Memorie-2019

 

 

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DA ROMA ALLA TERZA ROMA

XXXVIII SEMINARIO INTERNAZIONALE DI STUDI STORICI

Campidoglio, 20-21 aprile 2018

 

 

Zypin-Carta-costitutiva-Patriarcato-Mosca-1589Protoiereus Vladislav Zypin

Accademia Teologica di Mosca

Presidente della Commissione storico-giuridica

della Chiesa Ortodossa Russa

 

 

ORIGINI DELL’ORTODOSSIA IN CINA

(LA COMUNITÀ DI ALBAZINO A PECHINO)

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La predicazione cristiana, diffondendosi dalla Siria verso Oriente, raggiunse la Cina all'inizio del VII secolo, anche se nel XIII secolo circolava una leggenda apocrifa sulla permanenza in Cina dell’apostolo Tommaso, alla cui missione si fanno risalire le comunità cristiane dell’India. Secondo questa leggenda, l’apostolo, convintosi dell’indifferenza dei cinesi agli insegnamenti di Cristo, lasciò il Paese, dove restarono però alcuni suoi discepoli. Non ci sono comunque prove documentarie autentiche dell’esistenza in Cina di comunità cristiane fino al VII secolo.

È ben noto, tuttavia, che nel 635, durante il regno della dinastia Tang, missionari nestoriani arrivarono nella capitale cinese Chang’an dalla Persia, guidati da un vescovo, il cui nome nella trascrizione cinese suona come Aloben. I missionari furono ricevuti nel Palazzo Imperiale e incaricati di tradurre testi cristiani per la Biblioteca Imperiale. Nel 638 l’Imperatore Tai Zong emanò un decreto sulla tolleranza religiosa, in cui si affermava che «non esiste tao che sia chiamato sempre con lo stesso nome» e «non esiste saggio che abbia sempre lo stesso volto». In questo decreto il cristianesimo era definito come una religione «favorevole alle cose e alle persone». Al vescovo Aloben fu conferito il titolo di "custode del regno" e "sovrano della grande legge". L'imperatore ordinò inoltre di istituire un monastero cristiano nella capitale. Successivamente in Cina vennero fondate diverse centinaia di monasteri nestoriani. Ma due secoli dopo nell'Impero di mezzo prevalsero politiche isolazioniste e nell'845 l'imperatore Wukong emanò un decreto per chiudere i monasteri buddisti, taoisti e nestoriani. Poco dopo la Chiesa nestoriana in Cina cessò di esistere.

Una nuova tappa nella storia del cristianesimo cinese iniziò nel XIII secolo, quando arrivarono nel paese missionari cattolici dell’ordine dei francescani. La predicazione dei francescani ebbe come conseguenza il fatto che alla fine del XIII secolo in Cina si contassero già circa 30 mila cattolici. Nel 1579 fu fondata in Cina una missione gesuita. Una caratteristica della predicazione dei missionari gesuiti, forse meritevole di imitazione, consisteva nell’identificare o quanto meno avvicinare il culto imperiale cinese del “Cielo” alla venerazione biblica di un Unico Dio Creatore. Un successivo intervento della Congregazione della Fede del Vaticano mise fine a quell’atteggiamento che così tanto andava incontro alle superstizioni locali. Due secoli dopo, nel 1784, l’attività dei gesuiti in Cina fu vietata dall’Imperatore cinese, ma a quel tempo tali divieti interessarono i gesuiti anche negli Stati cristiani in Europa. Eppure, il numero dei cattolici in Cina alla fine del XVIII secolo raggiunse diverse centinaia di migliaia di persone.

I primi contatti della Cina con l'Ortodossia risalgono alla fine del XVII secolo, durante il regno della dinastia Manciù Qing. A quel tempo i possedimenti russi in Siberia e in Estremo Oriente erano vicini ai confini con la Cina, ma in mezzo era rimasto un ampio territorio, abitato da popoli minori, i cui insediamenti si trovavano su entrambe le rive dell'Amur: si trattava dei Dauri di lingua mongola, dei Nanai o Goldi di lingua tungusa, affini ai Manciù, ma anche dei Soloni, e degli Udeghi. A sud abitavano i Manciù, che in Cina avevano uno status privilegiato.

Nel 1651 l’atamano cosacco Erofej Pavlovič Chabarov fondò una fortezza russa sull’Amur, nel luogo dove prima si trovava la città del principe dauro Albaza. Khabarov la chiamò Albazino, e i cinesi la chiamarono Jaxa.  Il secondo imperatore della dinastia Qing, Kangxi, che regnò dal 1661 al 1722, cercò di cacciare i Russi da Albazino e dal territorio adiacente. Nel 1682 egli inviò un documento al governatore di Albazino, Aleksei Tolbuzin, in cui si intimava di liberare la fortezza. Poiché a questo ultimatum non seguì nessuna risposta, due anni dopo salpò verso la fortezza un esercito di cinquemila soldati, che navigò lungo l’affluente dell’Amur, il Sungari, e poi lungo lo stesso Amur. L'assedio si concluse con la resa della fortezza il 26 giugno 1685. In base a un accordo con il comando cinese ai soldati della guarnigione e agli abitanti di Albazino fu concesso di spostarsi a Nerčinsk, ma non a tutti. Secondo una versione 25 Albaziniani, con alcune donne e bambini, accettarono volontariamente di diventare sudditi dell’Imperatore cinese e furono poi trasferiti a Pechino. Secondo un’altra versione, queste persone furono portate con la forza da Albazino nella capitale dell'Impero Qing. Una delle spiegazioni del possibile consenso volontario di alcuni Albaziniani al cambio di cittadinanza fu, secondo V.P. Petrov, il fatto che molti dei cosacchi stabilitisi ad Albazino «avevano problemi con le leggi e le autorità russe, erano in qualche modo colpevoli di qualcosa e consapevoli che una volta tornati in Russia sarebbero incorsi in severe punizioni» (V.P. Petrov, Albaziniani in Cina, Washington 1956, 19).

A quel tempo a Pechino c'erano già alcuni Russi, arrivati lì come prigionieri o volontariamente, come transfughi. In totale, secondo fonti cinesi, furono catturati dai Cinesi o passarono volontariamente dalla loro parte: un cosacco chiamato I-fan (Ivan) con alcuni compagni nel 1649; 33 persone, guidate da Chi-li-ko-li (Gregorij), furono fatte prigioniere vicino al fiume Sungari nel 1668; infine 72 persone furono catturate ad Albazino nel 1684-85. I fuoriusciti di Albazino costituirono una sorta di nucleo della comunità russa, che proprio per questo fu chiamata comunità di Albazino. Sono noti i nomi dei cosacchi, che divennero i capostipiti degli Albaziniani cinesi: Dubininin, Romanov, Khabarov, Jakovlev e Cholostov. In cinese i cognomi dei loro discendenti sono oggi i seguenti: Du (), Lo (), He (), Jao () e He ().

A Pechino, gli Albaziniani entrarono a far parte della classe dei militari, che nell'Impero Qing aveva uno status privilegiato rispetto ai contadini, agli artigiani, agli scienziati e ai mercanti, in altre parole, se si ricorre ad analogie europee, questa classe corrispondeva alla nobiltà cinese. Più in alto c'erano solo i parenti dell'Imperatore, persone titolate e funzionari di alto rango, i Mandarini. Agli Albaziniani vennero assegnati appartamenti a nord di Pechino, dove era stanziata la guarnigione manciù. Per il sostentamento ricevevano due sacchi di riso al mese e, a titolo di retribuzione in denaro, tre ljan d’argento mensili, che corrispondevano a cinque rubli russi di allora (circa 500 euro). Inoltre, ai minori adolescenti della classe militare spettava un mantenimento che consisteva nella metà dello stipendio dei soldati adulti. Agli ufficiali e ai soldati veniva concessa a tempo indeterminato la proprietà di terre nelle vicinanze di Pechino con immunità fiscale. A coloro che erano rimasti senza moglie e agli Albaziniani celibi vennero date in moglie le vedove dei criminali giustiziati. Gli Albaziniani russi entrarono a far parte della Guardia del reggimento "della bandiera gialla bordata", in cui venivano reclutati i Manciù e dove l'accesso ai cinesi Han era vietato. Gli Albaziniani formarono nella Guardia Manciù una speciale compagnia russa Gudei, organizzata nel 1649 con i prigionieri russi. Il capo ereditario di questa compagnia era un ex cittadino russo, il tartaro battezzato Ananija Uruslanov, che in manciù si chiamava Ulangheri.

Lasciando Albazino, i Russi portarono con sé l'immagine di San Nicola di Myra, ampolle sacre e altri oggetti e utensili. Inoltre, condussero a Pechino il sacerdote Maksim Leontiev-Tolstuchov con la moglie e il figlio. In precedenza, i Russi che si trovavano a Pechino andavano a pregare nella cattedrale cattolica. Ma poi l’Imperatore cinese mise a loro disposizione il tempio mongolo buddista, trasformato in cappella consacrata in onore di Santa Sofia. Quando gli Albaziniani vi collocarono l'immagine di San Nicola, la cappella cominciò ad essere chiamata Nikol’skaja, i cinesi invece la chiamavano "Lochamjao", che significava "cappella russa". Proprio qui celebrava la messa il sacerdote Maksim Leontiev-Tolstuchov, che era stato portato a Pechino. Il metropolita di Tobol’sk Ignatij, sotto la cui giurisdizione era padre Maksim, gli scrisse: «Mi rallegro per te. Anche se tu stesso sei prigioniero, con l'aiuto di Dio catturi gli altri con la conoscenza della Verità evangelica. Prega assolutamente per l'imperatore cinese che ti ha fatto prigioniero, affinché il Signore moltiplichi le estati della sua vita e gli dia una nobile discendenza di eredi, lo salvi da ogni dolore e gli riveli la luce dell'istruzione evangelica».

Apprezzando molto il proprio status privilegiato, gli Albaziniani assimilavano i costumi dei Manciù di Pechino, radicalmente diversi dallo stile di vita e dalla morale dei cinesi naturali, gli Han. Essi vivevano al di sopra delle proprie possibilità, aspiravano al lusso, evitavano il lavoro fisico, consideravano umiliante lavorare nell'artigianato o nel commercio, divenendo così sempre più poveri e andando in rovina. Il sacerdote Sergij Borodin nel suo articolo Storia di Albazino e inizio della prima missione ortodossa russa in Cina descrive così lo stile di vita di un tipico Albaziniano: «Poco parsimonioso, si occupa di se stesso e della sua nobiltà, non sa come liberarsi dal fardello del tempo libero e dalla noia insopportabile, va costantemente in giro per le strade, alberghi e teatri e fuma oppio, malato nell’anima e nel corpo, sprofonda subito nei debiti con gli usurai della capitale, e finisce sulla bocca di tutti» (Sergej Borodin (sacerdote), Storia di Albazino inizio della prima missione ortodossa russa in Cina, in Kitajskij blagovestnik 3, 1935, 8). Uno dei capi della Missione Spirituale Russa in Cina, l'archimandrita Petr Kamenskij ha scritto: «si può quasi con certezza affermare che le loro forme di mutua assistenza, i doni che si facevano tra di loro e che facevano agli altri per il nuovo anno, i loro matrimoni e funerali, trasformassero i più ricchi in mendicanti in tre generazioni» (citazione da: Avraamij [monaco], La nostra cronaca, in Kitajskij blagovestnik 4, 1935, 14). Gli stessi costumi erano caratteristici anche dei Manciù di Pechino, la cui occupazione preferita era frequentare teatri e giocare d'azzardo. Sia i Manciù sia gli Albaziniani che li imitavano, apprezzavano più di ogni altra cosa l'abilità nel cavalcare e nel tirare con l'arco. Per un simile stile di vita i mezzi propri non bastavano, quindi non era considerato affatto sconveniente prendere in prestito soldi dai cinesi Han. Non restituire il debito, adducendo vari pretesti, poi, era considerato addirittura di gran classe. Allo stesso tempo, però, gli Albaziniani, che nel corso del tempo, nelle generazioni lontane dai primi coloni, avevano dimenticato il russo, con poche eccezioni, avevano conservato la loro fede ortodossa primigenia.

Nel 1711 morì il sacerdote Maksim Leont’ev-Tolstuchov. L'anno seguente lo zar Pietro il Grande stabilì l’istituzione di una missione spirituale della Chiesa Russa a Pechino. Otto chierici guidati dall'archimandrita Ilarion (Ležajskij), che in precedenza era stato superiore del Monastero Spasskij di Jakutsk, vennero inviati a Pechino. L’imperatore cinese accolse la missione con tutti gli onori: all'archimandrita Ilarion fu conferito il titolo di Mandarino di quinto grado, al sacerdote e al diacono della missione furono conferiti i titoli di Mandarini di settimo grado, mentre i sagrestani entrarono a far parte del ceto militare, al quale appartenevano gli Albaziniani. In segno di grazia e benevolenza una volta al mese l'imperatore si informava sulla salute del capo della missione tramite un suo funzionario. E, secondo l'etichetta cinese, era considerato un grande onore persino che l'imperatore volesse essere informato della salute di un funzionario due volte all'anno.

Gli uffici divini, celebrati nella chiesa della missione, attiravano i cinesi locali e alcuni di loro ricevettero il sacramento del Battesimo. I primi casi di cinesi battezzati risalgono al 1692, tra loro ci fu anche un Mandarino. Una conseguenza del successo della missione può essere considerata la decisione del Santo Sinodo, proposta dall'imperatore Pietro il Grande, di istituire una Cattedra vescovile a Pechino. L'imperatore però, in segno di avvertimento, aveva anche pronunciato le seguenti parole: «E’ cosa assai buona che a Pechino sia stata costruita una chiesa russa, che molti Cinesi siano stati battezzati, e anche che vi sia stata istituita una Cattedra. Ma agite con cautela, in modo da non provocare la collera delle autorità cinesi, così come dei gesuiti, che da molto tempo hanno lì un loro nido». Alla Cattedra istituita in Cina fu nominato il sacerdote Innocenzo, ma, su suggerimento dei gesuiti di Pechino, il vescovo non ottenne il permesso di entrare nel Paese. Sullo svolgimento e sulle conclusioni dei negoziati condotti a riguardo con i funzionari cinesi, a Pietroburgo si riferiva quanto segue: «I Cinesi non volevano sentire parlare del religioso, che nei documenti veniva onorato con il titolo di ‘gran signore’. I loro ministri hanno detto che l’Imperatore cinese non avrebbe mai permesso di accogliere una personalità così eminente, poiché lì ‘gran signore’ era il loro sommo sacerdote.... se venissero inviati un archimandrita o un sacerdote sarebbero accolti, ma un vescovo non sarà mai ammesso». Per risolvere positivamente la questione relativa all’istituzione di una Cattedra vescovile russa-ortodossa in Cina si dovette attendere per quasi due secoli, fino al 1902.

Presso l'Ambasciata russa, situata sul territorio della missione, fu costruita la Chiesa della Presentazione di Gesù al Tempio. Anche oggi l'Ambasciata russa nella Repubblica Popolare Cinese si trova nel luogo della sede originaria della missione. Per l'arrivo a Pechino della seconda missione venne costruita una chiesa nella corte dell’Ambasciata che fu consacrata in onore della festività della Presentazione di Gesù al Tempio, che si celebra il 15 febbraio. Presso la Chiesa fu fondato anche il Monastero della Presentazione al Tempio, destinato ai missionari. Durante gli anni in cui fu attiva la missione spirituale russa in Cina vennero costruite e consacrate circa cento chiese ortodosse e furono battezzati fino a dieci mila Cinesi.

Ma il successo della missione nell’opera di diffusione della fede Ortodossa in Cina non spostò in secondo piano la preoccupazione circa l’allontanamento degli Albaziniani dalla fede dei loro padri. Fin dall'inizio gli Albaziniani avevano preso in moglie donne della locale popolazione manciù e donne cinesi. Le mogli non potevano non influenzare i mariti ortodossi e soprattutto i figli, cosicché nei discendenti dei primi Albaziniani la fede nell’Ortodossia dei padri conviveva con le credenze pagane. Così scriveva nel 1831 il capo della missione spirituale, l'archimandrita Pietro, delle credenze e dei costumi degli Albaziniani: «L’Albaziniano Afanasij è un sotto ufficiale, un uomo ricco e altrettanto orgoglioso. Nella sua casa ci sono icone sacre lasciate dai suoi antenati, ma egli le onora con riti pagani, facendo sacrifici in loro nome. Gli ho fornito molti libri cristiani, ma non vengono usati» (citazione da Avraamij [monaco], La nostra cronaca, cit., 105). Ed ecco un’altra nota caratteristica: «l’Albaziniano Varnava pregò a lungo davanti a un'icona affinché suo figlio ricevesse lo stipendio pieno da soldato della guardia. A Dio non piacque sentire questa preghiera, e Varnava, non appena ebbe sentito che a suo figlio era stato negato lo stipendio, afferrò un coltello e fece l'icona in mille pezzi» (citazione da Avgustin [Nikitin], L’Archimandrita Avvakum Chestnoj, missionario, diplomatico, orientalista, in Missionerskoe obozrenie 9, 2002). Una reazione passionale tipicamente cinese quella di Varnava, un eccesso, uno scatto di nervi, certo, ma dietro c’è senza dubbio una deviazione nella psicologia religiosa dell’Albaziniano, dovuta all'influenza dell’ambiente circostante. Si tratta dell'estremo pragmatismo della religiosità cinese da lui assimilato, che ricorda il paganesimo romano basato sul principio del do ut des.

Eppure l'inevitabile assimilazione da parte degli Albaziniani aveva i suoi limiti. Per sangue essi erano Manciù o Cinesi Han quasi al cento per cento, antropologicamente non si differenziavano da questi ultimi, ma avevano comunque conservato la loro fede ortodossa e la coscienza della loro appartenenza al mondo russo. Ciò era in parte dovuto ad una caratteristica tradizionale del carattere nazionale cinese e delle credenze cinesi come il culto degli avi. Gli avi degli Albaziniani in linea maschile erano Russi, e questo fa sì che essi ancora si considerino in un certo senso persone russe. A questo proposito, è curioso il fatto che attualmente solo i discendenti dei Russi che hanno un cognome russo sono considerati Albaziniani, mentre non sono riconosciuti come veri Albaziniani i discendenti in linea femminile che non hanno ereditato il cognome russo. Le donne albaziniane sanno poco della propria storia, poiché i loro padri non ne hanno parlato con loro come invece hanno fatto con i figli maschi. Inoltre alle figlie femmine, a differenza dei figli maschi, gli Albaziniani raramente hanno rivelato i segreti delle loro origini, così per molte Albaziniane, a differenza degli Albaziniani maschi, le loro radici russe sono rimaste sconosciute.

Tornando all’opera della missione spirituale russa, è necessario parlare del significativo contributo dei suoi membri nello sviluppo degli studi orientali. I monaci scienziati della missione hanno gettato le basi della sinologia russa, hanno fatto una nuova traduzione della Bibbia, e hanno tradotto in cinese testi liturgici e le opere dei santi padri. Il più grande studioso tra i monaci della missione è stato Ioakinf (Bičurin), autore di numerosi studi religiosi, ma anche di libri e articoli sulla storia della Cina e della Mongolia, traduttore di testi cinesi e mongoli.

Ci sono stati anche momenti difficili nella storia della missione. Così scrive l'arciprete O.P. Roždestvenskij nel suo articolo Gli obiettivi dell’Ortodossia in Cina e il suo carattere particolare: «durante la quarta Missione la condizione del gregge era molto triste e deplorevole, le credenze cinesi stavano influenzando sempre più i discendenti dei Russi cresciuti in ambiente cinese. Alla Chiesa Ortodossa mancavano le forze. Le condizioni abitative erano particolarmente difficili. Dal 1758 al 1762 furono pagati gli stipendi; la maggior parte dei membri della quinta Missione morirono in Cina» (O.P. Roždestvenskij [arciprete mitroforo], Gli obiettivi dell’Ortodossia in Cina e il suo carattere particolare, in Kitajskij blagovestnik 6, 1935, 52).

A metà del XIX secolo, quando la colonia albaziniana nella capitale cinese contava 94 persone, la loro condotta morale destava preoccupazione tra i membri della missione. Secondo le parole di uno di loro, gli Albaziniani «consideravano indegna qualsiasi occupazione, poiché sostenevano di appartenere per nascita a una particolare classe di abitanti di Pechino, quella della guardia imperiale. Arroganti nel comportamento, orgogliosi della loro posizione privilegiata, non sapevano cosa fare nel tempo libero e vagabondavano per le strade, frequentavano sale da tè e alberghi, ristoranti e teatri, e cominciarono a fumare l’oppio. Poco a poco degradarono spiritualmente e fisicamente, indebitandosi e finendo nelle mani degli usurai». Ma i missionari non si arresero e in ogni modo cercarono di riportare sulla retta via il proprio gregge. Alla fine del secolo ci furono cambiamenti positivi nel comportamento e nei costumi degli Albaziniani, che per la maggior parte divennero fervidi sostenitori dell'Ortodossia. A cavallo tra il XIX e XX secolo il loro numero in Cina raggiunse le mille persone.

 

 

[Traduzione dal russo di Anna Caruso]