Università dell’Insubria
La classificazione dottrinale delle pollicitationes ad una res publica ob honorem / ob liberalitatem: criticità di ordine logico e testuale
SOMMARIO: 1. Oggetto dell’indagine: la classificazione dottrinale delle pollicitationes
ad una res publica ob honorem / ob liberalitatem – 2. Il quadro sistematico e definitorio delle pollicitationes
ad una res publica desumibile dalle fonti – 3. Dalla classificazione bipartita delle pollicitationes ad
una res publica: ob honorem / non ob honorem, a quella: ob
honorem vel ob aliam iustam causam / non ex causa (vel sine causa) – 4. Le pollicitationes ob casum – 5. Le pollicitationes ‘ne honoribus fungeretur’ – 6. Appendice: il ricorrere dei
sostantivi liberalitas e munificentia in apposizione (anche) a pollicitationes
ob honorem – 7. Osservazioni
riepilogative: l’anomalia logico-sistematica rappresentata dalle pollicitationes
ob liberalitatem.–
Abstract.
Il presente contributo intende svolgere una discussione critica in merito alla correttezza logico-sistematica della classificazione delle pollicitationes ad una res publica formulata – anche sulla scorta di alcune, rilevanti suggestioni presenti nell’ormai classica monografia di Paul Veyne «Le pain et le cirque. Sociologie historique d’un pluralisme politique»[1] – da Enrique Melchor Gil e assunta da diversi, altri autori (peraltro, tali adesioni non sono state accompagnate dallo sviluppo di argomenti logico-interpretativi e/o dall’enucleazione di elementi di carattere testuale originali e, quindi, ulteriori rispetto a quelli individuati dallo studioso spagnolo), che le distingue in: ob honorem e ob liberalitatem.
Sono numerosi i lavori di Melchor Gil ove la bipartizione in parola trova precisa ed esplicita formulazione. Ve ne è, però, uno che la enuncia e la teorizza in forma compiuta, sviluppandone il senso tecnico-giuridico e la portata definitorio-sistematica; si tratta del saggio che prende, per l’appunto, titolo dalla stessa: «Pollicitationes ob honorem y ob liberalitatem en beneficio de una res publica: su reflejo en la epigrafía latina», edito, nel 2005, all’interno del quinto volume della Revista General de Derecho Romano[2] (peraltro, una prima, significativa formulazione dell’antitesi e l’enucleazione dell’impianto argomentativo ad essa connesso possano farsi risalire, addirittura, alla Tesis Doctoral presentata dallo studioso spagnolo nell’ormai lontano 1992[3])[4].
In esso Melchor Gil esprime l’idea portante della sua proposta definitorio-sistematica nei seguenti termini (ritengo di dovere ‘privilegiare’ la citazione testuale, limitando, cioè, il ricorso alla traduzione in italiano solo in ragione di specifiche esigenze di organicità espositiva e/o di sintesi): a fronte delle pollicitationes ob honorem – «promesas electorales … efectuadas durante la campaña o en el momento de la toma de posesión de los cargos públicos», «en la epigrafía … claramente señalados» da «expresiones del tipo ob honorem o pro honore»[5], seguite dalla menzione «del cargo que se había logrado alcanzar», le quali avrebbero trovato la loro, specifica ‘motivazione’ nel desiderio «de conseguir alguna magistratura, sacerdocio, o el decurionado en cualquiera de los municipios y colonias» – tutte le (restanti) pollicitationes rinvolte ad una res publica, in quanto non «motivada por la obtención de un honor, sacerdocio o cargo» («que non han sido realizadas en cumplimiento de promessas de carάcter político o electoralista»), perciò non formulate ob honorem/pro honore (per Enrique Melchor Gil, lo si è appena visto, le due espressioni sarebbero equivalenti) – andrebbero ricondotte nel novero delle pollicitationes ob liberalitatem, ossia di quelle che – osserva lo studioso spagnolo – «desde un punto de vista juridico deberíamos llamarlas sine causa iusta»[6].
Ob liberalitatem sarebbero, quindi, anche «la promesas … realizadas con
ocasión de diversas calamidades sufridas por las ciudades, como terremotos,
derrumbamientos o incendios»[7] (che in D.
50.12.7, Paul. 1 de officio proconsulis, sono qualificate ob casum).
Del pari, il carattere ob liberalitatem sarebbe proprio delle pollicitationes indirizzate «a la ciudad para evitar el desempeño de cargos honoríficos»[8], ossia delle promesse che nelle intenzioni del pollicitator avrebbero dovuto scongiurare l’assunzione di un determinato honor, la cui prestazione avrebbe, cioè, dovuto fungere da corrispettivo dell’esenzione; pollicitationes in riferimento alle quali, in D. 50.12.12.1 (Mod. 11 pandectarum), Modestino usa la formula ‘ne honoribus fungeretur’[9].
Anche rispetto alle pollicitationes ob casum e a quelle (assumo l’espressione di Modestino) ‘ne honoribus fungeretur’ rileverebbe, come si è detto, il fatto di non essere ‘collegate’ all’assunzione di un honor per cui la loro formulazione non farebbe «mención alguna a la fórmula ‘ob honorem’» («u otra similar»)[10].
Ad accumunare le promesse ob liberalitatem sotto il
profilo formale e a renderle, immediatamente, identificabili vi sarebbe – è
sempre il pensiero di Enrique Melchor Gil – di regola, il ricorrere (il dato è
evinto dalla documentazione epigrafica) di locuzioni quali: ‘ex liberalitate
sua’, ‘de’ o ‘ex sua liberalitate’, ‘pro amore
patriae’, ‘ob amorem civium’, ‘in’ o ‘ob
memoriam’. Ma è il caso, ancora una volta, di riportare le parole dello
studioso spagnolo: «la epigrafía nos proporciona numerosos ejemplos de pollicitationes
ob liberalitatem. Los evergetas
normalmente indican en las inscripciones que realizaron la donación en
cumplimiento de una promesa, y en ocasiones señalan los motivos con expresiones
del tipo: ‘ex liberalitate sua’ (CIL VIII, 8318, 8319,
14792), ‘de’ o ‘ex sua liberalitate’ (CIL VIII,
11677, 12421; AE 1917/18, 44), ‘pro amore patriae’ (CIL
VIII, 14792), ‘ob amorem civium’ (CIL VIII,
1781), ‘in’ o ‘ob memoriam’ (CIL II,
3265; CIL IX, 23)»[11].
Tali locuzioni avrebbero tutte, indifferentemente, evidenziato la natura e la motivazione evergetiche delle pollicitationes ob liberalitatem e, al contempo, seppure in forma indiretta, ne avrebbero attestato la totale estraneità rispetto all’assunzione di un honor, tanté – precisa Melchor Gil – che «no aparece mención alguna a la fórmula ob honorem»[12].
Vale, innanzitutto, sottolineare come la classificazione bipartita ob honorem/ob liberalitatem non trovi riscontro nelle fonti, né in quelle giuridiche[13] né in quelle, per così dire, atecniche (letterarie[14] ed epigrafiche[15])[16].
Più esattamente, manca qualsiasi attestazione in merito all’utilizzo della locuzione ob liberalitatem quale strumento funzionale a connotare il ‘rei publicae polliceri’ per il fatto di – assumo la visione prospettica di Enrique Melchor Gil – essere ‘altro’ da quello ob honorem.
Di contro, dalle fonti emerge un quadro sistematico e, al tempo, stesso definitorio delle pollicitationes rivolte ad una res publica che, inizialmente, ‘costruito’ sulla contrapposizione tra pollicitationes ob honorem – ossia effettuate in conseguenza dell’assunzione di una carica, di un ufficio pubblico, di un incarico onorifico (ob honorem decretum) o al fine di favorire il verificarsi di tale circostanza (ob honorem decernendum)[17] – e pollicitationes non così connotate, per l’appunto, non ob honorem, già in età tardo-classica[18] le sostituisce quella tra promesse ob honorem vel ob aliam (rispetto all’honor) iustam causam (ossia riferibili ad una causa giuridicamente rilevante) e promesse sine causa (vel non ex causa) (ossia estranee non solo al decernere honorem ma, più in generale, a qualsiasi causa ossia a qualsiasi ‘motivo’ giuridicamente rilevante e, in quanto tale, determinante la validità della pollicitatio[19]).
Compiuta enunciazione di quest’ultima classificazione sistematica del ‘rei publicae polliceri’ è dato leggere in D. 50.12.1 (Ulp. l. sing. de officio curatoris rei publicae)[20], più esattamente, nei §§ 1, 2 e 5. ‘Non semper autem obligari eum, qui pollicitus est, sciendum est. si quidem ob honorem promiserit decretum sibi vel decernendum … tenebitur ex pollicitatione’ (§ 1); ‘Item si sine causa promiserit, coeperit tamen facere obligatus est qui coepit’ (§ 2); ‘Qui non ex causa pecuniam rei publicae pollicentur, liberalitatem perficere non coguntur’ (§ 5).
Il frammento ulpianeo qualifica e distingue le pollicitationes in ragione della relazionabilità o meno delle medesime ad una (iusta) causa, per l’appunto, in ragione dell’essere ob honorem decretum vel decernendum vel ob aliam iustam causam (§ 1) o, piuttosto, sine causa (§§ 1 e 2), non ex causa (§ 5).
Rispetto alle prime (laddove avessero avuto ad oggetto un facere opus[21]) si sancisce che il ‘pollicitator tenebitur ex pollicitatione’, si configura, cioè, la diretta ed immediata obbligatorietà delle stesse (‘… si quidem ob honorem promiserit decretum sibi vel decernendum vel ob aliam iustam causam, tenebitur ex pollicitatione …’); di contro, riguardo alle seconde si dispone che il promittente ‘obligatus est’ (solo) una volta che “coeperit [opus] facere” (‘… sin vero sine causa promiserit, non erit obligatus. et ita multis constitutionibus et veteribus et novis continetur’), si assume, quindi, il cominciamento della relativa prestazione a condizione della loro vincolatività (vale richiamare come tale distinzione di regime per quanto attiene al profilo della vincolatività abbia riguardato anche la bipartizione: pollicitationes ob honorem – del resto, queste promesse confluiscono all’interno della species ob iustam causam – e pollicitationes non ob honorem, vincolanti solo previo coeptum opus[22]).
Ricapitolando: in D. 50.12.1, accanto alle pollicitationes ob honorem vengono menzionate quelle fatte ob aliam iustam causam e si assume il carattere di per sé vincolante (per il pollicitator e rispetto alle prestazioni consistenti in un facere opus) di tali promesse; al contempo, si configurano le pollicitationes sine causa (vel non ex causa) quale categoria autonoma e si sancisce (sempre con riferimento alla persona del pollicitator e ad un facere opus) la subordinazione dell’obbligatorietà delle stesse al cominciamento della relativa prestazione.
Il fatto, poi, che – come si è accennato – diversi, altri passi del Digesto giustinianeo sembrino incentrati sull’antitesi pollicitationes ob honorem/pollicitationes non ob honorem: le prime (per il promittente), immediatamente, vincolanti, le seconde solo previo incominciamento della relativa prestazione, nel momento in cui ha indotto la pressoché totalità della dottrina ad ascrivere a tale bipartizione carattere originario e, quindi, di riflesso, a considerare recenziore, rispetto ad essa, la tripartizione: pollicitationes ob honorem/pollicitationes ob aliam iustam causa/pollicitationes sine causa (vel non ex causa) o, se si preferisce, la bipartizione: pollicitationes ob iustam causam/pollicitationes sine (iusta) causa (non ex [iusta] causa), sono dell’avviso che nulla tolga al carattere giurisprudenziale di tale classificazione sistematica.
Sono, cioè, convinto che essa debba considerarsi il risultato dell’attività interpretativa della giurisprudenza romana tardo-classica, quantomeno di età severiana[23]; che sia, quindi, da respingere ogni tentativo operato dalla dottrina volto ad ascrivere la bipartizione in parola all’età giustinianea, per cui il riferimento alle iustae causae e le sottolineature sine causa/non ex causa presenti in D. 50.12.1 e gli altri, analoghi, anche se non altrettanto compiuti e/o diretti, richiami, a tale distinzione/contrapposizione, presenti in altri passi del Digesto (si tratta, nello specifico, dell’‘ob causam aliquam iustam rei publicae … polliceatur’, che ricorre in D. 39.5.19pr., Ulp. 76 ad edictum[24], e del ‘quae tamen pollicitatio recusari non potest’, che è dato leggere in D. 50.4.6.1, Ulp. 4 de officio proconsulis[25]) sarebbero tutti di matrice compilatoria, fotograferebbero, quindi, la realtà giustinianea[26], nella quale (non prima, quindi,) con l’univocità dell’honor quale iusta causa, sarebbe venuta meno l’omnicomprensività della dicotomia ob honorem/non ob honorem e, di riflesso, al regolamentazione giuridica ad essa collegata[27].
Ritengo si possa con buona verosimiglianza ipotizzare che alla base del passaggio dalla dicotomia ob honorem/non ob honorem a quella ob honorem vel ob aliam iustam causam/non ex causa (vel sine causa) vi sarebbe stata la presa d’atto da parte dei giuristi di fine II sec. d.C.[28] dell’insufficienza dell’originaria classificazione bipartita (nonché, di riflesso, della regolamentazione giuridica ad essa collegata, per cui a fronte delle promesse ob honorem, immediatamente obbligatorie per il promittente, le altre promesse, tutte sussumibili all’interno della species non ob honorem, avrebbe richiesto un principio di esecuzione della relativa prestazione) a fotografare, compiutamente ed esaustivamente, le diverse tipologie di ‘rei publicae polliceri’. Ciò, essenzialmente, a seguito della venuta meno dell’univocità dell’honor quale iusta causa pollicitationis.
Esso avrebbe continuato a rappresentare la iusta causa, per così dire, ‘di riferimento’, in quanto originaria e maggiormente diffusa (l’unica, tra l’altro, ad essere menzionata in modo esplicito da Ulpiano in D. 50.12.1.1); accanto ad essa si sarebbero, però, venute a configurare altre causae, ritenute, ugualmente, iustae, ossia giuridicamente rilevanti.
Ciò avrebbe inciso anche sul piano definitorio-sistematico, peraltro, non come asserito da numerosi interpreti, nel senso di determinare la completa sostituzione della bipartizione ob honorem/non ob honorem[29]. Come si è appena richiamato, dei due termini, quello ‘originario’ e tipico, l’honor, è stato mantenuto; la locuzione ob honorem (decretum vel decernendum) risulta, infatti, ancora presente. Solo che essa non esaurisce più l’esplicitazione del ‘rei publicae polliceri’ connotato da una iusta causa. Ad esso risulta affiancata, in funzione di integrazione, la locuzione ob aliam iustam causam. L’insieme costituito dall’ob honorem vel ob aliam iustam causam risulta, poi, contrapposto al ‘rei publicae polliceri’ sine causa (vel non ex causa), ossia sfornito di un ‘motivo’ rilevante per il diritto. A non figurare più è (solo) la locuzione (e la species rappresentata dalle pollicitationes) non ob honorem; la sostituzione vi è sì stata, ma non ha interessato la bipartizione ob honorem/non ob honorem nel suo complesso
L’affermazione, ricorrente tra gli studiosi, secondo cui la bipartizione ob honorem/non ob honorem sarebbe venuta meno, sostituita in tutto e per tutto dalla classificazione che ricorre, in forma compiuta, in D. 50.12.1 (§§ 1-2 e 5) non è, quindi, corretta; ad essere ‘cassato’ sarebbe stato, infatti, solo il secondo dei due termini dell’antitesi, il ‘rei publicae polliceri’ non ob honorem.
Allo stesso modo, non può condividersi il convincimento, ugualmente, diffuso in dottrina, secondo cui le pollicitationes ob iustam causam avrebbero sostituito quelle ob honorem e le pollicitationes sine iusta causa (vel non ex causa) avrebbero preso il posto di quelle non ob honorem.
Vale ripeterlo: la classificazione ob honorem vel ob aliam iustam causam/sine causa (vel non ex causa) non avrebbe significato il completo svuotamento della dicotomia ob honorem/non ob honorem, bensì un’elaborazione della stessa che, salvandone il primo termine (ob honorem), avrebbe, di contro, attestato l’inadeguatezza, peggio la scorrettezza definitorio-sistematica del secondo (non ob honorem).
Alla base di ciò vi sarebbe stato il fatto che l’honor non avrebbe più rappresentato l’unica causa pollicitationis rilevante per il diritto (anche se, sola (iusta) causa ad essere menzionata in modo esplicito ed autonomo, sembra conservasse una sorta di plusvalore rispetto alle altre (iustae) causae, ricomprese tutte nella generica ed indeterminata locuzione ob aliam iustam causam). Di riflesso, la categoria costituita dalle pollicitationes non ob honorem, visto il carattere residuale e antitetico (rispetto all’ob honorem) della stessa, avrebbe finito per risultare incongrua di fronte al riconoscimento di aliae, in quanto diverse dall’honor, iustae causae e, al contempo, di fronte a un discrimen delle pollicitationes vertente sulla presenza o meno di una iusta causa. Nulla avrebbe, cioè, ostato a che si avessero promesse le quali, mentre all’interno della dicotomia ob honorem/non ob honorem sarebbero state assunte nella species ‘residuale’, quella non ob honorem e, in quanto tali, avrebbero vincolato il pollicitator solo laddove fosse intervenuto un coeptum opus, calate nella nuova realtà definitoria-sistematica costruita sull’antitesi: ob honorem vel ob aliam iustam causam/sine causa (non ex causa), sebbene non riferibili all’assunzione di un honor, in quanto, comunque, connotate da una (alia) iusta causa, sarebbero risultate di per sé cogenti, ossia idonee a vincolare in modo diretto ed immediato il pollicitator all’esecuzione della relativa prestazione (laddove fosse consistita in un facere opus).
Proprio l’esigenza di prendere atto di tale cambiamento definitorio-sistematico e, al tempo stesso, di regime normativo e dell’impossibilità di contemperarlo con il carattere, per così dire, ‘ibrido e, al tempo stesso residuale (rispetto all’ob honorem), della species costituita dalle pollicitationes non ob honorem (all’interno della quale avrebbero finito per ‘ricadere’ sia pollicitationes ob aliam iustam causam sia pollicitationes sine iusta causa vel non ex causa, connotate da un differente e per più versi contrapposto regime), avrebbe imposto – sembra verosimile e logico sostenerlo – l’eliminazione della qualificazione non ob honorem.
In realtà, la bipartizione delle pollicitationes proposta da Melchor Gil in ob honorem e ob liberalitatem, col contrapporre a una species tipica, quella ob honorem, una species residuale, desunta a contrario, finisce, di fatto, per riproporre la medesima anomalia logico-sistematica che avrebbe minato la distinzione originaria ob honorem/non ob honorem a seguito del configurarsi, accanto all’honor, di aliae iustae causae pollicitationis. Queste – come si è detto, (solo) per il fatto di presentare una iusta causa diversa dall’honor, a seguire il ragionamento dello studioso spagnolo, sono, inevitabilmente, destinate a confluire all’interno della tipologia ob liberalitatem (così come, operante la bipartizione ob honorem/non ob honorem, avrebbero trovato collocazione nella seconda species).
Sulla scorta di tali presupposti di ordine classificatorio e sistematico, Melchor Gil, non ha potuto fare altro che sussumere tra le pollicitationes ob liberalitatem – promesse, vale richiamarlo nuovamente, che egli ha puntualizzato doversi giuridicamente qualificare sine causa iusta, per cui, a suo dire, tutte le pollicitationes ob liberalitatem sarebbero prive di causa giuridicamente rilevante – le promesse che in D. 50.12.7 vengono qualificate da Paolo attraverso la locuzione ob casum: ‘Ob casum, quem civitas passa <possa>, est, si quis promiserit se quid facturum: etsi non inchoaverit, omnimodo tenetur, ut divus Severus Dioni rescripsit’ (formula che in D. 50.12.4, Marc. 3 institutionum trova – è anche il parere della dottrina unanime – esplicazione nei sostantivi: incendium, vel terrae motum, aliqua ruina, attraverso i quali Marciano individua – è difficile dire con quale grado di tecnicismo e se in termini di esaustività – i possibili casus: ‘Propter incendium vel terrae motum vel aliquam ruinam, quae rei publicae contingit, si quis promiserit, tenetur’).
Il fatto che, rispetto alle promesse così connotate, D. 50.12.4 sancisca in modo lapidario: ‘si quis promiserit tenetur’ e, a sua volta, D. 50.12.7 reciti: ‘si quis promiserit se quid facturum: etsi non inchoaverit, omnimodo, tenetur’, il fatto cioè che sia Marciano sia Paolo – nel sottolineare, (anche) attraverso il richiamo all’‘essenza’ normativa del rescritto di Settimio Severo, la mancanza di qualsiasi rilievo giuridico dell’inchoatio operis rispetto al configurarsi dell’obbligo del pollicitator, che è fatto discendere (rispetto alla persona del promittente e in caso di prestazione consistente in un facere opus), direttamente, dalla promessa – assimilino le pollicitationes ob casum, rispetto ai presupposti di vincolatività, alle pollicitationes ob honorem, non ha impedito a Melchor Gil di incasellare tali promesse tra quelle ob liberalitatem, ossia – vale ribadirlo – tra le pollicitationes che «desde un punto de vista juridico deberíamos llamarlas sine causa iusta»[30].
Egli, per quanto, in termini generali abbia sostenuto che, a differenza delle pollicitationes ob honorem - «exigibles por ley», ossia di per sé vincolanti – le pollicitationes ob liberalitatem, ossia sine iusta causa sarebbero state vincolanti solo una volta che «habiensen comenzado a ejecutarse» (peraltro, a suo dire, solo a partire dagli Imperatori Settimio Severo e Antonino Caracalla e limitatamente alle prestazioni aventi ad oggetto opere pubbliche, per cui «si éstas habían comenzado a efectuarse por los proprios evergetas o por las ciudades, los promitentes quedaban legalmente a terminarlas»)[31]; di fronte al tenore di D. 50.12.4 e di D. 50.12.7 e alla necessità di prendere atto che «las promesas … realizadas con ocasión de diversas calamidades sufridas por las ciudades, como terremotos, derrumbamientos o incendios, también fueron de obligado complimiento, al menos desde el reinado de Septimio Severo, y a tal disposición no le efectaba que las promesas no hubieran comenzado a ejecutarse …», ha, ugualmente, ritenuto di assumere queste ultime tra quelle ob liberalitatem e, al contempo, di ricondurre tale anomalia di regime (per cui le pollicitationes ob casum risultano equiparate a quelle ob honorem vel ob aliam iustam causam) al fatto che «evidentemente, en estos casos la supresión de las reglas habituales de la pollicitatio quedaba justificada por la situación excepcional que atraversaban las ciudades afectadas por catástrofes»[32].
Eppure, tutto porta a ritenere che alla base di tale ‘assimilazione’ intercorrente tra il ‘rei publicae polliceri’ ob casum e quello ob honorem vel ob aliam iustam causam vi fosse stata da parte della giurisprudenza romana e della cancelleria imperiale (vale sottolineare come Paolo in D. 50.12.4 ascriva la previsione secondo cui il promittente etsi non inchoaverit, omnimodo tenetur ad un rescritto dell’Imperatore Settimio Severo[33]: ‘ut divus Severus Dioni rescripsit’) la presa d’atto di come il casus rappresentasse una causa giuridicamente rilevante e, di riflesso, che le pollicitationes ad esso eziologicamente collegate dovessero essere ‘percepite’ come connotate, per l’appunto, da una iusta causa.
Sarei addirittura portato ad ipotizzare che proprio l’esigenza e, al tempo stesso, la difficoltà di dare una precisa qualificazione e un’altrettanto precisa disciplina giuridiche alle pollicitationes ob casum (che riuscisse a contemperare l’esigenza di riconoscere al casus ‘quem civitas passa <possa> est’ il ‘ruolo’ di iusta causa e, di riflesso, alle promesse in parola la medesima cogenza di quelle ob honorem con la peculiarità ed esaustività della dicotomia ob honorem/non ob honorem, per cui, in assenza della causa honoris le pollicitationes non sarebbero risultate vincolanti, a meno che non fosse intervenuta l’inchoatio operis) sia stata alla base del processo interpretativo che avrebbe portato alla configurazione, accanto e in aggiunta a quelle ob honorem, delle pollicitationes ob aliam iustam causam e, quindi, a una nuova dicotomia ‘basata’ sul ricorrere o meno di una iusta causa.
In conseguenza di ciò il regime originario – in forza del quale, all’interno della contrapposizione ob honorem/non ob honorem solo le promesse riferibili all’assunzione di un honor erano, di per sé, giuridicamente vincolanti (lo si precisa un’ultima volta: per il pollicitator e rispetto alle prestazioni consistenti in un facere opus) – avrebbe conosciuto una significativa deroga e, con essa, l’impossibilità di continuare ad ascrivere alla species rappresentata dalle pollicitationes non ob honorem l’attitudine ad ‘assorbire’ tutte le promesse non riferibili, in modo diretto, all’assunzione di un honor.
La deroga in parola sarebbe stata costituita, per l’appunto, dalle pollicitationes ob casum (‘quem civitas passa <possa> est’) le quali avrebbero ‘dato voce’ ad una iusta causa ulteriore e nuova rispetto a quella tipica, rappresentata dall’honor. Quest’ultimo, alla luce della ‘realtà’ sistematica sottesa a D. 50.12.4 e a D. 50.12.7, avrebbe visto venire meno la propria unicità quale iusta causa pollicitationis. Di ciò Ulpiano avrebbe dato atto attraverso l’esplicito e diretto, sebbene generico, richiamo, operato in D. 50.12.1.1, ad aliae iustae causae e, quindi, alla possibilità che si avessero pollicitationes che, nell’essere assimilate sotto il profilo del regime di vincolatività giuridica a quelle ob honorem, avrebbero trovato la loro ragione d’essere in ‘motivi’ diversi dall’honor (decretum vel decernendum), ugualmente rilevanti per il diritto.
La configurazione delle pollicitationes ob aliam iustam causam e, più in generale, dell’antitesi: pollicitationes ob honorem vel ob aliam iustam causam/pollicitationes sine causa (non ex causa), avrebbero, quindi, rappresentato l’esito ultimo di uno sforzo di inquadramento classificatorio-sistematico del ‘rei publicae polliceri’, che pare del tutto logico assumere esauritosi una volta ‘consolidatasi’ la disciplina attestata da D. 50.12.4 e da D. 50.12.7 (questione differente è determinare la risalenza di quest’ultima, se, cioè, essa sia da ricondurre al rescritto dell’Imperatore Settimio Severo richiamato da Paolo in D. 50.12.7: ‘ut divus Severus Dioni rescripsit’ o sia da ritenere precedente); essa va, quindi, riferita all’età tardo-classica, comunque al regno di Settimio Severo[34].
Questa o altra, simile, quantomeno negli esiti, ricostruzione ermeneutica non ha, minimamente, sfiorato il pensiero di Melchor Gil. Egli coglie l’identità di disciplina giuridica sussistente tra le pollicitationes ob honorem e quelle ob casum ma non ritiene di riconnettere a ciò il carattere giuridico di iusta causa del casus. Quindi, in luogo di riferire le promesse ob casum alla categoria ob (aliam) iustam causam (categoria che, tra l’altro, come si è detto, sembra ignorare) le ascrive alla species ob liberalitatem (ossia sine causa vel non ex causa); ciò, benché dimostri di avere piena contezza della particolare considerazione rivestita dal motivo determinante la promessa: la necessità di soccorrere la res publica colpita da una pubblica sventura e – lo si è visto – identifichi proprio nella particolare rilevanza di detto motivo la ragione che avrebbe indotto il legislatore imperiale (forse, per primo Settimio Severo, ad un cui rescriptum fa esplicito rinvio D. 50.12.7) e la giurisprudenza romana a derogare in via del tutto eccezionale al regime giuridico generale e ad assumere la vincolatività delle pollicitationes ob casum a prescindere dall’inizio di esecuzione della relativa prestazione.
Mi sembra si sia in presenza di un’evidente incongruenza logico-sistematica che, nel mistificare la reale natura e rilevanza, sotto il profilo giuridico, del casus in riferimento al ‘rei publicae polliceri’ e, quindi, il carattere di pollicitationes connotate da una causa rilevante per il diritto delle promesse ob casum, finisce, di fatto, per ‘disconoscere’ la categoria delle pollicitationes ob aliam iustam causam.
L’anomalia logico-sistematica che permea la classificazione bipartita del ‘rei publicae polliceri’ prefigurata da Melchor Gil non resta circoscritta alle pollicitationes ob casum, non concerne, cioè, solo l’assunzione di tali promesse nel novero di quelle ob liberalitatem.
Va, altresì, considerato il modo in cui lo studioso spagnolo ha considerato ob liberalitatem (in quanto – precisa – non ob honorem) anche le pollicitationes che Modestino, in D. 50.12.12.1, qualifica ‘ne honoribus fungeretur’, ossia le promesse finalizzate, nelle intenzioni del pollicitator, a ‘barattare’ l’inire honorem, che si voleva evitare, con il compimento di una determinata prestazione, consistente in un facere opus, riversata, per l’appunto, in una pollicitatio.
A dire il vero, tale motivazione (e, di riflesso, la correlata promessa), almeno a fare data dalla prima metà del III sec. d.C.[35], non avrebbe(ro) potuto e dovuto neppure essere presa(e) in considerazione dalla res publica; al riguardo, costituisce un’espressione di sintesi del tutto probante la perentorietà dell’asserzione ‘audiendi non sunt’, che ricorre in D. 50.4.16pr. (Paul. 1 sententiarum) e che risulta, per l’appunto, riferita all’ipotesi che taluno, attraverso una sorta di ‘monetizzazione’ dell’honor, avesse cercato di evitarne l’assunzione: ‘Aestimationem honoris aut muneris in pecunia pro administratione offerentes audiendi non sunt’.
Rispetto a quella che sembrerebbe porsi come una statuizione di carattere generale, in base alla quale gli ‘offerentes pro administratione’ non avrebbero dovuto trovare ‘ascolto’ ed ‘accoglienza’ (‘audiendi non sunt’), rileva, in quanto connotato dalla medesima ratio ed espressione di un comune principio, il dispositivo del già richiamato D. 50.12.12.1: ‘Cum quidam, ne honoribus fungeretur, opus promisisset: “[tam[36]] honores subire cogendum quam operis instructionem divus Antoninus rescripsit’.
Il frammento di Modestino avrebbe statuito, sulla scorta di un precedente rescritto emanato dall’Imperatore Antonino Caracalla (‘divus Antoninus rescripsit’[37]), l’obbligo per chi avesse cercato di sottrarsi ex pollicitatione operis all’assunzione di un, determinato honor, non solo di dare esecuzione all’opus promesso, ma anche di accettare la scelta caduta su di lui[38].
Al fatto che la persona del pollicitator fosse gravata dal duplice vincolo di instruere opus e di subire honorem sembra legittimo riferire finalità coercitive e afflittive. Queste impongono di leggere l’obbligo di adempiere alla prestazione promessa non quale effetto giuridico del ‘rei publicae polliceri’ ‘ne honoribus fungeretur’, bensì quale strumento volto a prevenire e a sanzionare. L’honores(m) subire di D. 50.12.12.1 non avrebbe rappresentato una conseguenza della giuridicità della pollicitatio e – stante il tenore generico dell’espressione operis instructio e l’assenza di qualsiasi accenno ad un coeptum opus – neanche un riflesso del cominciamento della prestazione promessa. Si sarebbe trattato – lo stesso vale per il ‘subire … operis instructionem’ – di una forma sanzionatoria; per così dire, la risposta concreta, sul piano normativo, della petizione ben espressa, in termini di principio, dalla locuzione ‘audiendi non sunt’ di D. 50.4.16pr.[39].
Il ‘ne honoribus fungeretur’, lungi dall’identificare una iusta causa, avrebbe, piuttosto, ostato alla validità del ‘rei publicae polliceri’. Alla promessa che nelle intenzioni del pollicitator sarebbe dovute servire a conseguire tale finalità: procurare attraverso l’adempimento della relativa prestazione, una ‘ragione’ di esenzione dall’‘honores(m) subire’ – una volta sancito il divieto per la comunità destinataria della stessa di prenderla in considerazione (appare probante l’‘audiendi non sunt’ di D. 50.4.16pr.) – avrebbe presieduto un regime del tutto peculiare, in ogni caso ‘altro’ rispetto a quello connotante il ‘rei publicae polliceri’ non ob honorem/sine iusta causa vel non ex causa. E’, invece, proprio quest’ultimo regime che Enrique Melchor Gil ritiene doversi applicare alle promesse ‘ne honoribus fungeretur’ e ciò benché non disconosca il fatto che «esta práctica [leggasi la formulazione di pollicitationes non ob honorem finalizzate a «evitar el desempeño de cargos honorificos»] fue prohibida por Caracalla, quién estableció que las personas que así acturan debían realizar las obras prometidas y asumir el cargo»[40].
Le pollicitationes non ob honorem/sine iusta causa vel non ex causa – vale ribadirlo un’ultima volta – sarebbero risultate esigibili solo nel momento in cui fosse stato dato inizio alla relativa prestazione, circostanza che avrebbe fatto sorgere per il promittente l’obbligo di perficere opus[41]; diversamente, in caso di pollicitatio ‘ne honoribus fungeretur’ sarebbe derivato a carico dell’autore della stessa (stante almeno il tenore di D. 50.12.12.1) il duplice vincolo (a carattere sanzionatorio) ad assumere l’honor e a realizzare l’opus promesso, quest’ultimo a prescindere da qualsiasi principio di esecuzione.
In tale contesto non sembra neppure corretto sostenere, come fa Melchor Gil, che tali pollicitationes fossero estranee a qualsiasi causa.
Certo, a connotarle non vi sarebbe stata alcuna iusta causa; ciò, però, non toglie che alla base delle stesse vi fosse una causa rilevante per il diritto. Tali promesse risultano, infatti, connotate da una ‘motivazione’: il volersi, in modo indebito, sottrarre, da parte del promittente, all’assunzione di un, determinato honor, che, per quanto espressione di una causa iniusta, mi viene da dire ob non honorem, non, per questo, sarebbe risultata ininfluente sotto il profilo del diritto.
Innanzitutto, essa avrebbe ostato alla validità giuridica di tali promesse; al tempo stesso, l’esigenza di punire il promittente e, al contempo, di scoraggiare futuri, possibili emuli sarebbe stata alla base del regime afflittivo e sanzionatorio in forza del quale – come si è evidenziato – il promittente sarebbe stato vincolato sia ad assumere l’honor (‘honores[m] subire’), a cui avrebbe voluto sottrarsi, sia a realizzare l’opus promesso (‘instruere opus’).
In definitiva, le pollicitationes ‘ne honoribus fungeretur’ avrebbero rappresentato una sorta di species a sé stante, dal momento che, ‘destinatarie’ dell’audiendi non sunt sancito da D. 50.4.16pr., sarebbero risultate illecite e invalide; una species non riconducibile né all’interno dell’originaria bipartizione: pollicitationes ob honorem/pollicitationes non ob honorem, né all’interno della più recente, ma, comunque, già tardo classica, distinzione: pollicitationes ob honorem vel ob aliam iustam causam/pollicitatones sine causa (vel non ex causa).
Di riflesso, la pretesa di Enrique Melchor Gil di assumerle nell’ambito delle pollicitationes non ob honorem e, mediatamente, di considerarle pollicitationes ob liberalitatem, ossia sine causa (vel non ex causa) risulta ingiustificata e sfornita di fondamento logico-testuale.
Quasi in forma di ‘appendice’, rispetto al percorso dimostrativo fin qui tracciato e di elemento integrativo rispetto agli esiti di volta in volta enunciati, è doveroso osservare come sia ‘arbitraria’ anche la pretesa di Enrique Melchor Gil, di assumere il ricorrere, in seno alla documentazione epigrafica, in ‘apposizione’ alla formula promissoria, di locuzioni del tipo di: de o ex [sua] liberalitate, ‘ob amorem civium’, ‘in’ o ‘ob memoriam’ etc. quale manifestazione tipica del carattere ob liberalitatem della pollicitatio.
Vale riportare,
nuovamente, le parole di Melchor Gil: «La epigrafía nos proporciona numerosos
ejemplos de pollicitationes ob liberalitatem. Los evergetas normalmente
indican en las inscripciones que realizaron la donación en cumplimiento de una
promesa, y en ocasiones señalan los motivos con expresiones del tipo: ‘ex
liberalitate sua’ (CIL VIII, 8318, 8319, 14792), ‘de’
o ‘ex sua liberalitate’ (CIL VIII, 11677, 12421; AE
1917/18, 44), ‘pro amore patriae’ (CIL VIII,
14792), ‘ob amorem civium’ (CIL VIII, 1781), ‘in’
o ‘ob memoriam’ (CIL II, 3265; CIL IX, 23)»[42].
Secondo Melchor Gil – si è già avuto occasione di rimarcarlo[43] – tali locuzioni sarebbero tutte, indifferentemente, connotate dalla precipua attitudine ad evidenziare la natura e la motivazione evergetiche delle pollicitationes ob liberalitatem, di cui attesterebbero, al contempo, seppure in forma indiretta, la totale estraneità rispetto all’assunzione di un honor, tanté, precisa lo studioso, «no aparece mención alguna a la fórmula ob honorem»[44].
In realtà, la pretesa di riferire alle pollicitationes ob liberalitatem, in via esclusiva, la suddetta specificità formale, al punto da assumerla a probante indicatore del carattere della promessa, risulta arbitraria.
Tra le locuzioni ‘isolate’ da Melchor Gil, quelle permeate da un più elevato grado di significanza, quelle, cioè, che prevedono l’uso di liberalitas o di munificentia, figurano, infatti, a più riprese, attestate anche in riferimento a pollicitationes, esplicitamente, qualificate dalla locuzione ob honorem o la cui riconducibilità a tale categoria risulta, ugualmente, desumibile da altri indicatori di carattere formale[45].
Si tratta, innanzitutto, di diversi testi che fanno parte del patrimonio lapideo, che rientrano, quindi, nell’ambito documentale preso sul punto a riferimento da Melchor Gil. Il quadro è, poi, completato da un passo tratto dal libro quarto dei Differentiarum Libri IX di Erennio Modestino, che è stato tramandato dal Digesto di Giustiniano quale nono frammento del dodicesimo titolo del libro cinquantesimo; questo titolo, recante la rubrica ‘De pollicitationibus’, è, comunemente, considerato – si è già avuto occasione di rimarcarlo – la sedes materiae del ‘rei publicae polliceri’.
Quanto alle epigrafi, vengono in rilievo (si segue, per quanto possibile, l’ordine cronologico): «AE.» 1968, 586, Mustis, settembre 117 d.C.[46] – «CIL.» VIII.8466 = «IRAlg.» 3268, Sitifis, 156 d.C.[47] – «CIL. VIII.4482, Tubunae, 193-194 d.C.[48] – «CIL.» VIII.14370 = «Eph.» VII.247 = «ILTun.» 1212 = «BCTH.» (1886), p. 109 = «BCTH.» (1932-1933), p. 497, Avedda, 196 d.C.[49] – «AE.» 2004.1876, Bulla Regia, post 201 d.C.[50] – «CIL.» VIII.19121 = «AE.» 1888.140 = «ILAlg.» II.6486 = «ILS.» 4479, Sigus, 211-212 d.C.[51] – «CIL.» VIII.12006 = «CIL.» VIII.12007 = «Eph.» V.293 = «Eph.» V.1212, Vazi Sarra, 10 dicembre 211-9 dicembre 212 d.C.[52] – «AE.» 1917-1918.43-44 = «BCTH.» (1917), p. 339 e s., nr. 66, Uzelis, 5 gennaio 221 d.C.[53] – «CIL.» VIII.26590 = «CIL.» VIII.1495 = «BCTH.» (1907), p. ccxxx, nr. 1, Thugga, 205-261 d.C.[54].
A rilevare è il seguente, duplice dato formale: da un lato, il
modo in cui, a qualificare il ‘rei publicae polliceri’ – mettendone in
luce, in modo diretto ed esplicito, il tratto originario e distintivo di
manifestazione evergetica del tutto ‘libera’ e ‘spontanea’
dello stesso – ricorrono espressioni del tipo: ob munificentiam et
singularem liberalitatem («CIL.» VIII.26590 = «CIL.» VIII.1495 = «BCTH.»
(1907), p. ccxxx, nr. 1); [ex] [sua] liberalitate («AE.»
1917-1918.43-44 = «BCTH.» (1917), p. 339 e s., nr. 66; «AE.» 2004.1876; «CIL.»
VIII.14370 = «Eph.» VII.247 = «ILTun.» 1212 = «BCTH.» (1886), p. 109 = «BCTH.»
(1932-1933), p. 497; «CIL. VIII.4482; «CIL.» VIII.8466 = «IRAlg.» 3268); amplificata
liberalitate («CIL.» VIII.19121 = «AE.» 1888.140 = «ILAlg.» II.6486 =
«ILS.» 4479); ampliata liberalitate («CIL.» VIII.12006 = «CIL.»
VIII.12007 = «Eph.» V.293 = «Eph.» V.1212); munificentiae («AE.» 1968,
586); dall’altro lato, il fatto che – come si è anticipato – si tratta,
costantemente, di pollicitationes ob honorem: flamonii
(«CIL.» VIII.26590 = «CIL.» VIII.1495 = «BCTH.» (1907), p. ccxxx, nr. 1; «CIL.»
VIII.19121 = «AE.» 1888.140 = «ILAlg.» II.6486 = «ILS.» 4479); flamonii
perpetui («CIL.» VIII.12006 = «CIL.» VIII.12007 = «Eph.» V.293 = «Eph.»
V.1212; «CIL.» VIII.14370 = «Eph.» VII.247 = «ILTun.» 1212 = «BCTH.» (1886), p.
109 = «BCTH.» (1932-1933), p. 497; «AE.» 1968, 586); duoviratus («AE.»
2004.1876; «CIL. VIII.4482); aedilitatis («CIL.»
VIII.8466 = «IRAlg.» 3268); decurionatus et magistratus («AE.»
1917-1918.43-44 = «BCTH.» (1917), p. 339 e s., nr. 66).
Quanto a D. 50.12.9 (Modestinus libro quarto differentiarum): ‘Ex pollicitatione, quam quis ob honorem apud rem publicam fecit, ipsum quidem omnimodo in solidum teneri: heredem vero eius ob honorem quidem facta promissione in solidum, ob id vero, quod opus promissum coeptum est, si bona liberalitati solvendo non fuerint, extraneum heredem in quintam partem patrimonii defuncti, liberos in decimam teneri divi Severus et Antoninus rescripserunt. sed et ipsum donatorem pauperem factum ex promissione operis coepti quintam partem patrimonii sui debere divus Pius constituit’, ho già avuto occasione di soffermarmi diffusamente sul suo dispositivo. Ciò ha significato, tra l’altro, fornire dimostrazione di come sia da respingere la lettura ‘tradizionale’ che vede nell’inciso ‘ob id vero, quod opus promissum coeptum est’ il ‘momento’ di ‘trapasso’ dal ‘rei publicae polliceri’ ob honorem (a cui farebbere riferimento tutta la prima parte del frammento, sino a ‘in solidum’) a quello non ob honorem, per cui a tale species pollicitationis avrebbe riguardo tutta la restante parte del brano, compresa, quindi, le costituzioni di Settimio Severo e di Antonino Caracalla (‘divorum Severi et Antonini’) e di Antonino Pio (‘divus Pius constituit’) ivi richiamate (quanto alle ragioni sia di ordine logico-sistematico sia di carattere sintattico-grammaticale che presiedono a tale conclusione e, quindi, all’assunzione della piena unitarietà di D. 50.12.9 a fronte dell’univocità ob honorem del ‘rei publicae polliceri’ disciplinato, mi permetto di fare generico rinvio alla dimostrazione già svolta in altra sede[55]).
Alla luce di tali presupposti assume specifica rilevanza – all’interno del contesto dimostrativo qui in rilievo – la sottolineatura ‘si bona liberalitati solvendo non fuerint’. Essa – nell’esprimere la condizione alla quale, stante Modestino, la costituzione ‘divorum Severi et Antonini’ avrebbe introdotto un’attenuazione di responsabilità a beneficio dell’heres extraneus e dei liberi, nell’eventualità che i beni ereditari non fossero stati sufficienti a coprire i costi dell’opus fatto oggetto di pollicitatio (come si è detto da ritenersi ob honorem) da parte del de cuius e sempre da costui avviato ad esecuzione (l’heres extraneus e i liberi erano esentati dall’obbligo di ultimare l’opus, potendo, in alternativa, rimettere alla res publica la quinta, il primo, la decima, i secondi, ‘pars patrimonii defuncti; si bona liberalitati solvendo non fuerint, extraneum heredem in quintam partem patrimonii defuncti, liberos in decimam teneri divi Severus et Antoninus rescripserunt’) – finisce, infatti, per qualificare la pollicitatio in parola attraverso il sostantivo liberalitas (‘liberalitati’) e, quindi, mediatamente, in termini di libera e spontanea manifestazione di generosità.
L’insieme degli argomenti di ordine logico, degli indicatori di carattere testuale e dei connessi esiti parziali enucleati nei paragrafi precedenti, nel ricomporsi all’interno di un quadro unitario e coerente, finiscono per inficiare la correttezza sistematico-definitoria della classificazione bipartita del ‘rei publicae polliceri’ in ob honorem e ob liberalitatem/sine causa (iusta) prefigurata da Enrique Melchor Gil.
Non si tratta solo di tenere presente come tale antitesi non trovi corrispondenza in nessuna fonte; a ‘pesare’ maggiormente è il modo in cui essa presuppone e ‘pretende’ che tutte le promesse non riferibili all’assunzione di un honor siano, necessariamente, ob liberalitatem, il che, giuridicamente, varrebbe – si tratta come si è visto del pensiero di Melchor Gil – a sine iusta causa, siano, cioè, avulse da qualsisi causa rilevante per il diritto. Tale costruzione finisce, infatti, inevitabilmente, per ‘tradire’ il distinguo, operato da Ulpiano in D. 50.12.1.1, all’interno della categoria delle pollicitationes ob iustam causam, tra pollicitationes ob honorem e pollicitationes ob aliam iustam causam. Queste ultime risultano, infatti, come ‘occultate’ (non è un caso che Melchor Gil – lo si è rimarcato – ometta anche solo di farne menzione) e con esse la possibilità di prefigurare l’esistenza di aliae iustae causae diverse dalla causa originaria rappresentata dall’honor decretum vel decernendum.
Al tempo stesso, la bipartizione ob honorem/ob liberalitatem (sine iusta causa) obbliga a ‘negare’ qualsiasi connotazione giuridica al casus, in ogni caso, osta a che ad esso sia – come, invece, parrebbe del tutto logico – ascritta la veste di iusta causa pollicitationis e, di conseguenza, alle promesse formulate ob casum ‘quem civitas passa <possa> est’ la qualifica di promesse ob aliam iustam causam.
Ancora, per il fatto di assumere le pollicitationes ‘ne honoribus fungeretur’ tra le pollicitationes ob liberalitatem/sine iusta causa e, al contempo, di subordinarne la vincolatività al coeptum opus, la bipartizione in parola finisce per disattendere la peculiare natura e lo specifico regime di tali promesse. Alla base delle stesse vi era, infatti, una motivazione che, stante D. 50.4.16pr., non avrebbe dovuto trovare alcun ‘ascolto’ da parte della comunità cittadina destinataria della prestazione promessa. Inoltre, chi avesse promesso ‘ne honoribus fungeretur’ – secondo quanto è dato evincere da D. 50.12.12.1 – sarebbe stato tenuto sia a ricoprire l’honor, a cui aveva, indebitamente e inutilmente, cercato di sottrarsi, sia a eseguire l’instructio dell’opus oggetto della pollicitatio. Tale, duplice vincolo sembra (cor)rispondere allo scopo specifico di sanzionare (e di scoraggiare) la formulazione delle pollicitationes in parola. Al tutto presiede un regime del tutto peculiare, in ogni caso diverso sia da quello proprio delle pollicitationes ob casum sia da quello connotante le altre pollicitationes ob liberalitatem/sine iusta causa.
La sovrapposizione che – si è detto – Melchor Gil ha ritenuto di operare, all’interno di un rapporto genus/species, tra queste ultime, il genus, e quelle ‘ne honorbus fungeretur’ (le qualificherei ob non honorem), la species, appare, quindi, indebita.
The contribution carries aut a critical discussion on logical and systematic correctness of the classification of pollicitationes to a res publica, taken by a part of the doctrine, which distinguishes them in: ob honorem and ob liberalitatem. From this perspective, show that, in addition to the source, the assumption and the ‘claim’ that all non-recurring pollicitationes related to the assumption of a heritage are, inevitably, ob liberalitatem, inevitably ‘betray’ the distinction made by Ulpiano in D. 50.12.1.1, within the category of pollicitationes ob iustam causam, between pollicitationes ob honorem and pollicitationes ob aliam iustam causam.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] Le pain
et le cirque. Sociologie historique d’un pluralisme politique, Paris
1976, 280 ss.; qui citato nella traduzione italiana di A. Sanfelice di Monteforte, Il pane e
il circo. Sociologia storica e pluralismo politico, Bologna 1984. Intendo
riferirmi, nello specifico, al modo in cui Paul Veyne, dopo avere chiarito che
«l’evergetismo è ciò che la collettività (città, collegi, ecc.) si aspettavano
dai ricchi; che essi contribuissero con il loro denaro alla spesa pubblica e
che la loro attesa non fosse vana», ha distinto tra «le evergesie … offerte dai
notabili al di fuori da ogni obbligo definito (in questo caso parleremo di
evergetismo libero) [ed evergesie] offerte in occasione della loro elezione ad
un ‘onore’ pubblico, come una magistratura o una funzione municipale. In questo
secondo caso parleremo di evergetismo ob honorem, che era moralmente e
persino legalmente obbligatorio» [14]. Cfr. J. Andreu Pintado, Munificencia
pública en la provincia Lusitania (siglos I-IV d.C.), Zaragoza 2004,
40.
[2] E. Melchor Gil, Pollicitationes ob honorem
y ob liberalitatem en beneficio de una res publica, su reflejo en
la epigrafía latina, in Revista
General de Derecho Romano V, 2005, 1-16 dell’estratto.
[3] E. Melchor Gil, Evergetismo en la
Hispania Romana, «Tesis Doctoral dirigida por el Dr. Juan Francisco
Rodriguez Neila, Catedrático de Historia Antigua de la Facultad de Filosofia y
Letras. Universidad de Córdoba», Córdoba 1992, praecipue 12, 71 ss., 105
ss.
[4] Tra gli
altri lavori di E. Melchor Gil, che ripropongono la distinzione bipartita del ‘rei
publicae polliceri’ in ob honorem e ob liberalitatem, si
vedano: Summae honorariae y donaciones ob honorem en la Hispania
romana, in Habis XXV, 1994, 200 e
s.; Consideraciones acerca del origen, motivación y evolución de las
conductas evergeticas en Hispania romana, in Studia Histórica - Historia Antigua XII, 1994, 72 e s.; Consideraciones
sobre la munificencia civica en la Bética romana, in Élites hispaniques, textes réunis par M. Navarro Caballero et S. Demougin
avec la collaboration de Fr. Des
Boscs-Plateaux, Bordeaux 2001, 162; [con J.F. Rodríguez Neila], Evergetismo y cursus honorum de
los magistrados municipales en las provincias de Bética y Lusitania, in Acta Antiqua Complutensia IV. Epigrafia y Sociedad en Hispania durante el
alto Imperio. Estructuras y relaciones sociales, Universidad Alcalá 2003,
209 ss.; La regulación jurídica del evergetismo edilicio durante el Alto
Imperio, in Buttletí Arqueològic XXXI, 2009, 163 ss.; Las elites
municipales hispanorromanas a fines de la república y en el alto Imperio:
ideología y conductas sociopolíticas, in Hispania. Las provincias hispanas en el mundo romano, eds. J. Andreu Pintado, J. Cabrero Piquero, I. Rodà de
Llanza, Tarragona 2009, 397 ss.; Élites urbanas de la Bética en época
de Trajano y Adriano: evergetismo y honores, in Antonio F. Caballos Rufino (cur.), De Trajano a Adriano. Roma matura, Roma mutans, Sevilla
2018, 300 e s. Tra gli studiosi che hanno dato dimostrazione di condividere la
classificazione proposta da Melchor Gil, si vedano: oltre a Juan Francisco
Rodríguez Neila (cfr. la nota che precede), B. Goffaux, Municipal intervention in the public construction
of towns and cities in roman Hispaniae, in Habis XXXII, 2001, 258; J.B. Meléndez
Nuria de la o Vidal Terue, La inscripción de P. Porcius
Sisenninus. Nuevo testimonio evergético en el territorio
onubense, in Lucentium
XXVIII, 2009, 205 e s.; A. Barrón Ruiz
de la Cuesta, El sevirato augustal en la Bética romana: selección y
estudio preliminar de las fuentes epigráficas, Santander 2012, 37 ss.;
A.-F. Baroni, Divo Pertinaci …
ex reditibus locorum amp(h)itheatri. À propos d’une inscription de Cirta (ILAlg, II, 1, 560), in MEFRA. CXXVIII, 2016, 219 e s. e ivi nt. 8; H.-B. Erjali, Evergetismo y élites
municipales en la Bética, in Tiempo y
Sociedad XXVII, 2017, 74.
[5] In merito all’equivalenza di significato, nel contesto che qui rileva, ossia in riferimento al ‘rei publicae polliceri’, intercorrente tra l’espressione pro honore e la più consueta locuzione ob honorem, mi sia concesso rinviare a P. Lepore, «Rei publicae polliceri». Un’indagine giuridico-epigrafica, Seconda edizione riveduta e ampliata, Milano 2012, 47 ss., praecipue 143 ss., 250 e s. e la bibliografia ivi citata in nt. 178; Id., Sul significato della locuzione ‘pro honore’ in ambito epigrafico, in Scritti in onore di G. Melillo, A. Palma (cur.), II, Napoli 2009, 629 ss.; ora, con il titolo: Sul significato della locuzione ‘pro honore’, in Saggi sulla promessa unilaterale nel diritto romano, Milano 2019, 45 ss. La medesima funzione identificativa, ossia l’attitudine a identificare le pollicitationes effettuate in conseguenza dell’assunzione di una carica, di un ufficio pubblico, di un incarico onorifico (ob honorem decretum) o al fine di favorire il verificarsi di tale circostanza (ob honorem decernendum) connota i sintagmi honoris causa, in honorem e la causale ob seguita dal sostantivo esplicativo dell’honor in accusativo. Va, inoltre, precisato che la qualificazione ob honorem della promessa rivolta ad una res publica sembra, altresì, potersi derivare: a) dall’impiego di una delle seguenti formulazioni: ‘amplius ad (super, praeter) honorariam (legitimam) summam pollicitus est (promisit)’ – ‘inlata[is] summa[is] honoraria(iis) (legitima[is]) pollicitus est (promisit)’ – ‘ampliata (duplicata, triplicata etc.) summa honoraria pollicitus est (promisit)’ – ‘ex summa honoris pollicitus est (promisit)’ (il versamento, attestato dalle locuzioni in parola, da parte del pollicitator, di una [o più] determinata[e] summa[e] honoraria[e] vel legitima[e] o di una somma di denaro che, nel ricomprendere quella[e] honoraria[e] vel legitima[e], avrebbe rappresentato un multiplo o, comunque, un ampliamento della[e] stessa[e], rappresenta la prova evidente della riconducibilità della promessa alla causa honoris); b) dall’attribuzione al promittente della qualifica di candidatus (per cui sembra del tutto logico assumere trattarsi di una pollicitatio ob honorem decernendum; cfr. infra).
[6] E. Melchor Gil, Pollicitationes ob honorem y ob liberalitatem, cit., 6, 13 dell’estratto.
[7] E. Melchor Gil, Ibidem, 14
dell’estratto.
[8] E. Melchor Gil, Ibidem, 15
dell’estratto.
[9] Si veda infra.
[10] E. Melchor Gil, Ibidem, 2, 14 dell’estratto.
[11] E. Melchor Gil, Loc. ult. cit.
[12] E. Melchor Gil, Ibidem.
[13] Il pensiero va subito ai passi che compongono il titolo dodicesimo del cinquantesimo libro del Digesto di Giustiniano, titolo che, recante la rubrica ‘De pollicitationibus’ è, comunemente, considerato la sedes materiae del ‘rei publicae polliceri’ (l’unica eccezione è rappresentata da D. 50.12.2, Ulp. 1 disputationum, che rappresenta il testo più significativo pervenutoci in tema di votum privato). A questi passi si devono aggiungere: D. 4.2.9.3, D. 24.1.5.12, D. 26.7.46.1, D. 30.41.5, D. 35.2.5, D. 39.5.19pr., D. 48.6.10pr., D. 50.4.16.1, D. 50.10.7.1, nonché le seguenti costituzioni imperiali conservate dal Codex repetitae praelectionis: C.I. 1.17.2.8c., C.I. 8.12(13).1.1.
[14] Si vedano, in particolare, i seguenti testi: Apul., Metam., XI, 10.18.1; Flor., XVI – Pl. Ep., 1.8, 4.13.6, 5.11.1, 6.34.1-3, 7.18, 10.39, 10.40. Per un quadro d’insieme delle fonti letterarie concernenti il ‘rei publicae polliceri’ si veda P. Lepore, «Rei publicae polliceri», cit., passim; Id., Apuleius, Florida XVI. Honores ed evergesie nella Cartagine del II secolo d.C., Pavia 2018, passim; ora, con il titolo: Apuleius, Florida XVI. Una lettura giuridicamente orientata, in Saggi sulla promessa unilaterale nel diritto romano, cit., 149 ss.
[15] La documentazione epigrafica costituisce – come è noto – per mole e per quantità lo strumento primario di ricostruzione e di conoscenza del processo di articolazione storico-sociale del ‘rei publicae polliceri’, contentendo, meglio di qualsiasi altra fonte, di verificare l’applicazione avuta dal fenomeno promissorio nel mondo romano, nelle varie epoche e all’interno delle diverse realtà territoriali. Per un quadro d’insieme delle epigrafi latine concernenti il ‘rei publicae polliceri’ si veda P. Lepore, «Rei publicae polliceri», cit., passim, praecipue 419 ss.
[16] Meritano
di essere richiamte le parole con cui J.
Andreu Pintado, Munificencia pública en la provincia Lusitania,
cit., 40 e s., ha osservato, criticamente, come la classificazione bipartita
delle pollicitationes in: ob honorem e ob liberalitatem,
prefigurata da Melchor Gil, «metodológicamente no nos parece del todo correcta.
Creemos que establecer un tipo de evergesías
como realizadas ob honorem sí es admisible por la presencia de esa
expresión como fórmula en las inscripciones que testimonian este tipo de
donaciones; sin embargo una donación ob liberalitatem, llevada a cabo
‘por puro acto de liberalidad’ no deja ningún tipo de huella epigráfica que
advierta del carácter de la misma. Es decir, mientras sí tenemos ejemplos de la
fórmula epigráfica ob honorem, no hay fórmula ninguna que mencione el
desarrollo de una evergesía como ob liberalitatem y non parece muy
lógico establecer una línea tajante de separación considerando ob honorem
sólo aquéllas en las que aparece dicha fórmula y ob liberalitatem las
demás …».
[17] La formula ‘ob honorem [promiserit] decretum [sibi] vel decernendum’ ricorre in D. 50.12.1.1; cfr. infra.
[18] Cfr. infra.
[19] Sul punto mi sia concesso rinviare a P. Lepore, «Rei publicae polliceri», cit., 286 ss.
[20] ‘Si pollicitus
quis fuerit rei publicae opus se facturum vel pecuniam daturum, in usuras non convenietur:
sed si moram coeperit facere, usurae accedunt, ut imperator
noster cum divo patre suo rescripsit. 1. Non semper autem obligari eum,
qui pollicitus est, sciendum est. si quidem ob honorem
promiserit decretum sibi vel decernendum vel ob aliam iustam causam, tenebitur
ex pollicitatione: sin vero sine causa promiserit, non erit
obligatus. et ita multis constitutionibus et veteribus et novis
continetur. 2. Item si sine causa promiserit, coeperit
tamen facere obligatus est qui coepit. 3. Coepisse sic accipimus, si
fundamenta iecit <iacuit F> vel locum purgavit. sed et si locus illi petenti destinatus est, magis
est, ut coepisse videatur. item si apparatum
sive impensam in publico posuit. 4. Sed si non ipse coepit, sed cum
certam pecuniam promisisset ad opus rei publicae <res publica Mo.>
contemplatione pecuniae coepit opus facere: tenebitur quasi coepto opere. 5. Denique
cum columnas quidam promisisset, imperator noster cum divo patre suo ita
rescripsit <rescripserit F>: ‘Qui
non ex causa pecuniam rei publicae pollicentur, liberalitatem perficere
non coguntur. sed si columnas
Citiensibus promisisti et opus ea ratione sumptibus civitatis vel privatorum
inchoatum est, deseri quod gestum <coeptum edd.> est
non oportet’. 6. Si quis opus quod perfecit adsignavit, deinde id
fortuito casu aliquid passum <passus F> sit, periculum
ad eum qui fecit non pertinere imperator noster rescripsit’.
[21] In proposito si veda P. Lepore, «Rei publicae polliceri», cit., praecipue 171 ss.
[22] Forniscono chiara attestazione di tale regime differenziato, in riferimento alle pollicitationes ob honorem, le formulazioni: ‘Non semper autem obligari eum qui pollicitus est, sciendum est. Si quidem ob honorem promiserit decretum sibi vel decernendum … tenebitur ex pollicitatione’, di D. 50.12.1.1; ‘Si ob honorem pollicitatio fuerit facta quasi debitum exigatur’, di D. 50.12.3; ‘si ob honorem facta sit [pollicitatio] aeris alieni loco habetur … si quidem ob honorem pollicitae sunt debere implere sciendum est’, di D. 50.12.6pr.-2; ‘Ex pollicitatione quam quis ob honorem apud rem publicam fecit ipsum quidem omnimodo in solidum teneri, di D. 50.12.9; ‘si ob honorem aliquem promittat, teneatur’, di D. 39.5.19pr.; con riguardo alle pollicitationes non ob honorem le sottolineature: ‘sed et coeptum opus, licet non ob honorem promissum perficere promissor eo cogetur’, di D. 50.12.3pr. e ‘quod tandem adgressus fuerat, [perficiat]’, di D. 50.12.8.
[23] Cfr. infra.
[24] ‘Hoc iure utimur, ut in rebus publicis cum de donatione quaeritur, illud solum spectetur, utrum ob causam aliquam iustam rei publicae promittat quis vel polliceatur an non, ut, si ob honorem aliquem promittat, teneatur, si minus, non’.
[25] ‘Debitores rerum publicarum ad honores invitari non posse certum est, nisi prius in id quod debetur rei publicae satisfecerint. sed eos demum debitores rerum publicarum accipere debemus, qui ex administratione rei publicae reliquantur; ceterum si non ex administratione sint debitores, sed mutuam pecuniam a re publica acceperint, non sunt in ea causa, ut honoribus arceantur. plane vice solutionis sufficit, ut quis aut pignoribus aut fideiussoribus idoneis caveat: et ita divi fratres Aufidio Herenniano rescripserunt. sed et si ex pollicitatione debeant, quae tamen [pollicitatio] recusari non potest, in ae sunt condicione, ut honoribus arceantur’.
[26] Di tale avviso, ex multis: S. Perozzi, Le obbligazioni romane (prolusione letta il 14 aprile 1902, con note), Bologna 1903, 32 e s., nt. 1, ora in Scritti Giuridici II. Servitù e obbligazioni, U. Brasiello (cur.), Milano 1948, 337 e s., nt. 1; Id., Istituzioni di diritto romano2, II.2. Obbligazioni ed azioni - Diritto ereditario - Donazioni, Milano 1928, 242, nt. 3; G. von Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, III, Tübingen 1910-1931, 75; R. von Mayr, Römische Rechtsgeschichte, Leipzig 1912, 38; E. Albertario, La pollicitatio romana e il cosidetto obligari ex pollicitatione, in RIL. LX, 1927, 607 ss.; Id., La pollicitatio, Milano 1929, in Studi di diritto romano, III, Milano 1933-1953, 255, nt. 1; 258, nt. 1; 259, nt. 3, 261 e s.; Id., voce pollicitazione, in Enciclopedia Italiana di Scienze Lettere ed Arte, XXVII, 1935, 706; Id., Corso di diritto romano. Le obbligazioni. Parte generale, III, Milano 1938, 312; G.G. Archi, La ‘pollicitatio’ nel diritto romano, in RISG. VIII, 1933, ora in Scritti di diritto romano, II: Studi di diritto privato, 2, Milano 1981, 1320, 1344; R. Villers, Essai sur la ‘pollicitatio’ ad une ‘res publica’, in RHDFE. XVIII, 1939, 33 ss.; S. Cassarino, Note critiche sul «Liber singularis de officio curatoris rei publicae» di Ulpiano, in ASGC. I, 1946-1947, 307; Id., Il «curator rei publicae» nella storia dell’impero romano, in ASGC. II, 1948, 352 e s.; J. Roussier, La «pollicitatio pecuniae», in Studi in onore di V. Arangio-Ruiz nel XLV anno del suo insegnamento, II, Napoli 1953, 32 e ivi nt. 7, 37 e ivi nt. 22; F. Cancelli, voce pollicitatio, in NNDI., XIII, (1966), 260 e ivi nt. 8; B. Biondi, Istituzioni di diritto romano4, Milano 1972, 477 e s.; Fr. Jacques, Le privilège de liberté. Politique impériale et autonomie municipale dans les cités de l’Occident romain (161-244), Roma 1984, 777; P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano10, Milano 1987, 443; F. Sitzia, voce promessa unilaterale, in ED., XXXVII, 1988, 26, nt. 38, 27 ss.; J. San Juan Sanz, La «pollicitatio» en los textos jurídicos romanos, Madrid 1996, 93, 95 e ivi nt. 19 ss., 96, 108 nt. 64; J. Iglesias-Redondo, La ‘pollicitatio’, in Derecho romano de Obligaciones. Homenaje al profesor J.L. Murga Gener, Madrid, s.d., ma 1994, 500 ss. Più di recente, si veda anche V. Carro, Dalla pollicitatio all’art. 1987 c.c.: l’attualità del problema della formazione unilaterale del rapporto obbligatorio, in Fides Humanitas Ius. Studii in onore di L. Labruna, C. Cascione, C. Masi Doria (curr.), II, Napoli 2007, 811 e s.; Id., La promessa unilaterale. Studio sulla formazione unilaterale del rapporto obbligatorio tra diritto romano, tradizione romanistica e prospettive future, Napoli 2012, 80 e s. La genuinità della classificazione: ob honorem/ob aliam iustam causam/sine causa (non ex causa) sembra, invece, presupposta da J. Voet, Commentariorum ad Pandectas Libri Quinquaginta, VI, Bassani 1828, 372; da A. Ascoli, Trattato delle donazioni secondo il diritto civile italiano, con riguardo al diritto romano e alla giurisprudenza moderna, Firenze 1898, 90 ss.; Id., La pollicitatio, in Scritti della Facoltà Giuridica di Roma in onore di A. Salandra, Milano 1928, 219 e s. e, più di recente, da: F. Nasti, L’attività normativa di Severo Alessandro. I. Politica di governo, riforme amministrative e giudiziarie, Napoli 2006, 201 ss.; F. Bertoldi, Le promesse unilaterali in diritto romano, in Promesses et actes unilatéraux, 7èmes journées d’études, Poitiers-Roma TRE, Poitiers, 12 et 13 juin 2009, dirr. M. Boudot, P.M. Vecchi, D. Veillon, Poitiers 2010, 8.
[27] Circa le ragioni di ordine logico e gli elementi di carattere testuale che militano contro la tesi della paternità giustinianea della classificazione delle pollicitationes rivolta ad una res publica che le distingue in: ob honorem/[vel] ob aliam iustam causam/sine causa (non ex causa) e che, di contro, inducono ad assumere il carattere, quantomeno, tardo-classico della stessa e, in ogni caso, ad ascrivere ad Ulpiano l’enunciazione che ricorre in D. 50.12.1.1, nonché le formule: ‘ob causam aliquam iustam rei publicae … polliceatur’ e ‘quae tamen pollicitatio recusari non potest, che è dato leggere, rispettivamente, in D. 39.5.19pr., la prima, e in D. 50.4.6.1, la seconda, si veda P. Lepore, «Rei publicae polliceri», cit., praecipue 277 ss.
[28] Cfr. infra.
[29] Sul punto si veda P. Lepore, Ibidem, 296 ss.
[30] Cfr. supra.
[31] E. Melchor Gil, Pollicitationes ob honorem y ob liberalitatem, cit., 13 dell’estratto.
[32] E. Melchor Gil, Ibidem, 14
dell’estratto.
[33] Circa l’identificazione dell’imperatore richiamato si veda, per tutti, A. Dell’Oro, I libri De officio nella giurisprudenza romana, Milano 1960, 116.
[34] Per ulteriori approfondimenti si veda P. Lepore, «Rei publicae polliceri», cit., praecipue 282 ss. In proposito F. Nasti, L’attività normativa di Severo Alessandro. I. Politica di governo, riforme amministrative e giudiziarie, cit., 201 ss. ha osservato come «ampliare la categoria delle pollicitationes ob honorem vel ob aliam iustam causam includendo in esse le pollicitationes ob casum significava in concreto offrire alle civitates un utile strumento per la tutela ed il potenziale arricchimento edilizio»; si veda anche F. Bertoldi, Le promesse unilaterali in diritto romano, cit., 8.
[35] Cfr. infra.
[36] L’integrazione del ‘tam’ è conforme alla restituzione già proposta dalla Vulgata. Sul punto già: Ch.H. Barth - D. Nettelbladt, De Pollicitatione Inprimis in Specie Sic Dicta, Halle 1779, 32 e s.: «nos vero existimamus bene sese habere lectionem Etruscam & particulam quam hic poni pro tam, quam: sicque sensus legis hic est: eum, qui opus promisit, ne honoribus fungatur, tam ad honoris subeundos, quam ad operis exstructionem, cogendum esse, quia reipublicae damnosum erat, munus detrectare»; G.H.R. Behr, De pollicitatione reipublicae facta. Dissertatio inauguralis juridica, Lipsiae 1841, 13, nt. 7: «Antoninus recte sensisse videtur, ignobilis erga patriam animi neque cive Romano dignum esse, quando quis honorem ei delatum repudiaret, et pollicitationibus reip. factis a munere suscipiendo sese liberare conaretur. Quare eum, qui hoc modo quam male de repubblica cogitaret declaravit, non solum ad honorem subeundum, sed etiam, tanquam in poenam, ad operis promissi instructionem cogi debere, hac lege constituit». Si vedano, altresì, J. Roussier, Le sens du mot ‘pollicitatio’ chez les juristes romains, in Mélanges F. De Visscher, II, Bruxelles 1949 [= RIDA. III.2, 1949], 295 e s.; Id., La «pollicitatio pecuniae», cit., 53; F. Cancelli, voce pollicitatio, cit., 263, per il quale il ‘tam’ sarebbe «postulato dal senso del contesto»; B. Albanese, Gli atti negoziali nel diritto privato romano, Palermo 1982, 264, nt. 97; Fr. Jacques, Le privilège de liberté. Politique impériale et autonomie municipale dans les cités de l’Occident romain, cit., 780; V. Carro, Dalla pollicitatio all’art. 1987 c.c.: l’attualità del problema della formazione unilaterale del rapporto obbligatorio, cit., 811; Id., La promessa unilaterale. Studio sulla formazione unilaterale del rapporto obbligatorio tra diritto romano, tradizione romanistica e prospettive future, cit., 64 e. Cfr. anche F. Regelsberger, Streifzüge im Gebiet des Zivilrechts. II: Die Pollicitation und das Versprechen eines Beitrags zu einem gemeinnützigen Zweck, in Festgabe der Göttinger Juristen-Fakultät für R. von Jhering zum fünfzigjährigen Doktor-Jubiläum am 6. August 1892, Leipzig 1892 (rist. anast. Aalen 1973), 43 ss. Di diverso avviso G. Brini, La bilateralità delle pollicitationes ad una res publica e dei vota nel diritto romano, in «Memorie della Regia Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna. Classe di Scienze Morali (Sezione di Scienze Giuridiche)», II, 1907-1908, 14, il quale, sulle orme di I. Gothofredus (in not., ad h.l.), ha proposto di intendere il quam nel senso di potius quam, anzichè in quello di tam quam e, di conseguenza, ha sostenuto che il rescritto dell’imperatore Antonino Caracalla, richiamato da Modestino, avrebbero sancito l’obbligo per il pollicitator ‘ne honoribus fungeretur‘ di «accettare l’incarico, non già ad eseguire l’opera». L’ipotesi di Brini è stata ripresa, adesivamente, da ultimo, da M. Huang, La promessa unilaterale come fonte di obbligazione. Dai fondamenti romanistici al prossimo Codice Civile Cinese, Milano 2018, 43.
[37] Questa, almeno, l’identificazione del divus Antoninus operata dalla maggior parte degli interpreti. Tra costoro si vedano: G. Gualandi, Legislazione imperiale e giurisprudenza, II, Milano 1963, 200; Fr. Jacques, Ibidem, 706, nt. 171. Ancora di recente, ha, invece, proposto di riferire la formula ‘divus Antoninus rescripsit’ all’imperatore Antonino Pio, M. Huang, Loc. ult. cit. L’imperatore richiamato da Modestino non sarebbe, invece, individuabile secondo H. Fitting, Alter und Folge der Schriften römischen juristen von Hadrian bis Alexander, Osnabrück 1965, 129.
[38] Il principium del passo recita: ‘In privatis operibus invitis his qui fecerunt statuas aliis ponere non possumus’.
[39] Sul punto si veda P. Lepore, «Rei publicae polliceri», cit., 248 ss., praecipue 250.
[40] E. Melchor Gil, Pollicitationes ob honorem y ob liberalitatem, cit., 15 dell’estratto.
[41] Cfr. supra.
[42] E. Melchor Gil, Ibidem, 14 dell’estratto.
[43] Si veda supra.
[44] E. Melchor Gil, Ibidem, 15 dell’estratto.
[45] Cfr. supra.
[46] ‘Aescula[pio Au]g(usto) sacrum. Pro salute / [Imp(eratoris) C]aes(aris) Traiani Hadriani Part(hici) Aug(usti), p(atris) p(atriae), C(aius) Iulius M(arci) f(ilius) Cor(nelia tribu) Placidus, o[b honor(em) flam(oni) / perp(etui)] cum (sestertium) X (milia) in opus munificentiae promisisset et ob honor(em) (duum)vir(atus) (sestertium) II (milia), ad[iecta a se] / [ampl]ius pecunia, templum cum statuis (tribus), marmoribus, picturis exornavit, [item, ad / or]namentum templi Plutonis, urceum et lancem ex arg(enti) p(ondo) (sex) fecit idemq(ue) ded(icavit). [D(ecreto) d(ecurionum)]’.
[47] ‘Imp(eratori) Caes(ari) / divi Hadr(iani) fil(io) di/vi Trai(ani) Part(hici) nepoti / divi Nervae pronep(oti) / T(ito) Aelio Hadr(iano) Antonino / Aug(usto) Pio pont(ifici) max(imo) trib(unicia) / pot(estate) XVIIII Imp(eratori) II co(n)s(uli) IIII p(atri) p(atriae) / L(ucius) Petronius M(arci) f(ilius) Arniensis (tribu) / Ianuarius aed(ilis) ex (sestertium) VI (milibus) n(ummum) quae / in ornamentum civita/tis ex liberalitate sua ob / honorem aed(ilitatis) praeter / legitimam summam / promiserat d(edit) d(edicavit)q(ue)’.
[48] ‘Divo Commod[o] / Imp(eratori) Caes(ari) L(uci) [Sep]/timi Severi P[ii] / Pertinacis / Aug(usti) Arabici / Adiabenici [fra]/tri Q(uintus) C[a]lp[urni]/us Q(uinti) [f(ilius)] pal--- /cus ------- statua[m ob] hon(orem) / IIvir(atus) quam ex / sua liberali/tate promi/sit posuit i/demq(ue) ded[ic(avit)]’.
[49] ‘[Imp(eratori) Caes(ari) L(ucio) Septimio / Seve]ro Pio Pertinaci / [Au]g(usto) Parth(ico) Arabico Par/(thico) Adiabenico tr(ibunicia) p(otestate) IIII / [I]mp(eratori) VIII co(n)s(uli) II pr[oco](n)s(uli) / [.] L(ucius) Alfius Secundus f(lamen) p(erpetuus) statu/as duas equestres [---]s ex (sestertium) / XII (milibus) n(ummum) quae L(ucius) Alfius Felix pa/ter eius duplicata summa / honoraria f(lamoni) p(erpetui) ex sua libera/litate promiserat per/missu ordinis po[suit]’.
[50] ‘[Imp(eratori) C]aes(ari) M(arco) Aurelio Antoni[n]o / [Aug(usto) P]io, principi iuventutis, / Imp(eratoris) Caes(aris) / L(uci) Septimi Severi Pii Perti/nacis Aug(usti) Arab(ici) Adiab(enici) Parthic(i) max(imi) / fil(io), divi M(arci) Antonini Pii Germ(anici) [Sarm(atici)] / nepoti, divi Antonini Pii pronepoti, di[vi] / Hadr(iani) abnep(oti), divi [Tr]aiani Parthici et / divi Nervae adne[po]ti, / sede[m---]L cum s[ta]tua / togata [[--- et filius ?]] eius / Q(uintus) Domitius L. fil(ius) Quir(ina) Pudens, IIvir [---] / liberalitate pollicitus, sua [pecunia ? / summa]m ? quo[que ? hon]or(ariam) IIvi[r(atus) ---]’.
[51] ‘Deo patrio / Baliddiri Aug(usto) / sacrum / Q(uintus) Tadius Q(uinti) fil(ius) / Quirina (tribu) Victor / statuam aeream / quam ob honorem / flamonii divi Seve//ri castelli Siguitani / pollicitus erat facturum a se ex (denariis) DL ampli/ficata liberalitate / ex (denariis) mille cum base / Tadii / Victor Iunior et / Saturninus et / Honorata et Fe/lix filii et here/des eius dederunt / dedicaverunt l(ocus) d(atus) d(ecreto) d(ecurionum)‘.
[52] ‘[P]ro salute Imp(eratoris) Caes(aris), divi Septimi Severi [p]ii Ara[b(ici)], Adiabe[nic]i Parthici maximi Brit[an]nici maximi fil(ii), divi M(arci) Antonini Pii Germanici Sarmatici nepot(is), divi Antonini Pii / pronep(otis), divi Hadriani abnep(otis), divi Traiani Parthici et divi Nervae adnepot(is), M(arci) Aureli Antonini Pii Felicis, principis Iuventutis, Augusti / Parthici maximi Brittann[i]ci (sic!) max(imi), pont(ificis) max(imi), trib(unicia) potest(ate) XV, imp(eratoris) II, co(n)s(ulis) III, p(atris) p(atriae), et Iuli[ae] Domnae Augustae piae Felicis, matris Aug(usti) et castrorum et senatus totiusq(ue) domus divinae, / P(ublius) Opstorius Saturninus, fl(amen) p(erpetuus), sac(erdos) Merc(uri), cum patriae suae Vazitanae triplicata summa fl(amonii) p(erpetui) HS III m(ilium) n(ummum) aedem Mercurio Sobrio pollicitus fuisset, ampliata liberalitate eandem aedem / (cum) pronao et ara fecit et ob dedicat(ionem) aepulum (sic!) et gymnasium ded[it, lo]c(o) dat(o) d(ecreto) d(ecurionum). Idem iam ant(e) hoc ob honorem XIpr(imatus) aed[e]m Aesculapio deo promissam bassil(icam) (sic!) coh(a)erent(em) multiplicata pec(unia) fecit‘.
[53] ‘Herculi invicto sac(rum) / conservatori domini n(ostri) / [[Imp(eratoris) Caes(aris) M(arci) Aureli / Antonini Pii Felicis Aug(usti)]] / M(arcus) Clodius L(uci) f(ilius) Q(uirina tribu) Fidus mag(ister) / quaest(ura) func(tus) amator patriae / statuam cum base quam die / III Nonar(um) Ianuar(iarum) sua liberali/tate pollicitus est inlatis / praetera r(ei) p(ublicae) honorariis / summis decurionatus et mag(istratus) / et ob eius dedicationem edi/to die ludorum scenico/rum sua pecun(ia) fecit idemq(ue) / dedicavit l(ocus) d(atus) d(ecreto) d(ecurionum) // promissa III Nonas / Ianuar(ias) Grato [[et / Seleuco]] co(n)s(ulibus) / dedicata [[Antonino / IIII et Alexandro co(n)s(ulibus)]]‘. Vale osservare come «AE.» 1917-1918.43-44 = «BCTH.» (1917), 339 e s., nr. 66 rientri nel novero delle iscrizioni, espressamente, richiamate da Enrique Melchor Gil, in quanto idonee, a suo dire, a rimarcare la natura e la motivazione evergetiche delle pollicitationes ob liberalitatem, di cui attesterebbero, al contempo, seppure in forma indiretta, la totale estraneità rispetto all’assunzione di un honor. Il punto è che lo studioso spagnolo non ha considerato meritevole di attenzione o, comunque, non ha ritenuto rilevante – ai fini della qualificazione giuridica della pollicitatio di una statua cum base in onore di Ercole Invitto formulata, il 5 gennaio del 221 d.C., a beneficio della città di Uzelis, da tale Marcus Clodius Fidus – il ricorrere nel testo lapideo della formula: ‘inlatis praetera r(ei) p(ublicae) honorariis summis decurionatus et mag(istratus)’. Questa nel riferire, in modo esplicito e diretto, al pollicitator la corresponsione di due, determinate summae honorariae vel legitimae, rappresenta la prova evidente della riconducibilità della promessa all’assunzione di honores e, quindi, del carattere ob honorem, più esattamente, ‘ob honores coniunctos’ (decurionatus et magistratus) della stessa.
[54] ‘Asiciae Victoriae / fl(aminicae) Thuggenses ob muni/[f]icentiam (sic!) et singula/rem liberalitatem eius / in rem p(ublicam) quae ob flamonium / [V]ibiae Asicianes fil(iae) suae (sestertium) C mil(ia) n(ummum) pollicitast ex quorum re/[d]itu ludi scaenici et sportulae / decurionibus darentur d(ecreto) d(ecurionum) / utriusque ordinis posuer(unt)‘.
[55] P. Lepore, «Rei publicae polliceri», cit., praecipue 92 ss.