Tradizione-Romana-2019

 

 

Pelloso-fotoCARLO PELLOSO

Università di Verona

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La dittatura tra modello romano, neo romano e italico

 

 

SOMMARIO: 1. Dal dictator repubblicano al ‘modello neo-romano’. – 2. Le ‘dittature’ dall’Italia antica alla contemporaneità: ‘scambio tra forma e contenuti’ e ‘reificazione indebita di etichette’? – 3. Lo zilaθ seleita nelle lamine di Pyrgi: un dictator plenipotenziario tra il VI e il V secolo a.C.? – 4. Tuscolo tra dittatura federale e dittatura cittadina in epoca arcaica. – 5. Alcune brevi conclusioni su forme e contenuti della dittatura romana e di quella italica. – Abstract.

 

 

1. – Dal dictator repubblicano al ‘modello neo-romano’

 

Come ha avuto modo di mettere in evidenza Aldo Prosdocimi, a premessa della trattazione dei rapporti intercorrenti tra dictator e magister populi inclusa nella sua ultima, purtroppo postuma, opera monografica – con il suo stile inconfondibilmente serpeggiante e denso e con la sua consueta graffiante acutezza –, «la terminologia giuridica e istituzionale romana e italica non è stata adeguatamente inquadrata dal punto di vista linguistico nella fissazione lessicale della semantica istituzionale, cioè dei contenuti. Il fatto sembra addirittura paradossale, se si considera che la maggior parte della letteratura romanistica concerne, spesso in misura totale, proprio la terminologia; ritengo che la mancanza di una teoria semantica adeguata alla terminologia in esame, specialmente nella diacronia – evoluzione tra lessico e contenuti –, abbia prodotto lo scambio tra forme e contenuti, la reificazione indebita di etichette o, più ancora, la reificazione di contenuti senza etichette, da cui le interminabili discussioni nominalistiche sui termini magistratuali, tra forma lessicalizzata e contenuti: in ciò senza tener conto della dimensione semantico-istituzionale che ne governa la correlazione e/o disgiunzione nell’evoluzione di forma vs. contenuto, che può essere, ma più spesso non è, isomorfa»[1].

A mente di queste parole, risulta più facile comprendere, e in pieno, come i pensieri costituzionali dominanti nell’età moderna e contemporanea siano andati a delinearsi sempre più precisamente, sia allontanandosi da quel modello, di discendenza romano-repubblicana, che lo stesso Rousseau aveva finemente teorizzato – in antitesi alle costruzioni montesquieuiane – nel Contratto Sociale e che i giacobini avevano tentato di ‘reificare’ con la rivoluzione, sia imprimendo alle figure, ai principi, e – ovviamente – alla terminologia del diritto romano un’opera di deformazione (se non, talora, di soppressione) tesa al loro adeguamento alle ‘teorie borghesi’[2]. D’altro canto, vero è che, come chiaramente emerge nel nuovo e assorbente paradigma predisposto – a spregio della storia più remota dell’istituto[3] – da non pochi scrittori sia di lingua greca[4] sia di lingua latina[5], la stessa figura della dittatura, in particolare, aveva conosciuto una endogena divaricazione tra la ‘cosa’ e la ‘parola’ attraverso le declinazioni personali impresse da Silla e da Cesare (casi, non a caso, rientranti tra le ipotesi mommseniane delle ‘ausserordentlichen constituirenden Gewalten’). In un’epoca – quella del I secolo a.C. – che già in abbondanza metteva in mostra i segni preconizzatori dell’imminente avvento del principato, infatti, i due dittatori avevano reinventato il loro honos in chiave apertamente carismatica e de facto ‘costituente’ di un ordine nuovo, sì da sconvolgere la sostanza e i limiti tradizionali della magistratura repubblicana[6]. Magistratura che, in precedenza, era sempre stata espressione – seppur duttilmente poliedrica sul piano concreto, ma di per sé ‘astratta’ quanto al rapporto tra ‘atto costitutivo’ e singole causae giustificative – di limitate e particolari funzionalizzazioni ‘extra-ordinarie’ e ‘temporanee’ ad hoc, originariamente solo di stampo militare atteso che il dictator (cd. optima lege) «n’avait rien qu’une simple commission pour fair la guerre, ou supprimer la sédition»[7]. Il celebre exemplum di Cincinnato, risalente al 458 a.C., ben definisce figurativamente non solo l’eroe repubblicano, quale cittadino umile e devoto, pronto, a servizio della res publica, ad abbandonare la tranquillità della vita agricola, per affrontare il bellicoso popolo montano degli Equi e trarre in salvo l’esercito del console Augurino sull’Algido, ma altresì il ‘mito’ del dictator rei gerundae causa, magistrato pronto, una volta superata la crisi per cui era stato nominato e una volta celebrato il maestoso trionfo nell’Urbe, ad abdicare dopo soli quindici giorni, in nome della fides, il supremo imperium e a riprendere a dissodare le zolle nei prati Quincti[8].

Parimenti, in anni più vicini al presente, la dittatura – sul solco del ‘Cesarismo’ e del ‘Bonapartismo’, più che del ‘Cincinnatismo’ – è stata assai sovente dirottata al concetto ellenico – invero inconciliabile, per la sua eterogeneità operativa e sostanziale – di ‘tirannia’[9]: queste idee che circolavano felicemente e facilmente nel primo cinquantennio del XX secolo hanno così alimentato, con riguardo alla nostra istituzione, la confusione generale nel mondo occidentale europeo e americano in esatta corrispondenza con il proliferare dei ‘totalitarismi’, che fini pensatori come Arendt invece riuscivano – recuperando con maggior esattezza il perimetro concettuale della dittatura repubblicana ‘tout court’ e le sue attuazioni o concettualizzazioni storiche successive (come, ad esempio, quella marxista del ‘proletariato’)[10] – a confinare a una multiforme species di governo autoritario a sé stante e, quindi, irriducibile alla matrice romana[11].

Di contro, l’America Latina del XIX secolo, con la vita e il pensiero dei suoi eroi, primo tra tutti Simon de Bolívar[12], attestava ancora la libertà da questa confusione: sposando una teoria e una pratica della dittatura che non conosceva alcuna radicale soluzione di continuità tra l’antichità romana repubblicana e la modernità[13], la magistratura non si atteggiava affatto – per impiegare le meta-storiche parole di Bobbio – come «il caso esemplare dell’attribuzione a una sola persona di tutti i poteri, dei ‘pieni poteri’, e quindi della sospensione, se pure temporanea, della validità delle leggi normali, in una situazione di particolare gravità per la sopravvivenza stessa dello stato»[14].

Quest’ultima connotazione del dictator quale ‘modello neo-Romano’ (ma non autenticamente romano)[15] ha riscontrato, ancorché su un piano ‘archeologico’ e non ‘genealogico’, sempre più crescente fortuna. La magistratura dittatoria, nella sua autenticità e nella sua unicità (pur ripetibile), ad esempio, veniva ricondotta al centro del dibattito internazionale sui poteri eccezionali del Presidente ai sensi dell’art. 48 della Costituzione della Repubblica di Weimar in nome del ‘Gewähr der Verfassung’[16] ed invocata, entro il più vasto tema degli strumenti costituzionali per gestire situazioni emergenziali (in cui, peraltro, si inseriva in particolare il dibattito weimeriano e i diversi tentativi di giustificazione o di spiegazione del regime hitleriano[17]). È in questo contesto che prende forma, nel pensiero di Schmitt, la dicotomia tra le cd. ‘kommissarische Diktatur’ e ‘souveräne Diktatur’: la prima figura elaborata formalmente sulla scorta del dictator optimo iure di età repubblicana (anche se sostanzialmente ricavata aliunde) quale magistratura rispondente alla logica della transitorietà e volta al ristabilimento dell’ordine preesistente a fronte di un ‘Ausnahmezustand’; la seconda scolpita a imitazione della magistratura del dictator rei publicae constituendae come potere che fonda l’ordinamento e, al contempo, non ne è vincolato[18]. L’impiego delle matrici romane nel dibattito internazionale ha avuto la forza propulsiva di sopravvivere al secolo breve: dopo i fatti dell’11 settembre 2001, a seguito dell’emanazione del Patriot Act e della creazione del United States Department of Homeland Security, il modello dittatorio ha conosciuto una ulteriore e definitiva consacrazione, in connessione con quello ‘stato di eccezione’ che – come ha enfatizzato Agamben – «tende sempre più a presentarsi come il paradigma di governo dominante della politica contemporanea»[19], ad archetipo di dispositivo funzionale alla conservazione dello status quo attraverso la sua parentetica sospensione.

 

 

2. – Le ‘dittature’ dall’Italia antica alla contemporaneità: ‘scambio tra forma e contenuti’ e ‘reificazione indebita di etichette’?

 

La forza semantica impressa, spessissimo con tracimante carica negativa, al sostantivo ‘dittatore’ allude oggi a realtà istituzionali ormai allontanate dalla figura tradizionale che le fonti permettono di tracciare con riguardo alla Roma repubblicana pre-sillana: la dittatura, sradicata dalla costituzione romana e innestata nei dibattiti politologici incentrati sulle peculiarità del governo autoritario, sulle concezioni della sovranità nonché sulle misure relative allo stato di eccezione, viene a identificarsi non solo nel «government of one man, who has not primarily obtained his position by inheritance, but either by force or consent and normally by a combination of both», ma anche nella «absolute sovereignty», nel senso che «all political power must emanate from his will, and it must be unlimited in scope»[20]. Ma v’è di più: lo stesso ‘modello neo-romano’ non solo ha condotto alla attualizzazione falsante della figura storica del dictator[21], ma si è anche imposta, paradossalmente, come categoria interpretativa falsante della stessa costituzione repubblicana di Roma: con la citazione sola dei Gracchi, di Mario, di Silla e di Cesare, si è addirittura ardito di scrivere che «Roman dictatorship started very late, six hundred years after the city’s alleged foundation by Romulus»[22].

La traiettoria che muove dal dictator romano per giungere al ‘modello neo-romano’ della dittatura permette di individuare due figure che, pur connesse l’una con l’altra (ideologicamente la seconda derivando, in termini archeologici, dalla prima), si differenziano profondamente tra di loro nella sostanza: nelle pagine precedenti, tuttavia, è rimasta del tutto in ombra la ‘dittatura italica’. A mente di quest’ultima, ho già tentato altrove di rispondere a domande fondamentali per comprendere i rapporti tra Roma e l’Italia antica: il dictator è figura autenticamente romana ovvero affonda le sue origini nel Lazio antico, se non addirittura nel mondo etrusco? O, forse, si tratta di un istituto trasversale, diffuso nell’Italia? Le caratterizzazioni sul piano giuridico dei dictatores attestati nei centri latini ed etruschi (ma progressivamente assoggettati alla potenza tiberina già a far tempo dal IV secolo a.C.) sono, dunque, paradigmi, sviluppi oppure profili connotati da totale autonomia rispetto alla straordinaria magistratura romana creata per la prima volta quando, tre anni prima della battaglia che vide contrapposta Roma alla cd. lega latina presso il lago Regillo, nel 501 o nel 498 a.C., supra belli Latini metus quoque accesserat, quod triginta iam coniurasse populos concitante Octavio Mamilio satis constabat[23]?

Il ‘modello neo-romano’, come è chiaro, prescinde in toto dalla dittatura italica ed eleva, nella sua auto-poiesi, il solo diritto costituzionale romano, ancorché riscritto in chiave attualizzante, a paradigma nel dibattito politologico dei nostri giorni e del secolo scorso: lo ‘scambio tra forme e contenuti’ così come la ‘reificazione indebita di etichette’ – per impiegare il lessico di Prosdocimi già citato all’esordio del presente contributo – connota innegabilmente la storia semantica della ‘dittatura romana’ considerata e nella sua originarietà e nella sua reinvenzione. Ebbene, a mente delle domande appena sopra ricordate, nonché dei due fenomeni menzionati dal grande linguista (al fine di denunciare talune falle nella ricostruzione della ‘terminologia giuridica e istituzionale romana’), non pare affatto peregrino interrogarsi anche sulla natura della ‘dittatura italica’, per inquadrarne adeguatamente la terminologia nella fissazione della semantica istituzionale (ossia dei contenuti), sia di per sé sia in rapporto alle realtà romana e neo-romana. Più precisamente, attraverso l’analisi della figura del dittatore, la quale ben si presta, tra l’altro, a fungere da paradigma del problema storico-giuridico del trapasso dal regno alla repubblica, in questo contributo si sottoporrà a vaglio anzitutto l’idea, sovente sposata da storici-storici e storici del diritto, secondo cui la monarchia nel corso del VI secolo a.C. sarebbe stata ancora – prima del suo superamento con l’affermarsi di regimi ‘dittatori’ – la prevalente forma di governo per le città etrusche, laddove il nuovo assetto si sarebbe già inverato nel Lazio, con la sola eccezione di Roma, ancora legata, tradizionalmente sino alla fine del VI secolo a.C., alla forma ‘pura’ della res regis[24]. Così delimitata l’area tematica delle prossime pagine, tenterò di perseguire lo scopo qui enunciato elevando Cerveteri e Tuscolo a centri – l’uno etrusco, l’altro laziale – di riferimento.

 

 

3. – Lo zilaθ seleita nelle lamine di Pyrgi: un dictator plenipotenziario tra il VI e il V secolo a.C.?

 

Con riguardo al mondo etrusco, assai di recente l’idea ricordata nel pregresso paragrafo non ha riscontrato l’adesione di chi ha sostenuto sia che la prima attestazione del titolo magistratuale di zilaθ vada datata al secondo quarto del VI secolo a.C., sia che la compresenza nel primo/secondo quarto del VI secolo a.C. delle figure dello zilaθ e del marunuχ possa rappresentare un indizio di un antico dualismo nell’esercizio delle cariche cum imperio e del culto pubblico, mentre nello stesso periodo a Roma si rileverebbe una situazione ancora di unità di prerogative, espletate dall’unica figura del rex[25]. Si tratta di una linea di pensiero che, nella storia del trapasso tra regno e repubblica, pone, da un lato, Lazio ed Etruria (non più ritenuta, come nella opinione sopra riferita, meno permeabile al trapasso alla res publica degli stessi centri di lingua latina), e, dall’altro, Roma (maggiormente restia rispetto ai centri latini e etruschi all’abbandono delle forme costituzionali monarchiche): una linea di pensiero, quest’ultima, che si colloca sulla scia di una meno recente opinione che ha preso le mosse proprio dall’assetto della città di Cerveteri assuntamente post-monarchico.

È incontroverso che secondo la tradizione quest’ultimo centro, in età arcaica, sia stato retto da un rex per un arco temporale assai ampio e superiore a quello di altri centri etruschi (come Tarquinia). Un elogium di età claudia attesta che il praetor tarquiniese Aulo Spurinna imperio expulit Orgolnio, il rex Caeritum: si potrebbe trattare di episodio attribuibile addirittura alla seconda metà del VI secolo, ovvero meno antico, ossia contestualizzabile agli inizi del V secolo, oppure al IV secolo a.C.[26]: così Cerveteri avrebbe conosciuto il trapasso alla repubblica o poco prima o poco dopo, rispetto a Roma (se non, invece, a più di un secolo dal fatidico 509 a.C.).

Lasciando a parte la questione della datazione dell’episodio testé menzionato (questione risolvibile, allo stato, solo congetturalmente mediante ricostruzioni che, contestualizzando l’episodio grazie ad altre risultanze, non possono superare lo stadio della mera plausibilità e giungere a livello di certezza storica), va rilevato come, quanto alla magistratura cerita subentrata alla regalità, da un punto di vista generale, nel corso del XX secolo sia stata da più fronti contraddetta la tesi di Rosenberg che – come noto – contrapponeva nettamente il mondo etrusco post-monarchico caratterizzato da un assetto magistratuale apicale monocratico (capace, però, di imporsi come modello anche in numerosi centri del Lazio) a quello autenticamente latino a magistratura collegiale pari potestate e quello osco del collegio magistratuale diseguale[27], così come quella di Rudolph, che – radicalizzando il pensiero di Mommsen (che sia prescindeva da influenze latine, cittadine o federali, sulla magistratura dittatoria romana, sia presupponeva una visione della storia italica fortemente romano-centrica) – sosteneva l’origine romana del dictator non solo dei centri del Lazio, ma anche in area etrusca[28]. E ciò – ossia tale nuovo quadro postulante una, ora più ora meno accentuata, koinè italica – si precisava, sia descrivendo l’assetto magistratuale dei centri etruschi in modo assai più variegato e complesso, sia leggendo come versioni delle magistrature epicorie originali quelle romane post reductionem ad civitatem[29].

Con specifico riferimento a Cerveteri, il dibattito sulle magistrature della città seguenti la fine della monarchia e precedenti l’assorbimento nella civitas non si è sopito. In un primo tempo, alcuni studiosi avevano identificato nel cd. zilaθ purθ (o semplicemente purθ, termine riconnesso al nome di Porsenna) la suprema magistratura di passaggio, espressione tecnica che sarebbe stata resa nella successiva interpretatio latina con il sostantivo dictator per indicare una realtà, all’evidenza, in nulla assimilabile – se non nella monocraticità – alla figura stra-ordinaria del dictator rei gerundae cauase e più vicina – per non per la monocraticità – al consolato[30]. Più di recente, da altri, è stata in via generale non solo negata l’ordinarietà del purθ, ma questo è stato inteso come magistrato con funzioni militari, sulla base dell’accostamento della carica ad una cassa con rappresentazione di cavaliere in armi[31]: il parallelo con la dittatura romana, letto il purθ con queste lenti, si renderebbe meno vago, ma è stata esclusa su base linguistica la diretta ascrivibilità a Cerveteri di questa figura (ben attestata solo altrove)[32]. Infine – ed è sul punto che intendo soprattutto indugiare – si è valorizzata quella interessante testimonianza bilingue rappresentata dalle lamine di Pyrgi che, cronologicamente, fa da spartiacque tra il VI e il V secolo a.C. e a questo periodo, quindi (sia in tendenziale concomitanza con la tradizione del trapasso romano dal regime ‘tirannico’ del Superbo al regime misto della respublica, sia in supporto della datazione alta dell’espulsione di Orgolnio) si è ritenuto di ascrivere anche a Cerveteri, contro l’idea della maggior staticità del mondo etrusco tradizionale, un ordinamento magistratuale post-monarchico di tipo ‘dittatorio’[33].

Nel testo etrusco delle lamine si rinviene, infatti, il riferimento allo zilaθ qualificato come seleita in corrispondenza del sostantivo semplice fenicio MLK. Dapprima, e solo congetturalmente, lo zilaθ seleita è stato riconnesso alla funzione di «Jahreszählung durch Nageleinschlag» in quanto terminologicamente ritenuto corrispondente della figura romana del praetor maximus (competente, come è noto grazie alla lex vetusta, a infiggere un clavus annalis alle idi di settembre)[34]. Poi, lo zilaθ seleita è stato ulteriormente equiparato al dictator, posta per Cerveteri l’equipollenza esclusiva di quest’ultimo magistrato con il praetor maximus: «Thefarie Velianas è un magistrato supremo di Cerveteri, ricopre dunque la posizione eminente che era stata del rex, ma detiene una carica, lo zilacato seleita, la praetura maxima. Ma allora il rex ceretano originario fu sostituito da un re-magistrato, da un re-elettivo, come avvenne nelle città latine e a Roma»[35].

A tal proposito, credo che, pregiudizialmente, sia da notare come praetor maximus nella lex vetusta, più che indicare – in senso assoluto – un titolo ufficiale magistratuale di Roma a sé, paia precisare – in senso relativo – la posizione nella quale versava un magistrato repubblicano rispetto ad altri in un determinato giorno dell’anno: come già Mommsen notava, infatti, se fosse esistita la magistratura della pretura massima, più breviloquentemente il testo si sarebbe rivolto al ‘praetor maximus idibus Septembribus’ e non, invece, a ‘qui praetor maximus sit idibus Septembribus[36].

Per di più la sovrapposizione tra la magistratura cerita in oggetto e quella del praetor maximus o del dictator necessiterebbe dell’esplicita attribuzione allo zilaθ seleita di funzioni analoghe a quelle ‘pretorie’, comportanti, in Roma, l’atto di clavum pangere[37]: di contro, le lamine di Pyrgi – anche a voler leggere pulumχva / KKB (stelle) nella formula di chiusura in termini di menzione ad autentici clavi annales[38] – attestano solamente una relazione tra la divinità Uni/Astarte e lo zilaθ seleita con la costruzione e la donazione di una cella e di un tempio se non di un intero santuario e non, invece, una attività rituale con finalità di datazione esercitata dal magistrato[39].

Da un punto di vista logico, e ad un esame solo interno della fonte, inoltre, se, nell’espressione zilaθ seleita (cui si contrappone, in epoca successiva, lo zilaθ non ulteriormente qualificato) zilaθ è sostantivo da intendere già di per sé come suprema magistratura (repubblicana), nulla esclude che l’essere seleita vada ad indicare, entro un collegio magistratuale, un primus inter pares. Ove, invece, zilaθ indicasse il genusmagistratus’ (e non una species di magistratura), allora Thefarie Velianas ben potrebbe essere stato componente di un sommo collegio di magistrati ciascuno dei quali titolato zilaθ seleita. Invero, solo se, a fronte di questa seconda accezione di zilaθ, si pensasse a una pluralità non collegiale di magistrati sarebbe lecito interpretare le lamine di Pyrgi come attestazione di un ‘sommo magistrato unico’ relativo alla fase post-monarchica. Insomma, mi pare assai controvertibile la tesi di chi identifica de plano lo zilaθ seleita in un magistrato unico supremo rispetto a magistrati di rango inferiore, parificabile al dictator ordinario dei centri latini oppure ad un magistrato straordinario romano come il dictator[40].

Tale tesi, infine, estende in senso omogeneizzante a Roma, al Lazio e all’Etruria la figura intermedia di un ‘re-magistrato’ (figura monocratica e vitalizia, ancorché eletta): si tratta di una figura magistratuale intermedia tra il rex e il supremo collegio repubblicano paritetico sconosciuta a quella tradizione che anche la dottrina più recente tende, per Roma, a rivalutare, preferendola alle soluzioni della diarchia diseguale o della suprema magistratura monocratica quali anelli di congiunzione tra regno e suprema magistratura pari potestate[41].

A fronte di tutti questi dati, se si tiene conto dell’epoca di datazione delle lamine di Pyrgi, da un lato, potrebbe ben escludersi il passaggio alla ‘repubblica’ (e un indizio, pur estremamente flebile, potrebbe trovarsi, per la metà del VI secolo a.C., nella presenza di un kalatur)[42]; dall’altro, potrebbe addirittura pensarsi allo zilaθ seleita in termini di un ausiliario del rex Caeritum, gerarchicamente elevato e per questo qualificato come seleita (così escludendosi anche la datazione più alta supposta da taluno per lo scontro tra Orgolnio e Aulo Spurinna); dall’altro ancora, il passaggio linguistico da zilaθ seleita a zilaθ – corrispondente anche a un notevole decorso di tempo[43] – ben potrebbe segnalare, entro una logica di passaggio da un sistema monarchico a uno repubblicano, l’elevazione dello zilaθ-ausiliario regio allo zilaθ-magistrato repubblicano[44].

Se, dunque, questo è il quadro ricostruttivo che vede, almeno per la città di Cerveteri con riguardo ai suoi stadi più risalenti, una intrinseca resistenza al superamento del regno con l’affermarsi di assetti magistratuali di tipo non-monarchico parrebbe confermata (senza che ciò significhi anche maggior resistenza rispetto ai centri del Lazio e a Roma).

Di contro, la figura del ‘dittatore’ quale magistratura generale di passaggio (tanto nel Lazio quanto in Etruria), surrogato vitalizio del re, non troverebbe alcun diretto supporto. Che lo zilaθ cerita sia però sommo magistrato repubblicano tanto monocratico (come il rex di Roma) quanto a mandato temporaneo (come il consul repubblicano), dal IV secolo e anche in età romana pare suggerito da non pochi dati, sia di tipo negativo, sia positivi. Da un lato, dopo la intensificazione, se non la costituzione dell’ingerenza di Roma con la resa del 273 a.C., l’invio a Cerveteri di praefecti iure dicundo dovette significare, così come altrove, la sicura compressione di poteri propri delle magistrature locali, ma non la contestuale soppressione di autonomia nella sfera dell’amministrazione della giustizia e l’abolizione delle magistrature epicorie, destinate a conservare – in ambito amministrativo e sacrale – poteri antecedenti la receptio in civitatem e la municipalizzazione[45]: il graffito parietale scoperto in un complesso ipogeico sito nelle vicinanze del foro cittadino e menzionante C. Genucio(s) Clousino(s) – forse identificabile con il console del 276 e del 270 a.C. Genucio Clepsina seguito dalle lettere ‘prai’ con tutta probabilità allude proprio a un prai(fectos)[46], con la necessaria esclusione sia di una magistratura inviata con funzioni militari da Roma, sia di una pretura evoluzione dello zilacato originario[47]. Dall’altro, se il corso seguito dall’assetto magistratuale cerita – parallelamente ai missi giurisdizionali romani – dal terzo decennio del III secolo a.C. all’età posteriore alla guerra sociale e alla conseguente riorganizzazione municipale a livello italico del I secolo a.C., non è ricostruibile, l’età claudia e traianea confermano la permanenza in età imperiale del titolo di dictator e di aedilis (oltre quello di quaestor), piuttosto che l’introduzione (come suggeriscono ora la peculiare subordinazione del dittatore all’edile dell’Etruria, ora la sua giustapposizione agli edili giurisdizionali)[48].

La cd. dittatura etrusca arcaica risulta astratta dalle problematiche di gestione di crisi interne di indole primariamente militare (come il dictator rei gerundae causa), così come prescinde da funzionalizzazioni civili o religiose particolari (come i dictatores imminuto iure), così come, una volta esclusa la natura di magistratura plenipotenziaria ispirata alla logica della transitorietà e volta al ristabilimento o alla conservazione dell’ordine preesistente a fronte di uno ‘stato di eccezione’, non partecipa dei caratteri comunemente ascritti alle cd. dittature commissaria e sovrana, se non condividendo con quest’ultima – sul piano del passaggio storico rispetto alla monarchia – la funzione di superamento dell’ordine preesistente.

 

 

4. – Tuscolo tra dittatura federale e dittatura cittadina in epoca arcaica

 

La disamina della dittatura tuscolana necessita di una premessa. Le ricostruzioni attinenti alla storia e all’organizzazione dei populi Latini dall’età arcaica all’età della medio-repubblica sono fatalmente connesse all’analisi sia dei rapporti intrattenuti (uti singuli o in forme federate) con Roma, sia soprattutto all’inesorabile, ma variamente interpretato, affermarsi della supremazia di Roma sulla realtà italica.

Sul finire del VI secolo, presso lo stesso caput Ferentinae, dove anni prima Tarquinio il Superbo nella celebre allocuzione proclamava sia la propria egemonia sull’ethnos Latino sia l’essere superior della res Romana[49], in occasione di una ulteriore assemblea, fatidica per la definitiva rottura dei precedenti equilibri interni al Lazio, come ci attesta Dionigi, la stessa Roma, ora antagonista delle città del nomen Latinum, non veniva più convocata come era stato, invece, costume immediatamente precedente; inoltre, Sesto Tarquinio e Ottavio Mamilio di Tuscolo, qualificati come στρατηγο ατοκρατόρες, venivano eletti in assemblea per comandare l’esercito federale latino[50]. Di recente è stato sostenuto che se gli στρατηγο ατοκρατόρες sarebbero sì, con terminologia greca, figure sovrapponibili ai dictatores[51] – come per gli στρατηγο ατοκρατόρες dell’esercito latino contro Tullo Ostilio, ossia Anco Publicio di Cora e Spusio Vecillio di Lavinio[52] –, ciascuno dei due personaggi, Sesto Tarquinio e Ottavio Mamilio, dovrebbe essere stato considerato ‘dittatore’ della rispettiva città di appartenenza, vale a dire Tarquinia e Tuscolo[53]. Non si sarebbe trattato di una cd. dittatura militare federale diarchica, bensì di una magistratura cittadina già subentrata alla monarchia quando Roma era invece ancora un regnum per Cora e Lavinio, quando già Roma era da poco passata alla respublica: tale idea contribuirebbe a configurare uno schema italico tale per cui, nel VI secolo a.C. l’assetto ‘repubblicano’ di tipo dittatorio sarebbe stato conosciuto nel Lazio con la celeberrima eccezione di Roma, legata alla forma del regnum[54].

Ma, a tacere d’altro, se quest’ultima formula greca è generalmente traducibile in latino con dictatores, è vero che essa ben può rendere anche termini connessi alla sfera militare, ma privi di caratterizzazioni così precise e gravide di implicazioni sul piano istituzionale come il sostantivo appena citato. Anzi, Dionigi, corroborato – tra gli altri – da Strabone, si dimostra contrario ad accogliere la tesi sostenuta da Licinio Macro – e fatta propria anche da Plutarco – sulla origine e sul paradigma albano della magistratura straordinaria romana, preferendo così la traslitterazione greca δικτάτωρ solo per quest’ultimo honos, di cui rintraccia il primo titolare nel console T. Larcio[55]. Se così è, allora, ben si spiega – al di là del non frequentissimo sostantivo dictator[56] impiegato per la designazione del comando federale, o comunque di una carica federale[57] – sia il sostantivo praetor[58] sia i sostantivi dux, imperator, princeps[59].

In questo stesso contesto storico, ossia in questa fase di emarginazione di Roma dal Lazio e di nuova emersione di comunità che sia traggono profitto sul piano internazionale dalle difficoltà interne della città tiberina sia apprezzano sul piano bellico il frantumarsi del primato di Roma e il rinsaldarsi della coesione latina, si può comprendere il tenore della testimonianza offerta dalla celebre dedica da parte di Egerius Baebius di Tuscolo[60]. Dopo la battaglia di Aricia e prima dell’esito della battaglia del lago Regillo, questi, nel ruolo di dictator Latinus, consacra a Diana il lucus in nemore Aricino (o, forse, ammettendo la maggior risalenza del culto, ne rinnova la consacrazione), in testa a ulteriori sette populi latini (tutti inclusi, altresì, nella più ampia lista, conservata da Dionigi, della confederazione opposta a Roma nello scontro sul Regillo) presenti, mediante i loro rappresentati, alla solenne celebrazione: per Tuscolo l’atto rappresenta l’allontanamento formale dall’orbita romana, oltre a quello sostanziale e contingente già attuato nella battaglia contro Porsenna, nonché il riconoscimento ufficiale del suo ruolo di civitas capofila, in sostituzione di Aricia, tra gli avversari latini schierati communiter, ossia in forma federata, contro la nuova Roma repubblicana. Tale dedica attesta solo la cittadinanza tuscolana del dittatore federale e non, di necessità, l’esistenza dell’omonima carica a livello cittadino per Tuscolo alla vigilia della battaglia del lago Regillo. Tra VI e V secolo a.C. è arbitrario, infatti, inferire dalla dedica citata da Catone che Egerius Baebius quale dittatore latino fosse anche dittatore tuscolano e che, dunque, Tuscolo fosse già retta da una suprema magistratura monocratica repubblicana[61].

Si può andare oltre. Nel 460 a.C. – allorché i rapporti romano-tuscolani, come più in generale quelli romano-latini, risultavano improntati al rispetto del foedus Cassianum –, il Campidoglio, occupato da Appio Erdonio e dai Sabini, viene liberato grazie all’intervento di L. Mamilio che tum Tusculi dictator erat, tanto che, secondo il pensiero di L. Quinzio Cincinnato, in dubio fuit utrum L. Mamilius, Tusculanus dux, an P. Valerius et C. Claudius consules Romanam arcem liberarent e i Romani sarebbero stati vinti nisi Latini sua sponte arma sumpsissent[62]. Il passo liviano, se contestualizzato, potrebbe nascondere una carica federale e non attestare una magistratura cittadina. Da una parte, infatti, va rammentato come numerose fonti, con riguardo al periodo di vigenza del foedus Cassianum, se lasciano la traccia di molti appelli dei Latini a Roma, del pari paiono adombrare, atteso che le ambasciate di Tuscolo risultano predominanti, una direzione degli affari comuni del nomen esercitata de facto da tale città[63]. Dall’altra, secondo una nota tesi storiografica, come sotto il travestimento romano la tradizione potrebbe celare qualche figura dei più antichi condottieri federali latini[64], così i membri di famiglie latine e più precisamente tuscolane non è escluso che siano stati successivamente inseriti nei Fasti come magistrati romani[65]. A fronte di tali dati, ancorché la lettura non sia incontrovertibile (ma non in contraddizione con la sicura cittadinanza tuscolana di Mamilio), nel resoconto liviano relativo al 460 a.C., si potrebbe scorgere l’accenno – suggerito anche dall’uso di Latini in luogo di Tusculani da parte di L. Quinzio Cincinnato – a che ‘L. Mamilio, in qualità di dictator (federale), si trovava allora (tum), ossia in occasione della rivolta di Appio Erdonio, a Tuscolo (Tusculi)’ e, proprio per ciò, et Tusculum de arce capta Capitolioque occupato et alio turbatae urbis statu nuntii veniunt.

È solo ai primordi del IV secolo, pochi anni prima dell’inclusione di Tuscolo entro la civitas optimo iure nel 381 a.C., che la città risulta retta da – o comunque connotata dalla presenza – di un dictator[66], laddove, dopo l’incorporazione la figura dittatoria scompare pressoché totalmente[67]. Non si trattò di una concessione graziosa alla comunità latina infedele (come invece potrebbe essere stata quella data sine suffragio a titolo di honos ai ceriti già nel 390 a.C. e a Campani, Fundani e Formiani dopo il 338 a.C.), ma segno del rinnovato espansionismo di Roma e, consequenzialmente, la riduzione del dictator tuscolano a figura solo onorifica, spogliata in toto delle sue funzioni, pare risultare l’ipotesi che – senza le congetture di passaggi evolutivi indimostrabili, di stravaganti sovrapposizioni di titolature, di enti moltiplicati sine necessitate[68] meglio si conforma allo stato delle fonti successive all’atto della municipalizzazione e al contesto storico in cui si iscrive la deditio di Tuscolo e la sua riduzione in civitatem[69]. La frustrazione delle competenze amministrative e giurisdizionali dittatorie nel centro latino pare integrare un mutamento irreversibile, ma non frutto di erosione fisiologica del dictator: dalla suprema magistratura unica pre-romana al ‘nome’ intenzionalmente svuotato d’imperio della ‘cosa’.

 

 

5. – Alcune brevi conclusioni su forme e contenuti della dittatura romana e di quella italica

 

L’idea di una koinè italica istituzionale, almeno con riguardo alla cd. dittatura cittadina, che avrebbe fatto da cornice al superamento della monarchia si rivela solo una congettura: plausibile, ma non incontrovertibile, essendo fondata su una generalizzazione, un pregiudizio, e una retrodatazione. La generalizzazione di per sé sarebbe anche sostenibile, ove si sostanziasse nella consapevole estensione – di matrice ‘diffusionista’ – del modello tuscolano e cerita ad altre città dell’Italia arcaica, di cui è più incerta la particolare storia istituzionale. Il pregiudizio è invece non accoglibile, in quanto, alla luce delle osservazioni versate nelle pagine precedenti, infondato nelle sue due essenziali declinazioni (ora predicando alcuni studiosi la maggior propensione al trapasso alla repubblica in chiave dittatoria, rispetto a Roma, sia di alcuni centri laziali sia di alcuni centri etruschi, ora assumendo altri studiosi la maggior resistenza al trapasso in parola tanto dell'Etruria rispetto al Lazio intero, quanto di Roma rispetto alle altre civitates del Lazio). La retrodatazione è, nella scarsità dei dati a disposizione e nel silenzio delle fonti, indimostrabile, atteso che è solo a partire dal IV secolo a.C., sia per Cerveteri sia per Tuscolo, che la dittatura si iscrive con certezza in una cornice istituzionale di tipo non monarchico.

Insomma, prima della municipalizzazione del IV secolo a.C. solo due casi di ‘dittatura cittadina italica’ – astratta da influenze romane – si riscontrano con nettezza e puntualità nelle fonti: vero è, infatti, che il dictator Latinus dedicante il bosco di Diana citato da Catone è una carica federale e non un magistrato cittadino; che per Alba Longa, a prescindere dal problema dell’esistenza stessa del centro urbano, la ‘dittatura annua’ è documentata in modo non univoco negli autori antichi, oltre che scarso ed incerto; che per Fidene la presenza del dictator è successiva all’incorporazione nell’ager Romanus. Con riguardo a Tuscolo e a Cerveteri, dictator è, invece, l’etichetta che Roma impiega per qualificare la suprema magistratura monocratica che sostituisce il re e che permane anche dopo la municipalizzazione, ora come imago sine re, ora come figura depotenziata: non si tratta mai di un ufficio cittadino straordinario o eccezionale (come il dittatore romano e neo-romano la cui derivazione da un precedente modello latino e/o etrusco risulta ancora tutta da dimostrare), non si risolve mai né in un potere vitalizio (come quello del re cui diacronicamente succede), né in un collegio (come quello del consolato cui per confronto si oppone).

La magistratura suprema dei centri italici post-monarchici entrati in contatto con Roma viene letta da quest’ultima, una volta escluse nel definiendum le caratterizzazioni delle proprie singole magistrature, in termini di dittatura: e ciò non tanto per connessioni funzionali o sostanziali con i cd. dictatores optima lege o imminuto iure, quanto per la eterogeneità rispetto alle scelte romane delle risposte date dai singoli centri italici al problema ‘critico’ del vuoto conseguente il superamento della monarchia. Come la tradizione vede nella diarchia (temporanea e pari potestate) del consolato la disattivazione del potere monarchico (vitalizio e illimitato) del re e nel dictator rei gerundae causa una parentesi ‘straordinaria’ – in una ottica endo-sistematica – di imperium militare unico (ancorché delimitato funzionalmente), così il dictator italico di Cerveteri e di Tuscolo (il primo affermatosi non necessariamente in epoca assai più recente, il secondo affermatosi non necessariamente in epoca di molto anteriore, rispetto all'istituzione dei due praetores-consules nel 509 a.C.), nel suo essere ordinario magistrato supremo post-monarchico, è – in una ottica di comparazione sistematica – figura ‘straordinaria’ nella sua monocraticità rispetto all’ordo di riferimento, ossia quello romano. Un ordo, insomma, quello di Roma, che nell'unicità costituzionale della libera respublica (dove il consolato è la risposta ordinaria al vuoto permanente lasciato dal regno e la dittatura la risposta straordinaria alle emergenze nella cornice dello status rei Romanae) pare, più che mutuare figure apicali da singoli sistemi cittadini dell'Italia antica (vuoi solo del Lazio per taluni, vuoi tanto del Lazio quanto dell'Etruria per altri), trasformare in chiave cittadina e meta-monarchica preesistenti cariche federali: e ciò, nell'analisi degli assetti magistratuali dei vicini centri della penisola, per poi parametrare 'ego-centricamente' (vale a dire alla sola luce della propria dialettica interna) il superamento della monarchia in quelle civitates dove il cd. dictator sembra imporsi post regnum exactum come risposta straordinaria rispetto alla via del consolato. Se Prosdocimi, come già si evidenziava in principio, lamentava come la terminologia giuridica e istituzionale tanto romana quanto italica talora non fosse resa oggetto di un adeguato inquadramento da parte dei romanisti dal punto di vista linguistico, spero che questo mio lavoro possa costituire un piccolo, ma soddisfacente, contributo idoneo a colmare, attraverso la fissazione lessicale della semantica dei contenuti (ossia secondo le aspettative del maestro la cui memoria qui si onora), qualche lacuna, ancorché limitatissima, nei nostri studi.

 

 

Abstract

 

After outlining a brief history of the word dictator from the republican period of Rome to the present, the contribution focuses on the Italic dictatorship as a replacement of the monarchy. The contribution deals with the only two cases clearly found before municipalisation, emphasising the hypothetical nature of the alleged Latin-Etruscan koine: at Caere and Tusculum dictator would be a term mirroring the heterogeneity of the response given by the Italic cities to the problem of gap resulting from the fall of the kingdom. The Italic post-monarchic dictator, an ordinary and supreme magistrate, being a monocratic one, would amount to an 'extraordinary' figure compared to the Roman system; likewise, the dictator would be, within such system, an 'extraordinary' parenthesis compared to the consuls.

 

Dopo aver tracciato una breve storia della parola dictator dall’ordinamento repubblicano di Roma a oggi, il contributo si concentra sulla dittatura italica quale figura di superamento della monarchia. Il contributo indugia sui soli due casi che si riscontrano con nettezza prima della municipalizzazione, enfatizzando la natura congetturale della presunta koinè latino-etrusca: a Cerveteri e Tuscolo dictator sarebbe titolo idoneo a rispecchiare l’eterogeneità della risposta data dai singoli centri italici al problema del vuoto conseguente la caduta del regno. Il dictator italico, ordinario magistrato supremo post-monarchico, si imporrebbe come figura ‘straordinaria’ nella sua monocraticità rispetto all’ordo di riferimento, ossia quello di Roma, così come il dictator sarebbe, all’interno del sistema, una parentesi ‘straordinaria’ rispetto al consolato.

 

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] A.L. Prosdocimi, Forme di lingua e contenuti istituzionali nella Roma delle origini, Napoli 2017, 491 s.

[2] Cfr., paradigmaticamente, P. Catalano, Peuple et Citoyens de Rousseau a Robespierre: racines romaines du concept démocratique de ‘République’, in Révolution et République. L’exception française. Actes du Colloque de Paris I réunie à Sorbonne les 21-26 septembre 1992, ed. M. Vovelle, Paris 1994, 29 ss.; Id., Romanité ressuscitée’ et constitution de 1793, in L’an I et l’apprentissage de la démocratie. Actes du Colloque réunie à Saint-Ouen les 21-24 juin 1993, ed. R. Bourderon, Saint-Denis 1995, 167 ss.; G. Lobrano, La respublica romana, municipale-federativa e tribunizia: modello costituzionale attuale, in Diritto@Storia 3, 2004 (http://www.dirittoestoria.it/3/Memorie/Organizzare-ordinamento/Lobrano-Res-publica-Romana-modello-costituzionale-attuale.htm ); Id., Per la comprensione, del pensiero costituzionale di J.-J. Rousseau e del diritto romano, in Il principio della democrazia. Jean-Jacques Rousseau - Du Contrat social (1762). Nel 300° della nascita di Jean-Jacques Rousseau e nel 250° della pubblicazione del Contrat social. Atti del Seminario di Studi Sassari, 20-21 settembre 2010, a cura di G. Lobrano e P.P. Onida, Napoli 2012, 39 ss. Sulla dittatura in Montesquieu e in Rousseau, cfr. M. Falcon, La dittatura romana nell’opera di Montesquieu, in La dittatura romana, II, a cura di L. Garofalo, Napoli 2018, 651 ss., nonché M.F. Merotto, La dittatura romana nel ‘Contrat Social’ di J.-J. Rousseau, in La dittatura romana, II, cit., 701 ss.

[3] «It is generally assumed that in the early republic the natural Roman response to a crisis was to appoint a dictator, a single authoritative figure who exercised command until the crisis was brought to an end, or for six months, whichever was the shorter. But the idea of dictatorship, and the very word ‘dictator’, were deformed out of all recognition in the last century of the republic; and this deformation of what was originally a simple and innocent concept caused the term to be revived in modern times to describe forms of non-royal authoritarian rule, by the likes of Cromwell, the two Bonapartes, and their successors and imitators who continue to afflict subject populations in many parts of the world. The model was the all-powerful dictatorship of unlimited duration instituted first by Sulla, who abdicated voluntarily but at a time of his own choosing, and subsequently by Caesar, whose office ended in dramatic fashion with his murder. It is not surprising that in the nineteenth century ‘Caesarism’ competed with ‘Bonapartism’ as the appropriate term for what is now generally called dictatorship» (T.J. Cornell, Crisis and Deformation in the Roman Republic: the Example of the Dictatorship, in Deformations and Crises of Ancient Civil Communities, ed. V. Goušchin and P.J. Rhodes, Stuttgart 2015, 101).

[4] Polybius, 3.87.6-9; Dionysius Halicarnassensis, 5.73.1-2; Plutarchus, Marc. 24.12.

[5] Varro, l.L. 5.82; Cicero, rep. 2.56, nonché 1.63; Livius, 2.18.4-8.

[6] Contra, v., oltre a L. Labruna, ‘Adversus plebem’ dictator, in Index 15, 1987, 292 s. e nt. 32, M. De Wilde, The Dictatorship and the Fall of the Roman Republic, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung 130, 2013, 2: «the assumption that the dictatorships of Sulla and Caesar were no genuine dictatorships, but ‘republican dictatorship in name only’ is incorrect, for in both cases, the defining characteristics of the republican dictatorship were, in fact, consciously maintained» (con una, a mio credere, sopravvalutazione sia dei limiti informali della dittatura ‘costituente’ sia una sottovalutazione delle differenze circa durata, nomina, sfera di competenze); v. U. Wilcken, Zur Entwicklung der römischen Diktatur, Berlin 1940, 11 s.; F. Hurlet, La dictature de Sylla: monarchie ou magistrature républicaine?, Brussels 1993, 90; C. Nicolet, Dictatorship in Rome, in Dictatorship in History and Theory: Bonapartism, Caesarism, and Totalitarianism, ed. P. Baehr and M. Richter, New York 2004, 263 ss., 270; per la ripetizione dell’idea tradizionale, di matrice mommseniana (T. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II.1, 3a ed., Leipzig 1887, 133 ss.), della contrapposizione tra dittatura repubblicana, da una parte, e modelli sillano e cesariano, dall’altro, v. K. Tuori, Schmitt and the Sovereignty of Roman Dictators: From the Actualisation of the Past to the Recycling of Symbols, in History of European ideas 42, 2016, 95 ss., oltre a A. Keaveney, Sulla: The Last Republican, London 2005, 136 s. Sul modello dittatorio romano plenipotenziario, v. T. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II.1, cit., 141 ss., 168; K. Loewenstein, The Governance of Rome, The Hague 1973, 71 ss.; in generale, v. i numerosi contributi inclusi nei due tomi dedicati a La dittatura romana, a cura di L. Garofalo, Napoli 2017-2019, passim, oltre ai classici studi di W. Liebenham, voce Dictator, in Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, V, Stuttgart 1905, 370 ss.; F. De Martino, Storia della costituzione romana, I, 2a ed., Napoli 1974, 236 ss., 275 ss., 438 ss.; W. Kunkel - R. Wittmann, Staatsordnung und Staatspraxis der römischen Republik, München 1995, 665 ss.; A. Lintott, The Constitution of the Roman Republic, Oxford 1999, 109 ss.; nonché alla dissertazione di M.E. Hartfield, The Roman Dictatorship: Its Character and Its Evolution, Berkeley 1982, passim; v., poi, il più recente G.K. Golden, Crisis Management during the Roman Republic, Cambridge 2013, 11 ss. Sul punto, ma con approccio non totalmente adesivo alla linea di pensiero mommseniana, v. G. Meloni, Dottrina romanistica, categorie giuridico-politiche contemporanee e natura del potere del dictator, in Dittatura degli antichi e dittatura dei moderni, a cura di G. Meloni, Roma 1983, 82 ss.

[7] Così J. Bodin, Les six livres de la république, 1576, lib. I, cap. 8. Sulla tradizionale distinzione tra le due fondamentali ‘tipologie’ di dittatura (per l’appunto: optima lege e imminuto iure), cfr., da ultimo, A. Milazzo, Sul carattere ‘straordinario’ della magistratura del dittatore: alcune riflessioni su emergenza e periodicità nella sua nomina, in La dittatura romana, I, cit., 232 (propenso, peraltro, a sostenere la non eccezionalità dell’istituzione); mi permetto, inoltre, di reinviare (per un approccio che è, invece, più incline a valorizzare la pluralità di funzioni a fronte di una unitarietà tipologica) a C. Pelloso, Are the Conspirators Purgers or Murderers? Shakespeare’s Julius Caesar and Roman Ius Sacrum, in As You Law It. Negotiating Shakespeare, ed. D. Carpi, Berlin - New York 2018, 218, nt. 40: «the canonized view of the Roman dictatorship (grounded on the examples given by Sulla and, above all, by Caesar) maintains – seemingly without nuances and distinctions – that such an extraordinary office was granted unrestricted imperium and plenipotentiary jurisdiction. It moreover states that dictators administered the Roman polity autonomously and with supremacy over the consuls. On the one hand, in the period between the beginning of the fifth century and the end of the fourth century BC, the office at issue, in its original form, was given a power that resembled the consular imperium militiae, since the dictators served above all for consular military functions (dictator rei gerundae causa: literally, dictator for conducting military affairs). On the other hand, from the beginning of the third century BC up to the end of the third century BC, the office was used far less abundantly than in the previous centuries. Moreover, the causae attested in the sources reveal a deep change: in most cases, the dictatores performed just civic and religious tasks (such as the dictator for driving the nail into the temple of Jupiter; such as the dictator for holding elections, supervising sacrifices, handling the enactment of laws)». Sulle dittature repubblicane a cause limitate (più che a poteri limitati), v., paradigmaticamente, G.I. Luzzatto, Appunti sulle dittature imminuto iure. Spunti critici e ricostruttivi, in Studi in onore di P. de Francisci, III, Milano 1956, 416 ss.; G. Nicosia, Sulle pretese figure di dictator imminuto iure, in Studi in onore di C. Sanfilippo, VII, Milano 1987, 531 ss. (il quale, sulla scorta del primo, ritiene che la voce festina ‘ut optima lege’ non giustifichi una distinzione tra ‘tipologie’ differenti di dittatore, posto che il brano rappresenterebbe solo un rapporto di successione cronologica di poteri); da ultimi v., tendenzialmente in tal senso, E. Nicosia, L’espressione ‘ut optima lege’ e la dictio-creatio del dictator, in La dittatura romana, I, cit., 329 ss.; M. Milani, Anomalie nelle dittature tra il V e il III secolo a.C., in La dittatura romana, II, cit., 369 ss.; nonché – almeno in alcuni tratti del suo lavoro monografico – S. Fusco, Oriens de nocte silentio: alcune riflessioni sulla dittatura imminuto iure, Ortacesus 2018, 9 ss., 21 ss., 122. Sulla connessione tra ‘dittatura romana’ e ‘crisi’, v., solo paradigmaticamente, W. Nippel, Emergency Powers in the Roman Republic, in La théorie politico-constitutionelle du gouvernement d’exception, ed. P. Pasquino et B. Manin, Paris 2000, 5 ss.; Id., Saving the Constitution: The European Discourse on Dictatorship, in In the Footsteps of Herodotus: Towards European Political Thought, ed. J. Coleman and P.M. Kitromilides, Firenze 2012, 29 ss.

[8] Livius, 3.26.3–29.7; Dionysius Halicarnassensis, 10.23.4-25.3 e 11.20; cfr. Columella, 1 praef. 13; Vegetius, res mil. 1.3; Cicero sen. 56; Cicero fin. 2.12; Valerius Maximus 4.4.7; Cassius Dio fr. 23; Eutropius 1.17; Auctor, vir. ill. 17; Ampelius, 18.4; Orosius, 2.12.7-8; Zonas, 7.17; Lydus, mag. 1.38. Come ricorda T.J. Cornell, Crisis and Deformation in the Roman Republic, cit., 103, nt. 5, sulla scorta di G. Wills, Cincinnatus: George Washington and the Enlightenment, Garden City 1984, «a parallel has often been drawn with George Washington, who was called from retirement on his farm at Mount Vernon to lead the Continental Army, and returned there after the war was over. His officers went on to form the Society of the Cincinnati, in a deliberate recollection of their ancient role model, and made Washington their first President General». V., sulla (da molti ritenuta dubbia) storicità della dittatura del 458 a.C., M.A. Fenocchio, Plebità e dittatura: le relazioni nel primo secolo della repubblica romana, in La dittatura romana, I, a cura di L. Garofalo, Napoli 2017, 123 s.

[9] Cfr., per esempio, A. Cobban, Dictatorship: Its History and Theory, London 1939, passim; G.W.F. Hallgarten, Why Dictators? The Causes and Forms of Tyrannical Rule since 600 b.C., New York 1954, passim; sembra prescindere dal significato autentico di ‘dittatura’ anche il più recente contributo di A. Arato, Dictatorship before and after Hannah Arendt, in Social research 69.2, 2002, 473 ss.; v., sulla vicinanza tra dittatura e tirannide, E. Fraenkel, Il doppio Stato. Contributo alla teoria della dittatura, trad. it., Torino 1983, 21 ss.; G. Sartori, voce Dittatura, in Enciclopedia del diritto, XIII, Milano 1962, 356 ss., 361 s. Cicerone – come Tacitus, ann. 1.1; Sallustius, hist. 1.41.2; Orosius 5.21, Appianus, bell. civ. 1.98.456-463, 1.101.473; Plutarchus, Sulla 30.5, 33.3 – assimilava già Silla a un tiranno: Cicero, Phil. 5.6.17, Att. 8.11.2, leg. agr. 3.2.5: giustamente, insiste sull’enigma storico-giuridico di Silla, G. Rossetti, Sulla genesi della dittatura di Silla, in La dittatura romana, II, cit., 537 ss.

[10] Cfr. H. Arendt, On violence, in Crises of the Republic, San Diego - New York - London 1972, 103 ss., (originariamente in The New York Review of Books, 27 febbraio 1969). In questi termini, v., altresì, C. Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, trad. it., Roma 2006, 8: «questo Stato proletario vuole essere non qualcosa di definitivo, ma una fase transitoria. Recupera così tutta la sua importanza un aspetto essenziale che nella pubblicistica borghese era rimasto nell’ombra: la dittatura è un mezzo per conseguire un determinato obiettivo; dal momento che il suo contenuto è determinato unicamente dall’interesse per il risultato da conseguire, non la si può definire in generale come una soppressione della democrazia. D’altro canto, anche dalle argomentazioni di parte comunista si comprende che la dittatura, essendo per essenza una fase transitoria, deve subentrare come eccezione e per la forza degli eventi. Anche questo rientra nel suo concetto: tutto sta a sapere rispetto a che cosa si fa eccezione». Cfr., da ultimo, A. Schiavon, Hannah Arendt e la dittatura romana, in La dittatura romana, II, cit., 741 ss., con interessanti considerazioni sul punto.

[11] «Il regime totalitario è diverso dalle dittature e dalle tirannidi; la capacità di distinguere fra tali forme non è affatto una questione da lasciare ai ‘teorici’, perché il dominio totale è l’unica forma di governo con cui la coesistenza non è possibile» (così H. Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it., Torino 2008, LXI, che, peraltro, evita di qualificare come regimi totalitari la dittatura fascista e le dittature sovietiche); a commento del pensiero arendtiano, emerge limpida l’alterità tra le forme totalitarie di governo e i regimi dittatoriali ‘classici’ in M. Canovan, Arendt’s theory of totalitarianism: a reassessment, in The Cambridge Companion to Hannah Arendt, ed. D. Villa, Cambridge 2000, 125 ss.; Ead., The Leader and the Masses. Hannah Arendt on Totalitarianism and Dictatorship, in Dictatorship in History, cit., 241 ss.; cfr. sulla eziologia e sulla archeologia della differenza tra ‘tirannia’ e ‘governo autoritario’, nonché tra dictator e ‘tirannia’, v. H. Arendt, Authority in the Twentieth century, in The review of politics 18, 1956, 403; Ead., What is authority?, in Between past and future, London 1954, 91 ss.; Ead., Personal Responsibility under Dictatorship, in Responsibility and Judgment, New York 2003, 17 ss.; A. Kalyvas, The Tyranny of Dictatorship: When the Greek Tyrant Met the Roman Dictator, in Political Theory 35, 2007, 412 ss.

[12] P. Catalano, Tribunado, censura, dictadura: conceptos constitucionales bolivarianos y continuidad romana en América, in Quaderni Latinoamericani 8, 1981, 1 ss.; Id., ‘Postilla’, in Dittatura degli antichi e dittatura dei moderni, a cura di G. Meloni, Roma 1983, 47 ss.; Id., Alcuni principii e concetti del diritto pubblico romano da Rousseau a Bolívar e oltre», in Studia Iuridica 12, Varsavia 1985, 93 ss.; Id., Le concept de dictature de Rousseau à Bolivar: essai pour une mise au point politique sur la base du droit romain, in Dictatures. Actes de la Table ronde réunie à Paris les 27 et 28 février 1984, ed. F. Hinard, Paris 1988, 7 ss.; Id., Principios constitucionales bolivarianos: origen y actualidad, in El nuevo derecho constitucional latinoamericano, II, Caracas 1996, 539 ss.; Id., Derecho público romano y principios constitucionales bolivarianos, in Constitución y constitucionalismo hoy (Cincuentenario del Derecho Constitucional Comparado de Manuel García-Pelayo), Caracas 2000, 689 ss.

[13] Già dal XIX secolo vero è che l’America Latina si è imposta come un interessantissimo laboratorio sperimentale di attualizzazione romanistica a livello di diritto pubblico, ossia come campo di prova per l’architettura e l’ingegneria statuali di base romanistica: come scrive Fernández Estrada, «las primeras muestras del romanismo constitucional en América se encuentran en los proyectos constitucionales de Francisco de Miranda, de 1798 y 1801, donde se prevé la creación de la Censura, la Edilidad, la Cuestura y el Senado. En 1808, Miranda, en su nuevo proyecto admitía la Dictadura por un año. Asimismo, la Dictadura fue utilizada siguiendo exactamente los argumentos romanos del peligro para la república en Venezuela en 1814 donde Bolívar fue proclamado Dictador de la Segunda República; igual fue proclamado en 1824 en Perú; y más tarde en 1828 estableció él mismo su propia Dictadura en Colombia. También fueron utilizadas en América soluciones gubernativas romanas como fueron los triunviratos, ejemplo de ellos el de 1811 a 1813 en Buenos Aires y el de 1811 en Paraguay, dominado por Gaspar Rodríguez de Francia, sin mencionar la utilización en casi todas las nuevas repúblicas americanas del Senado como institución política heredada de Roma» (J.A. Fernández Estrada, De Roma a América Latina: el tribuno del pueblo frente a la crisis de la república, San Luis Potosí 2014, 37).

[14] N. Bobbio, Governo degli uomini o governo delle leggi, in Nuova antologia, 1983, 149.

[15] J. Ferejohn - P. Pasquino, The Law of the Exception: A Typology of Emergency Powers, in International Journal of Constitutional Law 2, 2004, 213.

[16] Cfr. M. de Wilde, The state of emergency in the Weimar Republic. Legal disputes over Article 48 of the Weimar Constitution, in Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis 78, 2010, 135 ss.

[17] Cfr. J.W. Bendersky, Carl Schmitt teorico del Reich, trad. it., Bologna 1989, 222 s.; L. Östman, The ‘Stolpersteine’ Between Commemoration and Biopolitics, Challenging Ideas: Theory and Empirical Research in the Social Sciences and Humanities, ed. M. Lytje, T.K. Nielsen, and M.O. Jørgensen, Cambridge 2016, 48 ss.

[18] C. Schmitt, Die Diktatur, Berlin 1921 (prima edizione), 1927 (seconda edizione ampliata). Sui paradigmi schmittiani v. W. Nippel, Carl Schmitt’s ‘kommissarische’ und ‘souveräne Diktatur’: Französische Revolution und römische Vorbilder, in Ideenpolitik: Geschichtliche Konstellationen und gegenwärtige Konflikte, hrsgg. H. Bluhm, K. Fischer und M. Llanque, Berlin 2011, 133 ss.; v., inoltre, N.C. Lazar, Making Emergencies Safe for Democracy: The Roman Dictatorship and the Rule of Law in the Study of Crisis Government, in Constellations 13, 2006, 506 ss.; cfr. C. Rossiter, Constitutional Dictatorship: Crisis Government in the Modern Democracies, Princeton 1948, 15 ss.; C. Friedrich, Constitutional Government and Democracy, Waltham, Mass. 1968, 557 ss.; F.M. Watkins, The Problem of Constitutional Dictatorship, in Public Policy, ed. C. Friedrich and E. Mason, Cambridge, Mass. 1940, 324 ss. Lo ‘stato di eccezione’ e l’archetipo romano del ‘dictator’ vengono così impiegati, ad esempio, per spiegare, con riguardo all’Inghilterra, l’Emergency Powers Act del 1920 che condusse alla generalizzazione dei ‘dispositivi governamentali’ di eccezione introdotti durante la Grande Guerra a soluzione di ogni ipotesi di conflitto sociale; per gli Stati Uniti, la ‘dittatura commissaria’ di Lincoln, depositario della decisione sovrana sullo stato di eccezione, viene spiegata come il portato della tensione, perdurante sin dalla Guerra Civile, tra i poteri del Congresso e quelli del Presidente; Woodrow Wilson, durante la prima guerra mondiale, e Franklin D. Roosevelt, durante la grande e la seconda depressione, godettero di un potere ‘eccezionale’ e ‘illimitato’, illimitato di regolazione e di controllo su ogni aspetto della vita economica del paese.

[19] G. Agamben, Stato di eccezione. Homo sacer II.1, Torino 2003, 111; v. per una diffusa e penetrante critica ‘romanistica’ alle elaborazioni meta-storiche agambeniane, L. Garofalo, Biopolitica e diritto romano, Napoli 2009, 13 ss., 117 ss. Cfr., inoltre, sul modello ‘neo-romano’, J. Ferejohn - P. Pasquino, The Law of the Exception, cit., 210 ss.; B. Manin, The Emergency Paradigm and the New Terrorism, in Les Usages de la séparation des pouvoirs, ed. S. Baume et B. Fontana, Paris 2008, 137 ss.; N.C. Lazar, States of Emergency in Liberal Democracies, Cambridge 2009, 119 ss.; Ead., Why Rome Didn’t Bark in the Night, in Polity 65.3, 2013, 422 ss.

[20] A. Cobban, Dictatorship, cit., 26.

[21] Come mette in luce T.J. Cornell, Crisis and Deformation in the Roman Republic, cit., 124, «the long series of frequent dictatorships … cannot be taken as a sign that the republic was continually beset by temporary crises or as evidence of its success in dealing with them. The details of the historical record actually provide evidence of something quite different – namely that in the period of its most frequent use the dictatorship had a much more mundane function within the normal working of the Roman government, and that it was not, in fact, a mechanism for dealing with emergencies at all».

[22] G.W.F. Hallgarten, Why Dictators?, cit., 30.

[23] Livius, 2.18-3-4.

[24] È T.J. Cornell, The Beginnings of Rome, London 1995, 232, a rilevarlo.

[25] Cfr. V. Belfiore, La nozione di ‘sacer’ in etrusco: dai riti del liber linteus a ritroso, in Autour de la notion de sacer, ed. T. Lanfranchi, Rome 2017, 39 s., la quale rileva che «al secondo quarto del VI secolo a.C. si data anche la prima attestazione del titolo di zilaθ sul cippo di Rubiera più recente», e che, se è «opinione comune che il termine zilaθ non possa aver mantenuto contenutisticamente la stessa valenza nel corso del tempo, e che il maru sia nel VI secolo a.C. asservito al controllo di uno zilaθ con funzioni più ampie», tuttavia «il fatto che tanto uno zilaθ quanto una magistratura marunuχ siano attestati così in antico, può viceversa anche intendersi come testimonianza del fatto che già dal primo/secondo quarto del VI secolo a.C. esista una sorta di dualismo nell’esercizio delle cariche cum imperio e del culto pubblico», laddove «nello stesso periodo a Roma si rileva una situazione ancora di unità di prerogative, espletate dall’unica figura del re». Tale prospettiva, però, non tiene conto – tra l’altro – della possibilità che il titolo di zilaθ in epoca arcaica, nel senso di ‘Hauptmann’ (cfr. P. Amann, Die etruskischen Zippen von Rubiera aus der südlichen Poebene. Neue Vorschläge und Versuch einer Einordnung, in Ad fontes! Festschrift für G. Dobesch zum 65. Geburtstag, hrsgg. H. Heftner und K. Tomaschitz, Wien 2004, 203 ss., 212, nt. 88), possa equivalere a quello di rex (cfr. A. Maggiani, Magistrature cittadine, magistrature federali, in La lega etrusca dalla Dodecapoli ai Quindecim populi. Atti della Giornata di Studi [Chiusi 9 ottobre 1999], Pisa 2001, 37 ss., 64).

[26] La testimonianza dell’elogium di età claudia tratterebbe di un episodio attribuibile o alla seconda metà del VI secolo per L. Aigner-Foresti, Sopravvivenza di istituzioni etrusche in età imperiale, in Patria diversis gentibus una. Unità politica e identità etniche nell’Italia antica. Atti del convegno internazionale [Cividale del Friuli, 20-22 settembre 2007], a cura di G. Urso, Pisa 2008, 103 ss. (che connette la fonte all’iscrizione recante il nome della famiglia tarquiniense Spurinna presso la Tomba dei Tori), o agli inizi del V secolo per M. Cristofani, Le città etrusche e Roma, in Eutopia 4.2, 1995, 28 ss. (che associa il momento di trapasso dal regnum alla res publica a un attestato riassetto urbanistico), o solo al IV secolo a.C., ad avviso di M. Torelli, Elogia Tarquiniensia, Firenze 1975, 39 s., (che riconduce la riduzione ad sacra della regalità cerita alla guerra tra Roma e Tarquinia).

[27] Cfr. A. Rosenberg, Lo stato degli antichi italici. Ricerche sulla costituzione originaria dei latini, oschi ed etruschi, a cura di L. Cappelletti e F. Senatore, I, Roma 2011 (Der Staat der alten Italiker. Untersuchungen über die ursprüngliche Verfassung der Latiner, Osker und Etrusker, Berlin 1913). Secondo lo studioso, al fine di comprendere l’origine e lo sviluppo delle antiche magistrature italiche, era opportuno operare una distinzione netta, tanto terminologica quanto sostanziale, tra Etruschi, Latini e Oschi. Se, con riguardo ai primi, il passaggio dalla monarchia alla repubblica avrebbe trovato nella suprema magistratura monocratica della dittatura la figura di connessione (per l’appunto innesto di un potere regio in un sistema repubblicano), con riguardo ai secondi, sarebbe stato a mezzo della pretura collegiale che tale trapasso si sarebbe inverato, laddove la collegialità diseguale dei meddices oschi (modello per quella piena e consolare romana) avrebbe caratterizzato i terzi. Quello di Rosenberg risulta, dunque, uno schema astratto e tripartito, formulato per spiegare un fenomeno storico comune (quello dello stato italico); uno schema connotato in termini di evidente divaricazione etnico-culturale, anche in spregio a quell’unità emergente dal titolo della sua opera così come di pariteticità della storia di Roma rispetto a quella degli altri centri antichi della penisola, anche se, similmente a Mommsen, Rosenberg – pur postulando, tra l’altro, l’origine tuscolana della edilità romana –, quanto alla primitiva diarchia ‘consolare’ e alla figura del dittatore romano, credeva non tanto a una naturale evoluzione a partire dalla monarchia (cfr., invece, in termini ‘evoluzionistici’, W. Ihne, Forschungen auf dem Gebiet der römischen Verfassungsgeschichte, Frankfurt 1847, 48 ss.; Id., Römische Geschichte, I, Leipzig 1868, 107 s., 112, 116 e nt. 2; A. Schwegler, Römische Geschichte im Zeitalter des Kampfes der Stände, II, Tübingen 1856, 69, 86 ss., 92 s.), ma a una creazione artificiale, o meglio a un’opera di ingegneria costituzionale di un misterioso ‘costituente’, ascrivibile al genio giuridico e politico di Roma (che, tuttavia, non poteva essere del tutto ‘endogena’ e, quindi, prescindere – oltre che dal mondo etrusco – soprattutto dagli assetti laziali, essendo Roma città, come altre, del Lazio).

[28] Ad avviso di Mommsen la dittatura romana (straordinaria e temporanea) era una componente fisiologica e primigenia – come la suprema magistratura ordinaria e annuale improntata alla collegialità uguale – della costituzione repubblicana, le cui origini andavano rintracciate, non al di là dei confini di Roma, ma in Roma stessa, e giustificate più in nome di un atto creativo e rivoluzionario che in forza di un processo evolutivo, anche se il grande studioso non si esimeva dal mettere in evidenza come, con riguardo alle comunità latine, tale magistratura fosse comunque presente, (ancorché ordinaria e annuale, come il consolato romano), quale sviluppo della figura monarchica: T. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II.1, cit., 133 ss., 141 ss., 168 ss., quindi, comparando la dittatura romana e la dittatura latina, vedeva nelle magistrature in oggetto due fatti storici diversi e due figure indipendenti (contra, v., come imprescindibile punto di partenza per l’origine latina della dittatura romana, B.G. Niebuhr, Römische Geschichte, I, Berlin 1833, 587). Per Rudolph, invece, se la dittatura repubblicana era un autentico ed esclusivo prodotto dello spirito romano, e non, invece, un prestito latino, essa, con caratteri peculiari che la diversificavano dalla magistratura suprema straordinaria, veniva ‘imposta’ nei centri italici in toto assoggettati a Roma a partire dal 338 a.C. e, quindi – a seguito dell’atto di imperio che andava a revocare l’assetto costituzionale primitivo epicorio – privati della loro originaria autonomia, a differenza delle città federate e di quelle sine suffragio (H. Rudolph, Stadt und Staat im römischen Italien, Leipzig 1935, 7 ss., 27 ss.).

[29] Cfr., più ampiamente, F. Senatore, ‘Der Staat der alten Italiker’ nella storia degli studi sull’Italia antica, in A. Rosenberg, Lo stato degli antichi italici, cit., 276 ss.; sul punto v., altresì, C. Pelloso, Il dictator negli assetti magistratuali italici, in La dittatura romana, I, cit., 428 ss.

[30] «Unica spiegazione della costituzione di Cere è questa: che in essa rivivano gli antichi istituti di quella caratteristica città laziale-etrusca; gli aediles di Caere non possono provenire da Roma, ma sono continuazione di autoctoni istituti. Così anche il dictator non può essere che l’interpretatio Latina del purθ zilaθ che anche a Cere, come in altre città etrusche, doveva essere a capo della città» (S. Mazzarino, Dalla monarchia allo stato repubblicano, Catania 1945 [riedizione Milano 1992, da cui si cita], 156 s.). E. Campanile - C. Letta, Studi sulle magistrature indigene e municipali in area italica, Pisa 1979, 37: «in realtà sembra provato che Caere, dopo l’abolizione della monarchia intorno al 358 a.C., si sia data un purθ, certamente magistrato supremo unico (per la nota connessione del termine col nome di Porsenna, capo unico visto che poté essere considerato re), e quindi traducibile in latino con dictator. Il dictator di Caere deve dunque essere considerato come la continuazione diretta di questa magistratura epicoria, mantenutasi sia nella fase del municipium sine suffragio che in quello optimo iure, come e del resto deducibile dallo stesso carattere ibrido di un collegio che riunisce un magistrato non collegiale per antonomasia, qual è il dictator, e un aedilis i.d.: un simile ‘pasticcio’ può spiegarsi al termine di un’evoluzione lenta, che porta a compromessi e stratificazioni, ma è impensabile come riesumazione antiquaria di una magistratura desueta. Un’eventuale operazione del genere avrebbe portato a un dictator degno di questo nome, cioè unico e non collegiale, anche se poi probabilmente il suo potere sarebbe stato puramente formale, e le funzioni superiori sarebbero rimaste a una coppia di magistrati con altro nome».

[31] A. Maggiani, Magistrati e sacerdoti? Su alcuni monumenti funerari da Chiusi, in L’écriture et l’espace de la mort. Épigraphie et nécropoles à l'époque préromaine, Rome (https://books.openedition.org/efr/2736?lang=it).

[32] Il purθ non pare attestato a Cerveteri, poiché ϕurθce in ET Cr 5.4 (III secolo a.C.) è un verbo e non scrittura per purθ, anche se forse condivide con esso la radice semantica: su ciò A. Maggiani, Magistrature cittadine, magistrature federali, cit., 41; Id., Appunti sulle magistrature etrusche, cit., 133.

[33] ET Cr. 4.41, 4.42, 4.5.

[34] Ad avviso di L. Aigner-Foresti, Vom ‘zilaθ’ zum dictator: Das oberste Amt in Caere in etruskischer und römischer Zeit, in Ad fontes, cit., 221, posto che i testi bilingui in esame «heben die Datierung des Ereignisses, das Uni-Astar oder ihr Heiligtum betraf, hervor», se «eine Jahreszählung durch Nageleinschlag ist aus Rom und Etrurien bekannt», allora, ancorché nessun indizio emerga dalle tre fonti, «in Caere könnte sie zum Jahrestag des Tempels oder der Göttin durchgeführt worden sein»; «denn in Rom oblag die Jahreszählung dem praetor maximus, der jährlich im 13. September einen Jahresnagel einschlug; in Etrurien könnte sie vom *zilac seleita durchgeführt worden sein». A mente della equivalenza zilaθ – praetor e della traduzione con grande di seleita si è ritenuto opportuno sovrapporre la magistratura cerita ricoperta da Thefarie Velianas alla romana praetura maxima.

[35] L. Aigner-Foresti, Sopravvivenza di istituzioni etrusche, cit., 106. Cfr., inoltre, G. Colonna, Epigrafi etrusche e latine a confronto, in XI Congresso internazionale di epigrafia greca e latina. Roma, 18-24 settembre 1997, Roma 1999, 444, nt. 50.

[36] Tale immedesimazione pare fondata su un fraintendimento soprattutto là ove si sostiene, acriticamente, che, se nelle città latine il re-magistrato fu chiamato dictator o praetor e a Roma dictator / praetor maximus, a Cerveteri fu *zilaθ seleita / praetor maximus il titolo della suprema magistratura. Ma, da un lato, ‘praetor maximus’ nella lex vetusta (Livius 7.3.5: Lex vetusta est, priscis litteris verbisque scripta, ut qui praetor maximus sit idibus Septembribus clavum pangat) non pare affatto – come si precisa nel testo – il titolo ufficiale di una magistratura romana: si tratta di una controversa locuzione che, impiegando praetor in senso generale, è volta a indicare qualsivoglia magistrato (console o pretore, dittatore, interrex) che alle idi di settembre, secondo alcuni, si trovi a rivestire la posizione somma per imperio (maximi imperii), secondo altri, sia di età superiore a tutti (maximae aetatis), stando a Festus, De verb. sign., v. maximum praetorem, p. 153 L.: Cfr. T. Mommsen, Romische Chronologie, 2a edizione, Berlin 1859, 178. Dall’altro, il testo etrusco (zilac seleita), come il parallelo fenicio (mlk), pare indicare una ‘autentica titolatura’ rivestita da Thefarie Velianas, in modo, cioè, del tutto divergente da quanto è lecito trarre, per Roma, dalla lex vetusta ove non è indicato alcuno specifico magistrato: e ciò anche a voler ritenere che zilaθ sia impiegato nelle lamine auree, non già come ‘supremo magistrato’, ma solo come ‘magistrato’ in generale o come ‘capo’ (S. Mazzarino, Dalla monarchia allo stato repubblicano, cit., 105 s., 113; G. Camporeale, Gli Etruschi. Storia e civiltà, Torino 2004, 154). In altre parole, se – per ipotesi – la monarchia cerita, all’epoca delle lamine di Pyrgi, è stata sostituita da una magistratura monocratica (verisimilmente non vitalizia), zilaθ è il termine per indicare questa nuova figura, mentre l’aggettivo seleita – non assimilabile funzionalmente all’aggettivo latino della locuzione praetor maximus che, come appena sottolineato, nel contesto della lex vetusta, non corrisponde ad alcuna figura precisa di magistrato di età regia o repubblicana (v. A. Heuss, Gedanken und Vermutungen zur frühen römischen Regierungsgewalt, Göttingen 1982, 76 ss.) – è qualificazione che ben potrebbe indicare – tra le varie ipotesi – una intermedia ‘collegialità diseguale’ cerita, in antitesi a quanto congetturabile per Roma se, ovviamente, si aderisse alla tesi mommseniana del consolato originario (e non, invece, a quella – cui fa implicito riferimento Aigner-Foresti che vede il dictator immedesimato nel praetor maximus come figura di passaggio): v., paradigmaticamente, sulla scia di Mommsen, A. Bernardi, Dagli ausiliari del rex ai magistrati della respublica, in Athenaeum 30, 1952, 26 ss.; L. Capogrossi Colognesi, Storia di Roma tra diritto e potere, Bologna 2009, 35, 79; a favore dell’idea della ‘collegialità diseguale proto-repubblicana’ come ponte tra la monarchia e la diarchia repubblicana romana, v. K.J. Beloch, Römische Geschichte bis zum Beginn der punischen Kriege, Berlin - Leipzig 1926, 488 ss.; 231 ss.; V. Arangio-Ruiz, Storia del diritto romano, 7a ed., Napoli 1984, 25 ss.; S. Mazzarino, Dalla monarchia allo stato repubblicano, cit., 169 ss. A Cerveteri, quindi, sarebbe attestata, pur nella differente terminologia, una figura analoga a quella dello zilaθ purθne (o semplicemente purθne) di Tarquinia, Vulci, Volsini, a voler sposare quel desueto orientamento ripreso da T.J. Cornell, The Beginnings of Rome, cit., 230, secondo cui, per l’appunto, lo zilaθ purθne sarebbe stato il primo zilaθ, ossia la suprema magistratura cittadina ordinaria, – si potrebbe aggiungere in abstracto – ‘prima’ o rispetto a una pluralità, non collegiale, di magistrati (a voler indicare con zilaθ genericamente la magistratura e a considerare lo zilaθ purθe una magistratura vuoi unica vuoi collegiale: cfr. S. Mazzarino, Dalla monarchia allo stato repubblicano, cit., 109 ss.), o rispetto a un collegio magistratuale anche già sommo (S.P. Cortsen, Die Etruskischen Standes- und Beamtentitel, durch die Inschriften Beleuchtet, Københave 1925, 112 ss.; J. Heurgon, Magistratures romaines et magistratures etrusques, in Les origins de la republique romaine, Vandouvres - Ginevra, 1966, 1161). Il parallelo tra Cerveteri e Volsinii (ET Vs 1.179) cadrebbe invece ove si seguisse, con riguardo alla posizione dello zilaθ meχl rasnal rispetto a quella dello zilaθ purθne, A. Maggiani, Magistrature cittadine, magistrature federali, cit., 42: «questo secondo munus non doveva essere di tipo ordinario», ma poteva essere «qualcosa assimilabile … alla censura a Roma, che poteva essere assunta dal magistrato, come incarico aggiuntivo alla normale attività, cioè come funzione e non come magistratura».

[37] Cfr. R. Signorini, La lex vetusta di Livius 7.3.5 e il dittatore clavi figendi causa, in La dittatura romana, I, cit., 357 ss.

[38] Secondo una recente interpretazione, KBB del testo punicο e pulumχva in quello etrusco potrebbero indicare i chiodi con testa bronzea rivestita da uno strato d’oro affissi ad uno stipite della porta della cella del tempio B, allo stesso modo dei clavi annales della tradizione romana dei quali, dunque, costituirebbero l’equivalente (G. Colonna, A proposito del primo trattato romano-cartaginese e della donazione pyrgense ad Astarte, in Annali della Fondazione per il Museo Claudio Faina 17, 2010, 276 ss.).

[39] Circa l’oggetto della richiesta della dea e della dedica da parte di Thefarie Velianas, V. Belfiore, Nuovi spunti di riflessione sulle lamine di Pyrgi in etrusco, in Le lamine di Pyrgi. Nuovi studi sulle iscrizioni in etrusco e in fenicio nel cinquantenario della scoperta, a cura di V. Bellelli e P. Xella, in Studi Epigrafici e Linguistici 32-33, 2015-2016, 103 ss. Quanto alla datazione, va precisato che il testo riferisce la donazione alla dea di Thefarie Velianas a ‘ci avil’, ossia a ŠNT ŠLŠ. Si tratta di espressioni di non immediata comprensione e che, a seconda della resa, possono significare ‘nell’anno terzo’, con riferimento preciso alla data della donazione rispetto all’entrata in carica (M. Cristofani, Ripensando Pyrgi, in Miscellanea ceretana. Quaderni del Centro di studio per l’archeologia etrusco-italica, XVII, Roma 1989, 89 ss.; H. Donner - W. Röllig, Kananäische und aramäische Inschriften, Wiesbaden 1971-1976, 331), o ‘per tre anni’, con plausibile riferimento alla durata della carica complessiva di zilaθ seleita – MLK (A.J. Pfiffig, Uni-Hera-Astarte. Studien zu den Goldblechen von S. SeveraPyrgi mit etruskischer und punischer Inschrift, Wien 1965, 22), o ‘da tre anni’, con indicazione degli anni decorsi in carica (M. Pallottino, Le iscrizioni etrusche, in Scavi nel santuario etrusco di Pyrgi. Relazione preliminare della settima campagna, 1964, e scoperta di tre lamine d’oro inscritte in etrusco e in punico, in Archeologia classica 16, 1964, 92 s., 94; A. Maggiani, Magistrature cittadine, magistrature federali, cit., 39).

[40] Tralasciando in toto la tesi della equivalenza o somiglianza dello zilaθθθqee cerita con lo zilaθ purθne, non risulta affatto dalle lamine di Pyrgi che zilaθ seleita indichi un magistrato «sine collega» (così, invece, L. Aigner-Foresti, Sopravvivenza di istituzioni etrusche, cit., 107); che si trattasse di carica vitalizia ossia non «a termine» (così, invece, L. Aigner-Foresti, Sopravvivenza di istituzioni etrusche, cit., 104 s., 107, laddove più cauta pare essere la posizione assunta in Ead., Vom zilaθ zum dictator, cit., 221 s.), non è affatto certo né suggerito dall’uso in fenicio di MLK (sulle frequenti imprecisioni di traduzione nel testo semitico, v. G. Colonna, Il pantheon degli etruschi – ‘i più religiosi degli uomini’ – alla luce delle scoperte di Pyrgi, in Atti della Accademia nazionale dei Lincei CDIX, Classe di scienze morali, storiche e filologiche 9.29.3, 2012, 557 ss.): anzi contro tale opzione potrebbe militare, non solo il complemento di tempo ci avil inteso come allusione alla durata complessiva della carica, ma anche l’espressione fenicia ‘MLK ‘L KYŠRY’ (reggente su Caere)’, in luogo di ‘MLK KYŠRY’ (re di Caere)’. Vero che, una volta esclusa la reiterazione consecutiva della medesima carica (T.J. Cornell, The Beginnings of Rome, cit., 232, secondo cui, se «it is theoretically possible that he was in his third consecutive annual term», allora «one would have expected a different form of words [the equivalent of zilaθ the third time]»), l’annualità dello zilaθ seleita pare da negarsi radicalmente.

[41] Cfr., amplius, C. Pelloso, Il dictator, cit., 434 s., nt. 16.

[42] Ancora a metà del VI secolo a.C. l’esistenza di un rex a Caere potrebbe essere – ma solo indirettamente – provata dalla esistenza di un kalatur (ET Cr 2.31), sempre che non si aderisca alla tesi di P. De Francisci, La formazione della comunità politica romana primitiva, in Conferenze romanistiche, Milano 1960, 100, secondo cui a Roma il kalator sarebbe in via esclusiva un araldo del pontefice e non del rex: in primo luogo, il verbo calare indica solo un ‘neutro’ convocare, senza alcuna precisazione del magistrato o del sacerdote che ordina la convocazione a mezzo di araldo; se poi prendiamo in considerazione il Lapis Niger, il kalator è legato indissolubilmente al re e non al pontefice (il che nega recisamente il rapporto di esclusività qui contrastato); in secondo luogo, se si prendono in esame i giorni QRCF e si pensa, come credo sia corretto, a comitiare nel senso di kalare, ancora un elemento in più pare a favore della convocazione (nonché della presidenza) regia, almeno in via tendenziale, dei comizi (cfr. C. Pelloso, Provocatio ad populum e poteri magistratuali dal processo all’Orazio superstite alla morte di Appio Claudio decemviro, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 82, 2016, 235 s., nt. 32; Id., Ricerche sulle assemblee quiritarie, Napoli 2018, 136 ss.). Ancorché con cautela, la congettura secondo cui il re cerita si serviva ancora, come quello romano, di un kalatur nel VI secolo a.C. non è da escludere.

[43] Cfr., per le attestazioni dello zilacato cerita nel V secolo a.C. così come nel periodo tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C., ET 22, ETP 352 [Larth Nulathe], ET Cr 1.161 [Venel Tamsnie].

[44] Se per L. Aigner-Foresti, Sopravvivenza di istituzioni etrusche, cit., 107, è più probabile che il termine zilaθ seleita «col tempo sia stato modificato nel suo contenuto diventando zilaθ», a me tale idea non pare persuasiva. In primo luogo essa non spiega affatto la necessità o le ragioni del passaggio dalla titolatura di zilaθ seleita a quella più tarda di zilaθ; in secondo luogo, essa, con il supposto mutamento della sola nomenclatura e non della figura, implicherebbe la persistenza dell’altrettanto ipotetico carattere vitalizio (al che, invero, osta l’annualità della magistratura attestata in centri etruschi come a Tarquinia nella Tomba degli Scudi e nella Tomba dell’Orco); in terzo luogo, essa non tiene in sufficiente conto del fatto che «spesso in uno stesso centro, titolature come zilaθ e maru sono accompagnate anche da specificazioni, ossia da aggettivi, sostantivi al genitivo o nomi di luogo, che ne circoscrivono funzione, grado, sfera d’azione»: L. Cappelletti, Riflessioni sui sistemi di governo etruschi prima e dopo la guerra sociale (91-88 a.C.), in Homenaje al Profesor A. Torrent, Madrid 2016, 91.

[45] C. Pelloso, Il dictator, cit., 499 ss.

[46] Cfr., anzitutto, M. Torelli, C.Genucio(s) Clousino(s) prai(fectos). La fondazione della praefectura Caeritum, in The Roman Middle Republic. Politics, Religion, and Historiography c. 400-133 B.C. Papers from a Conference at the Institutum Romanum Finlandiae, September 11-12 1998, Roma 2000, 141 ss., 154 ss., 173 ss.; T.C. Brennan, The Praetorship in the Roman Republic, Oxford 2000, 652 ss. (che apre anche alla possibilità che il Genucio dell’iscrizione non sia il console, ma un suo discendente); F.K. Drogula, Commanders and Command in the Roman Republic and Early Empire, Chappell Hill 2015, 41 s. (secondo cui «this inscription may indicate that the title consul was not yet in use as late as 276 or 270 BC if – and only if – the prai in the inscription stands for praitor as Cristofani believes»); L. Cappelletti, Riflessioni sui sistemi di governo etruschi, cit., 95 s. (in completa adesione alla tesi di Torelli).

[47] A favore della lettura praetor, v. M. Cristofani, C. Genucio Clepsina pretore a Caere, in Archeologia della Tuscia, II, Roma 1988, 24 ss. (che pensa all’invio di un pretore con funzioni militari per il ristabilimento dell’ordine nel 273 a.C.); nonché L. Aigner-Foresti, Sopravvivenza di istituzioni etrusche, cit., 107 s., che supporta la lettura in oggetto con una argomentazione che non mi è del tutto chiara, se è vero che, almeno per Cerveteri, è dictator e non preator la interpretatio latina della magistratura suprema repubblicana: «prai- è dunque un calco linguistico come Clousino e chi lo operò volle mettere in latino una carica ben nota ai Ceretani e che non poteva essere altro che quella del praetor / zilaθ».

[48] Cfr., su CIL XI 3615, CIL XI 3593, CIL XI 3614, C. Pelloso, Il dictator, cit., 511 ss. Nella prima epigrafe, trovata tra Sutri e Nepet, viene attestato un cursus honorum ascendente che vede la dittatura come di grado superiore sia a questura che a edilità semplice, ma inferiore alla carica di aedilis Etruriae. La seconda iscrizione registra due dictatores (gerenti la medesima carica in anni differenti, verisimilmente consecutivi, e non membri di un poco plausibile collegio dittatoriale) quali donanti verso le divinità della curia Asernia. La terza concerne una riunione dell’ordo cittadino del 113 d.C., datata per mezzo della menzione sia dei consoli romani sia della magistratura eponima cittadina del dictator insieme a quella – ricordata in posizione secondaria – dell’edile giurisdizionale convocanti, tra gli altri, anche un subordinato edile dell’annona. Quest’ultimo assetto, se di certo significa riscrittura relativa dei poteri dittatori (nel senso che l’attribuzione del ius dicere all’edile non significa necessaria sottrazione al dictator di analogo potere concorrente, così come – alternativamente – la eponimia edilizia, proprio perché specificata dall’ablativo iure dicundo, contro l’indicazione pura del dictator, potrebbe interpretarsi all’interno di una rinnovata suprema magistratura connotata da una bipartizione di sfere di competenza complementari), si configura come epilogo di una storia costituzionale cittadina di cui solo gli ultimi tratti sono definibili con una certa sicurezza: l’età imperiale delinea un quadro che non contraddice una gerarchia in cui un magistrato unico eponimo, parimenti a quanto emerge per Cerveteri in epoca precedente all’assoggettamento a Roma, versa in posizione (cittadina) apicale.

[49] Livius, 2.14.7; Dionysius Halicarnassensis, 5.36.2.

[50] Dionysius Halicarnassensis, 5.76.3, 6.2.1, 6.4.1, 6.5.2-5, 6.11.1-2, 6.12.5; Cicero, Att. 9.10.3, Livius, 1.49.9; 2.15.7, 2.19.3-6, 2.19.10, 2.20.1-3, 2.20.7; Florus, 1.15.

[51] Cfr. D. Magie, De Romanorum iuris publici sacrique vocabulis sollemnibus in Graecum sermonem conversis, Lipsiae 1905, 12 ss., 34, 62, 79, 122; C. Nicolet, Dictateurs romains, στρατηγο ατοκρατρες grecs et généraux carthaginois, in Dictatures. Actes de la table ronde, cit., 31 ss.; T.C. Brennan, The Praetorship in the Roman Republic, cit., 11.

[52] Cfr. Dionysius Halicarnassensis, 3.34.3; v., inoltre, Dionysius Halicarnassensis, 3.5.3, 3.7.3, per l’impiego della medesima locuzione, ma al singolare, per qualificare la posizione dell’albano Mettius Fufetius, plausibilmente relativa all’armata federale dell’omne nomen Albanum (Livius, 1.23.4) e non alla sola città natale, atteso che gli Albani avevano convocato ο μόνον τς οκείας … δυνάμεις, λλ κα τς παρ τν πηκόων (Dionysius Halicarnassensis, 3.4.1; ulteriori titoli sono sia dictator, sia dux: cfr. Livius 1.23.4, 1.24.9, 1.27.1; Festus, De verb. sign., v. Sororium tigillum, p. 380 L.; Valerius Maximus, 7.4.1; Auctor, vir. ill. 4.10; Cato, orig. fr. 22 Peter = fr. I.22 Chassignet); cfr. B. Liou-Gille, Sur le pouvoir militaire à l’époque archaïque. De la dictature albaine aux premières dictatures romaines (d’après Tite-Live et Denys d’Halicarnasse), in Images d’origines. Origines d’une image. Hommages a J. Poucet, ed. P.-A. Deproost et A. Meurant, Louvain-La Neuve 2004, 175 ss.

[53] B. Liou-Gille, Le gouvernement fédéral de la Ligue Latine sous la royauté romaine: dictateur fédéral, roi fédéral, ‘hegemôn toû éthnous’, in Revue des études anciennes 106, 2004, 434; contra, v. P. Sánchez, Le fragment de L. Cincius [Festus p. 276 L] et le commandement des armées du ‘Latium’, in Cahiers Glotz 25, 2014, 19 s. e nt. 41 a mente della comparazione di Dionysius Halicarnassensis, 3.34.3 con Dionysius Halicarnassensis, 5.50.2 e Dionysius Halicarnassensis, 5.61.1-3.

[54] La stessa Alba Longa avrebbe conosciuto già con la morte di Numitore, la figura della dittatura quale magistratura dotata di potere parificabile τος βασιλεύσι, da intendersi o come annua o come di massima durata annua (v., per tutti, B. Liou-Gille, Le gouvernement fédéral de la Ligue Latine, cit., 422 ss.), secondo la versione di Licinio Macro e Plutarco, e contro quella di Dionigi e di Strabone (Dionysius Halicarnassensis, 5.73.1-5.74.4; Plutarchus, Rom. 27.1; Licinius Macer, fr. 10 Peter = fr. 7 Walt = fr. 7; Strabo, 5.34); il che, però, è di ardua armonizzazione con la somma magistratura (Dionysius Halicarnassensis 3.2.1) ricoperta, ai tempi di Tullo Ostilio, dal rex Cluilio (qualificato però nelle fonti anche come praetor, dux, magistrato che imperitabat, στρατηγός: Livius, 1.23.3, 1.23.4, 1.23.7, 1.22.4; Cato, orig. fr. 22 Peter = fr. I.22 Chassignet; Festus, De verb. sign., v. oratores, p. 196 L.; Paulus - Festus, De verb. sign., v. Cluiliae fossae, p. 48 L.; Dionysius Halicarnassensis 3.9.2), nonché quello della natura della somma magistratura di Mettio Fufezio, dictator, dux, στρατηγς ατοκράτωρ (Servius, Aen. 8.642; Dionysius Halicarnassensis, 3.28.6; Livius, 1.23.4, 1.23.8, 1.24.9, 1.27.1; Dionysius Halicarnassensis, 3.5.3, 3.7.3; Festus, De verb. sign., v. Sororium tigillum p. 380 L.; Valerius Maximus, 7.4.1; Auctor, vir. ill. 4.10; Cato orig. fr. 22 Peter = fr. I.22 Chassignet). E ciò ovviamente a patto che non si opti, da un lato, per intendere la dittatura istituita dopo la morte di Numitore come magistratura non permanente ma solo volta a supplire temporaneamente alla vacatio regis, e, dall’altro, per la interpretazione della carica di Mettio come comandante federale. Sul punto, cfr., tra i molti, H. Rudolph, Stadt und Staat im römischen Italien, cit., 9 s.; E. Manni, Per la storia dei municipii fino alla guerra sociale, Roma 1947, 98 ss.; U. Coli, Regnum, Roma 1951, 162, nt. 61; V. Bellini, Sulla genesi e la struttura delle leghe nell’Italia arcaica. III. Le leghe laziali, in Revue internationale des droits de l’antiquité 8, 1961, 221; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, I, Torino 1965, 211; B. Liou-Gille, Sur le pouvoir militaire à l’époque archaïque, cit., 175 ss.

[55] Dionysius Halicarnassensis, 5.73.1; v., inoltre, Dionysius Halicarnassensis, 5.77.4; Zonas, 7.13, 15; Lydus, mag. 1.37; Livius, 2.18.4-5; ma altresì ILS [Dessau] 50; Festus, De verb. sign., v. optima lex, p. 216 L.; Licinius Macer, fr. 10 Peter (Dionysius Halicarnassensis, 5.74.4) = fr. 7 Walt = fr. 7 Chassignet; Plutarchus, Rom. 27.1; Strabo, 5.34.

[56] Sarebbe stata tale figura ‘pan-latina’ a rappresentare il modello della dittatura cittadina romana: cfr., in tal senso, G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, Torino 1907, 407 ss., 423 ss.; Id., voce Dittatore, in Enciclopedia Italiana, XIII, Roma 1932, 50; Id., Le origini della dittatura (appendice inedita a Storia dei Romani, I, 2a ed., Firenze 1980, 465 ss.); v., altresì, in senso analogo, W. Soltau, Der Ursprung der Diktatur, Hermes 49, 1914, 352 ss., che enfatizza la natura e la funzione militari dei poteri dittatoriali romani ritenendo che i dittatori romani fossero nominati per guidare l’esercito pan-latino); cfr., come fondatore della scuola di pensiero che vede nel dittatore romano l’esito di una derivazione latina, G. Niebuhr, Römische Geschichte, I, cit., 589 ss. Ex plurimis, hanno ripreso ed approfondito, in senso tendenzialmente adesivo, tale tesi del De Sanctis: A. Momigliano, Ricerche sulle magistrature romane. I. Il dictator clavi figendi causa; II. Imperator, in BCAR 58, 1930, 29 ss. (nonché in Quarto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1969, 273 ss.); S. Mazzarino, Dalla monarchia allo stato repubblicano, cit., 180 ss.; A. Alföldi, Early Rome and the Latins, Ann Arbor 1965, 43; R.T. Ridley, The Origin of the Roman Dictatorship: An Overlooked Opinion, in Rheinisches Museum 122, 1979, 303 ss.; B. Liou-Gille, Le gouvernement fédéral de la Ligue Latine, cit., 421 ss. V., soprattutto, G. Valditara, Studi sul magister populi, Milano 1989, 198: l’autore, atteso che le fonti attestano i più antichi dictatores per il 501-498 a.C., ritiene confermata sia la cronologia regia dell’istituto del magister populi, sia la sua sostituzione con il dictator per l’inizio del V secolo a.C. (pur non escludendo che i due titoli siano stati anche coesistenti e tesi a precisare due competenze distinte esercitate dalla stessa persona); più esattamente, il titolo di dictator, di origine albense, si sarebbe imposto a Roma in primis per la sua valenza federale nell’ambito della lega latina, comandata dal magister populi romano in alternanza con i magistrati delle altre città; per di più, «se effettivamente nel 500 circa comparve a Roma, come vuole unanimemente la tradizione, una nuova titolatura e/o magistratura questa non poté essere quella di magister populi, dato che in questa epoca non se ne saprebbe spiegare la funzione. Se infatti ammettiamo che ci fossero già i due consoli, perché si doveva creare un magister populi con a fianco un magister equitum quando, essendovi ancora una sola legione […] uno dei consoli ben poteva comandare la fanteria e l’altro la cavalleria? … Se invece il consolato non esisteva ancora, perché si dovettero aspettare dieci anni circa dalla cacciata dei re per dare a Roma un nuovo organo di governo?». Concorda lo stesso Prosdocimi, secondo cui, tuttavia, «nonostante la corretta impostazione delle premesse per l’argomentazione e l’individuazione di una sopravvenuta oscurità funzionale di tale istituto, non se ne coglie la motivazione semantica implicita nel termine», in quanto «nell’apriori della persistenza in fase monarchica, cioè ‘tarquinia’, opportunamente evidenziata da Valditara, il magister populi non poteva più avere questo nome perché poplo-/populus non significava più ‘esercito’ bensì ormai ‘popolo’ e un magister del populus sarebbe stato sinonimo di ‘rex’, cioè di un’istituzione inammissibile». Lo studioso, inoltre, con riguardo alle ipotesi sulla sostituzione di magister populi con dictator, pensa che il magister populi avrebbe cessato di essere chiamato in questo modo a causa di un evento traumatico, ossia la nascita della repubblica, «dove il populus non solo non è più quello della fase monarchica – e ciò già in fase serviana –, ma è cosa ben lontana dalla realtà dell’esercito»; inoltre, continuando a seguire il glottologo, «se questa ipotesi coglie, almeno in parte, nel segno, è possibile che il trapasso terminologico sia stato favorito dal diverso rapporto tra esercito e potere in fase monarchica (etrusca: l’ultima?) e in fase repubblicana: attraverso il tyrannos – come si configura il re etrusco esplicitamente ‘Superbus’– l’esercito può anche identificarsi con ‘popolo’ = ‘tutti i cittadini’, perché sarebbe il poplo–, in quanto esercito, il nerbo del potere in una realtà istituzionale monarchico-tirannica, non il popolo in quanto cittadini» (A.L. Prosdocimi, Forme di lingua, cit., 492 s.).

[57] Cfr. Livius, 1.23.4, 1.24.9, 1.27.1; Cato fr. 58 Peter = fr. II.28 Chassignet.

[58] Cfr. Festus, De verb. sign., v. praetor, p. 276 L., che descrive l’elezione di un solo praetor federale presso il caput Ferentinae tra la caduta di Alba e il consolato di Publio Decio Mure; Livius, 8.3.9 che attesta per l’anno 340 a.C. i praetores Annio di Sezia e Mumicio di Circei.

[59] Cfr. Cicero, Att. 9.10.3; Livius, 1.49.9, 2.15.7, 2.19.3-6, 2.19.10, 2.20.1-3, 2.20.7; Florus, 1.15: la tradizione latina con riguardo ad Ottavio Mamilio predilige espressioni come quelle di imperator, dux, princeps.

[60] Priscianus gramm., IV, p. 129 H; VII, p. 337 H (Cato fr. 58 Peter; fr. II.28 Chassignet): Lucum Dianium in nemore Aricino Egerius Baebius Tusculanus dedicavit dictator Latinus. Hi populi communiter: Tusculanus, Aricinus, Lanuvinus. Laurens, Coranus, Tiburtis, Pometinus, Ardeatis Rutulus; Festus, De verb. sign., v. Manius Egerius, p. 128 L.: Manius Egerius lucum Nemorensem Dianae consecravit, a quo multi et clari viri orti sunt, et per multos annos fuerunt; unde et proverbium ‘Multi Mani Ariciae’. Sinnius Capito longe aliter sentit. Ait enim turpes et deformes significari, quia Maniae dicuntur deformes personae etc. Sul punto, v., amplius, C. Pelloso, Il dictator, cit., 458 ss.

[61] Così, invece, G. De Sanctis, Storia dei Romani, II, 2a ed., Firenze 1960, 90; B. Liou-Gille, Naissance de la Ligue Latine, cit., 88; M. Chiabà, Roma e le priscae Latinae coloniae, cit., 35; D. Nonnis, Tra continuità e trasformazione: appunti su alcune magistrature ‘tradizionali’ delle comunità laziali tra repubblica e impero, in Le forme municipali in Italia e nelle province occidentali tra i secoli I a.C. e III d.C. Atti della ‘XXI Rencontre franco-italienne sur l’épigraphie du monde romain’ (Campobasso 24 - 26 settembre 2015), a cura di S. Evangelisti e C. Ricci, Bari 2017, 33.

[62] Livius, 3.15.4-9, 3.18.1-7, 3.19; Dionysius Halicarnassensis, 10.14.1-2, 10.16.3, 10.20.2.

[63] Livius, 2.22.4-7, 2.24.1, 2.30.8-9, 3.22.2, 3.31.3, 3.38.5, 3.40.13-14, 3.57.7-9, 4.26.1-2, 4.37.4-6, 4.45.5-7, 4.53.1-2, 4.55.1-2, 7.19.5, 7.27.5; Dionysius Halicarnassensis, 6.18.1, 8.15.2, 9.1.2, 9.60.3, 9.67.4, 10.20.4.

[64] Così, v. A. Piganiol, Romains et Latins, in Mélanges de l'École française de Rome - Antiquité 38, 1920, 285 ss., 297 ss.; J. Weiss - M. Gelzer, voce Latium, in Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, XII.1, Stuttgart, 1924, 961; V. Bellini, Sulla genesi e la struttura, cit., 222 ss.; cfr. Livius, 2.39.8 ss.; Livius, 4.26 ss.; 4.26.12; 4.29.4; Diodorus Siculus, 12.64; Plutarchus, Cam. 2.

[65] V. Bellini, Sulla genesi e la struttura, cit., 223; cfr. Livius, 3.4.10, 3.18.1, 3.25.6, 3.26 ss., 4.45.6-7, 5.46.10; Dionysius Halicarnassensis, 10.22.4; Plutarchus, Cor. 27.3.

[66] Livius, 6.26.3-4.

[67] CIL XIV 2590, 2622, 2625, 2626, 2626, 2627, 2638, 2621, 2579; v., inoltre, Eph. Epigr. IX 680 = ILS 9388 = EDR072113 = Granino Cecere 2005, nr. 252: a prescindere dalla menzione pliniana per il 322 a.C. di un console di Tuscolani ribelli (Plin. nat. 7.44.136), gli edili ora regolarmente in coppia, ora eccezionalmente nel numero di tre (in connessione alla dedica di una aedicula), ora come singolo (per la datazione di un sacrum) coprono, con riguardo alla magistratura eponima, un periodo che va dalla tarda repubblica al II secolo d.C. Va peraltro puntualizzato che la sola epigrafe attestante un dictator tuscolano è CIL XIV 212* (Marco Bebio / Brix / dictatore), edita da Domenico Barnaba Mattei nel 1711 (D.B. Mattei, Memorie istoriche dell’Antico Tusculum oggi Frascati, Roma 1711, 76) per la autenticità – confermata da D. Gorostidi Pi, Nuovi documenti epigrafici dallo scavo della cosiddetta ‘villa di Prastina Pacato’ a Tusculum, in Lazio e Sabina 9. Atti del Convegno nono Incontro di Studi sul Lazio e la Sabina [Roma, 27-29 marzo 2012)], Roma 2013, 183 ss.; Ead., La galeria de ‘summi viri’ en ‘Tusculum’ y el foro de Augusto: Valoración a partir de inscripciones antiquas y recièntes, in CIAC XVIII Congreso Internacional Arqueología Clásica en el mundo clásico, ed. J.M. Álvarez, T. Nogales, I. Rodà, II, Merida 2014, 1605 ss.) – v. S. Mazzarino, Dalla monarchia allo stato repubblicano, cit., 240 s.

[68] Una volta abbandonata la tesi della triplice edilità tuscolana, e quella dell’abolizione in toto del dittatore da parte di Roma, le opzioni seguite in letteratura sono state fondamentalmente tre. Si può congetturare la riduzione ad sacra del dittatore, poi, un mutamento del suo titolo in aedilis, la sua addizione a un nuovo collegio edilizio diarchico e, infine, un graduale riacquisto di funzioni amministrative. Si può supporre la iniziale permanenza del dittatore come supremo magistrato cittadino e la sua solo successiva eliminazione. Si può pensare a una spontanea evoluzione diretta alla equiparazione – nominale e funzionale – tra magistrato supremo e magistrati ausiliari, iscritta in un generale processo di tensione dalla monocraticità alla collegialità. Tuttavia, l’artificiosità di queste interpretazioni a fronte dei silenzi delle fonti circa la dittatura tuscolana municipale e del quadro emergente dalle stesse è quanto mai evidente: il dittatore rimarrebbe magistratura suprema, ma prenderebbe il nome di edile; l’edile originariamente subordinato sarebbe elevato a magistratura suprema ancorché divenuta collegiale, ma permarrebbe la titolatura di origine. Sulla dittatura municipale tuscolana, v., amplius, C. Pelloso, Il dictator, cit., 458 ss.

[69] La trasformazione – su imposizione romana già dal 381 a.C. – del dictator in figura solo onorifica quale ipotesi che meglio si confà allo stato delle fonti, nonché al contesto storico in cui si iscrive l’antichissima deditio, deve ovviamente aver implicato – in assenza di una prefettura – la ridistribuzione delle originarie sfere di competenza (amministrativa, giurisdizionale e giudicante, sacrale) alla magistratura non monocratica. Tutto ciò trova ulteriore supporto nei seguenti dati. La dittatura non è figura regolarmente innestata da Roma nelle più antiche città optimo iure, come testimonia, dopo l’incorporazione del 338 a.C., ad esempio, l’assetto pretorio-edilizio della comunità di Lavinio, recepita in civitatem extra poenam. Roma tende a conservare, rimodulandone i poteri e riscolpendone la configurazione, le istituzioni locali: ciò si evince anzitutto dalle sorti di Capua, città campana in cui, anche se dal 318 a.C., a circa quindici anni dalla municipalizzazione, praefecti votati dall’assemblea romana come rappresentanti del pretore vengono inviati – forse già per l’amministrazione della giustizia civile -, persistono, sebbene con funzioni – tra l’altro di governo e di giudizio – non esattamente ed analiticamente identificabili, i preesistenti meddices sino al 211 a.C., ossia magistratus sui della res publica di Capua privati del potere di ius dicere almeno limitatamente alla sfera di competenza prefettizia. Simile il caso di Anagnia, città di stirpe ernica che, sebbene nel 306 a.C. non solo venga assorbita nella cittadinanza romana sine suffragii latione, ma altresì venga punita esemplarmente, non è affatto privata delle proprie originarie magistrature, le quali subiscono, invece, una compressione funzionale, permanendo quali meri sacerdozi. Su tali casi, v., amplius, C. Pelloso, Il dictator, cit., 474 ss. e ntt. 101 ss.