Università di Brescia
La sacertà come ‘spogliatoio’ della sovranità
SOMMARIO: 1. Esclusione giuridica – 2. Illeciti ‘infracivici’ – 3. Illeciti ‘sovracivici’ – 4. Sanzione – 5. La nuda vita – 6. Il ‘bando’ – 7. Prospettive. – Abstract.
Probabilmente nessun istituto giusromanistico quanto la sacertà[1] ha attirato l’attenzione di studiosi di altri ambiti (in particolare letteratura, antropologia, sociologia), almeno in rapporto al numero di giusromanisti che, dall’Antichità ai giorni nostri, se ne sono interessati[2]. L’osservazione non è una semplice nota di costume accademico, ma è indicativa del carattere espulsivo che la sanzione della sacertà assunse fin dal suo primo apparire: l’homo sacer infatti era escluso dal ‘cosmo’ giuridico che la civitas andava definendo, e ciò, se da un lato motiva il minore interesse dei giuristi ad occuparsene, dall’altro attira l’interesse di varie figure di eclettici intellettuali antichi e moderni.
Tale esclusione non è una semplice conseguenza della dimensione religiosa che il termine presenta, perché questa dimensione è peraltro condivisa dall’intero sistema romanistico[3]. Il carattere espulsivo della sanzione sarebbe confermato dal valore ancipite che il termine sacer in latino conserva, e che potrebbe essere reso in italiano non solo nell’accezione positiva di ‘sacro’ ma anche in quella negativa di ‘esecrando’[4]. Questo ha portato certuni tra gli studiosi a identificare la ‘sacertà’ col ‘tabù’, con cui condividerebbe l’ambigua spinta al rispetto e alla ripulsa: sacer sarebbe «celui ou ce qui ne peut être touché sans être souillé, ou sans souiller»[5]. Altri hanno ipotizzato che si trattasse in origine di una fugiens victima «by accident or by the neglet of the magistrate»[6], e che in quanto tale «er darf nicht mehr geopfert werden, wie in der Urzeit geschah»[7].
Gaio rimanda il concetto a una generale tripartizione delle res divini iuris, dalle quali è esclusa ogni appropriazione umana, ma a diverso regime.
Gai. II 3-8
Divini iuris sunt veluti res sacrae et
religiosae. Sacrae sunt, quae dis superis consecratae sunt; religiosae, quae
diis manibus relictae sunt […]. Sanctae quoque res, veluti muri et
portae, quodam modo divini iuris sunt
Sono di diritto divino le cose sacre e religiose. Le cose sacre, secondo Gaio, sono consacrate agli dei celesti, quelle religiose lasciate agli dei dei morti, mentre quelle sante sono ‘in un certo qual modo’ di diritto divino[8]. Se però dovessimo applicare all’uomo lo schema tracciato da Gaio per le cose, nel loro caso la diversa disponibilità ne modifica la destinazione ma non la natura[9], mentre per l’uomo la consacrazione non costituisce affatto uno statuto onorifico o privilegiato, bensì lo pone in una condizione di precarietà che, come conseguenza di una sua colpa, lo pone nell’altrui disponibilità[10].
Non solo il criminale, ma in un certo senso anche il crimine era ‘bandito’ dall’ordinamento[11]: l’esclusione era in effetti la conseguenza che il reo doveva subire da parte della potestà punitiva pubblica, e parimenti anche la ragione per cui simili illeciti esulavano dall’intervento coercitivo della medesima potestà. La sacertà appare legata a una serie di crimini per i quali la parte lesa non avrebbe potuto agire, in una fase in cui il diritto penale era ancora affidato alla vendetta privata familiare, in quanto nella sacertà le controparti arrivano a confondersi, trovandosi sotto la medesima potestas, ovvero una delle due è estranea all’ordinamento[12]; e ciò motiverebbe allora l’assenza di un intervento sanzionatorio attivo, che andasse al di là del bando.
Prima di passare allora alla disamina delle infrazioni passibili di tale sanzione, va premesso che la loro sorprendente disomogeneità, come apparirà nelle citazioni, si riflette, o meglio ne è forse essa stessa un riflesso, nella assoluta disparità delle fonti, che spaziano da testi giuridici a narrazioni storico-cronachistiche, da commenti eruditi a rinvenimenti archeologici. Ad essa si somma l’estrema risalenza dell’istituto, verosimilmente coevo alla fondazione della città, le cui diverse previsioni normative non sembrano essere state novellate dopo le XII Tavole, col risultato di apparire arcaiche, primitive e forse pure, in parte, desuete già ai Romani di età successive. In sostanza la sacertà apparve, e per certi aspetti appare tuttora, un’interessante curiosità a studiosi di varie discipline, ma, proporzionalmente, meno agli studiosi di discipline giuridiche; e questo nonostante la lunga vigenza dell’istituto che si conservò senza sostanziali novellazioni, che avrebbero invece richiesto una profonda e condivisa riflessione giuridica.
Partendo dall’analisi delle fattispecie interessate, essi potrebbero agevolmente dividersi in due grandi gruppi, che si collocherebbero oltre i confini interni ed esterni della civitas, in aree cioè nelle quali la sua autorità non avrebbe potuto entrare: all’interno della sfera di attribuzioni autoritative del civis e all’esterno del legame giuridico dei consociati. In questo modo la civitas, che nasce come condivisione delle prerogative, privatistiche, dei cives che in essa si associano, non si pone come superiorem non agnoscens, ma come aurea mediocritas tra i limiti individuati, da un lato, dalla ‘sovranità’ di un paterfamilias ‘padrone a casa propria’, dall’altro, non tanto dalle molteplici e arbitrarie sovranità estere, quanto dal principio giuridico sovrano a cui tutte queste sono sottoposte[13].
Al primo gruppo possono ricondursi lesioni alla potestas del capofamiglia. Certo è che la potestas era già di per sé un’autorità, anche punitiva, e che anzi fu la prima a conoscere tutele ordinamentali, ma più spesso ciò che era punito con la sacertà era un abuso di questa autorità, che non aveva altro correttivo che la messa al bando dell’abusante[14].
- esposizione di infanti: ce ne riferisce Dionigi nel quadro delle politiche demografiche di Romolo, che appunto si pose fin da subito, e con metodi sempre risolutivi, il problema della crescita della neonata città.
Dion. Hal. II 15.2
Πρῶτον μὲν εἰς ἀνάγκην κατέστησε τοὺς οἰκήτορας αὐτῆς ἅπασαν ἄρρενα γενεὰν ἐκτρέφειν καὶ θυγατέρων τὰς πρωτογόνους, ἀποκτιννύναι δὲ μηδὲν τῶν γεννωμένων νεώτερον τριετοῦς, πλὴν εἴ τι γένοιτο παιδίον ἀνάπηρον ἢ τέρας εὐθὺς ἀπὸ γονῆς. Ταῦτα δ᾽οὐκ ἐκώλυσεν ἐκτιθέναι τοὺς γειναμένους ἐπιδείξαντας πρότερον πέντε ἀνδράσι τοῖς ἔγγιστα οἰκοῦσιν, ἐὰν κἀκείνοις συνδοκῇ. κατὰ δὲ τῶν μὴ πειθομένων τῷ νόμῳ ζημίας ὥρισεν ἄλλας τε καὶ τῆς οὐσίας αὐτῶν τὴν ἡμίσειαν εἶναι δημοσίαν[15].
Romolo obbligò a crescere tutti i figli maschi e le femmine primogenite se questi, per testimonianza di cinque vicini, non fossero riconosciuti deformi: il paterfamilias che contravveniva soggiaceva alla pena solo patrimoniale di consacrazione di metà del patrimonio[16]. In questo caso abbiamo un contatto con la patria potestas, ma la norma non è reduplicativa e inutile, in quanto ne costituisce una limitazione[17]. Si punisce cioè il padre che abbandoni il neonato non deforme, proprio in forza della sua autorità paterna, di fronte alla quale nessuno, meno di tutti la parte lesa, avrebbe potuto agire.
- ripudio (o vendita) della moglie: sempre nel contesto delle leggi demografiche di Romolo, Plutarco riporta tre cause[18] di giusto ripudio della moglie (di cui tratteremo di seguito insieme ad altre testimonianze), all’infuori delle quali prevede una forma di sacertà patrimoniale del marito.
Plut. Rom. 22.3
Ἔθηκε δὲ καὶ νόμους τινάς, ὧν σφοδρὸς μέν ἐστιν ὁ γυναικὶ μὴ διδοὺς ἀπολείπειν ἄνδρα, γυναῖκα δὲ διδοὺς ἐκβάλλειν ἐπὶ φαρμακείᾳ τέκνων ἢ κλειδῶν ὑποβολῇ καὶ μοιχευθεῖσαν·εἰ δ᾽ἄλλως τις ἀποπέμψαιτο, τῆς οὐσίας αὐτοῦ τὸ μὲν τῆς γυναικὸς εἶναι, τὸ δὲ τῆς Δήμητρος ἱερὸν κελεύων· τὸν δ᾽ἀποδόμενον γυναῖκα θύεσθαι χθονίοις θεοῖς[19].
Dopo aver elencato le cause di giusto ripudio, leggiamo che la pena per il marito che ripudiasse ingiustamente la moglie era la confisca dei suoi averi in favore in parte della moglie ripudiata, in parte di Cerere; mentre l’ingiustificabile vendita della moglie comportava la sacertà personale. Certo il lessico di Plutarco è largamente impreciso e il suo stile contorto, insomma non una chiara fonte giuridica, anche senza addentrarci in tematiche devianti dalla questione della sacertà, come quella dell’ammissibilità del divorzio nella Roma arcaica[20]. Comunque, al di là delle colpe muliebri che lo autorizzano, il testo pone problemi sulle sanzioni applicabili al marito che ripudia anche in assenza di tali colpe. In primo luogo curiosa è la consacrazione di metà del patrimonio alla moglie, che individuerebbe una parte lesa sui iuris, piuttosto eccezionale a dire il vero nella sacertà, il che farebbe pensare ad una recenziorità della fattispecie, di pari passo con l’affermazione dei matrimoni sine manu, a meno di non ipotizzare un improbabile scioglimento del vincolo potestativo contestuale al ripudio abusivo. Forse allora la vendita, ancor più curioso modo di sbarazzarsi della consorte, è da intendersi come negozio a scopo non di lucro, ma di emancipazione della donna: in questo modo si tratterebbe della sanzione di sacertà personale per la medesima colpa di illecito divorzio, aggravata dalla presenza dell’ulteriore vincolo della manus.
- illeciti muliebri: delle tre cause sopra riportate da Plutarco come legittimanti il divorzio (vino, aborto, adulterio), l’ubriachezza e l’adulterio sono ripresi anche da Dionigi, e l’ubriachezza anche da Plinio il Vecchio.
Dion. Hal. II 25.6
Ταῦτα δὲ οἱ συγγενεῖς μετὰ τοῦ ἀνδρὸς ἐδίκαζον· ἐν οἷς ἦν φθορὰ σώματος καί, ὃ πάντων ἐλάχιστον ἁμαρτημάτων Ἕλλησι δόξειεν ἂν ὑπάρχειν, εἴ τις οἶνον εὑρεθείη πιοῦσα γυνή. Ἀμφότερα γὰρ ταῦτα θανάτῳ ζημιοῦν συνεχώρησεν ὁ Ῥωμύλος, ὡς ἁμαρτημάτων γυναικείων αἴσχιστα, φθορὰν μὲν ἀπονοίας ἀρχὴν νομίσας, μέθην δὲ φθορᾶς[21].
Plin. Sr. Nat. Hist. XIV 89
Non licebat id feminis Romae bibere.
invenimus inter exempla Egnati Maetenni uxorem, quod vinum bibisset e dolio,
interfectam fusti a marito, eumque caedis a Romulo absolutum. Fabius Pictor in
annalibus suis scripsit matronam, quod loculos in quibus erant claves cellae
vinariae resignavisset, a suis inedia mori coactam.
Sempre nell’ambito della narrazione dei provvedimenti latamente demografici del primo re[22], Dionigi considera l’ubriachezza principio dell’adulterio e quindi della rovina familiare[23], mentre Plinio, nel trattare del vino, riporta il caso della moglie di Egnatio Metenno, che fu fatta morire di inedia[24] per aver rubato le chiavi della cantina; ma per entrambi gli ultimi due autori si tratta di illeciti da punire. Non è chiaro se si tratti di altrettante ipotesi di sacertà, visto che in entrambi questi autori la pena è l’uccisione, mentre per Plutarco si trattava di cause lecite di ripudio: a favore della sacertà deporrebbe il fatto che l’esecuzione non fa seguito a una pubblica condanna, e soprattutto che Dionigi «sembra anteporre il ruolo dei parenti (senza precisare se della donna o dell’uomo) a quello del marito nella determinazione della pena da applicare»[25], un po’ come avveniva per i vicini, la cui testimonianza sulla deformità del neonato era un limite all’esercizio della potestas del capofamiglia. Si potrebbe pensare a un tentativo, forse ad opera delle fonti stesse, di introdurre una reciprocità di sanzionamento del comportamento indegno muliebre, per esigenze anche giuridiche di simmetria con la sanzione di sacertà del marito. Oppure, se accettiamo l’ipotesi dell’iniziale indissolubilità del vincolo matrimoniale, questa era l’unica via per il marito di liberarsi di una moglie indegna; e comunque l’indegnità era sentita come tale da determinare l’esclusione dalla società[26].
- verberatio parentis da parte di puer o di nurus: la testimonianza è una glossa festina.
Fest. 260 L
Plorare, flere [inclamare] nunc significat, et cum praepositione inplorare, id est invocare: at apud antiquos plane inclamare. In regis Romuli et Tatii legibus: "si nurus . . . , <nurus> sacra divis parentum estod." in Servi Tulli haec est: "si parentem puer verberit, ast olle plorassit paren<s>, puer divis parentum sacer esto".
Illustrando il lessema plorare, Festo cita una lex regia di Romolo, il cui testo corrotto accenna alla nurus, e che si può comunque integrare con quello della successiva lex serviana, che sanciva la sacertà del puer che picchiasse il padre. Il riferimento alla nurus potrebbe far pensare all’insubordinazione della moglie sine manu contro la quale non poteva agire la patria potestas, ma i matrimoni sine manu sono probabilmente successivi all’età regia e la successiva menzione del puer include nella fattispecie chiunque a questa autorità fosse soggetto[27]. In realtà, più che ipotizzare anche in questo caso una ricostruzione posteriore della simmetria punitiva su discendenti maschi e femmine, si potrebbe pensare che la prima norma, suppletiva di una lacuna di autorità, venisse estesa a rinforzo di un’autorità che in taluni casi rischiava di restare solo nominale: vero che al di là di questa specifica previsione il paterfamilias avrebbe comunque potuto punire un’offesa alla sua persona da parte dei figli o dei servi, ma non si trascuri che nel caso di un capofamiglia particolarmente anziano, egli avrebbe potuto faticare per imporre la propria autorità contro la forza fisica del sottoposto, e si rivelerebbe quindi opportuna la sacertà come scudo alla punizione operabile da qualsiasi consociato[28] a seguito della ploratio del capofamiglia, per escludere dalla protezione della comunità chi si sottraeva alla sua potestà punitiva[29].
- termini exaratio: Dionigi ne parla a proposito delle leggi di Numa, e anche una glossa festina fa il nome del secondo re, ma il racconto liviano della sorte di Remo sembra anticipare la sanzione[30].
Dion. Hal. II 74.3
Ταύτην Ῥωμαῖοι Τερμινάλια καλοῦσιν ἐπὶ τῶν τερμόνων καὶ τοὺς ὅρους αὐτοὺς ἑνὸς ἀλλαγῇ γράμματος παρὰ τὴν ἡμετέραν διάλεκτον ἐκφέροντες τέρμινας προσαγορεύουσιν. Εἰ δέ τις ἀφανίσειεν ἢ μεταθείη τοὺς ὅρους, ἱερὸν ἐνομοθέτησεν εἶναι τοῦ θεοῦ τὸν τούτων τι διαπραξάμενον, ἵνα τῷ βουλομένῳ κτείνειν αὐτὸν ὡς ἱερόσυλον ἥ τε ἀσφάλεια καὶ τὸ καθαρῷ μιάσματος εἶναι προσῇ[31].
Fest. 505 L
Sacra faciebant, quod in eius tutela fines agrorum esse putabant. Denique Numa Pompilius statuit, eum, qui terminum exarasset, et ipsum et boves sacros esse.
Liv. I 7
Volgatior fama est ludibrio fratris Remum novos transiluisse muros; inde ab irato Romulo, cum verbis quoque increpitans adiecisset, ‘Sic deinde, quicumque alius transiliet moenia mea’, interfectum.
La civitas stessa si fonda su una delimitazione, e Livio ci racconta che Remo fu ucciso dal fratello per averla violata, facendone una norma per chiunque ne seguisse l’esempio[32], ma Dionigi e Festo attribuiscono la norma a Numa, estendendola anche ai confini privati[33] e ricollegandola a cerimonie sacre a suo rinforzo. La qualifica di civis si accompagnava in origine all’attribuzione di agri divisi et adsignati[34]; la delimitazione cioè era la leva con cui l’autorità cittadina cercava di forzare il confuso e clientelare sistema della comunione gentilizia: ben si comprende la gravità della pena di chi non la rispettasse[35]. Certo nei riguardi della proprietà quiritaria il dominus che patisse un sopruso avrebbe avuto gli strumenti civilistici di tutela, ma qui viene in considerazione anche l’abuso di chi non rispettava l’obbligo di lasciare libero da culture uno spazio di due piedi e mezzo dal confine degli agri limitati[36], per il quale risultava difficile la rivendicazione.
Per tutti i crimini sopraelencati abbiamo a che fare con alterazioni e abusi nella sfera individuale, che sta a fondamento della civitas e dalla quale appunto questa si chiama fuori, limitandosi a sancire, per chi non gestisce correttamente la propria potestas, l’impossibilità di condividerne la disposizione con gli altri consociati nella civitas. Ciò che accomuna le infrazioni del secondo gruppo è invece il fatto che si tratterebbe di lesioni all’ordine sovranazionale, oltre cioè i limiti esterni della giurisdizione cittadina. Roma dimostra così di riconoscere quest’ordine anche a prescindere da ogni statuizione pattizia, e ne vede il fondamento, religioso prima ancora che giuridico, nella fides[37]: il venir meno ad essa da parte del reo lo rende potenzialmente pericoloso ed eversivo anche per l’ordinamento interno, che pertanto lo dovrà espellere[38].
- diritto ‘internazionale’: la formula dell’indictio belli che il pater patratus recitava prima che si intraprendesse qualsiasi bellum iustum[39] è riportata da Livio, trattando dell’istituzione del rito feziale ad opera di Anco Marzio[40].
Liv. I 32.7
“Si ego iniuste impieque illos homines illasque res dedier <p.r.> mihi exposco, tum patriae compotem me numquam siris esse”.
Si tratta di un’auto-consacrazione come pena di abusive richieste di soddisfazione. Moltissimi sono gli esempi di sacertà che provengono dalle relazioni esterne di Roma, come rottura di tregue e trattati, offese ai legati, sponsiones non autorizzate, che consistevano tutte in una violazione della fides, e soprattutto del giuramento che stava originariamente alla base di tutti gli accordi internazionali. La responsabilità era del singolo che si impegnava, e se si impegnava contra ius veniva consegnato al nemico perché ne facesse quel che voleva[41]. Solo se il nemico rifiutava questa offerta personale, restava comunque controverso se il singolo potesse essere riammesso nella cittadinanza, in quanto ormai privato della sua potestas, cui l’espressione compotem rimanda.
- lex sacrata plebeia: delle molte fonti al riguardo, prendiamo in esame Festo.
Fest. 422 L
Sacratae leges sunt, quibus sanctum est, qui[c]quid adversus eas fecerit, sacer alicui deorum sit cum familia pecuniaque. Sunt qui esse dicant sacratas, quas plebes iurata in monte Sacro sciverit.
Con il consueto gusto etimologico, Festo ricollega le sacratae leges plebee[42] alla sacertà del contravventore o al monte Sacro[43] dove furono approvate. Se è pur vero che la plebe praticò una secessione, certo è che non lo fece con intenti autonomistici, ma per cambiare dall’interno la respublica, fino ad allora esclusivamente dominata da una parte che ne aveva assunto tutte le prerogative. L’unico modo quindi che essa aveva per rivendicare le proprie attribuzioni, era quello di presentarsi come un corpo compatto e strutturato, acquisendo quella che ora diremmo coscienza di classe[44]. Si trattava di porsi come un interlocutore istituzionale, in grado di sostenere l’ordine e l’organizzazione civici, in alternativa o in condivisione a chi l’aveva finora fatto[45]. E per far questo la plebe si dà delle regole, comminando l’esclusione dal proprio corpo ai trasgressori[46]. Le mosse di questa azione antigentilizia sarebbero appunto l’affermazione della maiestas plebis, un nuovo senso di appartenenza ritrovato attraverso una secessione su di un monte guardacaso sacro, cioè separato dalla comunità; solo successivamente si farà luogo a un patto (foedus) con la città che comporta comunque l’alterità dei soggetti, ma l’obiettivo è la partecipazione, cioè il prendere parte a un ordine generale; in quest’ottica la civitas fa propria la sacertà plebea[47].
- frode clientelare: la clientela[48] era senz’altro istituto gentilizio precivico, che la civitas assorbì e forse in parte corresse, e questo giustifica a mio avviso la sussunzione di tale fattispecie nel gruppo delle ‘sovraciviche’; in ogni caso il legame tra cliente e patrono era sancito da un giuramento, la promissio iurata liberti, e non si situa nella sfera individuale di un solo civis sui iuris ma di due[49].
Dion. Hal. II 10.3
Κοινῇ δ᾽ἀμφοτέροις οὔτε ὅσιον οὔτε θέμις ἦν κατηγορεῖν ἀλλήλων ἐπὶ δίκαις ἢ καταμαρτυρεῖν ἢ ψῆφον ἐναντίαν ἐπιφέρειν ἢ μετὰ τῶν ἐχθρῶν ἐξετάζεσθαι. Εἰ δέ τις ἐξελεγχθείη τούτων τι διαπραττόμενος ἔνοχος ἦν τῷ νόμῳ τῆς προδοσίας, ὃν ἐκύρωσεν ὁ Ῥωμύλος, τὸν δὲ ἁλόντα τῷ βουλομένῳ κτείνειν ὅσιον ἦν ὡς θῦμα τοῦ καταχθονίου Διός. Ἐν ἔθει γὰρ Ῥωμαίοις, ὅσους ἐβούλοντο νηποινὶ τεθνάναι, τὰ τούτων σώματα θεῶν ὁτῳδήτινι, μάλιστα δὲ τοῖς καταχθονίοις κατονομάζειν· ὃ καὶ τότε ὁ Ῥωμύλος ἐποίησε[50].
Serv. In Aen. VI 609
FRAUS INNEXA CLIENTI ex lege XII tabularum venit, in quibus scriptum est “patronus si clienti fraudem fecerit, sacer esto”: si enim clientes quasi colentes sunt, patroni quasi patres, tantundem est clientem, quantum filium fallere.
Le due fonti di cui disponiamo, Dionigi di Alicarnasso e Servio, differiscono tra loro nel senso che la prima si riferisce a una legge[51] di Romolo, che commina sacertà alla frode operata da chiunque dei due, cliente e patrono, dopo averne preventivamente dettagliato gli obblighi reciproci, mentre Servio cita le XII Tabulae che la prevedono per il solo patronus. Se non se ne vuole mettere in discussione l’attendibilità, una possibile soluzione sarebbe ipotizzare una novellazione della disciplina ad opera dei Decemviri, in senso limitativo per il patronus, al fine di indebolire i rapporti clientelari[52] che, lo ribadiamo, costituivano un retaggio dell’ordinamento precivico e una continua minaccia all’ordine cittadino da parte di quello gentilizio[53]. In effetti prevedere il rapporto clientelare come puramente sinallagmatico costituiva un indubbio vantaggio per la parte forte, laddove sanzioni previste solo per quest’ultima avevano nei fatti il risultato di agevolare la parte debole[54].
- adfectatio regni: le fonti storiche necessariamente pongono questo crimine dopo l’avvento della repubblica, e sia Dionigi che Livio le fanno risalire a Publicola[55].
Dion. Hal. V 19.3
Νόμους τε φιλανθρωποτάτους ἔθετο βοηθείας ἔχοντας τοῖς δημοτικοῖς· ἕνα μέν, ἐν ᾧ διαρρήδην ἀπεῖπεν ἄρχοντα μηδένα εἶναι Ῥωμαίων, ὃς ἂν μὴ παρὰ τοῦ δήμου λάβῃ τὴν ἀρχήν, θάνατον ἐπιθεὶς ζημίαν, ἐάν τις παρὰ ταῦτα ποιῇ, καὶ τὸν ἀποκτείναντα τούτων τινὰ ποιῶν ἀθῷον· ἕτερον δ᾽, ἐν ᾧ γέγραπται, Ἐάν τις ἄρχων Ῥωμαίων τινὰ ἀποκτείνειν ἢ μαστιγοῦν ἢ ζημιοῦν εἰς χρήματα θέλῃ, ἐξεῖναι τῷ ἰδιώτῃ προκαλεῖσθαι τὴν ἀρχὴν ἐπὶ τὴν τοῦ δήμου κρίσιν, πάσχειν δ᾽ἐν τῷ μεταξὺ χρόνῳ μηδὲν ὑπὸ τῆς ἀρχῆς, ἕως ἂν ὁ δῆμος ὑπὲρ αὐτοῦ ψηφίσηται. Ἐκ τούτων γίνεται τῶν πολιτευμάτων τίμιος τοῖς δημοτικοῖς, καὶ τίθενται αὐτῷ ἐπωνύμιον Ποπλικόλαν· τοῦτο κατὰ τὴν Ἑλλήνων διάλεκτον βούλεται δηλοῦν δημοκηδῆ[56]
Liv. II 8.1
Latae deinde leges, non solum quae regni suspicione consulem absolverent, sed quae adeo in contrarium verterent ut popularem etiam facerent; inde cognomen factum Publicolae est. Ante omnes de provocatione adversus magistratus ad populum sacrandoque cum bonis capite eius qui regni occupandi consilia inisset gratae in volgus leges fuere.
Le due fonti sono concordi nell’affermare il carattere filopopolare della legislazione di Publicola, che si guadagnò tale appellativo limitando il potere dei magistrati sia nei confronti del singolo civis, con la provocatio, che dell’intera civitas, con una speciale previsione di sacertà. Il crimine di attentato alla Costituzione, nelle diverse forme che conobbe nel corso della Storia, è senz’altro il più grave che un ordinamento possa concepire, e infatti non a caso, come vedremo, è il solo che possa essere contestato anche ai detentori della sovranità, come i vari sovrani che sono andati incontro alla pena capitale per quest’accusa. Nessuna sorpresa quindi che anche l’ordinamento cittadino romano ne prevedesse un’adeguata sanzione, anche se in realtà nello svolgersi della sua storia, ne fece un uso più politico che giuridico, come accusa che le fazioni in lotta si rinfacciavano l’una all’altra[57]. L’adfectatio regni, pur se intesa in maniera opposta da patrizi e plebei, in ogni caso è privazione della libertas, prima prerogativa del cittadino, dominatio di una parte e servitus di un’altra, alterazione di un ordine fondato su di una maiestas proporzionale e relativa. Chi se ne rendeva colpevole si poneva giocoforza fuori della civitas. Se è vero che la sua origine risale a Publicola e ai primi anni della repubblica[58], come ci descrivono le fonti, certo doveva essere istituto che si connotava in chiave filopatrizia, ma analogamente la plebe seppe usarlo per rinfacciare gli abusi alla nobilitas. D’altro canto è sintomatico della ricerca di un equilibrio stabile e strutturale del sistema il fatto che la sacertà dell’aspirante monarca, più inviso ai patrizi, che erano stati i principali artefici della cacciata dei re, si accompagni al freno posto all’autorità dei magistrati sui cittadini, più invisa ai plebei perché espressione costante del patriziato.
Il carattere ‘primitivo’ di simili fattispecie, se da un lato conferma il sostanziale disinteresse della giurisprudenza di età storica ad attualizzarle, dall’altro rimanda ad un momento, o meglio una fase fondativa dell’ordinamento che cercava di affermarsi in quanto sovrano individuando appunto i propri soggetti. Il sistema, ancora non perfettamente rodato, e soprattutto per nulla assoluto[59], perché anzi si affermava ‘temporalmente’ e ‘spazialmente’, proponeva un ordine di grandezze fondato sulla ‘misurazione’ e sull’assegnazione a ciascuno del proprio posto; la maiestas ne era il perno, che manteneva in equilibrio i rapporti tra i diversi poteri e attribuzioni della gerarchia, riconoscendone le priorità relative fino ad arrivare alla priorità che precede tutte le altre, la maiestas populi romani, il cui obiettivo era preservare il corretto dispiegamento della potestas degli individui che lo componevano, oltreché delle altre potestates estranee alla sua soggezione.
Nell’ottica romana però la maiestas non è arbitrio, ma servizio, un monito alla conservazione della pax deorum piuttosto che una sine cura all’abuso, proprio perché appunto costantemente relativizzata. L’attenzione alla misura è infatti fondante di un sistema che propugna moderazione e reciprocità a partire da un’idea di giustizia retributiva e affidabile.
La violazione si determina quando si viene meno alla fides, che a Roma non solo era il collante morale del nuovo ordine civico, l’affidamento sulle reciproche attribuzioni che rendeva i cittadini dei concittadini; ma anche, attraverso il giuramento, era elemento normativo, quindi regolatore, ed anzi l’unico nei rapporti internazionali[60]. Eppure si potrebbe dire che ogni crimine punito dall’ordinamento attenta alla coesione sociale e ne mina l’affidabilità: lo specifico degli illeciti in questione, pur così disparati tra loro e, ai nostri occhi, non tutti francamente meritevoli di tanta severità, sarebbe appunto di rappresentare altrettanti attentati all’ordine civico costituito più che ai suoi soggetti, in alcuni casi incapaci di stare in giudizio. Sono in sostanza minacce dirette alla civitas e al civis in quanto tali, e non danni di cui si chiede una soddisfazione, come era nell’ottica punitiva antica, per cui il carattere estremamente risarcitorio della giustizia arcaica non trova altro possibile bilanciamento degli interessi lesi se non l’espulsione del delinquente.
Fest. 424 L
At homo sacer is est, quem populus iudicavit ob maleficium; neque
fas est eum immolari, sed qui occidit, parricidi non damnatur; nam lege
tribunicia prima cavetur “si quis eum, qui eo plebei scito sacer sit,
occiderit, parricidia ne sit.” Ex quo
quivis homo malus atque improbus sacer appellari solet.
Festo sostiene che l’uomo divenga sacer in seguito ad un giudizio popolare, ed afferma l’illiceità[61] della sua immolazione, al pari dell’impunità garantita al suo eventuale assassino dalla prima legge tribunizia: per la deteriorità della sua condizione, l’epiteto sacer sarebbe esteso figurativamente a qualunque individuo malvagio e disonesto. Quanto alla prima informazione, in realtà, dalle fattispecie esaminate la sacertà parrebbe operare ipso facto, alla commissione della colpa l’individuo è sacer senza che un processo lo debba certificare; anche perché il processo serve a stabilire quale debba essere l’intervento punitivo dell’autorità pubblica, mentre rispetto alla sacertà essa nulla deve fare: solo se il colpevole smette di essere (con)cittadino perde anche il diritto alle, ultime, garanzie che l’ordinamento col processo gli offre. Questa particolare applicazione della norma è ancora più evidente quando essa colpisce chi ha attentato all’ordine costituzionale[62], perché è proprio la fattispecie del reato, che porta il reo a detenere l’imperium, e rende quindi difficile se non impossibile la punizione da parte dell’autorità pubblica[63]. Pertanto non si può aspettare che il danno si realizzi per reagire, perché il danno sarebbe l’annientamento, e quindi si concederebbe anche al privato cittadino la scriminante di difendersi da una minaccia letale per lui e per Roma. Non si tratterebbe infatti di una vera e propria condanna, perché mancherebbe un’esecuzione pubblica, e spesso anche un vero e proprio processo, se non sommario e ad esecuzione (privata) avvenuta[64].
Inoltre l’homo sacer non è sacrificabile, nel senso che non può essere cosparso della mola salsa, la focaccia del sacrificio, secondo una prima possibile interpretazione del brano festino[65]; o non è regola (fas) che sia ucciso, secondo un’altra[66], nonostante i crimini che abbia commesso, in una società in cui la pena di morte si intese a lungo come sacrificio per placare l’ira degli dei[67]. In quanto res divini iuris, egli si sottrae ad ogni forma di appropriazione, di potestas, sia attiva che passiva, che ne possa giustificare il sacrificio[68]: non dimentichiamo infatti il carattere privatistico che aveva la giustizia penale delle origini, affidata inizialmente all’iniziativa di chi lamentava una perdita dal delitto altrui, e che ne riceveva soddisfazione sulla persona del colpevole[69].
In pratica la più grave contraddizione di cui probabilmente si accorsero anche gli antichi, stava proprio nel divieto di immolazione e nell’immunità di chi lo uccideva[70]. Un tentativo di composizione potrebbe ritenersi quello di Macrobio, che scomoda a suggello della sua tesi l’autorità di Trebazio Testa, e che in sostanza sostiene che l’homo sacer si può uccidere perché è l’anima consacrata agli dei, non il corpo, e in questo modo si consentiva ad essa di giungere in cielo ‘quanto prima’.
Macrob. Sat. III 7.3-8
Nam quicquid destinatum est dis sacrum vocatur: pervenire autem ad deos non potest, nisi libera ab onere corporis fuerit, anima, quod nisi morte fieri non potest. […] Hoc loco non alienum videtur de conditione eorum hominum referre quos leges sacros esse certis dis iubent, quia non ignoro quibusdam mirum videri quod, cum cetera sacra violari nefas sit, hominem sacrum ius fuerit occidi. Cuius rei causa haec est. Veteres nullum animal sacrum in finibus suis esse patiebantur, sed abigebant ad fines deorum quibus sacrum esset: animas vero sacratorum hominum, quos * zanas Graeci vocant, dis debitas aestimabant. Quemadmodum igitur quod sacrum ad deos ipsos mitti non poterat a se tamen dimittere non dubitabant, sic animas, quas sacras in caelum mitti posse arbitrati sunt, viduatas corpore quam primum ire illo voluerunt. Disputat de hoc more etiam Trebatius Religionum libro nono, cuius exemplum, ne sim prolixus, omisi.
Gli animali destinati agli dei sono sacri, ma non possono arrivare a loro se l’anima non si libera dell’onere del corpo, il che accade solo con la morte: se è sacrilegio violare tutti gli altri animali sacri mentre l’homo sacer può essere ucciso, è perché i primi sono sottratti alla disponibilità degli uomini, mentre solo le anime degli uomini consacrati, che i Greci chiamano zanas, si considerano spettare agli dei. Quindi come non si esitava ad allontanare da sé quanto di sacro non poteva comunque essere trasferito agli dei, così si volle che andasse quanto prima in cielo l’anima sacra separata dal corpo che si pensava potesse essere mandata lì.
Ma al di là del fatto che la tesi secondo cui gli dei si accontentino dell’anima delle loro vittime è troppo ascetica per la religione pagana, resta irrisolto il problema: se l’uccisione è opera meritoria, quindi non punibile, perché negarne la liceità invece di organizzarla pubblicamente[71]? D’altronde gli animali sacri non si uccidono, eppure anche essi hanno un’anima, pur se non razionale.
Mentre le cose e gli animali ‘consacrati’ possono agevolmente passare nella disponibilità divina, perché comunque i loro corpi non sono mai nella disponibilità di un’anima indipendente, per l’uomo la sacertà è la riduzione della propria vita a mero simulacro: «Macrobio, in un testo che è parso a lungo agli interpreti oscuro e corrotto, assimila l’homo sacer alle statue (Zânes) che in Grecia venivano consacrate a Giove coi proventi delle multe inflitte agli atleti spergiuri, e che non erano altro che i colossi di coloro che avevano violato il giuramento e si consegnavano così vicariamente alla giustizia divina»[72].
Una simile prassi ricorda quella di ‘reinserimento’ sociale del devotus sopravvissuto[73], a cui sarebbe assimilabile la sacertà: per tali individui, votati alla morte per la salvezza della comunità, si creava un ‘doppio’ da offrire alla divinità, che consentisse loro di continuare a vivere nel consesso civile; per l’homo sacer non è invece previsto alcun doppio, perché la colpa riduce la sua vita a simulacro nella disponibilità degli dei ed è definitivamente espulsa dal consesso civile, per cui la sua morte diventa irrilevante[74].
Il consesso da cui la sacertà separa è appunto il consesso civile più che semplicemente umano, perché è in esso che la mera vita biologica trova le sue garanzie e i suoi limiti[75]. In sostanza, la vita sacra è semplicemente la ‘nuda vita’[76], l’esistenza umana senza aggettivi, la vita presociale, in quanto è solo la società che tutela la potestas, ma non una volta per tutte, perché il passaggio dallo stato di natura non si pone definitivamente a monte dei consociati, ma incombe costantemente su di essi nel perenne rischio di separazione dalla società. La nuda vita è sacra non perché, come si penserebbe oggi, particolarmente inviolabile[77], dato che anzi la sacertà della vittima esclude qualsiasi competenza punitiva pubblica nei confronti di chi le porti qualunque offesa, dolosa o colposa, ma in quanto costituisce in qualche modo il grado zero dell’esistenza civile.
In questo modo si riconosce uno spazio esterno all’ordinamento, che è precivico perché l’ordinamento è percepito come fatto storico e non assoluto, ma non per questo è da considerarsi definitivamente superato e assorbito; agli albori della città gli unici rapporti erano quelli di sangue, base peraltro di quelli gentilizi contro cui la civitas fin da subito si scontrò[78], ma senza annientarli, bensì riconoscendoli e conservandoli[79]. Non se ne previde una tutela civica, che sarebbe stata probabilmente un’ingerenza nell’autonomia che la civitas riconosceva alla famiglia come alle comunità estere, ma chi non li rispettava era considerato indegno di ogni garanzia comunitaria.
L’area che la civitas comprende e tutela parte dalla potestas individuale per arrivare all’insieme delle potestates in essa consociate: chi abusa della propria potestas, valicandone i limiti impostile al di sopra e al di sotto di essa, esce dalla società di condivisione di queste potestates; ma la reiezione può avvenire solo per fatto proprio, senza peraltro alcun interesse punitivo attivo, perché fuori di essa l’autorità della civitas non si dispiega. Non è un atto di arbitrio degli universi cives, come nel caso dell’ostracismo, in quanto nemmeno necessita di un voto comiziale o senatorio, come già sottolineato, ma è sanzione che consegue ad una legge, a cui anche il reo aveva dato il proprio assenso[80], quantomeno nel riconoscimento della sovranità di cui la legge è espressione, e in cui peraltro è egli stesso coinvolto, quand’anche in un ruolo passivo[81]. Essa è appunto la conseguenza dell’offesa arrecata al corpo del sovrano, nello stravolgimento di quei valori che, abbiamo visto, ne sono l’ossatura; eppure, a differenza delle altre sanzioni, che comunque prevedono un ristabilimento della comunione tra il reo e la società, eventualmente anche con la sua morte offerta agli dei e/o alle parti lese in espiazione della sua colpa, la sacertà determina la definitiva rottura della comunione originaria, il ritorno della persona del reo allo stadio di nuda vita, esposta alla morte nella lotta di tutti contro tutti, da cui proprio con la nascita della società ci si voleva proteggere. Questo perché a differenza degli altri crimini penali, che sono pur sempre offese al corpo di concittadini, e che pertanto, almeno inizialmente, si risolvevano in giudizio come compensazioni di interessi privati, il corpo del sovrano non può stare in giudizio, perché è appunto esterno all’ordinamento[82].
Un simile meccanismo punitivo si adatta maggiormente ad una società immatura e per certi aspetti ancora fragile e poco coesa, che non conosce altre forme di riparazione che l’amputazione del membro infetto, il quale però, non privato dell’esistenza, può avere altre possibilità di realizzazione al di fuori di una comunità che non è (ancora) onnicomprensiva al punto da escluderne ogni sviluppo.
La sacertà, cioè, è sì una perdita di cittadinanza, ma non è un’esecuzione capitale, perché se molto spesso il sacer si suicida, si danno comunque casi di sopravvivenza di sacri, per quanto ignominiosi ed emarginati. In un certo senso essa funge da ‘spogliatoio’, in cui il cittadino viene ‘denudato’ delle sue attribuzioni e ridotto alla condizione di mera esistenza biologica, nuda vita appunto; lo spogliatoio però è anche il luogo dove ci si può rivestire, indossare nuovi abiti, adatti a ricoprire nuovi ruoli magari in nuove rappresentazioni.
Una simile ‘rinascita’, nel senso di riprogettazione della propria esistenza, non ha le stesse chance di realizzazione per chiunque si trovi in questo ‘limbo’, ma esse sono inversamente proporzionali al livello di sviluppo del sistema, oltreché al grado di integrazione, e reiezione, degli individui: comunità primitive o comunque fragili e conflittuali, in contesti ‘internazionali’ altrettanto primitivi e poco integrati, sono naturalmente più inclini a rifondare e rifondarsi, attitudine che si perde man mano che si consolida l’architettura del sistema non solo al proprio interno ma anche con quelli vicini; eppure è importante sottolineare che la vita sacra non è solo il residuo, ma anche la sorgente della civiltà.
Acquista così un nuovo valore l’operazione di porre l’uomo ‘in bando’, espressione che secondo una significativa polisemia vede in ciò che è ‘bandito’ l’invito e la reiezione, l’offerta e la privazione[83]. Chi non può avere alcun ruolo in una società può assumerne anche di sovrani in un’altra, e ciò è connaturato al carattere del sovrano, il cui potere è, per riprendere il moderno lessico costituzionalistico, costituente prima che costituito, pone il diritto, ma, necessariamente, da una posizione di estraneità ad esso, e conserva per sé questa prerogativa, che non si esercita in origine una volta per tutte, ma che si esplica nella facoltà di disporre lo stato di eccezione[84].
Se anzi accettiamo che la sovranità è l’antitesi del diritto[85], capiamo bene quanto essa condivida questa posizione con la sacertà. In realtà questa percezione doveva essere ben presente agli antichi, se già Pindaro riconosce che il potere della legge, definita non a caso re di mortali e immortali, è quello di giustificare la violenza col suo intervento più forte[86].
(Pind. fr. 169 Snell)
νόμος ὁ πάντων βασιλεύς/ θνατῶν τε καὶ ἀθανάτων/ ἄγει δικαιῶν τὸ βιαιότατον/ ὑπερτάτᾳ χειρί[87].
La legge, espressione del potere sovrano, può, essa sola, portare la violenza dentro l’ordinamento, che è nato proprio per respingerla al di fuori, ne cives ad arma ruant. E questo perché appunto il sovrano è contemporaneamente dentro e fuori dall’ordinamento. In questo senso si può dire che il primo, e principale, esercizio della sovranità, tramite la legge appunto, è proprio la sospensione, l’eccezione, l’esclusione dalla comunità.
La sacertà è allora una sospensione delle garanzie e delle discipline ordinamentali, che respinge la nuda vita a uno stadio in cui la società si presenta tamquam dissoluta, in cui cioè sono sospese le normali attribuzioni dell’ordinamento[88]. In questa prospettiva, il patto fondativo dei consociati appare un’operazione non puntale, ma perpetua, e lo stato di natura, dell’homo homini lupus[89], non è una fase precedente della società, superata una volta per tutte, ma un elemento parallelo ed interno ad essa, che sopravvive nell’autorità del sovrano[90].
Abbiamo già ribadito che un potere autorevole, in un contesto di poteri altrettanto autorevoli, lascia poco spazio alle epurazioni, che piuttosto è in grado di reintegrare, ovviamente a patto delle dovute espiazioni; ma in una realtà arcaica con istituzioni ancora in fieri, ciò che per il singolo homo sacer è un reset di tutte le sue prerogative civiche, per una molteplicità di essi diventa l’occasione di una ‘rifondazione’.
Come da questo ‘spogliatoio’ possa talvolta uscire una squadra vincente sarebbe dimostrato dall’usanza italica del ver sacrum[91], secondo cui un’intera generazione di giovani a seguito di carestie o altre ristrettezze si votava a un dio[92] e migrava alla ricerca di una nuova terra, fidando solo sulle proprie forze e sulla guida del dio, e recidendo ogni legame con la madrepatria e vivendo per un certo periodo in un limbo giuridico[93].
Un uso particolare di questo rito sarebbe attestato da Livio che dà notizia di una lex rogata con cui Roma, nel 217 a.C., per scongiurare il pericolo dei Galli e dei Cartaginesi[94], consacra a Giove un’intera generazione di bestiame: gli animali sostituiscono i giovani ‘banditi’ ma il loro sacrificio non è compiuto ritualmente, bensì da chi vuole come vuole, proprio come accade nella sacertà, di cui condividerebbe le modalità, indirizzate però alle finalità propiziatorie che aveva la prova iniziatica o colonizzazione[95].
Liv. XXII 10.2-6
Rogatus in haec verba populus: "Velitis iubeatisne haec sic fieri? Si res publica populi Romani Quiritium ad quinquennium proximum, sicut velim <vov>eamque, salva servata erit hisce duellis, quod duellum populo Romano cum Carthaginiensi est quaeque duella cum Gallis sunt qui cis Alpes sunt, tum donum duit populus Romanus Quiritium quod ver attulerit ex suillo ovillo caprino bovillo grege quaeque profana erunt Iovi fieri, ex qua die senatus populusque iusserit. Qui faciet, quando volet quaque lege volet facito; quo modo faxit probe factum esto. Si id moritur quod fieri oportebit, profanum esto, neque scelus esto. Si quis rumpet occidetve insciens, ne fraus esto. Si quis clepsit, ne populo scelus esto neve cui cleptum erit. Si atro die faxit insciens, probe factum esto. Si nocte sive luce, si servus sive liber faxit, probe factum esto. Si antidea senatus populusque iusserit fieri ac faxitur, eo populus solutus liber esto".
Il magistrato chiese al popolo se, in cambio della salvezza della respublica dalla guerra con Cartaginesi e Galli, avrebbe offerto a Giove ogni animale nato in primavera, ciascuno quando e come volesse; nessuna condizione di legge si sarebbe posta perché tutte le soluzioni sarebbero state lecite: dal furto alla rottura accidentale, di giorno o di notte, ad opera di libero o servo, comunque avesse fatto sarebbe stato fatto bene.
Elementi comuni con la sacertà li possiamo ritrovare innanzitutto nell’idea che gli uomini (e gli animali) coinvolti siano consacrati a un Dio; che l’uccisione non sia la regola, non risponda cioè a valori e interessi sociali, ma la consacrazione e l’allontanamento bastino a riportare la prosperità nella società; che chi sia allontanato non sia nessuno per la società e non ne goda quindi la protezione; che conseguentemente il bandito vivrà in modo a dir poco avventuroso, senza che questo susciti però alcun interesse eventualmente punitivo nella società[96].
Chi non ha potuto o voluto adattarsi alle regole di convivenza della comunità mette a rischio le regole prima che la comunità, e viene quindi escluso dalla protezione che le regole accordano, ma rappresenta un pericolo per il legame civico più che per i cittadini, per cui, seppure proscritto, viene lasciato in vita, e anzi la proscrizione è vista come un’estrema opportunità di una vita migliore, le cui regole e le cui sorti sono tutte da determinare. Non è un caso se probabilmente lo stesso Romolo[97], quasi certamente Servio Tullio e ancora Publicola, abbiano fondato, o riformato, l’ordinamento a partire da una posizione di estraneità ad esso, come si vede spesso nell’iconografia delle tombe etrusche sulla vicenda di Mastarna[98], e come dimostra l’epigrafe di Satricum in relazione a Valerio Publicola[99].
Gli uomini che diedero le leggi a Roma provenivano da un’esperienza di vita sacra senza leggi, da un caos da cui seppero trarre il cosmo dell’ordinamento[100]. In questi aspetti di bando, di privazione di tutele sociali, di sfida, di attrazione-repulsione, la sacertà ha caratteri simili all’iniziazione, che caratterizza appunto l’ingresso del cittadino nella società, e che in quanto ingresso sottintende la provenienza da una zona ad essa estranea, ma implica necessariamente anche la possibilità di uscita.
L’eroe che si afferma dal nulla, colui che forgia ed esercita la sua forza spesso ai margini se non al di fuori della società, ed è guardato con timore e soggezione, è spesso paragonato al lupo[101], l’animale nemico dell’uomo per antonomasia, in una società nomade e pastorale quale quella indoeuropea delle origini[102]; se pure vive in branco, non per questo è più ‘civile’. Ciò che crea ripulsa è magari ciò che inconfessabilmente attrae, il lato oscuro di una società che con la luce dei suoi valori lascia in ombra ampie zone della vita; la violazione delle regole fino ad allora tradizionali è spesso preludio alla fondazione di una società nuova, basata su regole nuove: è l’addomesticamento del lupo, che popola l’immaginario di favole, miti e racconti agiografici.
Lungi dall’avere definitivamente né adeguatamente chiarito la complessità di una sanzione applicabile ad una disparata varietà di comportamenti, l’ipotizzato legame con la sovranità, intimo e congenito, indica piuttosto una direzione di ricerca in cui collocare gli studi sulla sacertà. Essa rimanda ad una fase, necessariamente originaria, in cui si andavano definendo i rapporti, giuridici, del singolo col gruppo, o chi lo rappresentava: i reciproci obblighi di obbedienza e protezione erano condizionati al rispetto di alcuni principi fondamentali che oggi diremmo costituzionali, ma che allora erano avvertiti come norme di comportamento nello svolgimento della propria funzione sociale, nel senso di societaria, del pactum societatis; per cui ciascuno rispondeva di fronte all’altro del proprio ruolo, attento a non commetterne abusi. Potrebbe in effetti sembrare poco primitivo e troppo raffinato un simile ragionamento, ma di fronte alla necessità di definire i propri diritti e doveri sinallagmatici, i contraenti si saranno certo posti, magari in termini suscettibili di ulteriore definizione, il problema di quali comportamenti configurassero un mancato rispetto delle obbligazioni reciproche, e di come sanzionarli di conseguenza. Ogni padre di famiglia si vedeva garantita un’autorità di cui non doveva abusare, come pure ogni espressione dell’autorità doveva tener fede ai propri impegni; in mancanza il patto si annullava e il responsabile era spogliato delle proprie prerogative e rispedito nel limbo della ‘nuda vita’ dove appunto si trovava prima di contrarre l’associazione. Questo reset delle proprie attribuzioni si rivelò sempre più afflittivo col progressivo consolidarsi dei vincoli sociali e l’approfondirsi dei contenuti pattizi, e forse per questo la sacertà restrinse vieppiù la propria applicazione fino quasi a cadere in desuetudine, per la concorrenza di sanzioni maggiormente deterrenti, riservandosi il ruolo, più politico che giuridico, di prevenzione e repressione degli attentati eversivi all’ordine costituito; ma in una fase arcaica esso poteva talvolta costituire persino un’opportunità per chi si trovava nella condizione di dover ripercorrere le tappe della propria socializzazione, stante che la sacertà era la sottrazione della sovranità, la sua assenza. Proprio nel togliersi essa poteva anche prendersi, chi veniva svestito di questa in altri contesti poteva rivestirsene: in questo senso può essere significativo parlare di sacertà come ‘spogliatoio’ della sovranità.
The sacredness turns out to be one of the oldest sanctions
that the civitas imposed to its members: it consisted precisely in the
exclusion of the offender from the protection that the society guaranteed to
the associates and in the consequent possibility of impune occidi. The
common element in the involved crimes, although extremely different from each
other, appears to be the abuse committed by the guilty on the right that
society recognized him; therefore its divestment from rights and its reduction
to the status of mere biological existence appears to be the right
tradeoff. But, especially in an original context, the dispossession can be
accompanied by a new dressing, if the homo sacer, perhaps accompanied by
faithful sodales, shows himself capable of re-founding his community, as
in the semi-legendary examples of Romulus, Servius Tullius, Publicola.
La sacertà si rivela essere una della più antiche sanzioni che la civitas comminava ai suoi membri: essa consisteva appunto nell’esclusione del reo di alcuni delitti dalla protezione che la comunità garantiva ai consociati e nella conseguente possibilità di impune occidi. L’elemento comune a tali delitti, pur estremamente diversi tra loro, appare essere l’abuso compiuto dal colpevole del diritto che la società gli riconosceva; pertanto la sua spoliazione dai diritti e la sua riduzione alla condizione di mera esistenza biologica appare il giusto contrappasso. Ma, soprattutto in un contesto originario, la spoliazione si può accompagnare ad una nuova vestizione, se l’homo sacer, magari accompagnato da fedeli sodales, si mostra in grado di ri-fondare la sua comunità, come nei semi-leggendari esempi di Romolo, Servio Tullio, Publicola, o nei molti e più o meno famosi casi che la letteratura e l’antropologia ci hanno consegnato.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] Il termine
si può considerare acquisito al lessico della moderna dottrina, per quanto non
sia di ascendenza latina (B. Albanese, Sacer
esto, in BIDR XCI, 1988, 145 ss.): sacer si ricollegherebbe
all’indoeuropeo jag (É. Benveniste,
Il vocabolario, cit., 439), che indicherebbe il legame
religioso, o sag (H. Ernout/A. Meillet, Dictionnaire
étymologique de la langue latine,
Paris 1967, 587), che rimanderebbe all’uso di formule
rituali. Ma l’etimologia ci aiuta poco, perché apparenterebbe il latino sacer
al greco ἄγιος, laddove il suo
equivalente sarebbe ἱερός, mentre il primo equivarrebbe piuttosto a sanctus.
D’altronde simili slittamenti lessicali non sono rari in lingue pur imparentate
tra loro; quello che maggiormente viene in soccorso è l’affinità antropologica
degli istituti comuni a molti popoli indoeuropei. Se si paragona la sacertà a Friedlosigkeit
germanica e ἀτιμία greca (R. von. Jhering, Geist
des römischen Rechts, auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung. Leipzig 1891,
281), le due ultime presentano entrambe caratteri più laici rispetto alla
prima, come dimostra la terminologia non specificamente religiosa a cui Greci e
Germanici ricorsero per indicarle. Si tratta comunque per tutte e tre le forme
di una esclusione dal cosmo della città, che consegue a specifiche colpe.
[2] «La
sacertà, lungi dall’interessare soltanto gli studiosi della fenomenologia
giuridica nel contesto della risalente società romana, attrae l’attenzione
degli specialisti di non poche altre branche del sapere scientifico, che vi
scorgono una sorta di prisma in grado di ridare luce ad aspetti di
un’antichità, anche molto remota, che toccano, oltre al diritto, la religione,
la politica, l’economia e l’antropologia» (L.
Garofalo, Studi sulla sacertà,
Padova 2005, 2).
[3] Se anche
prendiamo per brocardo giuridico l’aforisma deorum iniuriae dis curae
(Tac. Ann. I 73.4), non credo significhi che «non è compito del diritto
umano occuparsi di ciò che riguarda gli dei, specie irrogando sanzioni di
diritto umano, così da considerarlo ancora appartenente al consorzio dei cives,
a un soggetto che invece appartiene alla sfera divina in seguito a quella che
nel diritto sacrale doveva essere considerata appunto una sorta di noxae
deditio agli dei» (F. Zuccotti,
Altre congetture sulla struttura arcaica
della sacertà, in Rivista di Diritto Romano XIX-XX, 2019-2020, 64
< https://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano-19-Zuccotti-Vivagni-XIX.pdf
>); non il divieto per gli uomini di occuparsi
delle cose degli dei, ma la fiducia che essi stessi se ne sarebbero occupati. L’intero
diritto romano fu anzi una costruzione volta a conservare la pax deorum,
perché anche l’omicidio e il furto ne configuravano una violazione, pur senza
essere sanzionati con la sacertà. Semmai, “trattandosi di statuizioni e di
istituti che nelle loro scaturigini si collocano in un’età protocittadina se
non addirittura precivica” (F. Zuccotti,
Altre congetture, cit., 11), quando
appunto è difficile ipotizzare uno ius sacrum come autonoma branca del
diritto, una simile noxae deditio si rendeva necessaria per la
difficoltà di individuare un beneficiario di una noxae datio umana.
L’idea della sacertà come norma di chiusura insomma, che abbraccia fattispecie
altrimenti devianti, è coerente con la prassi giuridiziaria di considerare sacer
il colpevole di un’azione per la quale la giurisprudenza non forniva
precedenti, ma che al giudice appariva comunque in grado di turbare la pax
deorum (F. Zuccotti, Altre congetture, cit., 60); e ciò ne
motiverebbe ad un tempo marginalità e disorganicità.
[4]
«L’aggettivo sacer, in altre parole, definisce una realtà che sfugge ad
ogni comparazione. Se sanctus individua, per così dire, il confine della
disponibilità umana, perché definisce quel carattere del sacrum (e
del religiosum) che vieta l’agire umano, con sacer si prescinde
totalmente dall’umano: l’atto del sancire realizza una delimitazione;
quello del sacrare indica piuttosto un’eiezione (dalla realtà umana)»
(R. Fiori, Homo sacer.
Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa,
Napoli 1996, 67).
[5] H. Ernout/ A. Meillet, Dictionnaire,
cit., 586.
[6] J.L. Strachan-Davidson, Problems of the Roman Criminal Law, Oxford
1912, 9.
[7] W. Rein, Das Criminalrecht der Römer von Romulus bis auf
Justinianus, Leipzig 1844,
30.
[8] Sacro
sarebbe istituito per decisione pubblica, mentre religioso per volontà privata,
santo infine sarebbe semplicemente assistito da una sanzione (umana). La
questione sarebbe comunque più complessa, perché è la dedicatio che crea
religio, cioè lo scrupolo superstizioso che trattiene, non la consecratio,
che non sempre si accompagna a dedicatio (R. Fiori, Homo sacer, cit., 54), e questo spiegherebbe come mai
dalle cose sacre non ci si debba necessariamente astenere. In realtà da subito
si è ipotizzata un’interpolazione del passo gaiano, con un’aggiunta delle res
sanctae non presenti nell’iniziale bipartizione sacrae/ religiosae,
ed oltretutto definite ed esemplificate in maniera piuttosto approssimativa (E. Tassi Scandone, Quodammodo
divini iuris. Per una storia giuridica delle res sanctae, Collana
dell’Università di Roma La Sapienza – Dipartimento di Scienze Giuridiche,
87, Napoli 2013, 15 ss.); per quanto l’approssimazione possa dirsi contrassegno
dell’opera di Gaio. Che però la sanctitas delle mura derivi dal rito di
fondazione, e pertanto non riguardi anche le porte, in prossimità delle quali
il solco rituale si interrompe (E. Tassi
Scandone, Quodammodo, cit.,
109 ss.), o che addirittura «la protezione accordata dalla divinità
attribuirebbe alle res sanctae la stessa tutela delle res sacrae,
pur essendo a uso profano e non votate al culto. Sanctus, appunto, come
contrazione di sacrosanctus» (L.
Sandirocco, recensione a E. Tassi
Scandone, Quodammodo divini iuris. Per una storia giuridica delle
res sanctae, in Iura & Legal Systems II, 2015, 37), mi pare
confondere i piani: sanctus vuole letteralmente dire ‘sanzionabile’, e
solo quando la sanzione è la sacertà esso vale sacrosanctus, come
vedremo nel caso delle mura ma anche dei tribuni della plebe, sacrosancti
ma non certo sacri; le due qualifiche non sono affatto sinonimiche e
vengono anche linguisticamente tenute distinte, col primo elemento che è
modificatore in ablativo e non attributo coreferenziale del secondo. D’altronde
«altri giuristi romani […] citano le res sanctae accanto alle res
sacrae e alle res religiosae, senza però ricomprenderle
esplicitamente nella categoria delle res divini iuris. […] La
specificità delle res sanctae sembra concretizzarsi piuttosto sotto il
profilo della protezione giuridica ad esse accordata”; per questo in esse
rientrano, oltre alle mura e per analogia con essa i valla, templa,
fana, delubra, ma anche Curia e domus» (F. Sini, Sanctitas: cose, Dei, uomini. Premesse per una
ricerca sulla santità nel diritto romano, in Diritto @ Storia 1,
2002 < http://www.dirittoestoria.it/lavori/Contributi/Sini%20Sanctitas.htm
>).
[9] L’opposta
connotazione onorifica o disdicevole per le cose o le persone sta nel fatto che
le cose esistono per essere fatte oggetto di proprietà, e certo la proprietà
divina è preferibile a quella umana; viceversa per l’uomo divenire oggetto di
proprietà è disonorevole, anche se il padrone è un dio.
[10] Non mi
spingerei a dire che la sacertà istituisce tra l’uomo e la divinità cui
appartiene “un rapporto di sudditanza che non sfugge affatto alla dimensione
del giuridico” e che “chi è legittimamente padrone della vita dell’homo
sacer può assumere in ogni momento la decisione che essa va troncata”,
perché “ad attuarla provvederà la mano di un qualche uomo” (L. Garofalo, Studi, cit., 143 s.);
ma l’ispirazione divina, se poteva avere una qualche rilevanza a legittimare le
azioni di cariche pubbliche, attraverso le ben normate procedure degli auspici,
allora come ora era giuridicamente inconferente alla legittimità dell’uccisione
dell’homo sacer.
[11] Non
condivido l’idea di una “totale inclusione dell’homo sacer nella sfera
del diritto, che dettagliatamente si occupa di questa figura, non lasciando
privo di regolamentazione alcuno dei suoi aspetti” (L. Garofalo, Studi,
cit., 127). L’inclusione nel diritto risponde ad un interesse: quale interesse
può presentare l’homo sacer, se persino la sua sopravvivenza è
indifferente alla comunità? In fondo nemmeno la sua esclusione era interessante
per la comunità, se non viene esplicitamente prevista nelle forme ‘giuridiche’
della soppressione o dell’allontanamento.
[12]
D’altronde, se vale il paragone con la Friedlosigkeit che si pone come
sanzione del Bund che cerca di imporsi e sostituirsi ai legami di Sippe
(M. Lupoi, Alle radici del
mondo giuridico europeo, Roma 1994, 360 ss.) si può pensare alla
sacertà come sanzione civile per quelle infrazioni che non avrebbero avuto
sanzione gentilizia, o perché compiuti da chi ne deteneva la giurisdizione o
perché compiuti da chi non vi era soggetto: «si tratta di doveri cui non
corrisponde una potestà punitiva riconosciuta dal ius: il cliens
non ha alcun potere sul patronus; il patronus (se non è pater)
non ha potestà sul puer o sulla nurus; l’uxor in manu non
ha alcun potere nei confronti del titolare della manus. E identica
inesistenza di potere si ha nel caso dei tribuni plebis, titolari di
situazioni non riconosciute giuridicamente, in origine» (B. Albanese, Sacer esto, cit.,
178).
[13] «La
volontà del senatus e del populus romani sono parti di un
complesso religioso-giuridico che supera i confini della civitas e al
cui svolgimento esse contribuiscono fortemente […]. La posizione di Iuppiter
come divinità […] (con l’augustum augurium) sta al vertice dell’ordinamento
cittadino e insieme come divinità centrale della lega latina e divinità comune
agli Italici: […] ‘esistenza inter-etnica’, che nell’ordinamento della civitas
romana si esprime nella considerazione come Dio vigilante sui trattati» (P.
Catalano, Cic. de Off. 3.108 e il così detto diritto internazionale
antico, in A. Guarino/ L. Labruna [eds.], Synteleia: Vincenzo
Arangio-Ruiz, Napoli 1964, 380).
[14] Rispetto
alle fattispecie già esaustivamente individuate (R. Fiori, Homo sacer, cit., 179 ss.), escludo comunque dal
novero di questi crimini quello di ‘offese alla pudicizia’: il caso,
estremamente controverso, è quello di Appio Claudio e Virginia (Liv. III 48ss).
È vero che il padre nell’uccidere la figlia pronuncia proprio il termine ‘consecro’
contro il Decemviro, ma potrebbe semplicemente trattarsi di una generica
maledizione. E se pure Appio si uccide, in vista di un esito sfavorevole del
processo in cui era stato coinvolto, l’accusa per lui avrebbe ben potuto limitarsi
a quella di adfectatio regni. Forse l’etichetta di offesa alla pudicizia
potrebbe essere equivalente all’accusa di stuprum che la civitas
comunque reprimeva, ma non dimentichiamo che per i delitti d’onore, ancora fino
al Codice Rocco e ben oltre nei primi anni della nostra repubblica, gli
ordinamenti hanno in larga misura delegato ai familiari la potestà punitiva. In
ogni caso resta incomprensibile la mancata uccisione di Appio da parte del
padre, che pur preme intensamente per una sua condanna, inutile, come vedremo,
per i colpevoli di sacertà; come pure inspiegabile è il risentimento delle
masse, che comunque non muovono un dito contro di lui, e avrebbero potuto farlo
impunemente se fosse stato sacer. Piuttosto da problematizzare è
l’omicidio di Virginia, data in schiava da Appio al suo cliente, ad opera del
padre: per giustificare la propria azione (B.
Kowalewski, Frauengestalten im
Geschichtswerk des T. Livius, München
– Leipzig 2002, 162 ss.), «here he describes what he is doing as an assertion
of liberty […]. Vindico means to protect in a legalistic sense: by destroying
his daughter’s life he is paradoxically protecting the only things she
possesses that really matter – her freedom and her pudicitia». (R. Langlands, Sexual Morality in
Ancient Rome, Cambridge
2006, 105). Virginia è sì una vittima, ma di un crimine che la città riconosce
e punisce secondo il suo diritto, come dimostra il processo instaurato; e non
escludendo dalla condivisione del diritto chi del crimine s’è reso colpevole,
come sarebbe per la sacertà.
Allo
stesso modo mi pare da escludere sacertà nel precetto dell’addictio: Tertiis
nundinis partis secanto. Si plus minusve secuerunt, se fraude esto (XII
Tab. 3). Si è voluta individuare la ragione del disumano trattamento riservato
al debitore nel fatto che egli ha infranto la fides e quindi perde il caput,
il suo posto tra i consociati. Ma anche a prescindere dalla considerazione che
qualsiasi crimine, in quanto maleficium, è perpetrato in mala fede,
resta poco compatibile la condizione del debitore con la sacertà, stante il
divieto di appropriazione di cui le res sacrae, al pari di tutte le res
divini iuris, sono fatte oggetto: si può pensare, forzando la testimonianza
di Macrobio (Sat. III 7.3-8), v. infra, che unicamente, e non principalmente,
solo l’anima fosse sacra agli dei, e non il corpo, eppure i beni sarebbero
stati consacrati anch’essi. Poco interessante risulta allora discutere se
l’apprensione dei creditori e la conseguente divisione si intendesse solo sul
patrimonio del debitore o anche sulle sue stesse membra, come invece a lungo
hanno fatto anche gli antichi. In ogni caso la ratio della legge sarebbe
piuttosto quella di escludere la fraus da una divisione non
proporzionale, che non rispetta la maiestas, ossia il diritto di chi più
merita ad avere di più. Ancora una volta sarebbe quindi un problema di
misurazione, ma in questo caso la legge interviene per scongiurare e non per
imporre la sacertà, se l’iniqua divisione non è riconducibile a un
comportamento fraudolento, nel qual caso invece si sarebbe ravvisato un abuso
del creditore. Se anche si trattasse di una forma di sacertà in questa norma,
non sarebbe nei confronti del debitore, ma dei creditori: «le XII Tavole
stabiliscono con ogni probabilità un principio nuovo rispetto ad un regime
precedente che intravedeva una fraus nella spartizione sproporzionata
delle membra del debitore fra i creditori: non si vedrebbe altrimenti la
necessità – in un ‘codice’ tendenzialmente non esaustivo come è quello
decemvirale – di esonerare esplicitamente i creditori da ogni responsabilità»
(R. Fiori, Homo sacer, cit., 255). Altri hanno
proposto di intendere le partes come i membri della familia del
debitore (G. Conte, La norma decemvirale ‘partis secanto’: una nuova ipotesi di studio, in Quaderni Lupiensi V, 2015, 35 ss.). Più recentemente si
è pensato di individuare nel precetto non il consenso a «una manus iniectio attuata
contemporaneamente da più creditori nei confronti del debitore insolvente […] che
sarebbe insensata se riferita al corpo del debitore morto, o iniqua se riferita
al patrimonio del debitore vivo», ma una, ulteriore, regolamentazione del
taglione «che impedirebbe una serie di taglioni potenzialmente infinita – la reciprocatio
talionum paventata da Favorino (Gellio 20.1.18)» (J. Caimi, Partes secanto nelle XII
Tavole?, in G. Barberis/ I. Lavanda/
G. Rampa/ B. Soru [eds], La politica economica tra mercati e regole.
Scritti in ricordo di Luciano Stella,
Soveria Mannelli 2005, 130).
[15] In
primo luogo obbligò gli abitanti ad allevare tutta la prole maschile e le
primogenite femmine; a non uccidere nessuno dei nati prima dei tre anni, a meno
che non fosse nato un figlio mostruoso o deforme dalla nascita. Non fu impedito
di esporre il neonato dopo averlo mostrato a cinque vicini uomini, se essi
avessero acconsentito. Ma per chi non ubbidiva al precetto fissò tra le altre
pene, la proscrizione di metà degli averi
[16] Vero è
che manca ogni riferimento lessicale alla sacertà, e che pertanto la pena si
poteva qualificare scelus expiabile, in quanto per essa il colpevole
rispondeva solo col suo patrimonio, a differenza dello scelus inexpiabile per
cui rispondeva anche con la sua persona (B.
Santalucia,
Diritto e processo penale
nell’antica Roma, Milano 1998,
6 s.); ma il riconoscimento di
presumibili fini cultuali dell’offerta, unitamente all’assenza di un esplicito beneficiario,
stante il rilievo che l’iniziativa privata aveva nell’azione penale, autorizza
a ipotizzare una consacrazione piuttosto che un risarcimento. Per questo non
parlerei di due settori distinti che vengono disciplinati legislativamente, uno
del “diritto di famiglia” e uno del “diritto sacro” (G. di Trolio, Le leges
regiae in Dionigi
d’Alicarnasso, Napoli 2019, 71), perché questa norma
non tutelava il diritto degli infanti a crescere, ma quello della città.
[17] «La testimonianza
di Dionigi esprime tuttavia, riferita alle origini stesse della città, un
momento significativo della tendenza a restringere l’autonomia dei gruppi
familiari. E del resto il controllo degli sviluppi demografici della
popolazione non poteva non interessare direttamente e immediatamente lo stato
cittadino, anzitutto per ragioni militari» (L.
Capogrossi Colognesi, Tollere
liberos, in MEFRA CII,
1990, 113).
[18] Non mi pare
«evidente come nel brano l’autore non faccia menzione alcuna del caso di
ubriachezza» (G. di Trolio, Le leges
regiae, cit.,
115), perché non saprei a quale κλειδῶν ὑποβολῇ faccia riferimento se non a quella delle claves cellae vinariae di cui ci parla in seguito Plinio.
[19] Emanò
anche alcune leggi, la cui previsione era di non concedere alla moglie di
abbandonare il marito, mentre la donna poteva essere ripudiata per
avvelenamento dei figli, sottrazione delle chiavi o adulterio. Se altro era il
motivo del ripudio, ordinò che metà dei suoi averi andasse alla moglie, l’altra
metà al tempio di Demetra; e che chi vendeva la moglie fosse sacrificato agli
dei infernali.
[20] C. Fayer, La familia romana:
aspetti giuridici ed antiquari. III Concubinato, divorzio, adulterio, Roma
2005, 74.
[21].Di
ciò erano giudici i parenti col marito: vi trovava spazio l’adulterio e, cosa che
ai Greci potrebbe sembrare la più lieve tra le colpe, se una donna fosse
scoperta a bere vino. Entrambe queste colpe Romolo spinse a punirle con la
morte, come le peggiori tra le colpe muliebri, ritenendo l’adulterio principio
della perdizione, l’ubriachezza dell’adulterio.
[22] Altri
hanno ipotizzato che l’ascrizione a Romolo e non a Numa sarebbe influenzata
dalla propaganda connessa alla ‘rifondazione’ morale di Roma per mezzo delle
leggi matrimoniali augustee (P. Giunti,
Adulterio e leggi regie, Milano 1990, 33 s.).
[23] La
motivazione di Dionigi non deve essere parsa convincente, se sono fiorite
ipotesi sulla ratio del divieto, che vanno dalle supposte proprietà
anticoncezionali ed abortive del vino (E. Nardi,
Le ‘farmaciste’ di Romolo, in Ricerche
storiche ed economiche in memoria di C. Barbagallo, I, Napoli
1970, 379), al “principio di vita” alieno e contaminante in esso contenuto
(E. Cantarella, L’ambiguo
malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana,
Milano, 1990, 139 s.), alla sua efficacia divinatoria (G. Piccaluga, “Bona dea”, in Studi
e materiali di Storia delle Religioni, Roma 1964, 212); ma ricordo che nel
XXI secolo ancora nessuno ha fornito una ratio del divieto di bere
alcolici per gli islamici.
[24] Secondo
Valerio Massimo (VI 3.9) fusti percussa interemit (E. Cantarella, I supplizi capitali.
Origine e funzioni delle pene di morte in Grecia e a Roma, Milano 2011, 153
ss.).
[25] G. di Trolio, Le leges
regiae, cit.,
116.
[26] «Ces soi-disant cas de divorce étaient à l’origine des
défenses religieuses dont la transgression par la femme constituait une faute souillant
la famille, nécessitant le renvoi de la femme et une expiation, un piaculum.
Nous avons affaire à des tabous» (P. Noailles,
Les tabous du mariage dans le droit
primitif des Romains, in P.
Noailles/ G. le Bras [eds.] Fas et jus: études de droit romain (Collection
d’études anciennes), Paris 1948, 4).
[27] Figli e
schiavi, ma probabilmente anche mogli in manu, per l’iperonimia del
genere maschile sul femminile.
[28] In questo
modo la punizione uscirebbe dall’ambito autoritativo paterno per coinvolgere
l’intera città, ma la sacertà non legittima ad agire penalmente, bensì scrimina
l’intervento di qualsivoglia consociato.
[29] Anche se
non mi spingerei a dire che la ploratio costituisca un “rito di
passaggio”, contrario al tollere liberum in quanto misconoscimento della
paternità ed espulsione dalla sfera della propria potestas da parte del
padre colpito (A. Ramon, Verberatio
parentis e ploratio, in L.
Garofalo [ed.], Sacertà e repressione criminale in Roma antica,
Napoli 2013, 187); bensì “la endoploratio risulterebbe positivamente
rientrare in quelle richieste di aiuto e di soccorso, ove l’accorrere dei
vicini è sanzionato come doveroso dalle consuetudini sociali […]: agli effetti
della sacertà del puer o della nurus vengono presi in
considerazione soltanto quegli episodi di ribellione che, costringendo
l’aggredito a chiedere aiuto a persone esterne alla familia, fanno sì
che l’episodio esca dalla privatezza della casa per acquisire un carattere
pubblico” (F. Zuccotti, Altre congetture, cit., 9 s.).
[30] Secondo
alcuni il motivo per cui Romolo non avesse proceduto a fissare con un’apposita
sanzione i confini di Roma risiederebbe nella modesta entità della loro
estensione, che sarebbe invece accresciuta sotto il primo e il secondo re (G. Piccaluga, Terminus. I segni di
confine della religione romana, Roma 1974, 117).
[31] I Romani
la chiamano Terminalia, dai ‘termini’ e il confine stesso lo chiamano termen
cambiando una sola lettera dalla nostra lingua. Se qualcuno nascondesse o
spostasse il segno di confine, stabilì che fosse sacer alla divinità chi
se ne fosse reso colpevole, perché chi volesse ucciderlo come sacer
avesse l’impunità e la purificazione dalla contaminazione.
[32] «La sacrosanctitas
delle mura imponeva che, qualora esse fossero demolite o danneggiate, anche
solo per ampliarle, si procedesse a particolari riti di espiazione. E se si
dava luogo a sacrifici umani ancora qualche decennio dopo la fondazione di Roma
e per semplici lavori di ampliamento, a maggior ragione si può pensare che si
sia ricorso ad essi in occasione della prima edificazione […]. Così,
l’invenzione del fratricidio potrebbe essere stata fatta per coprire questa
abominevole pratica» (M. Drago, Storia
della civiltà romana, Milano 2002, 15). Ciò potrebbe essere compatibile con
la ritualità seguita da Romolo nella fondazione, mentre poco condivisibile mi
pare l’idea che l’omicidio di Remo sia punizione inflitta dall’autorità
centrale (E. Tassi Scandone,
Quodammodo, cit., 130 ss.): se anche
non si tratta di ipotesi di sacertà, su cui appunto le fonti non concordano, la
centralizzazione dell’autorità ‘civica’ del re nel racconto liviano si ha solo
successivamente con la convocazione del popolo in comizio e la comunicazione
degli iura; Romolo avrebbe invece agito da privato impunito, come
chiunque uccida l’uomo sacer, ma meglio escludere la sacertà in favore
del sacrificio che ipotizzare un intervento punitivo dell’autorità in essa.
[33]
Minoritaria, ma non peregrina, l’idea che la sacertà dei buoi sia da intendere
come sacertà patrimoniale (S. Tondo,
Profilo di storia costituzionale romana, I, Milano 1981, 288).
[34] «È
evidente come il νόμος in esame
riguardi la disciplina dei rapporti privati tra cittadini, i quali, attraverso le
determinazioni di precisi limiti proprietari, venivano rassicurati sul rispetto
che a questi doveva essere portato ed indotti, a loro volta, a riservare a
quelli altrui» (G. di Trolio, Le leges
regiae, cit.,
186). Ma la legislazione
riguardava anche le terre pubbliche, come si desume dal contesto
della narrazione dionisiana: il cippo del foro riporta una condanna a sacertà
per chi lo rimuove: quoi hon... sacros esed (CIL I 1). Per cui, anche se
la fattispecie è certo diversa, perché Remo scavalca una delimitazione pubblica
ludibrio, ossia con intenti ‘metatrasgressivi’, cioè di contestazione
della legittimità della delimitazione, non è inverosimile pensare alla medesima
sanzione.
[35] Poco
rilevante ai fini della punibilità del trasgressore è appurare se essa potesse
giovarsi del supporto di una sorta di ‘catasto pompiliano’ di cui Numa avesse
avviato la compilazione (E. Peruzzi,
Le origini di Roma, II, Bologna 1970, 152 s.); o se essa dovesse
avvalersi di altri strumenti, essendo quelli catastali non databili a prima del
II sec a.C. (F. della Corte, Numa e le streghe, in Maia, XXV, 1974, 16 ss.).
[36] L. Capogrossi Colognesi, s.v.
“Proprietà”, in ED, XXXVII,
1988, 207.
[37] Nella
cultura romana la Fides è una dea, o una prerogativa del padre degli
dei, che quando se ne avvale assume la denominazione di Iuppiter Fidius:
«beider Tempel dienten als Aufbewahrungsorte von völkerrechtlichen Verträgen»
(D. Nörr, Fides Punica – fides Romana.
Bemerkungen zur demosia pistis
in ersten karthagisch-römischen Vertrag und zur Rechtsstellung des Fremden in
der Antike, in L. Garofalo
[ed.], Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica
e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto
Burdese, Padova 2003, 497). Anche il diritto internazionale, al pari di
tutte le altre branche del diritto, la cui funzione era innanzitutto quella di
assicurare alla comunità la pax deorum, è posto sotto la sorveglianza
degli dei, Giove in particolare, come dimostra la formula dell’indictio
belli (Livio I 32.10), per cui la Fides «venne ritenuta operante in
generale, anche indipendentemente dal giuramento e al di fuori dei trattati,
nella sfera dei rapporti fra Romani e stranieri, sia al livello dei populi,
che a quello dei privati. Nei trattati era in gioco la fides publica.
[…] E, nel primo trattato tra Roma e Cartagine si richiamava la publica
fides (δημοσία πίστις) relativamente ad atti di
commercio tra cittadini romani e loro alleati, da una parte, e cittadini
cartaginesi e loro alleati, dall’altra» (F. Gallo,
Bona fides e ius gentium, in L. Garofalo [ed.], Il ruolo della buona
fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del
Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese, Padova 2003).
Se infatti fides secondo Varrone poteva essere un sostituto linguistico
del foedus, non è assurdo argomentare che ne potesse essere anche
sostituto giuridico, per tutti quegli ambiti delle relazioni ‘internazionali’
che non ne fossero pattiziamente regolamentati. La sua pervasività ne fa un
‘principio generale del diritto romano’: “la fides, in altre parole, è
un criterio di normativizzazione di un settore non ‘coperto’ dalle già
esistenti regole giuridico-religiose ed opera attraverso il giuramento” (G. Turelli, ‘Audi Iuppiter’. Il Collegio dei Feziali nell’esperienza giuridica
romana, Milano 2011, 95),
non limitandosi ai rapporti tra popoli, di cui quello romano era parte e da cui
prende il nome lo ius gentium (G. Lombardi,
‘Sul concetto di ‘ius gentium’, Roma 1947, 41 ss.), ma
diventando operante a tutti i livelli delle relazioni giuridiche. Infatti «Der Begriff ‘ius gentium’ hat, wie wir
sahen, hauptsächlich zwei Anwendungsbereiche, die in unseren Quellen weit
auseinanderliegen: einen ‘völkerrechtlichen’ und einen
‘privatrechtlichen’» (M. Kaser, Ius gentium, Köln 1993, 10).
[38]
Discutibile se la sacertà sia applicabile ad ogni spergiuro: ci sarebbe allora
da chiedersi se la essa non derivi direttamente dallo spergiuro piuttosto che
da apposite previsioni normative. In effetti il testo del giuramento per lapidem
silicem (Festo 102 L) potrebbe far pensare ad un’analoga esclusione del reo
nell’interesse della città: “Si sciens fallo, tum me Dispiter salva urbe
arceque bonis eiciat, ut ego hunc lapidem” (A. Calore, “Per
Iovem lapidem” alle origini del giuramento. Sulla presenza del ‘sacro’
nell’esperienza giuridica romana, Milano 2000, 158). Ius iurandum e
sacramentum, pur se magari analoghi nei fini e negli effetti, e pur se
spesso perfettamente coincidenti e sovrapponibili, sono diversi nella sostanza.
Lo ius iurandum è il vincolo a cui vincolarsi, attraverso la
‘formula da formulare’, la procedura, il contenuto positivo che lega alla
controparte, mentre il sacramentum è l’impegno a subire individualmente
una conseguenza negativa, che si assume attraverso una exsecratio. Si
potrebbe cioè avere, ma solo se il testo del giuramento lo prevede, una sacratio
condizionata al periurium: sarebbe questo allora, cioè il venir meno
all’impegno, che comporterebbe un’automatica consecratio.
[39] A. Calore,
Fome giuridiche del ‘Bellum Iustum’, Milano 2003, 170.
[40] Anche
Dionigi di Alicarnasso riporta il testo della dichiarazione di guerra dei
Romani (II 72.7), estendendo significativamente la maledizione per lo spergiuro
all’intero popolo romano (B. Albanese,
‘Res repetere’ e ‘bellum indicere’ nel rito feziale
(Liv. I 32, 5-14), in AUPA XLVI,
2000, 26).
[41] Il
famoso episodio di Attilio Regolo, leale fino all'autolesionismo, acquisisce coerenza
giuridica in questa lettura (Flor. Epit. I 18; Cass. Dio fr. 43, 27
Boissevain; Zonar. 8, 15; D. 49, 15, 5, 3), e allo stesso modo il caso di quei
prigionieri di Canne che invece si rifiutarono di riconsegnarsi ad Annibale
(Polyb. VI 58, 1; Cic. Off. III 113; Liv. XXII 61, 4; Gell. NA VI
18, 4 ss.).
[42] Livio
(III 55, 6-12) attesta un conflitto giurisprudenziale risolto in favore della
tesi che la sacrosanctitas fosse prerogativa dei soli tribuni in forza
del giuramento plebeo, e non anche degli altri magistrati alle cui offese la
successiva lex Valeria Horatia estese la sanzione di sacertà. F. Sini, Interpretazioni
giurisprudenziali in tema di inviolabilità tribunizia (A proposito di Liv.
3.55.6-12), in Ius Antiquum – Drevnee Pravo 1, Moskva 1996, 80 ss.;
ripubblicato in formato elettronico in Diritto @ Storia. Rivista
internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana II, 2003, < http://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Sini-Tribunato.htm >;
ID., Una sententia di iuris interpretes sul fondamento della inviolabilità dei tribuni
della plebe, in Diritto @
Storia VI, 2007, < http://www.dirittoestoria.it/6/Memorie/Tribunato_della_Plebe/Sini-Sententia-iuris-interpretes-inviolabilit-tribuni-plebis.htm >.
[43] «È la
separazione territoriale città patrizia e la minaccia di fondare una nuova e
separata comunità cittadina […]. Che il monte su cui i reduci dalla guerra
contro i Volsci e la moltitudine plebea proveniente dalla città si accampano
sia quello al di là dell’Aniene, come un’accurata indagine critica sulle nostre
fonti mi sembra suggerire, o l’Aventino, che la storia successiva colorirà di
eventi luminosi e illuminanti, poco conta» (F. Serrao, Secessione e giuramento
della plebe al Monte Sacro, in Diritto @ Storia VII, 2008 < http://www.dirittoestoria.it/7/Memorie/Serrao-Secessione-giuramento-plebe-Monte-Sacro.htm
>).
[44] «Siccome
la decisione avviene al di fuori dell’ordinamento dello stato patrizio, avviene
anzi con un atto rivoluzionario, la plebe stessa sente il bisogno di giurare le
sue decisioni sia per richiamarsi alla potenza divina, sia, principalmente, per
impegnare i suoi singoli componenti a difendere e ad imporre con la forza le
decisioni prese, sia, infine, per presentarsi più compatta di fronte al
patriziato» (F. Serrao, s.v.
“Lex”, in ED, XXIII, 1973, § 8).
[45] «Toute son action doit donc s’interpréter par rapport à
la certitude qu’elle avait de constituer la composante essentielle du populus
et à sa convinction que la survie de Rome passait par la reconnaissance de ses
droit. […] S’il arriva en quelques circonstances que ses membres ou du moins
une partie d’entre eux soient tentés de se dérober à leurs obligations
militaires, il est plus significatif encore que la communauté plébéienne n’ait
jamais cherché à se donner une armée» (J.-C.
Richard, Les origines de
la plèbe romaine. Essai sur
la formation du dualisme patricio-plébéien, Roma 1978, 596). Si può mettere in dubbio la compattezza
e soprattutto l’efficacia dell’azione plebea nel corso dei primi secoli della repubblica.
P. Zamorani, Plebe Genti
Esercito (una ipotesi sulla storia di Roma, 509- 339 a. C), Milano 1987,
125 ss.), ma quello che è importante sottolineare è che, a prescindere dalla
composizione e dal posizionamento dello schieramento (plebe compatta o
disertrice nei suoi più alti ranghi, plebe interna e secessionista o plebe
esterna ed emarginata), sono le rivendicazioni plebee, di condivisione, ad
essere quelle maggiormente coerenti con l’ideale della civitas.
[46] «Tali
deliberazioni costituirono momenti rilevanti della lotta plebea, furono il
frutto della sua creatività rivoluzionaria, la loro osservanza fu affidata alla
forza e, forse per la sacratio capitis o bonorum del
contravventore nelle più antiche previste o per il giuramento da cui le stesse
erano talvolta munite, furono dette leges sacratae. La loro sostanza
consistette nell’essere le leggi fondamentali, quasi la ‘carta costituzionale’
della plebe» (F. Serrao, Cicerone
e la lex publica, in F. Serrao
[ed.], Legge e società nella repubblica romana, Napoli 1981, 412).
[47] Non
entro nel merito di stabilire da dove provenga la sacertà del violatore, ma non
vedo la contraddizione tra “due tipi di lex sacrata” (P. Marottoli, Leges sacratae, Roma
1979, 89), collegate allo ius iurandum e alla execratio (R.
Santoro, Potere ed azione nell’antico diritto romano, in AUPA XXX, 1967, 487 ss.); la sacertà
infatti poteva derivare dalla violazione del giuramento con cui la plebe si era
vincolata, dal patto che i patrizi stringono coi plebei, da una precisa
previsione di execratio contenuta nel testo della legge. A ben guardare
addirittura tre sono le possibili scaturigini della sacertà, ma il risultato
sarà comunque unitario, e ben chiaro anche ai Romani di età classica: i
magistrati plebei sono sacrosanti.
[48]
Etimologicamente il termine cliente non deriverebbe da colere né da colonus
ma da cluere (cfr. greco κλύω), che significa ‘ascoltare’, ‘ubbidire’ (anche
oboedio conserva la radice di audio), ma pure ‘appartenere’
(anche gehören conserva la radice di hören), pur non essendo il cliens
servus ma liber, al pari dei liberi del pater-patronus (J.-C. Richard,
Les origines, cit., 159 ss.). «Il rapporto di clientela si concreta da parte del cliens
in doveri di obbedienza, di prestazioni di lavoro, di obsequium,
cioè in origine di seguito armato (obsequium da ob-sequi in senso
proprio), verso il patronoi» (P.
de Francisci, Primordia civitatis, Roma 1959,
185).
[49] La
ragione per cui lo ritengo esterno ai limiti superiori e non inferiori della civitas
è che anche tale legame va ricondotto all’ordinamento gentilizio, estraneo, e antagonista.
Si tenga comunque presente che si tratta di (ri)costruzione dottrinaria e che
la percezione di queste infrazioni in uno spazio non occupato dall’ordinamento
era per i Romani, probabilmente, unitaria.
[50] In comune
ad entrambi era il fatto che non fosse lecito né giusto accusarsi a vicenda nei
processi o testimoniare contro, o esprimere voto contrario o parteggiare coi
nemici. Se qualcuno fosse stato riconosciuto autore di uno di questi atti, era
accusato di tradimento in base alla legge che Romolo aveva promulgato, e
ciascuno poteva catturare e uccidere il colpevole come vittima a Zeus infero.
Infatti per la consuetudine romana, di quanti volevano che morissero
impunemente, si votava il corpo a chiunque tra gli dei, soprattutto inferi,
come fece anche Romolo.
[51] «Per la
prima volta compare, dunque, nell’opera dionisiana, il ricorso regio alla
legge», ma non direi che in II 11.2 «lo storico cario […] si avvale del termine
ἔθη per indicare
le disposizioni romulee in tema di patronato» riferendosi «alla qualificazione
giuridica che tali norme assunsero proprio successivamente alla loro
introduzione» (G. di Trolio, Le leges
regiae, cit.,
51 ss.);
difficile pensare che una lex divenga
mos: probabile che nei
consociati la consapevolezza della fonte si fosse persa in un indistinto
sentimento di doverosità, ma non nei prudentes,
se la notizia di queste leges regiae
è giunta fino a noi. piuttosto direi che è significativa l’antitesi τῷ νόμῳ / ἐν ἔθει nel passo
riportato: la clientela era un ἔθος, o meglio un insieme di ἔθη (lo stesso Dionigi in II 9.2 ce ne riporta uno che definisce ἑλληνικὸν καὶ ἀρχαῖον, di far scegliere al cliente il proprio patrono); come pure un ἔθος era la sacertà, già nota probabilmente alle gentes, come ad
altre popolazioni primitive. la legge romulea interviene ad escludere dalla
tutela civica chi si fosse reso colpevole di tradimento, anche laddove la
giustizia gentilizia non fosse intervenuta; anzi sarebbe stata proprio la sua
inaffidabilità, sbilanciata com’era a favore del patronus, a
determinare l’applicazione di una sanzione attinta dalla consuetudine
gentilizia e resa civica per legge.
[52] «Le
norme di Romolo e delle XII Tavole si pongono come espressioni di due distinte
fasi dello sviluppo storico di Roma. Nella prima fase, scopo della norma è il
mantenimento del vincolo tra patroni e clienti, fondamentale per la vita della
comunità gentilizia nella sua fase precivica e protourbana. Nella seconda, essa
rispecchia il clima teso di una società divisa per classi in lotta fra loro.
[…] Di qui le probabili pressioni per ottenere una norma a senso unico, che
garantisse i clienti e andasse a tutto danno dei patroni» (R. Fiori, Homo sacer, cit.,
227).
[53] Che
questa limitazione venisse posta dai Decemviri, indipendentemente dal giudizio
politico sul loro operato, è coerente con l’adesione che la plebe diede almeno inizialmente
a questa magistratura e con l’ipotesi che la clientela fosse uno dei principali
bacini di provenienza della plebe. Logico quindi che questa avesse tutto
l’interesse a indebolire un legame gentilizio che era alla radice del suo
confinamento in una condizione deteriore. Ma di queste dinamiche e
rivendicazioni, determinanti nella politica di V secolo, non aveva senso
parlare in età protomonarchica. «I clienti sono un gruppo di sottoposti
all’interno della gens, i plebei sono una classe sociale inferiore
all’interno della polis; è evidente che man mano i clienti passarono
nella plebe, in rapporto al progressivo cementarsi dell’unità del comune ed
alla disgregazione degli antichi gruppi gentilizi. Così due fenomeni,
inizialmente propri di organismi diversi per struttura e vastità, divennero un
fenomeno solo» (F. De Martino, Storia
della costituzione romana, I, 2a ed., Napoli 1972, 56 s.).
[54] «Del
resto il patrono offeso dal cliente sarà stato facultato a punirlo, anche
gravemente, in forza della sua potestà paradominicale, sicché, la sacertà
sarebbe stata fuori causa» (B. Albanese,
Sacer esto, cit., 149).
[55] Cfr. anche Plut. Popl. X.
[56] Promosse
leggi umanissime che portavano aiuto alla causa popolare: una in cui vietava
categoricamente che alcuno dei Romani divenisse magistrato, senza aver ricevuto
il potere dal popolo, prevedendo la pena di morte se qualcuno lo facesse, e
l’impunità per chi uccidesse il colpevole; un’altra in cui era scritto: ‘Se
qualche magistrato voglia uccidere o fustigare o punire negli averi un
Romano, sia consentito al privato di chiamare l’autorità a giudizio del popolo,
senza subire nulla nel frattempo da parte dell’autorità, finché il popolo non
si sia espresso sul suo caso’. Per questi istituti fu apprezzato dai popolari
che gli diedero il soprannome di ‘Publicola’ che in greco vuol dire
filopopolare.
[57] Se è
vero che la prima vittima di una simile accusa fu lo stesso Publicola (Plut. Popl.
X 3; Dion. Hal. V 19.2), ne appare chiara la strumentalità. La
personalizzazione dei rapporti di potere, «il circondarsi di sodales è
infatti per lo più interpretato come indice di tirannia – del singolo o dei
decemviri nei confronti del populus, dei patrizi nei confronti della
plebe» (R. Fiori, Sodales. ‘Gefolgschaften’
e diritto di associazione in Roma arcaica, in Societas – Ius.
Munuscula di allievi a F. Serrao, Napoli 1999, 125); ma al
contempo risponde ad «un’etica fortemente individualistica, legata alla fortuna
del capo, […] difficilmente conciliabile con l’ideologia collettivistica della
società gentilizia arcaica» (R. Fiori, Sodales, cit.,
123): rimane in sostanza ancora da appurare se il potere del singolo sia più in
antitesi con quello dei pochi o con quello dei molti.
[58] Anche in
questo caso si è voluto vedere un rinforzo successivo del giuramento che Bruto
e Collatino imposero ai Romani subito dopo la cacciata del Superbo (Liv. II
1.9; Dion. Hal. V 1.3), a motivo di una sfiducia nell’efficacia sanzionatoria
della sacertà conseguente a giuramento (F. Zuccotti,
‘Sacramentum civitatis’. Diritto costituzionale e ius sacrum
nell’arcaico ordinamento giuridico romano, Milano 2016, 35 ss.); ma
abbiamo già sottolineato che il giuramento eventualmente e non necessariamente
comporta sacertà, e d’altronde abbiamo pure avvertito che per un crimine
arcaico e per così dire ‘originario’ come questo è illusorio pretendere di
ricostruire previsioni tassative e determinate.
[59] Non
sarei così netto nello stigmatizzare «una errata confusione fra la nozione di maiestas
e quella di ‘sovranità’», soprattutto se si individua la fondamentale
distinzione tra di esse nel carattere relativo della prima e assoluto della
seconda, che «assume come referente non più maior, bensì maximus»
(R. Fiori, Homo sacer,
cit., 113); lo stesso autore infatti riconosce che «Maiestas, in
fondo, non è che l’ipostatizzazione di una qualità di Iuppiter, deus Maius
prima, Maximus poi» (R. Fiori,
Homo sacer, cit., 145), e la sovranità stessa
dell’ordinamento romano, se mi si passa l’anacronismo, non si impose mai, se
non, forse, nel dominato, come superiorem non agnoscens, ma, anche
miticamente, «il regno ‘ordinato’ di Iuppiter si differenzia da quello
‘caotico’ di Saturno” (R. Fiori,
Homo sacer, cit., 140) in un tempo e in uno spazio
relativi, intesi per di più come costantemente reversibili, a partire dalle
cerimonie dei Saturnali per arrivare alle fantasie poetiche che vaticinavano il
ritorno dei Saturnia regna.
[60] «Il
vincolo di fides nato attraverso la sponsio, l’estromissione del
reo dalla comunità (nelle forme della deditio e della sacratio)
come sanzione per la violazione del giuramento, i principi che informano la clientela
e la amicitia in ambito privato e internazionale, il rapporto tra fides
e maiestas, addirittura le forme sacrificali in cui si estrinsecano
gli atti di riaffermazione dell’ordine creato con la fides, sono
ispirati, in qualunque contesto giuridico siano utilizzati, ai medesimi valori
e alle medesime regole, in una coerenza di principi cui forse non è estranea,
come portato di un’epoca antecedente la distinzione tra ‘pubbico’ e ‘privato’,
l’origine storica della comunità dei cives da una federazione di gentes
e familiae gelose della propria autonomia» (R. Fiori, Ius civile, ius gentium, ius
honorarium: il problema della
‘recezione’ dei iudicia bonae fidei, in BIDR CII, 1999, 194). A
patto appunto di intendere tale ispirazione come superamento della struttura
gentilizia: non si vede altrimenti perché gentes e familiae autonome
avrebbero dovuto spontaneamente fare ricorso alla fides come elemento
regolatore comune.
[61] «Differenti opinioni coesistono nella dottrina romanistica
riguardo al valore normativo del fas: vi è chi ne sostiene la connotazione
puramente permissiva; chi invece individua nel fas una valenza, per così
dire, obbligatoria […]. Alla nozione di ‘liceità’ non sarebbe estranea la
nozione di ’necessità’»: F. Sini, Bellum, fas, nefas: aspetti religiosi e giuridici della guerra (e della pace) in Roma
antica, in Diritto @ Storia IV, 2005 < http://www.dirittoestoria.it/4/Memorie/Sini-Guerra-pace-Roma-antica.htm >§ 4.
[62] Gli
esempi di Spurio Cassio, Spurio Melio e Marco Manlio sono associati da Cicerone
come sovvertitori dell’ordine e aspiranti al regno (analoga associazione in
Val. Max. VI 3.1): Habetis igitur primum ortum tyranni; nam hoc nomen Graeci
regis iniusti esse voluerunt; nostri quidem omnes reges vocitaverunt qui soli
in populos perpetuam potestatem haberent. itaque et Spurius Cassius et M.
Manlius et Spurius Maelius regnum occupare voluisse dicti sunt (Cic. De
Rep. II 49), ma sono riportati dalle fonti con particolari anche molto
diversi circa la procedura di sacertà, prevedendo o meno una forma di processo
e di soppressione legale (su Spurio Cassio: Dion. Hal. VIII 12.3 e Liv. II 41;
su Spurio Melio: Liv. IV 14; su Marco Manlio: Liv. VI 2). Anche Tiberio Gracco
sarebbe stato ucciso come homo sacer, perché aveva deposto un
tribuno, mentre Caio come hostis rei publicae, in base a un senatusconsultum
ultimum; ma l’incertezza se la sacratio debba essere preventiva o
meno, e su quale organo sia legittimato a emetterla, dimostrerebbe proprio che
si tratta di varianti più o meno sviluppate e procedimentalizzate dello stesso
istituto. In ogni caso l’accostamento è già di età tardorepubblicana, e
naturalmente in un discorso con più manifeste finalità politiche che di stretto
diritto (Cic. Cat. I 3-4).
[63] «La
preventiva dichiarazione di liceità del suo assassinio costituisce l’unica
possibile difesa per l’ordinamento democratico contro simili usurpazioni, anche
se peraltro chi lo uccida dovrà poi in ogni caso provare che egli si era
macchiato del crimine in questione: una prospettiva laica ed ancora una volta
alquanto remota dall’arcaica sacertà nonché dalla fattispecie dell’adfectatio
regni» (F. Zuccotti, Sacramentum civitatis, cit., 104).
[64]
L’ipotesi più convincente è che «l’individuo cadesse nella condizione di sacer
per effetto della commissione dell’illecito, con la conseguenza che chiunque
avrebbe potuto eliminarlo pur in assenza di una preventiva pronuncia, salva
comunque l’assoggettabilità dell’uccisore ad un giudizio per omicidio, dal
quale sarebbe però uscito assolto ove avesse provato lo stato di sacertà della
sua vittima; ciò senza escludere che l’homo
divenuto sacer a causa del delitto perpetrato potesse qualche
volta essere dichiarato tale in sede giudiziaria, attraverso un procedimento
definibile, sulla base di una moderna terminologia, di mero accertamento» (L. Garofalo, Studi, cit., 37). In
ogni caso, anche in età arcaica, erano sempre richieste delle cautele a chi
sopprimeva l’homo sacer, per essere certi di operare nell’effettiva
presenza della scriminante, e non con semplici finalità omicide. Alcune di
queste cautele erano addirittura previste dalla norma comminatoria di sacertà:
si pensi al grido (plorare) del parens verberatus, o alla
testimonianza dei vicini per l’esposizione dei figli deformi.
[65] H. Bennett, Sacer esto, in Transactions of the American Philological
Association LXI, 1930, 7 ss.
[66] K. Kerényi, La religione antica nelle
sue linee fondamentali [tit. or. Die antike Religion. Eine Grundlegung],
Roma 1951 [1940], 76.
[67] Ancora
ai tempi di Cesare è ricordata (Cass. Dio. XLIII 24, 4) un’esecuzione compiuta
secondo un rituale religioso (E. Cantarella,
I supplizi capitali, cit., 180 s.).
[68] Del resto,
se la vittima era già sacra agli dei, questi non avrebbero ricevuto nessun
‘accrescimento’, come invece dovrebbe essere in forza dell’azione di mactare:
«tale verbo, movendo dal suo significato originario di ‘accrescere’, ‘fare più
grande’ (deriva infatti dalla stessa radice di magis), ha finito per
acquisire il senso prevalente di ‘sacrificare’, ‘immolare’» (F. Sini, Uomini e Dei
nel sistema giuridico-religioso romano: Pax deorum, tempo degli
Dei, sacrifici, in Diritto e Storia I, 2002 < http://www.dirittoestoria.it/tradizione/F.%20Sini%20-%20Uomini%20e%20D%E8i%20%20nel%20sistema%20g >).
[69] Una conferma
di questo si avrebbe nell'istituto della noxae datio, ma in generale la poena
stessa sarebbe stato il risarcimento standard che la legge riconosceva alla
vittima (F. de Visscher, Vindicta
et noxa, in Studi in onore di P. Bonfante, III, Milano 1930, 235 ss.).
[70] L. Garofalo, Studi, cit., 105 ss.
[71] «Poiché
un’azione solo lecita non è anche doverosa, l’uccisione dell’homo sacer
non era tale, doverosa cioè, per alcuno: né per la comunità, identificabile a
questo proposito nei suoi organi, non a caso sempre riluttanti a provvedervi;
né per i singoli consociati» (L.
Garofalo, Studi, cit., 113 s.).
[72] G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la
nuda vita, Torino, 1995, 111.
[73] Liv.
VIII 10.12: Illud adiciendum videtur licere consuli dictatorique et
praetori, cum legiones hostium devoveat, non utique se sed quem velit ex legione
Romana scripta civem devovere; si is homo qui devotus est moritur, probe factum
videtur; ni moritur, tum signum septem pedes altum aut maius in terra defodi et
piaculum caedi; ubi illud signum defossum erit, eo magistratum Romanum
escendere fas non esse. Sin autem sese devovere volet, sicuti Decius devovit,
ni moritur, neque suum neque publicum divinum pure faciet, sive hostia sive quo
alio volet.
[74] Questa
condizione, più che a quella del devotus, potrebbe paragonarsi a quella
del servus poenae, il condannato a morte in attesa di esecuzione, se,
per ammissione di chi avvicina quest’ultimo al protagonista della narrazione
liviana, non ci sono «nelle fonti tracce di prescrizioni rituali relative
all’effettivo reinserimento del condannato nella società. […] Le fonti ci
parlano dell’imbarazzo di Ulpiano a restituire diritti già dissolti e
qualificare colpevoli liberati» (A. mc
Clintock, Liberati dalla morte,
in A. Gonzales [ed.], La fin
du statut sérvile? (affranchissement,
libération, abolition...) XXX colloque du Groupe International de Recherche sur
l’Esclavage dans l’Antiquité (GIREA) – Besançon – 15, 16, 17 décembre 2005 – I, Franche-Comté, 2008, 123).
[75] «Nel
diritto romano, vita non è un concetto giuridico, ma indica, come
nell’uso latino comune, il semplice fatto di vivere o un particolare modo di
vita […]. Il solo caso in cui la parola vita acquista un senso
specificamente giuridico, che la trasforma in un vero e proprio terminus
technicus, è, appunto, nell’espressione vitae necisque potestas […].
I romani sentivano, infatti, un’affinità così essenziale tra la vitae
necisque potestas del padre e l’imperium del magistrato, che il
registro dello ius patrium e quello del potere sovrano finiscono con
l’essere per loro strettamente intrecciati» (G.
Agamben, Homo sacer, cit., 97 s.).
[76] G. Agamben, Homo sacer, cit., 83.
[77] Se una continuità
vi è da scorgere, per cui «per vita sacra si continua ad intendere un bene
prezioso affidato a un ordine che sta al di là e anzi al di sopra di quello
degli uomini, sottratto pertanto al loro potere» (L. Garofalo, Studi, cit., 124), essa consiste semmai
soltanto nell’originarietà e indisponibilità della vita sacra, ma ogni
apprezzamento e ogni deferenza, al punto da fare, come si intende oggi,
dell’ordinamento una costruzione prioritariamente finalizzata alla sua difesa,
erano esclusi dalla visione romana. Il carattere ancipite o neutrale della
‘sacralità’ romana non può comunque a mio avviso essere stravolto al punto da
ritenere che ciò «spiega anche perché al giorno d’oggi la vita, se considerata
dall’angolo visuale del nostro e di non pochi altri ordinamenti giuridici,
anche sovrastatali, pur non risultando formalmente qualificata come sacra a
livello normativo, appare tuttavia godere di uno statuto che, dal concetto di
vita sacra mantenutosi nel tempo a seguito del dissolversi della figura dell’uomo
che ne era il portatore, riprende il contenuto: essa vi è infatti strutturata
come oggetto di un diritto soggettivo universale, perché spettante a ogni
essere umano» (L. Garofalo,
Studi, cit., 126).
[78] «Che la
fondazione della polis fosse preceduta dalla distruzione delle comunità
basate sulla parentela, come la phratria e la phyle, non era solo
una teoria di Aristotele, ma un semplice fatto storico» (H. Arendt, Vita Activa. La condizione
umana [tit. or. The Human Condition], 14a ed., Milano 2008 [1958], 19).
[79] «Il
completo evolvere del focolare e della famiglia in uno spazio interiore e
privato fu dovuto allo straordinario senso politico del popolo romano che,
diversamente dai greci, non sacrificò mai il privato al pubblico, ma al
contrario pensò che questi due domini potevano esistere solo nella forma della
coesistenza» (H. Arendt, Vita Activa, cit.,
44).
[80]
D’altronde anche il giuramento è un vincolo (para)giuridico che il soggetto si
dà, e anche in quel caso la rottura del vincolo può avere come conseguenza la
sacertà.
[81] La
sovranità può intendersi infatti come un’obbligazione corrispettiva, di fedeltà
da parte del suddito e di protezione da parte del sovrano.
[82] In
questo senso andrebbe infatti intesa la sacralità della persona del monarca,
che infatti al suo funerale andava incontro a due distinti funerali, uno reale e
uno per imaginem, in cui veniva bruciata un’effigie di cera (E. Bickermann, Die römanische Kaiserapotheose, in Archiv für
Religionswissenschaft XXVII,
1929, 4), quasi che il sovrano possedesse due corpi, uno umano e uno politico, secondo
le tesi elaborate successivamente dalla pubblicistica medievale e moderna (E. Kantorowicz, I due corpi del re.
L’idea di regalità nella teologia politica medievale [tit. or. Die zwei
Körper des Königs. Eine Studie zur politischen Theologie des Mittelalters],
Torino, 1987 [1957], 366). «Un primo e immediato riscontro è offerto dalla
sanzione che colpisce l’uccisione del sovrano. Sappiamo che l’uccisione dell’homo
sacer non costituisce omicidio (parricidi non damnatur). Ebbene: non
vi è alcun ordinamento in cui l’uccisione del sovrano sia stata sempre
semplicemente rubricata come omicidio […]. Ma anche l’altro carattere che
definisce la vita dell’homo sacer, e, cioè, la sua insacrificabilità
nelle forme previste dal rito o dalla legge, si ritrova puntualmente […] nel
principio secondo cui il capo dello stato non può essere sottoposto a un
processo giudiziario ordinario» (G.
Agamben, Homo sacer, cit.,
114 s.).
[83]
‘Bandire’ significa non solo espellere ma anche offrire, per cui il ‘bando’ è
l’atto del potere sovrano con cui le posizioni giuridiche non vengono solo
cancellate ma anche arricchite e la cosa ‘abbandonata’ non è semplicemente
estromessa dall’ordinamento, ma rimessa alla libera appropriazione (G. Agamben, Homo sacer, cit., 116). Significativamente a tutto
ciò si accompagna la simbologia dell’armamentario antropologico indoeuropeo che
vedeva con attrazione e repulsione le varie figure di ‘banditi’ che popolavano
la storia antica.
[84] «[Il
sovrano] è, nello stesso tempo, fuori e dentro l’ordinamento giuridico, […] sta
al di fuori dell’ordinamento giuridico e, tuttavia, appartiene ad esso, perché
spetta a lui decidere se la costituzione in toto, possa essere sospesa
[…]. Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza
dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica e
(per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno del
diritto per creare diritto» (C. Schmitt,
Le categorie del politico [tit. or. Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der
Souveränität], Bologna 1988 [1922], 34 ss.).
[85] L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno,
Roma-Bari 1997, 8 s.
[86] «Come il
riferimento al furto di Eracle lascia intendere al di là di ogni dubbio, il
poeta definisce la sovranità del nómos attraverso una giustificazione
della violenza» (G. Agamben, Homo sacer, cit., 36).
[87] Legge,
il sovrano di tutti, mortali come immortali, opera giustificando la massima
violenza con mano fermissima.
[88]
«Innanzitutto l'impune occidi configura un’eccezione dallo ius
humanum, in quanto sospende l’applicazione della legge sull’omicidio
attribuita a Numa (si quis hominem liberum dolo sciens morti duit,
parricidas esto).[…] Ma anche il neque fas est eum immolari
configura, a ben guardare, un’eccezione, questa volta dallo ius divinum
e da ogni forma di uccisione rituale» (G.
Agamben, Homo sacer, cit., 90). In realtà ius humanum e
ius divinum in età arcaica non presentavano significative distinzioni
soprattutto negli ambiti applicativi, ma indipendentemente da quali ambiti
venissero sospesi, l’eccezione permane: anche se il testo della disciplina del
parricidio si deve alle XII Tabulae difficile pensare che la civitas non
avesse previsto fin dalle sue origini una sanzione all’omicidio.
[89] Ciò, si
badi bene, non avvalora l’ipotesi della naturale ostilità tra gli uomini,
perché questo discorso si applica alla fase precivica, e anzi la civitas sarà
proprio il tentativo di creare rapporti pacifici al proprio interno, ma anche
all’esterno.
[90] È in
questo senso che possono essere rilette le parole di Hobbes (Lev. XXVIII): And this is the foundation of that right
of punishing which is exercised in every Commonwealth. For the subjects did not
give the sovereign that right; but only, in laying down theirs, strengthened
him to use his own as he should think fit for the preservation of them all: so
that it was not given, but left to him, and to him only; and, excepting the
limits set him by natural law, as entire as in the condition of mere nature,
and of war of every one against his neighbour.
[91] W. Eisenhut, s.v. “Ver sacrum”, in RE VIII, 1955, 911 s.
[92] Più frequentemente
Marte che Giove, come peraltro rivela l’epigrafe di Satrico.
[93] «Il ver
sacrum italico fa pensare a una sorta di autoregolamentazione della
società, la quale, giunta al limite dello sfruttamento delle risorse
reperibili nei luoghi d’origine, anche per fenomeni imprevisti di carattere
ambientale come epidemie o carestie dovute alla siccità, era costretta a
espellere alcuni suoi membri per garantire il sostentamento e la sopravvivenza
della comunità. L’abbandono del territorio natio costituiva perciò
un rito sostitutivo del sacrificio umano e, insieme, un espediente sacralizzato
per ovviare alla pressione demografica» (L. Sacco,
“Ver
sacrum. Osservazioni storico-religiose sul rito italico e romano», in
Chaos e Kosmos XVII-XVIII,
2016-2017, 16).
[94] Questo
non deve farci necessariamente pensare a una forma di espiazione, il voto era e
resta un patto con la divinità.
[95] Tale
pratica, per quanto eccezionale, non rappresentava comunque una novità,
quantomeno in area italica, e quindi non poteva dirsi assolutamente ignota ai
Romani, o meglio alla loro élite sacerdotale (J. Scheid, Les
incertitudes de la voti sponsio. Observations en marge du ver sacrum
de 217 av. J.C., in M. Humbert/
Y. Thomas [eds], Mélanges de droit romain et d’histoire ancienne. Hommage à
la mémoire de A. Magdelain, Paris 1998, 421); né a chi intenda
affermarne la risalenza si impone di «chiedersi perché mai Livio avrebbe dovuto
riportare così analiticamente il formulario della rogatio» (L. Franchini, Voti di guerra e regime pontificale della
condizione. La riforma del 200, in Diritto @ Storia IV, 2005, < http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Franchini-Voti-di-Guerra.htm#_ftn17 >): gli interessi antiquari di Livio sono notori, e
volentieri si presta ad excursus che evidenziano la sua erudizione in
materia di usi arcaici ed obsoleti. Non arrivo a pensare che «el ver sacrum de 217 a.e. no
podía más que fallar porque no cumplía la finalidad principal
del rito en épocas anteriores que era consensuar la escisión grupal
para preservar el equilibrio del ecosistema» (F.
Diéz de Velasco, Una interpretación ecológico-religiosa
del ritual ver sacrum, in J.A. López
Férez, A. López Fonseca,
M. Martínez Hernández (eds.),
Polypragmosyne. Homenaje al professor A. Martínez Diéz, Madrid,
2016, 187), perché personalmente credo nell’oggettiva inutilità di simili
riti; «nel momento di allerta massima per il rischio di un’incombente
invasione, dopo la consultazione dei libri Sibyllini, vediamo i Romani
appropriarsi di un mos avventizio, reinventandolo secondo la propria Weltanschauung» (L. Sacco, Ver sacrum, cit., 17), ma
che si trattasse di importazione o innovazione o entrambe, si tratta in ogni caso
di prassi assolutamente romana, e non si può quindi escludere che Roma utilizzi
uno schema proprio, quello della sacertà, per adottarne la modalità ma con le
finalità apotropaiche che erano proprie del ver sacrum.
[96] Tutto
questo è coerente con altri esempi letterari di sacertà che possiamo
considerare: l’episodio di Caino e Abele (Gen. 4, 11-16) sembrerebbe riguardare
appunto un delitto di quelli tipici da sacertà, in quanto avviene all’interno
del legame familiare, e significativamente la vittima non può aver
soddisfazione che rivolgendosi a Dio stesso. La pena è quindi il bando, con la
correlata possibilità che chiunque possa impunemente uccidere il bandito. Solo
un intervento autoritativo e misericordioso di Dio fornirà un salvacondotto a
Caino, la cui condizione resterà comunque sempre quella di profugo da ogni
umano consesso. Analogamente possiamo intendere la vicenda di Telemaco
nell’Odissea (δ 842 ss.): curioso che per compiere un attentato ai suoi
danni i Proci abbiano aspettato venti lunghi anni, durante i quali,
quotidianamente, gli occupavano la casa, per ridursi a tentarlo di nascosto in
un’isoletta tra Itaca e Samo. Ma il viaggio di Telemaco è un’autentica prova
iniziatica che egli deve superare, pertanto, finché non farà ritorno in patria,
sarà anch’egli sacer e quindi uccidibile impunemente.
[97] «Già prima della
fondazione della città, Romolo e Remo appaiono circondati da un globus
iuvenum, con il quale compiono scorrerie e dividono il bottino […]. È
sempre questa schiera di iuvenes che li aiuta a rovesciare Amulio […].
Secondo la tradizione, è ancora uno degli ἑταῖροι di Romolo, Celere, ad uccidere Remo allorché
questi compie il crimine di saltare le mura» (R. Fiori, Sodales, cit.,
112)
[98]
L’imperatore-etruscologo Claudio ci conserva la notizia (CIL XIII 1668) che
Servio «si sarebbe chiamato Mastarna e sarebbe stato l’amico inseparabile di
Celio Vibenna, il famoso avventuriero di Vulci. Dopo la morte di Celio,
Mastarna sarebbe arrivato a Roma alla testa del resto dei guerrieri del suo
compagno, domiciliati poi sul monte ribattezzato Celio in ricordo del vecchio
capo […]. Claudio non dice in che modo Mastarna si sia impadronito del potere:
lo suggerisce invece una delle pitture della tomba François a Vulci del IV sec.
d.C., sulla quale gli eroi vulcentani, tra cui figurano Celio Vibenna, suo
fratello Aulo e Mastarna, uccidono un gruppo di stranieri il cui capo è
evidentemente Cneve Tarchunies Rumach (Gneo Tarquinio Romano)» (A. Ziolkowski Storia di Roma,
Milano 2000, 44)
[99]
«L’insieme delle fonti disponibili sui Vibenna prova che nel VI secolo Roma fu
coinvolta in tempestose vicende belliche con vari centri etruschi, e
soprattutto che in questo periodo ebbero un ruolo importante condottieri che si
muovevano con il loro seguito: i sodales, ora attestati da un
fondamentale documento epigrafico proveniente da un santuario della città
latina di Satrico» (C. Ampolo, La città riformata e l’organizzazione
centuriata. Lo spazio, il tempo, il sacro nella nuova realtà urbana, in A. Momigliano/ A. Schiavone [ed.] Storia di Roma, Torino 1988, 208); il
quale riporta il testo di una dedica a Marte da parte dei sodali di Publio Valerio:
uiei steterai Popliosio Valesiosio / suodales Mamertei (CIL I 2832a).
[100] Se da un
lato è evidente che «i gruppi di sodales sono espressione della società
gentilizia, ma allo stesso tempo costituiscono una forza centrifuga al suo
interno, perché sia il legame che unisce i seguaci al capo, sia l’età dei
partecipanti […], sia infine l’attività di razzia da essi compiuta, potrebbero
determinare una certa opposizione tra i sodales e il gruppo» (R. Fiori, Sodales, cit.,
117 s.); dall’altro è una forzatura correlarli all’introduzione del
combattimento oplitico G. Valditara, Studi sul magister
populi. Dagli ausiliari militari del rex ai primi magistrati
repubblicani, Milano 1989, 271 ss.), «perché la τάξις della falange ha come presupposto la σωφροσύνη, il controllo di sé, in
opposizione alla λύσσα, al furor da
‘lupo’ che pervadeva il guerriero arcaico spingendolo ad azioni coraggiose ma
individuali» (R. Fiori, Sodales, cit.,
121).
[101].Fest.
93L Irpini: appellati a nomine lupi, quem irpum dicunt Samnites; eum
enim ducem secuti agros occupavere. Gli Irpini sarebbero infatti arrivati
nei loro territori a seguito di un ver sacrum guidati da un animale. “Il fatto che il picchio,
il toro e il lupo fossero sacri a Marte lascerebbe intuire come questi animali
potessero rappresentare una ierofania, sebbene – forse – sarebbe più
corretto definire tale manifestazione come teofania, ovvero una trasposizione
divina in altra forma e in funzione di ausilio agli umani” (L. Sacco, Ver sacrum, cit.,
7).
[102] In
questo consisterebbe la ‘marginalizzazione’ di tali gruppi, che riscontriamo
anche in altre società indoeuropee (R. Fiori, Sodales, cit.,
108 s.); ‘Lupi Blu’ erano detti gli Inglesi dagli Irlandesi (E. Campanile, Antichità indoeuropee, in P. Ramat/
A. Giacalone Ramat [eds.], Le lingue indoeuropee, Bologna 1993,
23). Un pregiudizio questo contro il lupo che si protrarrà a lungo
nell’immaginario collettivo occidentale, e che lascerà tracce di sé in tanta
favolistica popolare, dai Fioretti di San Francesco, ai Tre Porcellini, a
Cappuccetto Rosso. Né migliore è la considerazione per la sua femmina, se è
vero che con l’epiteto di ‘lupa’ e di ‘lupanare’ si attribuiscono solo offese.
Ma Romolo e Remo erano appunto figli della lupa, e a loro erano dedicate le
cerimonie dei Lupercalia (R. Fiori, Sodales, cit.,
114 s.).