio 1790 (nella ‘Fête de la Fédération’ per il primo anniversario della presa della Bastiglia)[25]. Il 3 agosto 1792 è il sindaco del Comune di Parigi, Jérôme Pétion, a chiedere alla Assemblea legislativa la decadenza di Luigi XVI[26].
Questo movimento è, infine, tradotto in proposta costituzionale. Il 27 marzo 1793, il giacobino di origini sarde, Jean-Paul Marat, afferma alla Convenzione che “Chaque commune de la république est souveraine”[27]. Il 24 aprile 1793, un altro giacobino, Louis Antoine de Saint-Just presenta il proprio “Essai de Constitution” su base municipale-federativa, in cui si afferma che “La souveraineté de la nation réside dans les communes”. Mentre il federalismo girondino (come quello dei ‘Federalists’ USA, di cui esso è copia esplicita) è realizzato esclusivamente con la divisione (il ‘de-centramento’) delle autonomie locali, il federalismo giacobino è realizzato principalmente mediante la loro associazione[28]. Nel 1794, ancora un giacobino, l’ambasciatore francese negli USA (nominato da Robespierre) Jean Antoine Joseph Fauchet, osserva che «i Federalisti nord-americani ‘tentano con ogni mezzo di distruggere il federalismo’»[29]. Robespierre, nel discorso Sur la Constitution à donner à la France (10 maggio 1793), aveva raccomandato “Respectez surtout la liberté du souverain dans les assemblées primaires”, cioè le assemblee dei cittadini[30]. Marie-Jean Hérault de Séchelles, nella presentazione di tale Costituzione alla Convenzione (il 10 giugno 1793), aveva sottolineato il ruolo costituzionale delle municipalità, specialmente delle piccole municipalità[31]. La Costituzione del ’93 non si limita a “dichiarare” che “La souveraineté réside dans le peuple” (Déclaration des droits, art. 25). Essa, stabilisce che “Il delibère sur les lois”. I “députés-représentants” possono soltanto “proposer des lois” e il “projet” viene “envoyé à toutes les communes de la République” e, se in tale contesto, “il y a réclamation, le corps législatif convoque les assemblées primaires” per “deliberare” sulla legge proposta. Infine, la stessa Costituzione viene approvata da tutte le 44.000 assemblee primarie dei Municipi francesi, con la sola eccezione di un Comune di 120 abitanti[32].
Il ‘colpo di Stato’ del 9 termidoro (27 luglio 1974) ossia la decisione tumultuosa della Convenzione Nazionale di arrestare Robespierre e altri giacobini (ghigliottinati l’indomani in Piazza della Rivoluzione) ha segnato anche la sconfitta del movimento democratico, municipale-federativo e, con la subentrante costituzione del 1795, la vittoria del costituzionalismo parlamentare: «autant, en 1793, on cherche à développer la démocartie, autant, en 1795, on va la réduire»[33].
Nell’Isola, dopo il tentativo di occupazione francese nel 1793 (21 dicembre 1792 - 25 maggio 1793) e la cacciata dei Piemontesi (lo scommiato del 28 aprile 1794), permane uno stato di agitazione generale[34], che ha radici ben più risalenti e profonde.
L’elemento destabilizzante è il sistema feudale, che ancora alla fine del XVIII secolo, costituisce una realtà oppressiva e continua a proporsi e imporsi come il predominante «strumento di governo della monarchia»[35].
L’azione del movimento antifeudale sardo prende avvio dalle comunità, unite dal comune obbiettivo, ed è favorito da una efficiente rete di collegamento imperniata sul sistema solidaristico tra le “ville”[36]. I fermenti antibaronali prendono sempre più consistenza, e la pressione popolare porta ad imprimere un’accelerazione decisiva ad una tendenza già in corso: scardinare il feudalesimo[37].
La collisione «tra comunità di villaggio e feudalità» interagisce con gli attriti tra monarchia e feudalità che hanno il loro principale teatro di confronto/scontro nel Parlamento[38], ove il solo ceto feudale ha un «effettivo potere rappresentativo»[39] e nel corso del tempo continua a svolgere «un ruolo decisivo»[40].
Nell’ambito del vasto progetto di riforma ideato da Gian Lorenzo Bogino, Ministro degli Affari di Sardegna dal 1759 al 1773, un deciso e prezioso «segno antifeudale», si registra con la promulgazione dell’Editto del 24 settembre 1771 [41]. L’Editto pel nuovo assetto dei consigli di città e per lo stabilimento di quello delle ville introduce un’importante novità, istituisce in ogni villa un organismo di governo, il cosiddetto consiglio comunitativo. I consigli delle comunità mirano a sottrarre l’amministrazione delle ville «al controllo della feudalità» e sono più aderenti alla realtà e alle nuove necessità della società sarda[42]. È una decisa apertura riformistica, il primo colpo, forse l’unico di tale portata, inferto dalla monarchia sabauda all’arbitrio feudale. Infatti nel precedente assetto istituzionale delle città e delle ville «gli spazi decisionali delle assemblee dei capi famiglia […] erano efficacemente ristretti dagli ufficiali feudali, che premevano affinché si designassero solo persone soggette alla giurisdizione baronale, imponendo la rosa dei candidati»[43].
La riforma del 1771 risulta un provvedimento significativo per le comunità sarde, perché da un lato favorisce «il passaggio della rappresentanza del villaggio dal feudatario a un corpo eletto», intaccando direttamente il potere baronale, dall’altro propizia la maturazione nelle comunità di una forte coscienza dei propri diritti fornendole allo stesso tempo uno strumento per difenderli[44]. Infatti si costituiscono organismi nuovi e autonomi capaci di dare «voce e rappresentatività alle popolazioni dei villaggi»[45]. Nell’Editto si stabilisce che il “corpo” dei consiglieri (per riprendere il dato testuale del provvedimento, in cui si parla di «stabilimento de’ corpi di comunità») sia espresso «dall’assemblea dei capifamiglia di ciascun villaggio riunita alla presenza dell’ufficiale di giustizia e notificata con bando pubblico»[46]. I Consigli Comunitativi, che possono essere considerati il precedente storico «degli odierni Consigli comunali», si pongono come una strutturata «forza antagonista ai feudatari»[47].
L’Editto risulta il provvedimento più inviso ai baroni, per l’erosione delle loro prerogative, in particolare quella di nominare i consiglieri dei villaggi[48]. I feudatari oppongono resistenza con il manifesto politico denominato la Rappresentanza de’ Baroni per dimostrare pregiudiziale alla loro giurisdizione l’Editto che prescrive lo stabilimento de’ Consigli di Comunità in cui si accusa il governo di Torino di violare le clausole dell’atto di cessione del 1720, che garantiscono la conservazione di leggi, privilegi e Statuti del Regno[49]. Nella replica del governo sabaudo si chiariscono i termini della questione e si evidenzia che si tratta di provvedimento elaborato nel pieno rispetto delle leggi e dei privilegi, e che il contenuto e la modalità di applicazione dell’Editto rientrano nella potestà del re «all’interno di una logica assolutistica»[50]. Ma nei programmi della politica piemontese non rientra l’abolizione integrale del feudalesimo, la classe baronale è pur sempre un cardine essenziale della Corona. Pertanto il governo sabaudo, dando spazio alle contro-rivendicazioni del baronato, di non ledere i diritti feudali, nel 1775, stabilisce un «filtro all’autonomia» dei Consigli Comunitativi che in un certo qual modo ne depotenzia lo slancio[51].
Nonostante la parziale retromarcia del governo sabaudo, la linea civica di contrasto al feudalesimo è condotta innanzi dalle stesse comunità locali, le quali non soltanto assumono l’iniziativa della ribellione anti-feudale ma ne individuano anche lo strumento nelle loro unioni.
La prima iniziativa è presa nel territorio del medievale Giudicato d’Arborea con l’«atto collettivo» del 24 agosto del 1792 [52]. Trentuno ville di Parte Monti[53], Usellus e Marmilla si uniscono e inoltrano per iscritto, al Vicerè Vincenzo Balbiano di Chieri, una protesta collettiva in cui denunciano gli abusi feudali perpetrati dal marchese di Chirra[54]. Nello schieramento di queste ville si intravvede l’antica organizzazione amministrativa giudicale, ossia le curatorie storiche dell’isola[55]. Infatti le trentuno ville, firmatarie del ricorso del 1792 rientrano tra le circoscrizioni curatoriali appartenenti un tempo al Giudicato di Arborea[56]. In età giudicale le curatorie sono distretti territoriali intermedi, di diversa estensione formati da un insieme più o meno numeroso di ville facenti capo alla villa più grande[57]. Non sono semplici denominazioni topografiche di centri abitati indicanti un luogo fisico di residenza, ma sono luoghi decisionali, ove si svolgono le funzioni elettorali amministrative e giudiziarie[58]. Pare dunque una riviviscenza in età moderna del sistema civico sardo, imperniato sugli ordinamenti a base ‘comunitaria locale’, le ville e le loro associazioni, le curatorie che con la feudalizzazione dell’Isola, conseguente al suo passaggio nel dominio aragonese, hanno subito la aggressione del sistema feudale europeo[59]. Le storiche curatorie-partes della ‘geografia giudicale’ vengono ‘trasformate’ in Baronia di Parte Montis, Baronia di Parte Usellus, Baronia della Marmilla rientranti nel Marchesato di Quirra e soggette al potere del feudatario.
Il medesimo tipo di iniziativa è quindi sviluppato nel territorio del medievale Giudicato del Logudoro, alla cui antica organizzazione appare rimandare la denominazione Logu[60]. Nel Logudoro agli atti di rivolta si accompagna «la genesi dei patti stabiliti fra i villaggi» con la costituzione di una «confederazione» formata da «un gran numero di ville sempre più consapevoli dei loro diritti»[61]. Gli “strumenti di concordia e unione” ossia i «patti di alleanza» fra ville sono «vere leghe di resistenza» antifeudale[62]. Le rivendicazioni assumono la forma di atto costitutivo di collettività. È un modus procedendi giuridico preciso. Alle firme dei partecipanti, indicati come “costituenti”, seguono quelle dei testimoni e del notaio rogante. Tali “strumenti” o “atti d’unione” esprimono una «cultura istituzionale di alto profilo» e danno prova di una interessante combinazione di matura scienza giuridica e di forte coscienza popolare[63].
Tra il 1795 e il 1796 sono ben cinque gli atti formali di unioni anti-feudali tra ville. Il primo atto notarile, datato 24 novembre 1795, è sottoscritto dalle ville di Thiesi, Cheremule e Bessude ed è articolato in sette punti programmatici con i quali si persegue il riscatto dei feudi[64]. Le suddette ville (che in età giudicale costituiscono la curatorìa di Cabuabbas e che ora compongono invece il marchesato di Monte Major o Montemaggiore, appartenente al duca dell’Asinara) riunite a Thiesi davanti al notaio Francesco Sotgiu Satta, originario di Osidda, con sindaci, consiglieri, prinzipales e capi famiglia, firmano il primo atto confederativo. Nell’atto si stabilisce che le dette ville «si credono in dovere di fare una unione, ed alleanza [...] per liberarsi da tutti i pericoli che li sovrastano [...] ed affinchè sia palese a tutta la Sardegna, anzi a tutta l’Europa il voto, e desiderio d’esse Ville, hanno unanimemente risolto di ridurre in scritto, ed eziandio in pubblico, e solenne Stromento le determinazioni dalle medesime prese [...] tutte le suddette Ville hanno unanimemente risoluto, e giurato di non riconoscere più alcun Feudatario, e quindi ricorrere prontamente a chi spetta per esser redente pagando a tal effetto quel tanto, che da’ Superiori sarà creduto giusto, e ragionevole [...] hanno perciò tutte le suddette Ville, e i loro abitanti unanim/te risoluto di scambievolmente aiutarsi, soccorrersi, e difendersi in qualunque evento con respingere eziandio colla forza qualunque spedizione, che si tentasse far dal Governo di Sassari, o da’ Feudatarj ivi residenti, sia essa diretta contro le suddette Ville in generale contro alcune di esse, contro i loro abitanti, o qualcuno de’ medesimi, direttamente, o indirettam/te»[65]. In calce si riporta «Certifico io Notajo sottoscritto, qualm/te al presente Stromento sono concorsi quasi tutti li abitanti delle sovrascritte Ville, e mediante giuramento nella forma solita prestano approvano, e confermano d’una voce q/to il med/mo Stromento contiene, che pria è stato a tutti letto e volgarizzato, di che Fran/co Sotgiu Satta Not/o Pubb/co»[66]. Nel testo dell’atto ricorre a più riprese la denominazione “ville”, che non solo rende esplicito il motore decisionale dei moti antifeudali, ma ne richiama lo status di “villa”, “bidda” nell’idioma sardo, ossia lo status giuridico delle ‘comunità locali’ nell’ordinamento giudicale, e di conseguenza ci permettere di comprendere il senso e la portata del ruolo svolto biddas dalle nella storia giuridica sarda[67].
Tra le ville logudoresi seguono altri patti d’alleanza, che riproducono lo schema del primo atto confederativo[68]. Il 17 marzo 1796, a Ittiri, il notaio Cosimo Serra Carta redige un secondo atto sul modello dello strumento di unione già redatto dal notaio Francesco Sotgiu Satta. Il nuovo documento attesta l’unione delle ville di Ittiri e Uri, che in età giudicale compongono la curatorìa di Coros e ora, invece, la Contea dei Ledà. In esso si legge: «Unanimemente tutte le subdette ville confermano tutte le proteste d’unione [...] Non possono quindi in modo alcuno dispensarsi le infrascritte ville, e tutti quanti gli abitanti delle medesime di far presente agli illustrissimi e reverendissimi tre Stamenti, che prima di prendere alcuna delibberazione circa le risposte e determinazioni che perverranno da Torino in seguito all’esame delle dimande [...] debbane esser inteso e consultato l’intiero Capo di Sassari e Logudoro [...] Non devesi intanto prescindere di far presente l’incongluenza per non dire l’assurdo, che da pochi soggetti si desse il votto in un affare cottanto sustanziale contro la già dichiarata volontà e protesta dei commitenti»[69].
Il 27 marzo 1796 a Thiesi, le ville di Thiesi, Cheremule e Bessude, sentono la esigenza di sottoscrivere nuovamente, con un testo pressoché uguale a quello sottoscritto l’anno prima, un “patto di unione”, come a rafforzare e confermare il precedente. Nel nuovo patto si esplicita che «niuno di quei che fossero muniti di procura d’essi due Capi, possano votare negli anzidetti tre Stamenti, Ecclesiastico, Militare e Reale, circa le deliberazioni sovra accennate, che dovranno prendersi in seguito alle risposte delle domande del Regno, primaché sopiano quale sia il voto, e desiderio delle inf/tte Ville, e loro abitanti [...] Non deesi in fatto prescindere di far presente l’incongruenza per non dir l’assurdo, che da pochi soggetti si desse il voto in un affare cotanto sostanziale, contro la già dichiarata volontà, e protesta de’ commitenti»[70].
Può apparire strano e sorprendente ritrovare, affrontata dalle ville di Thiesi, Cheremule e Bessude, nel secolo XVIII, per il funzionamento del parlamento sardo, esattamente la medesima questione giuridica già affrontata (in termini rovesciati) dal re d’Inghilterra, nel secolo XIII, per il Parlamento inglese[71]. Dobbiamo, però, considerare che ritroviamo esattamente la medesima questione, affrontata dal giurista tedesco Paul Laband (nuovamente nei termini di Edoardo I), nel secolo XIX, per la costruzione di quel diritto contemporaneo[72] che il pandettista Bernhard Windscheid (così completando il lavoro di Friedrich Carl von Savigny) sovrapporrà immediatamente dopo sul diritto romano[73]. In questa prospettiva lo “strumento” del notaio Francesco Sotgiu Satta[74] si inserisce a pieno titolo nella stringa degli interventi volti a incidere sulla questione giuridica (la quale si rivela una volta di più decisiva) della opzione tra l’“agire per mezzo di altri” (mandato romano) e l’“agire per altri” (procura inglese/tedesca) cui dedica la propria attenzione anche il grande Max Weber[75]. E merita osservare che il rapporto tra la volontà dei membri degli Stamenti cagliaritani e la volontà delle Ville sarde è esattamente lo stesso che intercorre oggi tra la volontà dei membri del Consiglio regionale e la volontà dei Comuni sardi.
Il 28 marzo 1796 a Bonnanaro i paesi di Bonnanaro, Torralba e Borutta, componenti il Marchesato del Meilogu (in età giudicale compongono invece la curatorìa di Meiulocu), sottoscrivono lo strumento d’unione e partecipano alla lotta antifeudale: «Nel nome del Signore Iddio. Sia ad ognuno manifesto come i consigli comunicativi raddoppiati, ecclesiastici, cavalieri e principali, ed altri abitanti delle infrascritte ville [...] si credono in dovere di fare strettissima alleanza tra le anzidette ville, e i suoi abitanti»[76].
Il 2 aprile 1796 a Bonorva i villaggi di Bonorva, Semestene e Rebeccu componenti il Marchesato di Villarios (in età giudicale compongono invece la curatorìa Costa de Addes o Costavalle) sottoscrivono uno “strumento di unione”: «i consigli comunitativi raddoppiati, ecclesiastici, cavallieri e principali, ed altri abitanti delle infrascritte ville»[77] di tenore identico al precedente.
Il moto popolare sardo, con la propria specifica organizzazione (strutturale e dinamica) di unione di ville, appare espressione della medesima linea di condotta che abbiamo già visto in Francia. È la ricerca della soluzione ai problemi ‘socio-economici’ nella migliore istituzione di governo, la quale è individuata non nella istituzione parlamentare ma nella istituzione civica. In Sardegna, tale linea di condotta appare ispirata, in maniera convergente, dalla scienza giuridica europea in particolare dalla sua componente romanistica (interpretata dal ministro Bogino) e dalla esperienza storica sarda in particolare dalla sua componente giudicale anche essa di matrice romana[78] (interpretata dalle comunità locali). L’azione di Giommaria Angioy si innesta su questo preciso moto popolare. Il giovane giurista non ne è né il promotore né l’ispiratore. Nominato il 3 febbraio 1796 dal viceré Filippo Vivalda suo Alternos e inviato nel Logudoro con pieni poteri civili, giudiziari e militari, diventa partecipe del movimento popolare antifeudale che avrebbe dovuto sedare: ponendosene – questo sì – non come «freno» ma come «ausiliario»[79].
La sollevazione tra le comunità locali del Logudoro è già in atto e alcuni ville si sono già impegnate con gli “strumenti” di unione, quando si inserisce l’azione di Angioy per pacificare la parte settentrionale dell’isola[80]. È la maggioranza dei membri dei tre Stamenti a proporre ed ottenere dal viceré la nomina di Angioy come Alternos per il Capo settentrionale[81]. Nel viaggio dalla sede cagliaritana degli Stamenti all’epicentro sassarese dei moti civici, Angioy attraversa le ville in lotta, ove riceve manifestazioni di giubilo e solidarietà, e tocca con mano la radicazione delle rivendicazioni. Non siamo in grado di indagare gli intimi propositi iniziali dell’Alternos. I fatti però dimostrano che la sua missione originaria muta, tanto da fare proprie le istanze di riforma delle ville ed assumere la direzione unitaria dei moti[82]. Il suo compito originale è capovolto. Egli si impegna a trattare con il vicerè per esaudire le rivendicazioni delle ville del Capo settentrionale. Si pone dunque in continuità, segue la linea di sviluppo del moto antifeudale e del modus procedendi delle comunità logudoresi, inaugurato con l’atto datato 24 novembre 1795 sottoscritto dalle ville di Thiesi, Cheremule e Bessude ma preceduto dall’«atto collettivo» del 24 agosto del 1792 sottoscritto dalle trentuno ville di Parte Monti, Usellus e Marmilla[83].
Nella dottrina storica il ruolo di Angioy è sottolineato. Ad Angioy si attribuisce la personalizzazione e la «politicizzazione» del movimento[84]. Egli incita le comunità a proseguire la rivolta in modo incruento, sempre tramite il mezzo degli “strumenti di concordia e unione” e mira al riscatto dei feudi tramite indennizzo[85]. Certamente con Angioy è conferma e appare rilanciata la valenza degli “strumenti” di unione tra le ville come «atto politico fondamentale, attraverso il quale il movimento antifeudale si sforzerà di coniugare legalità e rivoluzione nella lotta per l’abolizione del feudalesimo»[86].
Giunto a Sassari il 28 febbraio 1796, Angioy vi rimane 4 mesi, durante i quali in numerose adunanze sollecita a ricorrere agli strumenti d’unione. Ma la spinta del movimento antifeudale ha difficoltà a restare entro gli argini della formale “legalità”[87] perché dalle classi privilegiate, davanti al pericolo di perdere la posizione di plurisecolare egemonia nella società sarda, si oppongono anche al graduale superamento del regime feudale[88]. Angioy, il 2 giugno, decide di compiere un’azione di forza e parte alla volta di Cagliari, per ottenere dal Viceré e dagli Stamenti la abolizione del feudalesimo. Proprio questi però lo dichiarano ribelle e fuorilegge. La marcia verso Cagliari non giunge a destinazione, si arresta ad Oristano l’otto giugno del 1796. Da qui, nella medesima data (8 giugno 1796), scrive una lettera al Viceré, firmata anche dal macomerese Domenico Pinna. Nella lettera gli rivolge un invito per un incontro pacifico «Non potendo più soffrire tante oppressioni la provincia del Logudoro [...] Desidera [...] aver un abbocamento con V. E. in quel luogo che sarà di lei gradito [...] si potrebbe tenere questo parlamento per mezzo di due membri del Magistrato, e di due membri di ogni Stamento; si desidererebbe però, che uno dei membri di detti ceti fosse del Logudoro»[89]. In questo passaggio della lettera riappare il tema della rappresentanza, che abbiamo trovato puntualmente espresso nello “strumento” notarile di accordo inter-civico del 27 marzo 1796 [90]. Questa missiva viene seguita da un’altra, sempre in data 8 giugno 1796, con funzione di appoggio e conferma di quella a firma Angioy-Pinna. In questa seconda lettera un lungo l’elenco di firmatari si afferma a proposito della prima: «abbiamo unanimemente approvato tutti i sentimenti, che essa contiene, perché sapiamo con certezza esser l’istessi del Logudoro». Entrambe le lettere cadono nel vuoto restando senza riscontro.
Da questo momento inizia la fase discendente della parabola angioyana. Il 10 giugno egli ripiega su Sassari e dal 17 giugno, quando si imbarca a Porto Torres per lasciare la Sardegna, comincia la lunga e travagliata esperienza dell’esilio. Stabilitosi in Francia, dopo avere ripetutamente cercato di coinvolgerne le autorità nella liberazione della Sardegna dal giogo feudale, Angioy si spegne a Parigi l’8 febbraio 1808, a 57 anni. Nel Memoriale, scritto nel 1799 durante l’esilio, Angioy, nell’illustrare la prospettiva di fare dell’Isola una Repubblica, con la protezione della Francia, riconosce alle comunità locali il ruolo essenziale per la “causa rivoluzionaria” sarda[91]. Scrive Angioy: «Gli abitanti dei villaggi, oltre ai principi generali di libertà e di bene pubblico, hanno dei motivi specifici molto forti per desiderare il sistema repubblicano, ossia l’abolizione dei diritti feudali. Fin dall’inizio della rivoluzione in Sardegna essi si sono rifiutati di pagare i diritti a cui il Re, dal suo arrivo nell’isola, ha voluto sottometterli. Tale ordine ha suscitato un malcontento generale in tutti i villaggi che si sono pronunciati contro i loro feudatari [...] i motivi più forti e più potenti devono spingere i Sardi a desiderare il sistema repubblicano come il solo che può procurare il benessere e l’esistenza più comoda e più facile»[92].
Pour essayer de comprendre les termes essentiels de la “Révolution sarde”,
il faut d’abord comprendre les termes essentiels du contexte historique. La Sardaigne
adhère à l’exigence générale de changement socio-économique du XVIIIe siècle,
qui passe par la confrontation des réflexions scientifiques qui est aussi une
confrontation des expériences collectives. Cette thème devient une question de
changement politique, recourant à une épistémologie scientifique précise:
s’interpréter et se proposer à travers des catégories juridiques. Ces dernieres
sont: α) le régime unitaire de la volonté de la
collectivité et β) la conception unitaire de sa nature. Le
recours au XVIIIe siècle à l’épistémologie juridique, pour répondre à la
question socio-économique et donc politique, a une explication tout aussi
précise. C’est la présence persistante de l’ancien droit romain démocratique à
base civique, toujours non homologué par les juristes bourgeois du XIXe siècle,
au droit anglais médiéval-moderne aristocratique à base féodale-parlementaire,
et, par conséquent, encore capable de s’opposer à celle ci. Cela rend la
confrontation scientifique et politique du XVIIIe siècle uniques dans
l’histoire et leur examen essentiel. A la Révolution française, l’action se
concrétise dans les projets ministériels et dans les réalisations «bottom-up»
des fédérations municipales. Même dans la révolution sarde, après le projet de
réforme du ministre Bogino axé sur le rôle des “conseils municipaux”, l’action
se déroule dans les “syndicats” des “villas”, et à leur demande,
extraordinairement ponctuelle d’un point de vue juridique, réformer la
“représentation”.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind. Continuano ad essere valutati i fuori ruolo delle Università italiane; mentre per gli studiosi stranieri valutazione solo se richiesta.]
[1] Sul quale ho la opportunità di partecipare alla ricerca condotta, in questi anni, presso il Dipartimento di Giurisprudenza della Università di Sassari.
[2] S. Lagi, Lo Stato moderno e la pluralità nazionale: l’Impero asburgico (1848-1854), in L. Campos Boralevi, a cura di, La costruzione dello Stato moderno, Firenze 2018, 93: «è innegabile che lo sviluppo e l’affermazione dello Stato moderno siano stati intimamente legati al destino delle grandi monarchie assolute – tra le quali vorremmo ricordare la monarchia francese». Le grandi monarchie cui corrisponde la ideologia degli Stati nazionali sono quelle d’Inghilterra, Francia e Olanda e, con caratteristiche specifiche connesse alla riconquista anti-saracena, Spagna e Portogallo.
[3] C. Morandi, Luigi XIV il Grande, re di Francia, in Enciclopedia italiana, 1934: «Dopo le sconfitte di Ramillies e di Torino (1706) e la perdita dei dominî spagnoli in Italia, la Francia attraversò un periodo di crisi profonda»; cfr. la voce Luigi XIV re di Francia, detto il Grande o il Re Sole, in Treccani. Enciclopedia on line, «Anche all'interno gli ultimi quindici anni di regno segnarono una grave crisi del "sistema"; malcontento in Francia per l'assolutismo, le continue guerre, la pressione fiscale; formazione di un nucleo d'opposizione ai metodi del re (Fénelon, Saint-Simon, Boulainvilliers)».
[4] Sulla nozione di “sistema giuridico” (con specifico ma non esclusivo riferimento al diritto romano) si veda P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, 1, Torino 1990; F. Sini, Religione e sistema giuridico in Roma repubblicana, in Archivio Storico e Giuridico Sardo di Sassari, VI, 1999, 31-76.
[5] P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, 41 ss. e 155 ss.
[6] Cicerone, De Republica 1.39: «res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus».
[7] Ateio Capitone, apud Aul. Gell., noctes Acticae 10.20: «lex est generale iussum populi aut plebis rogante magistratu».
[8] Cicerone, De Oratore 2.167: «magistratus in potestate populi Romani esse debet»; Pro Plancio 62: «sic populus Romanus deligit magistratus quasi rei publicae vilicos». In proposito, G. Valditara, Civis Romanus sum, Torino 2018 [consultabile ‘on line’] 149, nt. 588, che rinvia a G. Lobrano, Per la comprensione del pensiero costituzionale di J.J. Rousseau e del diritto romano, in Id. - P.P. Onida, a cura di, Il principio della democrazia. Jean-Jacques Rousseau, Du Contrat social (1762), Napoli 2012, 64 ss.
[9] G. Lobrano - P.P. Onida, Rappresentanza o/e partecipazione. Formazione della volontà «per» o/e «per mezzo di» altri. Nei rapporti individuali e collettivi, di Diritto privato e pubblico, romano e positivo, in Diritto@Storia, 14, 2016, § II.2.c.
Sulla duplice dimensione del popolo menziono anche altri due scritti di G. Lobrano (che ho potuto consultare seppure ancora in via di pubblicazione) Popolo e Costituzione attraverso la interpretazione del Diritto romano: i due corpi del Popolo sovrano, in Atti del IV Seminario “Russia e Mediterraneo. Religione, popolo, costituzione”, Sassari - Palazzo della Provincia 3 dicembre 2021; Id., Diritto romano e Costituzionalismo bolivariano. Con un riferimento al Tribunato, in Atti del Seminario di studi “Tradizione repubblicana romana. Juramiento en el Monte Sacro”, Roma - Campidoglio 17 dicembre 2021, §§ III.1 “Volizione progressiva del grande Popolo e i ‘due corpi’ del Popolo” e IV.1 “Due corpi del Popolo e attuali, rilevanti questioni storico-giuridiche e di diritto positivo”.
[10] G. Lobrano - P.P. Onida, Rappresentanza
o/e partecipazione, cit. §. II.1.c.
[11] C. Journes, L’État britannique, Paris 1985, 44, a partire dalla fine del secolo XIII «L'idée même de représentation, c’est-à-dire d’agissements individuels au nom d’une communauté [...], est dirigée contre les communautés représentées»; si veda G. Post, Plena potestas and consent in medieval assemblies. A study in romano-canonical procedure and the rise of representation, 1150-1325, in Traditio. Studies in ancient and medieval history, thought and religion, volume I, 1943, 355 ss.; cfr. G. Lobrano, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, Torino 1996, § B.II.1 “La istituzione parlamentare e lo sviluppo della teoria della rappresentanza nella tradizione inglese”, 159 ss.
[12] E. Conte, Res publica. Il modello antico, la politica e il diritto nel XII secolo, in ID. - V. Colli, a cura di, Liber amicorum Gero Dolezalek, Berkeley - Calif. 2008, 194 s. (ove sono citati Tierry, Quinet, Renan e Savigny).
[13] Sul contributo in materia di “rappresentanza” dei giuristi della ‘Historische Rechtsschule’ (in particolare Friedrich Carl von Savigny) e della ‘Pandektistik’ (in particolare Bernhard Winscheid) si veda G.C. Seazzu, Iussum e mandatum, I, Cagliari 2018, parte B “Percorso e formazione della dottrina nell’Ottocento” 61 ss.
L’affermarsi di tale concezione del diritto, come incompatibile con la democrazia, spiega sia l’anatema di Karl Marx contro il diritto (dichiarato “sovrastruttura” della “struttura” economica) sia la attenzione di Lenin sulla definizione della politica economica (la “NEP”) anziché sulla redazione della costituzione (affidata a un suo collaboratore: Josif Stalin, il cui precedente contributo più vicino a una riflessione sul diritto costituzionale è la brevissima Dichiarazioni dei diritti dei popoli della Russia del 15 novembre 1917, sottoscritto, “In nome della Repubblica Russa”, da “Il commissario del popolo per le questioni delle nazionalità: J. Djugašvili (Stalin)” e da “Il Presidente del Consiglio dei commissari del popolo: V. Ulianov (Lenin)” e nel quale sulla nozione di “popolo” appare sovrapporsi quella di “nazionalità”).
[14] P. Dubouchet, De Montesquieu le
moderne à Rousseau l’ancien. La démocratie et la république en question,
Paris 2001, “Première partie: autour de Montesquieu et du modèle
germano-anglais”, 17 ss. La monografia di Dubouchet è dedicata «à Giovanni
Lobrano» e nella “Introduction” (13) si afferma «Au professeur Giovanni Lobrano
de l’université de Sassari (Sardaigne) revient l’insigne Mérite d’avoir éclairé
la formation et la transformation de ces concepts en ayant recours à une
théorie “forte” dont le besoin, en ce domaine, se faisait particulièrement
ressentir […] : il s’agit de la distinction introduite entre deux modèles
antagonistes : le modèle ancien ou romain, seul vrai modèle républicain et
le modèle moderne ou germano-anglais d’origine féodale».
[15] G. Lobrano, Res
publica res populi, cit., § B.II.3 “La dottrina parlamentare della
‘rappresentanza della nazione’ nella Francia pre-rivoluzionaria”, 177: «Il
‘Regolamento’, del 24 gennaio 1789, per gli Stati generali convocati da Luigi
XVI, riprende, quasi alla lettera, il tradizionale schema inglese: “les
pouvoirs dont les députés seront munis devront être généraux et suffisants pour
proposer, remontrer, aviser et consentir”». Lobrano rinvia agli Archives
parlementaires e ai saggi di J.
Cadart, Le régime électoral des Etats généraux de 1789, in Ann.
de l'Univ. de Lyon, 1952, 154, e P.
Avril, Notes sur les origines de la représentation, in D’Arcy
François, Dir., La représentation, Paris 1985, 101 s.
[16] P. Dubouchet, De Montesquieu le
moderne à Rousseau l’ancien. La démocratie et la république en question,
cit., “Deuxième partie: autour de Rousseau et du modèle romain”, 65 ss.
[17] Un giurista non sospettabile di anti-statalismo come Theodor Mommsen, autore del Römisches Staatsrecht, ha scritto che a partire dalla fine della “guerra sociale” (che segna il primo grande balzo espansivo della Repubblica romana) tale repubblica diventa una “confederazione di città” e che questa costruzione diventa la “base della nostra civilizzazione”.
Th. Mommsen, Le droit public romain (tr. fr.
dalla 3a ed. ted. di Frédéric Girard) VI.II, Paris 1889, 417: «De même que la
République fut conduite finalement, par une nécessité logique, à substituer à
la ligue des villes italiques la Roma communis patria, le Principat
finit pour transformer toutes les cités provinciales, d’abord en villes en
forme, puis en villes de citoyens. Les résultats de cette évolution, conservée
dans les recueils juridiques, ont spécialement par l’intermédiaire de ces
recueils, exercé une influence puissante et souvent bienfaisante sur le
développement de l’Ėtat et de la commune, qui est la base de notre
civilisation»; 426: «la cité locale est liée d’une manière fixe au droit de
cité de l’État, et il n’y a plus en principe à être citoyens de l’État que ceux
qui appartiennent comme citoyens locaux à un cité de citoyens déterminée.
Désormais le peuple romain est plutôt légalement une confédération de toutes
les cité des citoyens, ou, selon la formule des jurisconsultes romains, tout
citoyen romain a, à côté de la communis patria Roma, une patrie séparée,
la domus ou l’origo».
[18] G. Lobrano, Per ri-pensare giuridicamente le «città» e, quindi, l’«impero». I «concili provinciali», in Ius Romanum (Università di Niš [Serbia]) 2, 2017, 15 ss.
[19] Montesquieu loda Boulainvilliers e critica aspramente Dubos: De l’esprit des lois, 1ª ed. Genève 1748, XXX.10: «Je dirai seulement qu’il [Boulainvilliers] avoit plus d’esprit que des lumières, plus de lumières que de sçavoir: mais ce sçavoir n’étoit point méprisable, parce que de notre histoire & de nos loix il sçavoit très-bien les grandes choses»; ibidem XXX.23: «Il est bon qu[e...] j’examine un peu l'ouvrage de M. l’abbé Dubos; parce que mes idées sont perpétuellement contraires au siennes; & que, s’il a trouvé la vérité, je ne l’ais pas trouvée». Cfr. Giovanni Lobrano, Res publica res populi, Torino 1996, § C.I.1, 192 nt. 4.
[20] N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà. Storia del costituzionalismo moderno, Bologna 1976, 183 s.
[21] N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà. Storia del costituzionalismo moderno, loc.cit.
Su
tali tentativi di riforma municipalista, si veda anche P. Viola, Autonomia
locale fra antico regime e Rivoluzione, in Mélanges de l'École française de Rome. Italie et
Méditerranée, T. 103, 1, 1991, 9-26 (consultabile ‘on line’).
[22] J.-J. Rousseau, Du Contrat
Social, 1ª ed. Amsterdam 1762, 1.15 “Des Députés ou Représentans”: «Tout
bien examiné, je ne vois pas quʼil soit désormais possible au Souverain de conserver
parmi nous lʼexercice de ses droits si la cité nʼest très-petite. Mais
si elle est très-petite elle sera subjuguée? Non. Je ferai voir ci-après* [*Cʼest ce que je mʼétois proposé de faire
dans la suite de cet ouvrage, lorsquʼen traitant des relations externes jʼen serois venu aux
confédérations. Matiere toute neuve & où les principes sont encore à
établir.] comment on peut réunir la puissance extérieure dʼun grand peuple avec
la police aisée & le bon ordre dʼun petit Etat».
[23] J.-J. Rousseau, Projet de constitution pour la Corse, redatto nel 1766 ma pubblicato postumo soltanto nel 1861.
[24] P. Marchand, Florilège des cahiers
de doléances du Nord, Villeneuve-d'Ascq 1989, I. La prérévolution
1787-1789, 8-12.
[25] «La Fédération de 1790 est la conséquence de la
formation en France des municipalités et des gardes nationales au moment de la
Grande Peur. Dans les villages et les villes se forment en juillet 1789 des
gouvernements particuliers qui se substituent aux anciennes autorités. Dans le
Dauphiné, plusieurs représentants de communes réunis à Étoile près de Valence,
le 28 novembre 1789, «fraternisent» et jurent «de rester à jamais unis, de
protéger la circulation des subsistances et de soutenir les lois émanées de
l'Assemblée constituante». C'est le premier cas connu de fédération. D'autres
suivent, à Pontivy notamment, en février 1790, puis à Lyon, Strasbourg et
Lille. Ces exemples sont imités dans la plupart des provinces, et les provinces
elles-mêmes se fédèrent entre elles. Enfin toutes les fédérations locales
décident de se fondre en une fédération nationale à Paris, le 14 juillet 1790»
(J. Tulard, Fédération de 1790,
in Encyclopædia Universalis [en ligne]).
[26] J. Llwellyn - S. Thompson, Jerome Pétion, in Alpha
History, 22 Maggio 2017.
[27] Si veda, infra, nt. 32.
[28] Si veda, infra, nt. 32.
[29] Si veda, infra, nt. 32.
[30] Si veda, infra, nt. 32.
[31] Si veda, infra, nt. 32.
[32] Ricavo le citazioni di Marat, Saint-Just, Jean Antoine Joseph Fauchet, Robespierre, Hérault de Séchelles e la informazione sulla approvazione municipale della Costituzione del ’93 da G. Lobrano, Esiste un «pensiero politico-giuridico Latino-Americano»? Caratteristiche e attualità del pensiero democratico: federalismo vero contro federalismo falso tra Europa e America, in Vicent Giménez Chornet - Antonio Colomer Viadel, editores, Libro de actas. I Congreso Internacional América-Europa, Europa-America, Valencia 27-29 de julio de 2015, Valencia 2015, 78-80 (consultabile ‘on line’); cfr. Id., Per la repubblica: “rifondare la città con le leggi”. Dal codice civico al codice civile attraverso le assemblee di città, in Domenico D’Orsogna - Giovanni Lobrano - Pietro Paolo Onida, a cura di, Città e diritto. Studi per la partecipazione civica. Un «Codice» per Curitiba, Napoli 2017, 15-86, in part. § II.1.a Il ruolo delle Assemblee di Città per e nella ‘Grande Révolution’.
[33] C. Debbasch - J.-M. Pontier, Les Constitutions de
la France, deuxième édition, Paris 1989, 57.
[34] P. Conte, Fra isole, coste e progetti federali: quando il Mediterraneo era al centro della rivoluzione, in P. Serna - P. Conte, a cura di, Ripensare la geopolitica delle rivoluzioni, Napoli 2021, 151: «Sull’isola, proprio la trionfale resistenza alle flotte guidate da Truguet avrebbe innescato quel “Triennio sardo” oggi molto enfatizzato in chiave indipendentista, ma che fu una cruciale tappa di politicizzazione intimamente connessa con gli avvenimenti francesi»; per una documentata ricostruzione della resistenza ai francesi e della sollevazione antipiemontese si veda T. Orrù - M. Ferrai Cocco Ortu, Dalla guerra all’autogoverno. La Sardegna nel 1793-94: dalla difesa armata contro i francesi alla cacciata dei piemontesi, Cagliari 1996; cfr. L. Carta, La sarda rivoluzione. Studi e ricerche sulla crisi politica in Sardegna tra Settecento e Ottocento, Cagliari 2001.
[35] S. Pola, Le agitazioni antifeudali in Sardegna (1793-1794), in I moti delle campagne di Sardegna dal 1793 al 1802, I, Sassari 1923, ora in A. Boscolo, a cura di, Il feudalesimo in Sardegna. Testi e documenti per la storia della questione sarda, Cagliari 1967, 366: «il feudalesimo, in rapporto alla Sardegna, era rimasto, come per la Spagna, uno strumento di governo della monarchia assoluta»; cfr. F. Francioni, Momenti e problemi della storiografia angioiana, in M. Pinna, a cura di, La Sardegna e la Rivoluzione Francese. Atti del convegno: “G.M. Angioy e i suoi tempi”, Sassari 1988, 104: «il regime feudale che non era una struttura solo economica o un’istituzione esclusivamente giuridico-tributaria bensì un elemento chiave dell’ancien régime sardo, del sistema sociale e politico allora dominante».
[36] Un’autorevole dottrina rileva l’importanza dell’elemento solidaristico si veda G. Doneddu, Società rurale e rivolta nelle campagne, in M. Pinna, a cura di, La Sardegna e la Rivoluzione Francese, cit., 43: «nel quadro complessivo solidaristico di cui erano spesso permeati i villaggi tra loro vicini e singole comunità nel loro complesso» e (54) «la solidarietà di villaggio fu una delle componenti vincenti nella prima fase della rivolta».
[37] M.T. Ponti, Tendenze separatistiche e fermenti antifeudali nel Logudoro (1795), in La Sardegna nel Risorgimento, Sassari 1962, 79-92.
[38] Il potere baronale è insidiato e minato dal «conflitto tra comunità di villaggio e feudalità» si veda G. Murgia, Il lungo feudalesimo, in M. Brigaglia - A. Mastino - G.G. Ortu, Storia della Sardegna, I, Dalle origini al Settecento, Roma- Bari 2006, 213.
Per ragioni di chiarezza istituzionale, preferisco indicare tali “comunità” con la stessa parola tecnicamente adoperata dai notai negli “strumenti” delle loro unioni (si veda, infra, §. II.3). “Villa” è la parola latina, resa con “bidda” nel ‘volgare’ sardo e con la quale sono indicate le comunità locali che costituiscono la struttura ‘sovrana’ della organizzazione giudicale (si veda V. Piras, Istituzioni giudicali. Specificità sarda e continuità romana, Milano 2021, 23-45, il § b. Natura civica-democratica α. Struttura civica su più livelli: Comunità locali, Coronas de Curatoria, Corona de Logu (e Corona ‘inter-giudicale’).
[39] O. Schena, Interessi cittadini, finanze regie e istituzioni parlamentari nella Sardegna del tardo medioevo, in Saitabi. Revista de la Facultat de Geografia i Història, 64-65, 2014-2015, 84: «il vero ceto privilegiato, unico e diretto interlocutore della Corona nel Regno»; cfr. B. Anatra, Corona e ceti privilegiati nella Sardegna spagnola, in B. Anatra - R. Puddu - G. Serri, Problemi di storia della Sardegna spagnola, Cagliari 1975, viene descritto il rapporto tra la Corona e i ceti privilegiati, e per ceti si intendono quei (9) «ceti che hanno diritto di rappresentanza nei parlamenti dei regni della Corona d’Aragona, tramite i rispettivi stamenti (o bracci)»; cfr. A.M. Oliva, I parlamenti del Regno di Sardegna, in A.M. Oliva - O. Schena, a cura di, Sardegna Catalana, Barcellona 2014, 139: «in Sardegna la società convocata in Parlamento era quasi esclusivamente catalano-aragonese, l’Assemblea parlamentare fu, quindi, almeno durante i primi Parlamenti l’istituzione rappresentativa di una classe dominante ed i Sardi vi potevano partecipare in forma molto limitata».
[40] A. Mattone, ‘Corts’ catalane e Parlamento sardo: analogie giuridiche e dinamiche istituzionali (XIV-XVII secolo), in Rivista di Storia del Diritto Italiano, LXIV, 1991, 21; Id. - C. Ferrante, L’età spagnola (1478-1700), in M. Brigaglia, a cura di, La Sardegna. Tutta la storia in mille domande, Sassari 2011, 37: «Le istituzioni stamentarie erano dunque la forma tipica della rappresentanza di una società di ordini e di una formazione economico-sociale di tipo feudale (nel senso che i vassalli erano rappresentati dai loro feudatari».
[41] G.G. Ortu, L’Ottocento: la «grande trasformazione», in M. Brigaglia - A. Mastino - G.G. Ortu, Storia della Sardegna, II, Dal Settecento a oggi, Roma-Bari, 2006, 15: «segno antifeudale dell’istituzione dei consigli comunitativi»; Id., Villaggio e poteri signorili in Sardegna. Profilo storico della comunità rurale medievale e moderna, Roma-Bari, Laterza, 1996, 209-212; cfr. G. Murgia, Comunità e baroni nei secoli XVI e XVII, in F. Manconi, a cura di, Il Regno di Sardegna in età moderna. Saggi diversi, Cagliari 2010, 224: «istituzione di un organismo di governo delle comunità più rispondente alle esigenze nuove della vita civile […] il consiglio di comunità».
[42] C. Ferrante - A. Mattone, Le comunità rurali nella Sardegna medievale (secoli XI-XV), in Diritto@Storia, 3, 2004, in cui si afferma che l’«emanazione dell’editto [...] finì per sottrarre definitivamente il governo delle ville al controllo della feudalità, favorendo l’emergere di un nuovo ceto dirigente rurale posto sotto la diretta protezione del sovrano»; cfr. A. Mattone, Istituzioni e riforme nella Sardegna del Settecento, in Dal trono all’albero della libertà. Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori del Regno di Sardegna dall’Antico regime all’età rivoluzionaria, Atti del convegno di Torino 11-13 settembre 1989, I, Roma 1991, 405-411.
[43] G. Murgia, Centralismo regio e potere locale: la riforma dei Consigli di comunità nella Sardegna del Settecento, in P. Merlin, a cura di, Governare un regno. Vicerè, apparati burocratici e società nella Sardegna del Settecento, Atti del Convegno Cagliari 24-26 giugno 2004, Roma 2005, 365: «Gli spazi decisionali delle assemblee dei capi famiglia, convocate annualmente, erano efficacemente ristretti dagli ufficiali feudali, che premevano affinché si designassero solo persone soggette alla giurisdizione baronale, imponendo la rosa dei candidati».
[44] I. Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno. Le «leggi fondamentali» nel triennio rivoluzionario (1793-96), Torino 1992, 40: «il passaggio della rappresentanza del villaggio dal feudatario a un corpo eletto e poi via via rinnovato attraverso cooptazione ma sempre, almeno giuridicamente, autonomo dal barone»; Id. - M. Capra, L’istituzione dei Consigli Comunitativi in Sardegna, in Quaderni sardi di storia, 4, 1983-84, 139-158; cfr. M. Lepori, Feudalità e Consigli comunitativi nella Sardegna del Settecento, in Etudes corses, 30-31, 1988, 171-182.
[45] I. Birocchi, Il Regnum Sardiniae dalla cessione dell’isola ai Savoia alla «fusione perfetta», in M. Guidetti, a cura di, Storia dei Sardi e della Sardegna, IV, L’età contemporanea, dal governo piemontese agli anni sessanta del nostro secolo, Milano 1989, 179: «dando voce e rappresentatività alle popolazioni dei villaggi, costituiva in organismi autonomi dai baroni – potenzialmente in grado di deliberare o ricorrere ai magistrati contro le modalità di esercizio del potere da parte dei feudatari – entità che fino ad allora erano prive di personalità giuridica e che erano rappresentate dai rispettivi baroni».
[46] A. Mattone, Assolutismo e tradizione statutaria. Il governo sabaudo e il diritto consuetudinario del Regno di Sardegna (1720-1827), in Diritto@Storia, 4, 2005: «Il provvedimento fissava il numero dei consiglieri [...] Il meccanismo elettorale prevedeva che la nomina dei consiglieri fosse espressa dall’assemblea dei capifamiglia di ciascun villaggio riunita alla presenza dell’ufficiale di giustizia e notificata con bando pubblico [...] Maturava l’idea di costituire nei villaggi una nuova classe dirigente, espressione del ceto dei produttori agricoli e dei proprietari terrieri, capaci di dar vita a un «corpo» di amministratori locali».
[47] L. Carta, Il Settecento e gli anni di Angioy (1700-1799), in M. Brigaglia, a cura di, La Sardegna. Tutta la storia in mille domande, Sassari 2011, 106-108: «nelle ville infeudate la riforma, che istituiva i consigli comunitativi (gli antenati degli odierni Consigli comunali) era un’assoluta novità: infatti prima della riforma nelle ville esisteva solo l’assemblea dei capi famiglia. Con la riforma del 1771 la competenza di nominare amministratori comunali veniva interamente sottratta al barone»; cfr. M. Lepori, Nobiltà e Regnum Sardiniae nel Settecento, in Le autonomie etniche e speciali in Italia e nell'Europa mediterranea. Processi storici e Istituzioni. Atti del Convegno Internazionale nel Quarantennale dello Statuto, Cagliari 29 settembre 1 ottobre 1988, Cagliari 1988, 76 ss.
[48] I. Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno. Le «leggi fondamentali» nel triennio rivoluzionario (1793-96), cit., 41: «Secondo la visione dei baroni, nel Regnum la sovranità si esprimeva attraverso l’esercizio dualistico del potere [...] I capisaldi di questo sistema erano rintracciati nella storia dell’isola, in particolare nell’insediamento aragonese».
[49] A. Mattone, La cessione del Regno di Sardegna dal trattato di Utrecht alla presa di possesso sabauda (1713-1720), in Rivista storica italiana, CIV, 1992, 5-89.
[50] A. Mattone, Assolutismo e tradizione statutaria. Il governo sabaudo e il diritto consuetudinario del Regno di Sardegna (1720-1827), cit.
[51] I. Birocchi, Il Regnum Sardiniae dalla cessione dell’isola ai Savoia alla «fusione perfetta», cit., 180: «Fu stabilito, infatti, che i loro ricorsi [dei Consigli Comunitativi] dovessero subire un esame preliminare di ammissibilità da parte dell’avvocato fiscale regio».
[52] Si veda D. Filia, La Sardegna Cristiana. Dal 1720 alla Pace del Laterano, Sassari 1929, 210: «Nel 1792, i sindaci di 31 villaggi di Parte Monti, Usellus e Marmilla inviavano un ricorso collettivo al Vicerè contro gli aggravi feudali del marchese di Chirra. L’esempio fu imitato dai comuni di San Gavino e di san Pietro di Pula».
[53] F.C. Casula, parte, (pars), in Dizionario Storico Sardo, Roma 2003, 1173: «All’interno dello Stato giudicale (ma solo nei regni di Càlari e Arborèa) il termine “parte” riprese il significato di zona giurisdizionale applicato alla curatoria […] la curadorìa o parte Montis, la curadorìa o parte Usellos».
[54] D. Filia, La Sardegna Cristiana. Dal 1720 alla Pace del Laterano, cit., 210 nt. 2: «La petizione fu presentata a nome dei paesi di Ales, Arbus, Bannari, Baratili, Baressa, Curcus, Escovedu, Figu, Forru, Gennori, Gonnosfanadiga, Gonnosnò, Gonnostramatza, Lunamatrona, Masullas, Mogoro, Morgongioi, Ollasta Usellus, Pauli Arbarei, Pau, Setzu, Siddi, Sini, Simala, Suri, Turri, Usellus, Ussaramanna, Villanovaforru, Zeppara».
[55] G. Milia, La civiltà giudicale, in M. Guidetti, a cura di, Storia dei Sardi e della Sardegna, II, Il Medioevo. Dai Giudicati agli Aragonesi, Milano 1988, 197: «I numeri aiutano a capire la capillare e totale diffusione in tutta l’isola di tale organizzazione amministrativa: il «giudicato» di Cagliari era diviso in 16 curadorias che comprendevano ben 406 ville; quello del Logudoro aveva un numero superiore di «curatorie», 19, ma inferiore di ville: 341; l’Arborea contava invece 13 «curatorie» e 223 ville; mentre la Gallura aveva 11 «curatorie» e 140 ville».
[56] Un elenco delle 13 curatorie che compongono il Giudicato di Arborea si trova in F.C. Casula, Giudicati e curatorie, in R. Pracchi - A. Terrosu Asole, a cura di, Atlante della Sardegna, Roma 1980, 96-97: «Barbàgia di Belvì o Meana. Barbàgia di Ollolai. Barigadu o parte Barigadu o Fordongianus. Bonorzuli o Bonurzoli. Campidano Maggiore o di Cabras. Campidano di Milis o parte Milis. Campidano di Simaxis o di Oristano o Parte Simagis. Guilcièr o Parte Gilcibèr o Ozièr Reàl. Mandrolisai o Mandra Olisai. Marmilla. Montis o Parte Montis o Montàngia. Usellus o Parte Usellos. Valenza o Parte Valenza e Brabaxiana».
[57] D. Panedda, Il Giudicato di Gallura, curatorie e centri abitati, Sassari 1979, 33: «Ogni curatoria, a sua volta, comprendeva un numero variabile di ville (villas o billas), i centri abitati. Queste ville erano, alcune di carattere pubblico, altre di carattere privato. Le prime erano dotate, oltre che di un territorio, di una propria amministrazione, al cui vertice stava il maiore de villa. Esse potevano articolarsi in più centri, dei quali i minori erano appendici, cioè frazioni di quello maggiore».
[58] F.C. Casula, curadorìa, “curatorìa”, in Dizionario Storico Sardo, cit., 500-501: «distretti elettorali e amministrativo-giudiziari formati – parrebbe – da un insieme proporzionale di paesi o “ville”, in modo da ottenere una popolazione press’a poco uguale in ciascuna curadorìa. Cosicché, le curadorìas più piccole erano quelle più densamente abitate, mentre le più grandi erano quelle spopolate che dovevano abbracciare tanti villaggi fino a raggiungere un numero di abitanti pari a quello delle altre curadorìas»; cfr. O. Schena, Strutture politiche, istituzioni ecclesiastiche e vita culturale nei secoli XI-XIII, in O. Schena - S. Tognetti, La Sardegna medievale nel contesto italiano e mediterraneo (secc. XI-XV), Milano 2011, 12: «curatorìe (curadorias) – che rappresentavano un’unità elettorale ed amministrativo-giudiziaria formata da un insieme di centri abitati (ville)».
[59] R. Di Tucci, L’origine del feudo sardo in rapporto con l’origine del feudo nell’Europa occidentale, Cagliari 1927, 16: «Il feudo catalano-aragonese opera […] sulla curatoria. Nel primo periodo della conquista i sovrani aragonesi infeudano intiere curatorie poi, con un procedimento graduale di dissoluzione, scompongono la curatoria nei diversi villaggi che ne formavano già la circoscrizione, e dànno in feudo uno o più villaggi, mentre il nome di curatoria perdura ancora come ricordo di una unità ideale»; F.C. Casula, Giudicati e curatorie, cit., 95: «Gli iberici avevano portato in Sardegna il vero feudalesimo, di antica matrice franca ma di cultura catalana, per sua natura destinato con gli anni a rivoluzionare l’assetto amministrativo indigeno […] Per ragioni di colonizzazione e di sfruttamento le ville del «regnum» furono accorpate dai nuovi governanti […] senza badare alle curatorìe di appartenenza ed assegnate ai feudatari».
[60] F.C. Casula, Logu, su, in Dizionario Storico Sardo, cit., 856: «Nella Sardegna giudicale (regni di Càlari, Torres, Gallura e Arborèa) era il “Luogo” per eccellenza, lo Stato»; ivi Logudoro, 856: «Titolo e nome sardo, contratto, dello Stato medioevale chiamato in italiano Regno di Torres o anche “Giudicato” di Torres. § Proviene da Logu de Torres, cioè Stato di Torres, corrotto in Logu de Tore > Logu de Dore > Logudore > Logudoro».
[61] F. Francioni, Giommaria Angioy nella storia del suo tempo, introduzione a D. Scano, La vita e i tempi di Giommaria Angioy, Cagliari 1985, XXXII.
[62] D. Scano, La vita e i tempi di Giommaria Angioy, cit., 116.
[63] I. Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno. Le «leggi fondamentali» nel triennio rivoluzionario (1793-96), cit., 139 e sempre riferito agli “strumenti” li definisce (140) «uno splendido esempio di cultura civile»; cfr. L. Berlinguer, Alcuni documenti sul moto antifeudale sardo del 1795-1796, in La Sardegna nel Risorgimento, cit., 109: «per la natura e la forza in cui sono nati: prova lampante del livello di emancipazione e delle tradizioni culturali dei loro ispiratori».
[64] I documenti originali sono reperibili nell’Archivio di Stato di Sassari, fondo atti notarili, nelle due collocazioni di Sassari città e Sassari ville: A.S.S. fondo atti notarili, Sassari città, copie, III, 1790, 418 ss., e III, fondo atti notarili, Sassari ville, copie, 480 ss.
[65] L. Berlinguer, Alcuni documenti sul moto antifeudale sardo del 1795-1796, cit., 123-126.
[66] L. Berlinguer, Alcuni documenti sul moto antifeudale sardo del 1795-1796, cit., 128.
[67] U.G. Mondolfo, Terre e classi sociali in Sardegna nel periodo feudale, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, XXXVI, Torino 1903, ora in ora in A. Boscolo, a cura di, Il feudalesimo in Sardegna. Testi e documenti per la storia della questione sarda, cit., 299: «l’esistenza di universitates, espressione giuridica delle villae, che non furono semplici aggregati di case e di uomini, e, se non giunsero ad esser mai organismi politici, ebbero tuttavia figura e personalità giuridica: enti, direi quasi, amministrativi».
[68] L’atto del 24 novembre 1795 è stato immediatamente celebrato dal Giornale di Sardegna (organo di stampa che accompagna le vicende della “sarda rivoluzione”) che scrive: «Il suo tenore è d’una natura affatto nuova in questo Regno e tanto strepitoso e si ben ragionato nei sette articoli che contiene, che certamente formerà uno dei più interessanti momenti della Storia Sarda dell’epoca presente», citato da M.T. Ponti, Tendenze separatistiche e fermenti antifeudali nel Logudoro (1795),cit., 96.
[69] A. Nasone - A. Tedde, In sos logos de Angioy. Lungo le strade della Sarda Rivoluzione. Testi e documenti, in Quaderni di Storia, 2, 2021, 103-106.
[70] L. Berlinguer, Alcuni documenti sul moto antifeudale sardo del 1795-1796, cit., 129-131, «Certifico in inf/tto Nott/o qualmente al p/nte antescritto stromento sono concorsi quasi tutti, o sieno più dei due terzi degli abitanti delle sovrascritte Ville, e mediante giuramento nella forma solita prestato approvano e confermano di una voce unanimi e concordi quanto il medesimo strumento contiene, che però è stato a tutti letto e volgarizzato, etc. etc. Matteo Porcheddu Pubblico Nott/o».
[71] Si veda, supra, nt. 11 e cfr., sempre supra, con le citazioni di Bruno Anatra, Carla ferrante e Italo Birocchi, alle ntt. 39, 40 e 44.
[72] Che Mario Campobasso (Il potere di rappresentanza degli amministratori di società di capitali nella prospettiva dell’unità concettuale delle forme di rappresentanza negoziale e organica, in Amministrazione e controllo nel diritto delle società. Liber amicorum Antonio Piras, Torino 2010, 452 ss.) definisce come «processo evolutivo comune alle varie forme di rappresentanza» cioè la «progressiva affermazione dell’autonomia del potere di rappresentanza dal contenuto di potere gestorio che lega il rappresentante al rappresentato» e di cui “rintraccia” «le lontane origini fin dal XIX secolo, nell’insegnamento del Laband secondo cui la procura è negozio autonomo dal mandato» (cfr. P. Laband, Die Stellvertretung bei dem Abschluβ von Rechtsgeschäften nach dem Allgemeinen deutschen Handelsgesetzbuch, in ZHR - Zeitschrift für Handelsrecht, 10, 1866, 183 ss.). Cfr. G. Lobrano - P.P. Onida, “Rappresentanza o/e partecipazione”, cit., § I.1.c. - Essenza “sostitutiva” della “rappresentanza”: una questione di “potere”.
[73] Si veda, supra, nt. 13.
[74] Senza prescindere, però, da una riconsiderazione complessiva della documentazione in nostro possesso, alla luce della grande valenza dogmatica-sistematica, politica e storica della ‘questione giuridica’ ivi trattata.
[75] Citato da G. Lobrano - P.P. Onida, loc. ult. cit.
[76] A. Nasone - A. Tedde, In sos logos de Angioy. Lungo le strade della Sarda Rivoluzione. Testi e documenti, cit., 71.
[77] A. Nasone - A. Tedde, In sos logos de Angioy. Lungo le strade della Sarda Rivoluzione. Testi e documenti, cit., 22.
[78] V. Piras, Istituzioni giudicali. Specificità sarda e continuità romana, cit., 38-45.
[79] A. Marongiu, I Parlamenti sardi. Studio storico istituzionale e comparativo, Milano 1979, 318: «non diminuivano, malgrado il passare del tempo, l’eccitazione generale, indirizzata – forse anche per la penetrazione delle idee rivoluzionarie francesi – anche, e nella parte settentrionale dell’isola particolarmente, contro i feudali: moto popolare che trovò non già un freno ma un potente ausiliario del giudice G.M. Angioi, spedito da Cagliari a Sassari come alter nos del vicerè».
[80] Per una ricostruzione della mappa dei luoghi interessati dalla “Rivoluzione sarda” si veda P. Cuccuru, Geografia della “Rivoluzione sarda”, in M. Pinna, a cura di, La Sardegna e la Rivoluzione Francese, cit., 165-177.
[81] L. Carta, Il Settecento e gli anni di Angioy (1700-1799), cit., 190: «Alternos è il termine curiale usato nel senso di Alter-ego in presenza di un plurale maiestatis con cui si riferiva a se stesso il viceré».
[82] L. Del Piano, Giovanni Maria Angioy “uomo di Plutarco?”, in M. Pinna, a cura di, La Sardegna e la Rivoluzione Francese, cit., 83: «all’Angioy, invitato addirittura a farsi esattore dei diritti baronali, non rimanevano aperte che due vie: rivedere la sua politica antifeudale, o insistere in questa direzione, mobilitando i villaggi del Logudoro»; cfr. F. Francioni, Momenti e problemi della storiografia angioiana, cit., 97, rileva l’atteggiamento oscillante di Angioy tra il «lealismo dinastico razionale, da giureconsulto, verso la Corona sabauda e l’interesse o l’entusiasmo per la causa francese».
[83] L. Carta, La «Sarda Rivoluzione» (1793-1802), in M. Brigaglia - A. Mastino - G.G. Ortu, Storia della Sardegna, II, Dal Settecento a oggi, cit., 43: «Dopo questo periodo gli strumenti d’unione si moltiplicheranno in tutto il Logudoro e il riscatto dei feudi tramite indennizzo, non l’abolizione violenta e cruenta del feudalesimo, diventerà la vera parola d’ordine della rivolta antifeudale nelle campagne. Nei mesi successivi gli «strumenti d’unione» diventeranno per Giovanni Maria Angioy e per i suoi fautori l’atto politico fondamentale, attraverso il quale il movimento antifeudale si sforzerà di coniugare legalità e rivoluzione nella lotta per l’abolizione del feudalesimo».
[84] J. Day, Profilo economico dei focolai di ribellione antifeudali in Sardegna nel 1793-1796, in L. D’Arienzo, a cura di, Sardegna, Mediterraneo e Atlantico tra Medioevo ed età moderna. Studi in memoria di A. Boscolo, I, La Sardegna, Roma 1993, 601: «si possono dunque considerare i primi moti come una classica rivolta antifiscale di gente ridotta in miseria e alla disperazione per le cattive annate. Il movimento sarà recuperato solo in un secondo tempo da «democratici» filo-francesi come Cilocco, Mundula, Muroni, Sanna Corda e lo stesso Giovanni Maria Angioy».
[85] L. Carta, Il Settecento e gli anni di Angioy (1700-1799), cit., 192, riferendosi all’operato di Angioy afferma che la sua «linea di azione coincideva con quella proposta alla fine di novembre 1795 con l’Atto di unione e di concordia dalle ville del feudo di Montemaggiore».
[86] L. Carta, La «Sarda Rivoluzione» (1793-1802), cit., 43.
[87] F. Francioni, Storia dell’idea di “nazione sarda”, in M. Brigaglia, a cura di, La Sardegna, II, La cultura popolare, l’economia, l’autonomia, Cagliari 1982, 126 ss.
[88] I. Birocchi, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno. Le «leggi fondamentali» nel triennio rivoluzionario (1793-96), cit., 155-156: «L’affermazione può sembrare azzardata, ma si può notare che l’Angioy non appare mai essere protagonista in prima persona, né fautore di discorsi o di proposte che lo mettessero in evidenza [...] In anni in cui le trame personali e le azioni spericolate ed anche eroiche erano un mezzo di lotta politica, la figura dell’Angioy è oscura proprio perché aliena da questi metodi e sembra quasi sciogliersi – lui capo carismatico – in seno agli avvenimenti».
[89] D. Scano, La vita e i tempi di Giommaria Angioy, cit., 122.
[90] Il testo integrale della lettera è riportato da D. Scano, La vita e i tempi di Giommaria Angioy, cit., 121-122, il quale osserva che «È da notare nella lettera lo sforzo di attribuire unicamente al Logudoro l’iniziativa della marcia di Cagliari e del suo distacco da Cagliari come pure i minacciosi propositi in caso di rifiuto. L’Angioy, seguendo la tattica iniziata in Sassari per le adunate, apparisce come un intermediario fra gli esponenti del Logudoro e il vicerè».
[91] G.M. ANGIOY, Memoriale sulla Sardegna (1799), in O. Onnis, a cura di, Cagliari 2015, 37-75, il testo originale delle Mémoires è riprodotto in G.M. ANGIOY, Mémoires sur la Sardaigne (1799), in C. Sole, a cura di, La Sardegna di Carlo Felice e il problema della terra, Cagliari 1967, 169-204.
[92] G.M. ANGIOY, Memoriale sulla Sardegna (1799), cit., 74-75.