Presidente emerito della Corte Costituzionale
Professore nell’ Università Europea
di Roma
Tradizione e destino del diritto romano. I fondamenti dell’autorevolezza*
SommaRiO: 1. Il respondere giurisprudenziale come attività privata destinata all’accoglimento. – 2. L’auctoritas dei patres e la produzione del diritto. – 3. Gli sviluppi augustei e la dialettica tra scienza privata e potere pubblico come premessa delle grandi compilazioni. – 4. Le esperienze storiche successive: aspetti di continuità e discontinuità. Il modello di un diritto “autorevole” oltre la prospettiva legalistica. – 5. Rassegna bibliografica. – Abstract.
Il titolo del presente saggio[1] può essere accolto come una provocazione al dibattito, tuttavia non pretestuosa né retorica. Se pensiamo ai millequattrocento anni contati da Giustiniano nella Tanta / Δέδωκεν, da Romolo a lui, e poi al diritto comune europeo, fino alla ‘römische Rechtswissenschaft’, e poi alle codificazioni civili di impronta romanistica, senza tacere quella da poco inaugurata della Repubblica popolare cinese, l’invito alla riflessione su una storia così lunga e ancora non chiusa non dovrà apparire come dettato soltanto da un’occasione accademica.
Tuttavia non basta evocare il termine diritto romano per aprire uno scenario utile a rispondere alle nostre domande.
Innanzi tutto quale è il tratto che possa apparire significativo al racconto che intendiamo appena delineare. È quello del responso dei giuristi, prima attività del tutto privata, praticata nella domus del giureconsulto su richiesta dei concittadini che lo interrogano per averne saggiato direttamente o per fama la competenza e sapienza, pratica del tutto orale, eventualmente comprensiva di dialogo con auditores che si preparano a loro volta a diventare da allievi maestri in proprio nel campo della professione respondente. Dunque il fondamento di questa fase è il consenso dei cittadini al diritto dispensato da quegli uomini colti, appartenenti all’ordine senatorio, virtualmente destinati ad un cursus honorum, ma non necessariamente uomini politici. La loro vita di studiosi amplia le conoscenze minute e puntuali delle regole, tradizioni, istituzioni del ius civile e gentium, con argomenti e ragionamenti che vanno incontro a bisogni nuovi dei padri di famiglia nella evoluzione della società e dell’economia dell’ultima vicenda della storia politica della Repubblica. È fortemente delineata la natura privata della professione respondente dal luogo in cui è svolta, la casa del giureconsulto, oraculum totius civitatis[2]. Giova analizzare la definizione. Oraculum. Il termine appartiene al mondo delle pratiche religiose, per la cui credibilità è determinante il numero dei credenti. Questo dato strutturale è qui risolto nella totalità della civitas. Se mai si volesse illuminare la presenza di ius civile, questa del responso giurisprudenziale è la fonte di ius civile per eccellenza. Non c’è bisogno di senato, comizio, legge, decreto: da un privato si fa una domanda ad un privato, al di fuori di ogni forma procedurale né scritta né orale. Ed ecco dalla risposta nascere ius civile. Il privato può farne applicazione o meno. Conta quel che è stato detto dal respondente, eventualmente discusso con i suoi auditores, e così diventare patrimonio di una scuola, dottrina giurisprudenziale. Il fondamento dell’autorevolezza del responso, tale da farne, nella nostra terminologia accademica, una fonte dell’ordinamento giuridico, se non proprio la scaturigine gerarchicamente più elevata del ius Romanorum, perché argomentata e razionalmente persuasiva, non mero comando, sta tuttavia oltre queste parvenze[3].
Nella esperienza di età ancora senza date le comunità familiari generate da almeno tre gradi di antenati, che potevano ancora convivere, di avi, abavi e atavi, avevano un capo, il pater. Pater non è il genitore, che si diceva parens, ma chi governa il gruppo. Quando si formò la civitas, l’assemblea dei patres alleati sovrani delle famiglie costituì il senato, vero e unico organo originario di governo della civitas. L’era patriarcale non deviò verso un suo declino con il nascere e crescere della civitas. Anzi si potenziò, assorbendo in sé il potere politico. I patres senatores furono il nuovo vertice privato e pubblico insieme. Quando per la sacralizzazione della guerra, non a caso definita iustum piumque bellum[4], si ricorse al collegio dei Feziali, il sacerdote che lo presiedeva e guidava ebbe titolo di pater patratus. L’aggettivo accentuava l’investitura patriarcale ai fini della rappresentanza dell’intero popolo romano nei confronti dei popoli stranieri nelle ritualità della repetitio rerum e della indictio belli[5]. Il regime arcaico della patriarcalità sopravviveva come ideologia patristica della politica. Durante sedizioni, colpi di Stato, guerre civili che insanguinarono la decadenza della Repubblica prima dell’avvento del Principato, i figli pensarono di uccidere ciascuno il proprio padre, quando non fosse allineato con la propria fazione e ostacolo a congiure e piani rivoluzionari dei giovani. Il padre rispettato e obbedito in casa, perché dotato di una potestas ignota a ogni altro popolo al mondo. I padri nella città membri del Senato con un’auctoritas preposta o successiva rispetto alle leggi del popolo. L’ordine senatorio cui appartengono i giuristi. Come si fa a non definire l’intero ordinamento, della società e dello Stato, proprio dei Romani, come patriarcale e patrista?[6] Ma per un racconto storico veridico, che sappia scegliere gli eventi significativi di caratteri di più lunga durata, occorre interrogarne i protagonisti. Tito Livio ce ne offre uno occorso durante la faticosa cacciata di Tarquinio, ultimo re di Roma, e la fondazione della Repubblica. I giovani comites, coetanei e amici del monarca etrusco, abituati alla sfrenatezza di costumi del sovrano, «rimpiangendo, ora che vigeva per tutti eguaglianza di diritti, tale licenza, si dolevano tra loro che la libertà degli altri si fosse mutata per loro in servitù; il re, dicevano, è un uomo, da lui puoi ottenere di esercitare il diritto o l’offesa che ti piace; vi è luogo per i favori e per i benefici; egli può irritarsi e può perdonare; sa distinguere tra amici e nemici; la legge invece è una cosa sorda e inesorabile, e più buona e più utile per il povero che per il potente; e appena tu eccedi, non ha indulgenze né perdoni; è pericoloso, tante essendo le probabilità di errare, vivere con l’onestà sola»[7]. Livio scrive circa cinque secoli dopo quegli eventi e non conosciamo le sue fonti. Una sua frase sembra derivare da una filosofia diffusa e tradita, da una morale popolare non elitaria: periculosum esse, in tot humanis erroribus, sola innocentia vivere. L’eguaglianza astratta di tutti i cittadini dinanzi alla legge non garantisce chi può addurre a sua difesa la propria innocenza. Questa è la morale della legge su cui sta per erigersi la nuova civitas repubblicana.
La società è più complessa di quel che ne rispecchia la legge. Essa è fatta di potentes e di inopes, di ricchi e influenti, che stanno accanto al potere, e di poveri e inutili nella solitudine delle loro coscienze. Non c’è dubbio che la storia di Roma rappresenti sé stessa non solo traverso le guerre esterne e le lotte civili alla costante ricerca di equilibri di classe ed assetti politici, ma nel passo liviano si contrappongono due mondi morali, degli uomini innocenti e dei loro governanti. Per tenerli coesi occorre andare oltre le leggi, attribuendo a uomini saggi e senza potere la manifestazione del ius civile caso per caso su richiesta libera e spontanea di concittadini, che ne avvertano il bisogno per i casi della propria vita. Ecco l’origine del responso, del grande organismo di ius civile che ne nasce, tale che si possa dire che sono ancora dei patres a proteggere con la loro σοφία le relazioni sociali critiche che esigono giudici o arbitri e adesione degli interessati. In luogo dell’angoscioso conflitto tra la legge sorda e inesorabile e la influenzabilità emotiva del re, simbolo di un potere insindacabile, l’auctoritas dei respondenti ripristinava nello spazio sempre più affollato dei nuovi diritti e degli affari la pace patriarcale.
In quel torno di tempo tra i più crudelmente tormentati della storia di Roma, l’attesa della pace aveva raggiunto un’acme messianica, al punto che Augusto, liquidati gli ultimi resti delle contese triumvirali, fa della pax Augusti il massimo dei suoi obiettivi politici. Egli distingue per sé un grado ulteriore a quello delle magistrature collegiali supreme investite di potestas, ed è l’auctoritas: ‘auctoritate omnibus praestiti’[8]. Lascerà scritta nelle Res gestae questa gerarchia: «quanto a potestas non ne ebbi di più di quanti mi furono colleghi nelle magistrature, quanto ad auctoritas fui più in alto di tutti». È il nuovo regime del principato augusteo. Ma perché allora inaugurare il ius publice respondendi ex auctoritate principis, da esercitarsi in una statio publica, in un edificio dello Stato, documentato in scritture non più affidato alla sola oralità? Ne furono insigniti prima giureconsulti membri dell’ordine senatorio, poi anche equestre. È probabile che nella sequenza delle figure personali si sia tenuto conto della vicinanza loro agli indirizzi politici del principe, o al prestigio goduto nelle scuole o nell’opinione accreditata tra professanti diritto. Ma forse dovremmo riflettere di più sul vincolo che veniva a stabilirsi tra il principe e il respondente[9].
Se l’espressione viene intesa come devoluzione al giureconsulto di una prerogativa del principe, si potrà dedurne che il titolare originario del ius respondendi è quest’ultimo. Se ne distacca l’esercizio publice. In tal modo il giureconsulto è un funzionario, un portavoce del principe, investito formalmente della sua auctoritas. Codesta auctoritas non coincide però con la integrale posizione di potere del principe. Può invece intravedersi la volontà di Augusto di essere anch’egli giureconsulto con una auctoritas sua propria, il cui esercizio è ereditato dall’attività respondente dei giureconsulti repubblicani, che erano dei privati, ma con l’auctoritas dell’ordine senatorio, cui appartenevano per dinastie familiari. Adesso l’auctoritas, quando insigniti del ius publice respondendi, ha il rango del principe. Equiparazione dei giuristi al principe? O non piuttosto proclamazione del principe come suprema fonte del diritto? Propendo per questa seconda interpretazione[10]. Le fonti tradizionali, leggi comiziali, editti magistratuali, senatoconsulti, si stanno politicamente e storicamente esaurendo, mentre i responsa e le loro sistemazioni in generi letterari segnano già l’orizzonte di grandi compilazioni. La laboriosità dei giureconsulti conduce a identificare il ius con la loro produzione. E, quel che più sorprende, a definire il ius come ars boni et aequi, secondo la celebre frase di Celso[11]. Che è come dire che la giurisprudenza è una scienza operante per difendere il bene applicandolo secondo quel che è giusto. Nel testo che Ulpiano compose per i suoi studenti, e perciò libri regularum[12], si apparentano ius e iustitia. Questa seconda è il fine che il giurista tende a realizzare. E in questa peculiare professionalità il giurista è come il sacerdote di una religione, che insegna a distinguere l’equo dall’iniquo, il lecito dall’illecito, convertendo i buoni non solo con la minaccia del castigo, ma anche con la promessa del premio, rivelandosi come una filosofia vera, non una fallace teoria. Nello stesso primo libro regularum Ulpiano analizzerà la consistenza psicologica della giustizia «costante e perpetua volontà di assegnare a ciascuno il suo»[13]. E procedendo in questo registro: «Codesti sono i precetti del diritto: vivere onestamente, non far del male ad altri, dare a ciascuno quel che gli spetta. La giurisprudenza è conoscenza delle cose divine ed umane, la scienza del giusto e dell’ingiusto»[14]. Siamo già alla eco di influenze cristiane? O non piuttosto alla ravvivata conservazione di quella funzione educativa della auctoritas dei patres che il principe aveva intuito essersi trasferita in lui, nella sua ormai unica e suprema auctoritas? La traiettoria segnata da queste categorie della protezione della pace civile di Roma, rivelerà il suo punto d’arrivo nella costituzione Deo auctore, de conceptione digestorum, di Giustiniano. Dio che integra il potere imperiale, come il tutore nei confronti del pupillo, svela l’intero universo ideologico del potere romano, che non pertanto si distingue da quello della giustizia, ma anzi vi coincide. Questo sì è il messaggio dell’Impero attraversato dalla civilizzazione cristiana. Ma il punto da cui è stato preparato l’invio lascia vedere il versante della Roma delle origini. Leggiamo con Velleio Patercolo, che dal principato di Tiberio fa il bilancio della pace augustea: «L’antica Repubblica, quale essa era in origine, era stata resuscitata. Ai campi era stato restituito l’aratro, alla religione il rispetto, agli uomini la sicurezza, all’individuo la certezza di poter disporre dei suoi beni»[15].
Quando si inaugurò il Codice Napoleone, del 1804, Alexis de Tocqueville, che ne era stato uno dei protagonisti, scrisse a memoria della portata storica di quanto vi si consacrava: «Al Sovrano l’Impero, al cittadino la proprietà». È ancora storia romana superstite nella storia europea? Se ripensiamo a cinque parole della Glossa accursiana Author iuris homo, iustitiae Deus[16] dovremmo dire che no, dal momento che le persuasioni romane e cristiane intorno alla giustizia le abbiamo abbandonate. L’unica voce che richiamava il diritto ad essere il solo potere supremo nella fondazione della pace perpetua era stata quella, alla fine del XVIII secolo, di Immanuel Kant. I grandi e piccoli Stati nazionali europei recepivano nelle loro codificazioni, in particolare civili, un diritto romano matematizzato, o astrattamente ricondotto a dogmi, principii, regole, ideologie della modernità.
La politica di potenza spingeva gli Stati europei al colonialismo, non al mondialismo romano, dell’urbs che si faceva orbis, e patria communis. Nel 1960 visitando a Firenze Giorgio La Pira, ne ebbi il preannuncio profetico che nel terzo millennio il diritto romano sarebbe stato vigente nella Repubblica popolare cinese. All’inizio degli anni Novanta del secolo scorso fui invitato a redigere del codice civile cinese la parte relativa ai diritti reali impiegando esclusivamente le Istituzioni e i Digesta di Giustiniano. In incontri di studio con colleghi cinesi mi fu detto che la Cina poteva replicare per il nostro tempo quel che era riuscito ai Romani, dare con il diritto una patria comune al mondo. Nel XVII secolo il cardinale Giambattista De Luca guardava da giurista all’Europa, interpretandola come orbis civilis nostrae Europae communicationis. Si tratta oggi di ampliare quella visuale o di assumerne diverso e nuovo significato?
Se l’orbis civilis chiamiamo oggi globalizzazione, con spazi di attività economiche e sociali, culturali e scientifiche che si organizzano oltre lo Stato, allora dobbiamo ricavare dalla storia di Roma esempio di quanto siamo diventati diversi. L’auctoritas scandiva la supremazia dei patres, e su tutti del princeps. A suo modo era il profilo biologico e politico di chi era destinato a governare in un assetto patriarcale e patrista le sorti del mondo. Oggi gli esseri umani, in carte internazionali e costituzionali, a cominciare dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, sono identificati per la loro fratellanza umana, non per cittadinanza, nazionalità, razza, sesso, etnia, cultura, condizioni sociali. C’è un radicalismo in questa fratellanza, che evoca il passo paolino della Lettera ai Galati: «Non c’è più né giudeo, né greco; non c’è più né uomo, né donna. Ma siete tutti uno in Gesù Cristo»[17].
Dai patres di Roma ai fratelli delle Nazioni Unite di oggi corrono fili ora continui, ora interrotti e non più risarcibili. Uno ce n’è, ben visibile. È quello che apparenta il diritto alla giustizia, che scioglie la legge sorda e inesorabile nella virtù personale della giustizia, che applica spontaneamente i tria praecepta iuris, honeste vivere, suum cuique tribuere, alterum non laedere.
La domanda tuttavia che ci angustia è se una giustizia virtù possa fare a meno del diritto comando. Noi sappiamo quanto soffrano i giudici nell’adattare le previsioni legali ai casi concreti. Nella Corte costituzionale italiana si sostituisce la ragionevolezza alla razionalità, sciogliendo il dilemma dell’endiadi celsina del bonum et aequum. Ma forse il ‘common law’ attivando la ‘wisdom’, la saggezza del giudice, piuttosto che la legalis sapientia del suo omologo del ‘civil law’, avrà in avvenire migliori opportunità di rendere giustizia, come la attendono gli inopes, non come la manipolano i potentes.
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In this paper, the authors highlight the foundations
of the juridical experience of Roman law: which are the responses of the
jurists, a source intended as originally authoritative and not compulsory. it
is an authority that can be traced back to the Roman concept of auctoritas,
which was initially the private one belonging to the patres familias,
then the political one acknowledged to the patres as senators, and finally the
imperial one proper to the princeps. such a model, far more suitable
than the legalistic one in order to pursue reasonable justice objectives, may
prove to be fruitful even for today’s interpreters, who – in the age of
globalization – are called to work in a different system of sources of law.
Key words:
responses, auctoritas, patres, sources of law.
In questo contributo gli autori evidenziano come a fondamento dell’esperienza giuridica romana vi sia l’attività respondente dei giuristi, intesa come fonte originariamente autorevole e non autoritativa. Si tratta di un’autorevolezza riconducibile alla nozione romana di auctoritas, che fu dapprima quella tutta privata dei patres familias, poi quella politica dei patres in quanto senatori, ed infine quella imperiale del princeps. Tale modello, assai più adatto di quello legalistico al perseguimento di obiettivi ragionevoli di giustizia, può rivelarsi fecondo anche per l’interprete odierno, che nell’era della globalizzazione è chiamato ad operare in un mutato sistema delle fonti di produzione del diritto.
Parole chiave: responsi, auctoritas, patres, fonti del diritto
[Un evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Al fine della pubblicazione, questo scritto è stato valutato “in chiaro” dalla direzione di Diritto @ Storia e da studiosi della materia presenti nel comitato scientifico internazionale]
* Il testo costituisce una rielaborazione – curata dal prof. Lorenzo Franchini, che l’ha anche dotata di un apparato critico – della relazione introduttiva al Seminario su Giuristi, consilium principis e potere imperiale da Traiano a Marco Aurelio, tenuta dal prof. Francesco Paolo Casavola il 28 febbraio 2019 all’Università “La Sapienza” di Roma nell'ambito del progetto ERC AdG Scriptores iuris Romani (PI. A. Schiavone).
[1] V. quanto appena detto sopra, in asterisco.
[2] Cic. de or. 1.45.200.
[3] Il fatto che il respondere
giurisprudenziale, inteso nel suo svolgimento informale, che non esigeva
procedure rigide (né orali né scritte) di nessun tipo, edificasse su un mero
“dialogo” tra privati, è pacifico tra gli studiosi: nessun consulto avrebbe
potuto essere fornito se non su richiesta dell’interessato – evidentemente, un pater
familias dedito alla cura dei suoi affari –, e la custodia di esso sarebbe
avvenuta a cura del giurista che lo aveva impartito, nell’ambito del suo
archivio domestico, a meno che non fossero stati presenti auditores
incaricati (anche) di trascriverlo e commentarlo. Sul punto, per tutti, v. ad
esempio F. Schulz, Storia della
giurisprudenza romana, trad. it., Firenze 1968, 95 ss., 101 s., 166; cfr.
ad esempio, per tutti, F.P. Casavola,
Scienza, potere imperiale, ordinamento giuridico nei giuristi del II secolo,
in Iura 27, 1976, pubbl. 1979, 17 ss. [= Giuristi adrianei,
Napoli 1980, 165 ss.; Sententia legum tra mondo antico e mondo moderno,
I, Napoli 2000, 129 ss.], specialmente 21; F. Bona, La certezza del diritto nell’età repubblicana,
in La certezza del diritto nell’esperienza giuridica romana, a cura di M.
Sargenti e G. Luraschi, Padova 1987, 101 ss.; Id.,
Il docere respondendo e discere audiendo nella tarda
repubblica, in Lectio sua, II, Padova 2003, 1131 ss; M. Talamanca, Diritto e prassi nel mondo
antico, in Règles et pratique du droit dans les réalités juridiques de
l’antiquité, Catanzaro 1999, passim; M.
Brutti, L’indipendenza dei giuristi (dallo ius controversum
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principis. Giuristi, principe e diritto nel primo impero (Atti Copanello
1998), Napoli 2003, 437 s.; J.
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experiencia juridica romana, Madrid
2018, 30 ss.
Peraltro, come si sa, la dottrina si è a più riprese interrogata circa il modo in cui i responsa prudentium potessero di per sé operare come fonte di produzione normativa, e. le opinioni espresse in proposito sono le più varie, e qui non suscettibili di una completa rassegna. In merito comunque alla necessità che il “dialogo” avviato tra privati in qualche modo con i “privati”, con i consociati proseguisse bisogna ricordare che gli studiosi si dividono tra chi ritiene che i responsi fossero idonei ad introdurre direttamente nuove norme nel sistema, sia pure per il tramite della risoluzione dei casi concreti posti dai singoli capifamiglia (v. per esempio L. Lombardi, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano 1967, specialmente 9 s. e nt. 8, 67, 69 ss., 71 e nt. 133, 73 e nt. 135, 74 s., 77, secondo il quale, per esempio, affinché le sententiae dei giuristi acquisissero effettività occorreva sì un qualche assenso da parte dei consociati e dei vari operatori, ma non diversamente da quanto avveniva per le norme dettate da una legge) e chi invece li ritiene idonei soltanto ad avviare un processo storico di recezione “sociale”, al termine del quale si avrà la possibilità di individuare l’orientamento che, essendo semmai prevalso sugli altri, possa dirsi diritto effettivamente vigente (v. per esempio F. Gallo, Interpretazione e formazione consuetudinaria del diritto, Torino 1971, specialmente 1 ss., 6, 9 ss. e 14 (con critiche espresse all’impostazione di Lombardi), 36 s., 47 s., 141, 153 ss.; Id., La consuetudine nel diritto romano, in Atti del colloquio romanistico-canonistico, Roma 1979, specialmente p. 103; Id., Produzione del diritto e sovranità popolare nel pensiero di Giuliano (a proposito di D. 1.3.32), in Iura 36, 1985, 70 ss.; Id., La sovranità popolare quale fondamento della produzione del diritto in D. 1.3.32: teoria giulianea o interpolazione postclassica ?, in BIDR 94-95, 1991-1992, specialmente 22 s., 99 s., 105, 121, 195 e nt. 42; Id., L’officium del pretore nella produzione e applicazione del diritto, Torino 1996, specialmente pp. 21 s., 46 s., 62; Id., La recezione moribus nell’esperienza romana: una prospettiva perduta da recuperare, in Iura 55, 2004-2005, 1 ss., a proposito della dialettica interpretatio-receptio come fattore di produzione di nuovo ius). Sono a nostro avviso riconducibili alla prima tendenza anche per esempio H. Lévy-Bruhl, Prudent et préteur, in RHD 5, 1926, 5 ss.; F. Schulz, I principii del diritto romano, trad. it., Firenze 1946, 12 ss.; Id., Storia, cit., 48 s., 115 ss., 226 ss., 245, pur con qualche perplessità, che lo porta a riconoscere un certo rilievo alla prassi, guidata da una giurisprudenza comunque di per sé creativa; J.A.C. Thomas, Custom and Roman Law, in TR 31, 1963, 39 ss.; W. Flume, Gewohnheitsrecht und römisches Recht, Opladen 1975, 7 ss.; M. Talamanca, Recensione a F. Bona, La certezza del diritto nell’età repubblicana, in BIDR 91, 1988, 851 ss.; Id., Recensione a F. Gallo, Produzione del diritto e sovranità popolare nel pensiero di Giuliano (a proposito di D. 1.3.32), in BIDR, XCII-XCIII, 1989-1990, 740 ss.; T. Giaro, Diritto come prassi. Vicende del discorso giurisprudenziale, in Fides, Humanitas, Ius. Studii L. Labruna, IV, a cura di C. Cascione e C. Masi Doria, Napoli 2007, 2233 ss., per cui la prassi sì rileva, ma si tratta di prassi pressoché esclusivamente giurisprudenziale; J. Paricio, Respondere, cit., passim. Sono a nostro avviso riconducibili alla seconda tendenza anche per esempio V. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto romano¹³, Napoli 1957, p. 38; G. Grosso, Premesse generali al corso di diritto romano4, Torino 1960, 67 ss.; W. Waldstein, Gewohnheitsrecht und Juristenrecht in Rom, in De iustitia et iure. Festgabe U. von Lübtow, a cura di M. Harder e G. Thielmann, Berlin 1980, 105 ss.; G. Provera, Il valore normativo della sentenza e il ruolo del giudice nel diritto romano, in Est. Hist.-Juríd. 7, 1982, 55 ss.; F. Bona, La certezza, cit., specialmente 127 ss.; D. Mantovani, Gli esordi del genere letterario ad edictum, in Per la storia del pensiero giuridico romano. Dall’età dei pontefici alla scuola di Servio, a cura di D. Mantovani, Torino, 1996, 94 s. e nt. 118; P. Cerami, Breviter su Iul. D. 1.3.32 (Riflessioni sul trinomio lex, mos, consuetudo), in Nozione formazione e interpretazione del diritto. Ricerche F. Gallo, Napoli 1997, 117 ss.; A. Guarino, «L’uso de’ mortali è come fronda», in Nozione, formazione e interpretazione, cit., 339 ss., specialmente 342 e nt. 15; E. Stolfi, Bonae fidei interpretatio. Ricerche sull’interpretazione di buona fede fra esperienza romana e tradizione romanistica, Napoli 2004, 80 s., nt. 119.
Bisogna alfine ricordare che, stando alle testimonianze più direttamente rilevanti in proposito, i responsi dei giuristi avrebbero assunto un’efficacia di tipo paralegislativo soltanto quando fossero unanimi, e ciò in ossequio ad una tendenza che si sarà probabilmente manifestata ben prima che il celebre rescritto adrianeo, di cui a Gai 1.7, ne desse atto. Sul punto insiste molto F. Gallo, già sopra citato (ma v. in particolare Interpretazione, cit., 47 s., 153 ss.; Id., La consuetudine, cit., 103; Id., La sovranità, cit., 99; Id., L’officium, cit., 46 s.; Id., Un nuovo approccio per lo studio del ius honorarium, in SDHI 62, 1996, 37 s., nt. 96; Id., La recezione, cit., 14 s.), secondo cui solo in tal caso si sarebbe potuto prescindere dal rilievo di una prassi sociale approvativa; v. anche per esempio F. Schulz, I principii, cit., 209; L. Lombardi, Saggio, cit., 71, nt. 133; M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, Napoli 1971, 151 ss. e nt. 152; P. Giunti, Iudex e iurisperitus. Alcune considerazioni sul diritto giurisprudenziale romano e la sua narrazione, in Iura 61, 2013, 53 ss., 62, 63 e nt. 52; J. Paricio, Respondere, cit., 58.
[4] In merito v. ad esempio qui, tra i più recenti, G. Turelli, «Audi Iuppiter». Il collegio dei feziali nell’esperienza giuridica romana, Milano 2011; N. Rampazzo, Iustitia e bellum. Prospettive storiografiche sulla guerra nella repubblica romana, Napoli 2012; F. Tuccillo, Sui feziali e il ius fetiale, in Index 41, 2013, 228 ss.; M.F. Cursi, Bellum iustum tra rito e iustae causae belli, in Index 42, 2014, 569 ss.
[5] V. ancora gli autori citati alla nt. precedente, con le fonti e la ulteriore bibliografia da essi richiamate.
[6] E’ plausibile l’ipotesi che lo stato romano - significativamente definito da Cic. rep. 1.32.49 coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis commune sociatus - sia storicamente derivato dal libero coordinarsi dei patres, dei capi dei gruppi originariamente sovrani, allo scopo di dar vita nel comune interesse ad una comunità superiore, senza mai completamente rinunciare, tuttavia, alla propria originaria sovranità, come da tutta una serie di fattori sarebbe possibile evincere, compreso il modo (formazione dei mores) in cui si svolgevano i processi di produzione del diritto, che direttamente risentivano delle pratiche invalse tra i patres. D’altronde ricordiamo che ancora lo stesso Cicerone (off. 1.17.54) descrive la familia come principium urbis et quasi seminarium rei publicae. Su questi aspetti è tornato recentemente G. Valditara, Saggi sulla libertà dei romani, dei cristiani, dei moderni, Soveria Mannelli 2007, specialmente 7 ss., 61 ss., che parla di patria potestas come paradigma di ogni altra potestas di impronta pubblicistica.
[7] Liv. 2.3.3-4: Eam tum aequato iure omnium licentiam quaerentes, libertatem aliorum in suam vertisse servitutem inter se conquerebantur: regem hominem esse, a quo impetres, ubi ius, ubi iniuria opus sit; esse gratiae locum, esse beneficio, et irasci et ignoscere posse, inter amicum atque4inimicum discrimen nosse; leges rem surdam, inexorabilem esse, salubriorem melioremque inopi quam potenti, nihil laxamenti nec veniae habere, si modum excesseris; periculosum esse in tot humanis erroribus sola innocentia vivere.
[8] Mon. Ancyr. 34.3.
[9] La bibliografia in materia di ius respondendi ex auctoritate principis è, come noto, sterminata. Per alcune rassegne di sintesi si rinvia qui, per esempio, oltre che ai classici lavori di F. Schulz, Storia, cit., 202 ss. e nt. 4, e M. Bretone, Tecniche, cit., 145 ss., specialmente 151 ss., ai più recenti M. Brutti, L’indipendenza, cit., 434 ss., e J. Paricio, Respondere, cit., specialmente 15, 20 ss., 27 s.; v. anche F. Arcaria, «Cognoscere, iudicare, promere et exercere iustitiam». Princeps, giudici e iustitia in Plinio il Giovane, Napoli 2019.
[10] Tra le molte questioni discusse in merito all’origine ed alla natura del ius respondendi vi è in effetti anche quella della sua più o meno significativa aderenza alla tradizione propria dell’auctoritas giurisprudenziale prima pontificale e “patrizia” (v. per esempio W. Kunkel, Das Wesen des ius respondendi, in ZSS, 66, 1948, 454 s.; J. Paricio, Respondere, cit., 81), e poi senatoria ed in ogni caso nobiliare, talché la testimonianza pomponiana relativa a Sabino, di cui a D. 1.2.2.48, andrebbe intesa nel senso che questo giurista sarebbe stato il primo ad essere investito del privilegio imperiale fra gli appartenenti al ceto equestre, essendone stati in prima battuta insigniti, per l’appunto, soltanto i senatorii: così, la dottrina dominante, di cui v. soprattutto W. Kunkel, Das Wesen, cit., 423, 435; F. Wieacker, Respondere ex auctoritate principis, in Satura R. Feenstra oblata, a cura di J.A. Ankum et al., Freiburg 1985, 92 s.; C.A. Cannata, Iura condere. Il problema della certezza del diritto fra tradizione giurisprudenziale e auctoritas principis, in Ius controversum e auctoritas principis, cit., 27 ss.; contra, per esempio, J. Paricio, Respondere, cit., specialmente 38 ss., 47 ss., 70, 81 ss., il quale, riprendendo orientamenti di D’Ors e Guarino, sostiene che Augusto dette di fatto avvio ad una pratica, che solo Tiberio avrebbe poi istituzionalizzato, e che mai si fondò sulla posizione sociale degli interessati, a scapito del sapere scientifico. Di taluni autori (W. Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen2, Graz-Wien-Köln 1967, 272 ss., 281 ss., 367; A. Magdelain, Ius respondendi, in RH, IV ser., 28, 1950, 1 ss.; cfr. T. Mommsen, Römisches Staatsrecht2, II, Leipzig 1887, 912) bisogna altresì segnalare l’irrigidimento interpretativo che li porta a ritenere pressoché totalmente esclusi dall’attività respondente i giuristi non muniti di riconoscimento imperiale, il che ha sovente suscitato critiche proprio in coloro (F. Schulz, Storia, cit., 202 ss.; M. Brutti, L’indipendenza, cit., 434 ss., 445; cfr. M. Bretone, Tecniche, cit., 145 ss., 153) i quali vedono nella - pur come sempre ambigua - innovazione augustea segni di continuità con la tradizione precedente, che riconosceva valore alla iurisprudentia come libera attività svolta da privati autorevoli, e non certo come funzione pubblica; calzanti, ultimamente, i rilievi dello stesso J. Paricio, Respondere, cit., 62, 70, secondo cui i prudentes soltanto attraverso la notorietà acquisita coi propri responsi, dapprima liberamente dati, potevano aspirare poi ad ottenere il riconoscimento imperiale. In questo contesto, il nostro pensiero (già in più occasioni espresso: v. ancora per esempio F.P. Casavola, Scienza, cit., 23 ss.) andrebbe riconsiderato proprio alla luce della riflessione che edifica sulla comune prospettiva, per così dire “patrista”, idonea a conciliare l’esperienza di epoche diverse.
[11] D. 1.1.1pr.
[12] D. 1.1.10
[13] D. 1.1.10pr.
[14] D. 1.1.10.2
[15] Vell. Pat. 2.89.3-4: Prisca illa et antiqua rei publicae forma revocata. Rediit cultus agris, sacris honos, securitas hominibus, certa cuique rerum suarum possessio.
[16] La locuzione risale, come noto, al glossatore Piacentino, il cui commento proprio ai succitati passi del Digesto è accolto nella Glossa accursiana. Cfr. ad esempio, per tutti, F. Calasso, Introduzione al diritto comune, Milano 1951, 190 e passim.
[17] Gal. 3.28.