DA ROMA ALLA TERZA ROMA
XXXVIII SEMINARIO INTERNAZIONALE DI STUDI STORICI
Campidoglio, 20-21 aprile 2018
Università Europea di Roma
I GERMANI E L’IMPERO UNIVERSALE (SEC. IV-VI)
Sommario: 1. Tra convivenza ed emergenza militare: Roma e i Germani fino al V secolo. – 2. La percezione di una nuova stagione nei rapporti con Roma: il caso dei Visigoti. – 3. I segni della translatio imperii: dai Visigoti, ai Vandali, agli Unni di Attila.
L’espansione romana oltre il Reno non fu fermata dalla ribellione dei Germani. Il disastro di Teutoburgo, la strage di Varo e delle sue legioni, furono infatti vendicate da Germanico, che raggiunse nuovamente l’Elba, il confine che Augusto aveva confermato per l’impero romano nelle Res Gestae, ancora in occasione dell’ultima redazione dell’opera (26.1-2):
Omnium prov[inciarum populi Romani] quibus finitimae fuerunt gentes quae non p[arerent imperio nos]tro fines auxi. Gallias et Hispanias provincias, item Germaniam, qua includit Oceanus a Gadibus ad ostium Albis fluminis pacavi.
«Ampliai il territorio di tutte le province del popolo romano con le quali confinavano popolazioni riottose al nostro comando. Ristabilii la pace nelle province galliche e delle Spagne, e ugualmente nella Germania, nell’area che costeggia l’oceano da Cadice allo sbocco del fiume Elba» (trad. L. Canali).
A segnare il destino della Germania romana, dal Reno all’Elba, fu piuttosto la volontà di Tiberio. Conclusa la campagna del 16, Tiberio comunicò a Germanico, suo figlio adottivo e Cesare, che la guerra in Germania doveva essere terminata (Tacito, Annali 2.26). A suo giudizio, la vendetta del popolo romano era compiuta. Non era più necessario continuare a battersi. Per nove volte Tiberio aveva guidato le truppe imperiali in Germania, sotto gli auspici di Augusto; sapeva dunque ben valutare i meriti di Germanico e le sue qualità. Allo stesso tempo, non gli sembrava più opportuno proseguire la campagna, rischiando ancora gravi perdite. Meglio assecondare la fortuna, abbandonando i Germani transrenani ai loro conflitti interni.
Tiberio aveva maturato da tempo la sua decisione. Era convinto che l’Elba fosse un confine che non si poteva conservare. Occorreva che Germanico rinunciasse alle ambizioni che erano state in precedenza di Augusto, di Agrippa, di Druso. Più saggio appariva all’imperatore di fermarsi a presidiare il Reno per conservare sicura la Gallia. Secondo le intenzioni di Tiberio, il Reno doveva essere la frontiera tra il territorio direttamente sottoposto al dominio del popolo romano e il selvaggio spazio dei barbari germani. Così fu, per i secoli avvenire[1].
Nonostante questa scelta di Tiberio, per molti anni i rappresentanti del governo romano sulla riva sinistra del Reno mantennero influenza politica e militare sui territori e sulle popolazioni germaniche della riva destra. Più in generale, non venne meno l’interesse per il mondo dei Germani transrenani. Del resto, il Reno non fu mai una frontiera invalicabile, o una linea di demarcazione tra due mondi ostili e divisi. Non lo era prima di Cesare; non lo divenne dopo la decisione di Tiberio. La stessa conformazione del paesaggio rendeva impossibile questa situazione. Per assicurare la difesa della Gallia – vero obiettivo di Tiberio e dei suoi successori – venne dunque mantenuto un controllo a distanza delle genti transrenane. I governatori si impegnarono nell’uso di un’accorta diplomazia, talora sostenuta dalla minaccia deterrente di interventi anche pesanti contro le genti più ostili. Testimoniati sono pure accordi con le popolazioni transrenane, sovente disposte a trattare con Roma o perfino a sottomettersi alla sua autorità; oppure pronte a chiederne l’aiuto, in caso di conflitti[2].
A partire dalla seconda metà del I sec. d.C. venne organizzato un sistema di difesa della frontiera tra Reno e Danubio. Traiano (98-117), Adriano (117-138) e Antonino Pio (138-161) consolidarono l’opera di Vespasiano e Domiziano, trasformando il limes in una cintura di fortificazioni tra l’impero e lo spazio dei Germani, e di altri barbari. Non è possibile, tuttavia, pensare a una chiusura ermetica tra due mondi. I dati ricavabili dalle ricerche archeologiche indicano, infatti, forme di convivenza che, soprattutto per i Germani che vivevano a ridosso dei due fiumi, e per i Goti in epoca successiva, portarono quasi ad una simbiosi. La regione del Reno e quella del Danubio furono per secoli terre di frontiera, luogo di passaggio non solo per merci, ma anche per uomini, conoscenze tecnologiche, visioni culturali, culti religiosi.
La pace sulla frontiera del Reno e del Danubio durò fino alle guerre marcomanniche, quando Marco Aurelio si trovò a gestire un preludio drammatico della crisi che si verificò più acutamente dopo il 235. A partire, infatti, dai primi decenni del III secolo, la minaccia sulla frontiera romana fu portata non da singole genti transrenane, ma da confederazioni di Germani, guidati da validi comandanti. In particolare, ad insidiare la Germania inferior era la confederazione dei Franchi, lungo la riva settentrionale destra del Reno. Più a sud, minacciava invece la Germania superior la confederazione degli Alamanni. Sul Danubio, invece, premevano i Goti. Questa nuova condizione, unita all’emergenza su altri fronti – come quello orientale – fece saltare l’organizzazione difensiva dell’impero. Ne derivò una drammatica crisi, che investì l’impero tra Oriente e Occidente, portandolo quasi al disastro. L’emergenza venne affrontata da un gruppo di energici imperatori-soldati, di stirpe illirica. Grazie alla loro decisa reazione, a partire dal periodo tra la tetrarchia (284-305) e il regno di Costantino (306-337), si ristabilì per qualche decennio la frontiera del Reno e del Danubio. Fu la nuova pressione di altri feroci barbari, gli Unni, a rimettere in movimento le popolazioni germaniche transrenane e transdanubiane. A partire dall’autunno 376, lungo l’ultima parte del suo corso inferiore, il Danubio fu attraversato da masse di Goti e di altre popolazioni, in fuga dagli Unni. Il tentativo dell’imperatore Valente di fermare questa massiccia migrazione fallì con la disastrosa disfatta di Adrianopoli, nell’agosto del 378. Una sorte analoga registriamo per la frontiera del Reno, che venne definitivamente cancellata nei primi anni del V secolo. Sotto l’urto di diverse popolazioni barbariche, che fuggivano dalla guerra, dalla schiavitù unna, dalla fame, l’organizzazione romana dell’Europa occidentale venne meno a partire dal 407. Il processo ebbe compimento tra la fine di agosto del 476 e la primavera del 480, quando l’impero d’Occidente tramontò definitivamente[3].
Anche se i popoli invasori dell’impero prevalsero sugli eserciti provinciali romani e riuscirono pure a insediarsi, sostituendo le province imperiali con i nuovi regni autonomi romano-barbarici, è possibile individuare alcuni caratteri comuni nell’atteggiamento politico e culturale dei popoli di stirpe germanica verso Roma, verso la memoria della sua storia, e verso il suo supremo rappresentante, l’imperatore, sia quello d’Occidente, fino al 476-480; sia, successivamente, quello d’Oriente.
Molteplici potrebbero essere gli esempi per approfondire questo rapporto culturale, che è facilmente spiegabile come esito di una secolare simbiosi sulla frontiera. Mi soffermerò brevemente sulla vicenda dei Goti tervingi, poi conosciuti come Visigoti. A giudicare dal resoconto di Ammiano Marcellino, i Visigoti arrivarono allo scontro di Adrianopoli terrorizzati dalla necessità di affrontare l’esercito imperiale guidato dall’Augusto Valente. In quella calda giornata di agosto del 378, inaspettatamente i Goti vinsero. Dopo lo scontro di Adrianopoli, fu Teodosio a restituire la pace tra Romani e Visigoti. Lo fece anche con gesti eclatanti, come la decisione di accompagnare il feretro dell’antico nemico di Roma, il tervingio Atanarico, morto improvvisamente durante un soggiorno a Costantinopoli (fine gennaio 381). Fino alla morte di Teodosio (17 febbraio 395), i Visigoti rimasero fedeli servitori dell’impero. Poi, i rapporti si guastarono nuovamente, innescando una spirale di violenze che, dopo la morte del mediatore Stilicone (408), portò alla guerra e al sacco di Roma nel 410. Quasi nulla sappiamo di come i Visigoti vissero questo loro confronto con l’impero romano tra Oriente e, soprattutto, Occidente. Dopo essere scampati agli Unni, i Goti rimasero senza terra e senza pace per oltre venti anni. Per ricostruire l’atteggiamento dei loro capi e delle loro aristocrazie verso l’impero farò un rapido accenno ad alcune notizie[4].
Il primo emblematico episodio riguarda il re dei Visigoti Alarico ed è conservato dalla tradizione di Olimpiodoro, uno storico contemporaneo ai fatti, trasmessa attraversa il testo di uno storico più tardo, Zosimo. La vicenda risale al periodo di grave tensione tra Visigoti e impero d’Occidente, dopo la morte di Stilicone. Ai confini orientali d’Italia, Alarico attendeva con trepidazione una sistemazione del suo popolo nei territori dell’impero. Per diverse ragioni, nella primavera del 409, si arrivò a un’interruzione delle trattative di Alarico con l’imperatore Onorio. Alarico fu costretto a cambiare la sua politica: abbandonò la diplomazia, e si volse alla violenza. Assecondando le richieste di gran parte dei suoi guerrieri, si mise in marcia con il suo esercito per espugnare Roma. Lungo la via, tuttavia, ebbe dei ripensamenti. Scrive Zosimo, che riprende la vicenda da Olimpiodoro (V.50.2-51, 2):
Ἀλάριχος δὲ εἰς μετάμελον ἐλθὼν ἐπὶ τῇ κατὰ τῆς ῾Ρώμης ὁρμῇ, τοὺς κατὰ πόλιν ἐπισκόπους ἐξέπεμπε πρεσβευσομένους ἅμα καὶ παραινοῦντας τῷ βασιλεῖ μὴ περιιδεῖν τὴν ἀπὸ πλειόνων ἢ χιλίων ἐνιαυτῶν τοῦ πολλοῦ τῆς γῆς βασιλεύουσαν μέρους ἐκδιδομένην βαρβάροις εἰς πόρθησιν, μηδὲ οἰκοδομημάτων μεγέθη τηλικαῦτα διαφθειρόμενα πολεμίῳ πυρί, θέσθαι δὲ τὴν εἰρήνην ἐπὶ μετρίαις σφόδρα συνθήκαις.
Ταῦτα ἐπιεικῶς καὶ σωφρόνως Ἀλαρίχου προτεινομένου, καὶ πάντων ὁμοῦ τὴν τοῦ ἀνδρὸς μετριότητα θαυμαζόντων, Ἰόβιος καὶ οἱ τῷ βασιλεῖ παραδυναστεύοντες ἀνήνυτα ἔφασκον τὰ αἰτούμενα εἶναι, πάντων ὅσοι τὰς ἀρχὰς εἶχον ὀμωμοκότων μὴ ποιεῖσθαι πρὸς Ἀλάριχον εἰρήνην. ... Ἐπεὶ δὲ κατὰ τῆς τοῦ βασιλέως ὠμωμόκεσαν κεφαλῆς, οὐκ εἶναι θεμιτὸν αὐτοῖς εἰς τὸν τοσοῦτον ὅρκον ἐξαμαρτεῖν. Τοσοῦτον ἐτύφλωττεν ὁ νοῦς τῶν τότε τὴν πολιτείαν οἰκονομούντων, θεοῦ προνοίας ἐστερημένων.
«Alarico, pentitosi della sua decisione di muovere contro Roma, inviò i vescovi di ciascuna città come ambasciatori presso Onorio, e allo stesso tempo per esortarlo a non permettere che la città, che aveva regnato su gran parte della terra per più di mille anni, fosse abbandonata al saccheggio dei barbari, e che la magnificenza tanto grande degli edifici fosse annientata da fuoco nemico; concludesse piuttosto la pace a condizioni del tutto moderate. Queste cose propose Alarico con saggezza ed onestà, e tutti concordemente ammirarono la moderazione di quell’uomo; ma Giovio e gli altri che governavano a fianco dell’imperatore dissero che le richieste non erano accettabili, poiché tutti quelli che ricoprivano cariche avevano giurato di non fare la pace con Alarico. [...] Dal momento che avevano giurato sulla testa dell’imperatore, non era assolutamente consentito trasgredire un impegno tanto importante. A tal punto era accecata la mente di coloro che governavano lo Stato, privati della provvidenza divina».
Nella rappresentazione di Olimpiodoro/Zosimo, il barbaro Alarico si pente di una decisione tanto drastica: aggredire e conquistare Roma. Al contrario: rende omaggio alla città, al suo passato, alla sua maestà. Dunque, Alarico tenta di nuovo la via diplomatica, mentre già l’imperatore Onorio e i suoi ministri avevano abbandonato Roma al suo destino. Il re visigoto mostra dunque moderazione e presenta nuove condizioni di pace. Non sarà ascoltato, e Roma, a distanza di un anno, sarà infine saccheggiata dai Goti[5].
Una seconda celebre notizia è conservata da Orosio, storico dell’inizio del V secolo, che molto scrisse sulle vicende a lui contemporanee del sacco di Roma del 410. Orosio (VII.43.4-7) riferisce sull’atteggiamento verso l’impero del re Ataulfo, cognato di Alarico e suo successore nel 411. Narra Orosio che Alarico soleva raccontare:
Se inprimis ardenter inhiasse, ut oblitterato Romano nomine Romanum omne solum Gothorum imperium et faceret et vocaret essetque, ut vulgariter loquar, Gothia quod Romania fuisset et fieret nunc Athaulfus quod quondam Caesar Augustus, at ubi multa experientia probavisset neque Gothos ullo modo parere legibus posse propter effrenatam barbariem neque reipublicae interdici leges oportere, sine quibus respublica non est respublica, elegisse saltim, ut gloriam sibi de restituendo in integrum augendoque Romano nomine Gothorum viribus quaereret habereturque apud posteros Romanae restitutionis auctor, postquam esse non potuerat immutator. Ob hoc abstinere a bello, ob hoc inhiare paci nitebatur, praecipue Placidiae uxoris suae, feminae sane ingenio acerrimae et religione satis probae, ad omnia bonarum ordinationum opera persuasu et consilio temperatus.
«(Ataulfo era solito affermare) di aver dapprima ardentemente desiderato di cancellare il nome romano, di fare di tutto il territorio romano l’impero dei Goti o – per usare un’espressione popolare – che divenisse Gothia ciò ch’era stato Romania, e di diventare lui, Ataulfo, nel suo tempo quello che un tempo era stato Cesare Augusto. Ma poi, convintosi per lunga esperienza che né i Goti potevano in alcun modo ubbidire alle leggi, a causa della loro sfrenata barbarie, né era opportuno cancellare le leggi dello Stato, senza le quali lo Stato non è Stato, scelse di ottenere con la forza dei Goti almeno la gloria di restaurare nella sua integrità, anzi d’accrescere il nome romano e di essere ricordato presso i posteri come artefice della ripresa dell’impero romano, dal momento che non aveva potuto trasformarlo. Per questo si sforzava di evitare la guerra e di inseguire la pace, disposto a ogni atto di buon governo specialmente dai saggi consigli di sua moglie Placidia, donna di acutissima intelligenza e di sincero spirito religioso».
L’accostamento tra il passo di Olimpiodoro-Zosimo, sull’ammirazione di Alarico per Roma, e questo passo riferito da Orosio, sulle intenzioni politiche di Ataulfo verso l’impero, indica che, a giudicare da questi discorsi che circolavano nell’entourage dei re, almeno una parte dell’aristocrazia dei Visigoti era ben consapevole di portare grandi rivolgimenti nell’assetto dell’impero; ma era, allo stesso tempo, rispettosa della maestà di Roma e ammirata dalla superiorità del suo impero «che aveva regnato su gran parte della terra per più di mille anni». I Visigoti cercarono l’accordo politico con l’impero, che arrivò finalmente sotto Vallia nel 418. E cercarono, soprattutto, una legittimazione alla loro presenza sugli antichi territori dell’impero romano e al loro ingresso potremmo dire eversivo nella storia di Roma. Ataulfo, come noto, ci provò attraverso il matrimonio con la principessa imperiale Placidia, celebrato nel gennaio 414 a Narbona. Una bella festa per Goti e Romani, come ricorda Olimpiodoro (fr. 24)[6].
Insieme al tentativo di un’intesa matrimoniale tra il re dei Goti e la principessa figlia di Teodosio, v’è un altro suggestivo episodio per comprendere la percezione che i Goti avevano del loro potere rispetto all’impero di Roma. Nel ricordare gli eventi successivi alla vittoria di Clodoveo a Vouillé nel 507, lo storico di età giustinianea Procopio di Cesarea afferma (Guerra gotica I.12.39-41):
Διὸ δὴ καὶ Γόθτων σφίσιν οὔπω παρόντων Ἀλάριχος ἠνάγκαστο τοῖς πολεμίοις διὰ μάχης ἰέναι. καθυπέρτεροι δὲ Γερμανοὶ ἐν τῇ ξυμβολῇ ταύτῃ γενόμενοι τῶν τε Οὐισιγότθων τοὺς πλείστους καὶ Ἀλάριχον τὸν ἄρχοντα κτείνουσι. καὶ Γαλλίας μὲν καταλαβόντες τὰ πολλὰ ἔσχον, Καρκασιανὴν δὲ πολλῇ σπουδῇ ἐπολιόρκουν, ἐπεὶ τὸν βασιλικὸν πλοῦτον ἐνταῦθα ἐπύθοντο εἶναι, ὃν δὴ ἐν τοῖς ἄνω χρόνοις Ἀλάριχος ὁ πρεσβύτατος Ῥώμην ἑλὼν ἐληίσατο. ἐν τοῖς ἦν καὶ τὰ Σολόμωνος τοῦ Ἑβραίων βασιλέως κειμήλια, ἀξιοθέατα ἐς ἄγαν ὄντα. πρασία γὰρ λίθος αὐτῶν τὰ πολλὰ ἐκαλλώπιζεν, ἅπερ ἐξ Ἰεροσολύμων Ῥωμαῖοι τὸ παλαιὸν εἷλον.
«Per questa ragione Alarico fu costretto dai nemici a dare battaglia, pur non essendo ancora arrivati i Goti. Dal momento che prevalsero in questo scontro, i Germani uccisero la maggior parte dei Visigoti e il loro sovrano Alarico. Occuparono e tennero la maggior parte delle Gallie, e assediarono con grande impegno Carcassone, poiché ritenevano che vi si trovasse il tesoro regio, che Alarico il vecchio aveva preso nei tempi antichi al momento del sacco di Roma. Tra queste ricchezze v’erano anche oggetti appartenuti al re degli Ebrei Salomone, meravigliosi alla vista. Smeraldi ornavano la maggior parte di questi oggetti, che i Romani in antico avevano preso da Gerusalemme».
Nel corso del saccheggio, Alarico diede ordine di riservare per sé importanti tesori conservati da secoli a Roma. Nel caso dei pezzi provenienti dal tesoro di Salomone non si trattava di avidità. Tanto Alarico, quanto poi i Franchi di Clodoveo riconoscevano il valore simbolico e carismatico di questi oggetti. D’altra parte, Procopio ci offre informazioni anche sull’interesse di un altro re germanico al tesoro di Salomone. Considerando il carattere limitato del loro saccheggio, molti oggetti del tesoro di Salomone erano rimasti a Roma. Non sfuggirono al saccheggio, assai più devastante e metodico, dei Vandali di Genserico nel 455.
Procopio (Guerra vandalica II.9.5-9) ricorda infatti che dopo la conquista di Cartagine e l’annientamento del regno dei Vandali, Belisario, generale di Giustiniano, ottenne un grande trionfo a Costantinopoli nel 534. Sfilarono per le strade della Roma d’Oriente gli oggetti provenienti dal tesoro dei Vandali:
Ἦν δὲ καὶ ἄργυρος ἕλκων μυριάδας ταλάντων πολλὰς καὶ πάντων τῶν βασιλικῶν κειμηλίων πάμπολύ τι χρῆμα (ἅτε Γιζερίχου τὸ ἐν Ῥώμῃ σεσυληκότος Παλάτιον, ὥσπερ ἐν τοῖς ἔμπροσθεν λόγοις ἐρρήθη), ἐν οἷς καὶ τὰ Ἰουδαίων κειμήλια ἦν, ἅπερ ὁ Οὐεσπασιανοῦ Τίτος μετὰ τὴν Ἱεροσολύμων ἅλωσιν ἐς Ῥώμην ξὺν ἑτέροις τισὶν ἤνεγκε. Καὶ αὐτὰ τῶν τις Ἰουδαίων ἰδὼν καὶ παραστὰς τῶν βασιλέως γνωρίμων τινὶ "Ταῦτα" ἔφη, "τὰ χρήματα ἐς τὸ ἐν Βυζαντίῳ Παλάτιον ἐσκομίζεσθαι ἀξύμφορον οἴομαι εἶναι. οὐ γὰρ οἷόν τε αὐτὰ ἑτέρωθι εἶναι ἢ ἐν τῷ χώρῳ οὗ δὴ Σολομὼν αὐτὰ πρότερον ὁ τῶν Ἰουδαίων βασιλεὺς ἔθετο. διὰ ταῦτα γὰρ καὶ Γιζέριχος τὰ Ῥωμαίων βασίλεια εἷλε καὶ νῦν τὰ Βανδίλων ὁ Ῥωμαίων στρατός". ταῦτα ἐπεὶ ἀνενεχθέντα βασιλεὺς ἤκουσεν, ἔδεισέ τε καὶ ξύμπαντα κατὰ τάχος ἐς τῶν Χριστιανῶν τὰ ἐν Ἱεροσολύμοις ἱερὰ ἔπεμψεν.
«C’era anche argento, del peso di molte migliaia di talenti, e una grande fortuna derivante dagli oggetti del tesoro regio (dal momento che Genserico aveva spogliato il Palatino a Roma, come si è narrato nel libro precedente). Tra questi oggetti v’erano pure quelli degli Ebrei, che Tito, figlio di Vespasiano, aveva portato a Roma insieme ad altri dopo la conquista di Gerusalemme. Uno tra gli Ebrei vide queste cose e avvicinando uno di quelli che erano nella cerchia dell’imperatore disse: “credo che sia sconveniente trasferire queste ricchezze nel palazzo di Costantinopoli. Non è infatti possibile che questi oggetti siano in un luogo diverso da quello dove li pose in origine Salomone, re degli Ebrei. Per questa ragione, infatti, Genserico espugnò il palazzo dei Romani e ora l’esercito romano ha espugnato quello dei Vandali”. Quando l’imperatore ascoltò queste cose, ebbe timore e fece inviare rapidamente tutte queste cose nei luoghi sacri dei cristiani a Gerusalemme».
Anche Genserico, il re dei Vandali, aspirava, come Alarico e poi Clodoveo, a essere riconosciuto come fondatore di un nuovo dominio, libero e indipendente dall’impero romano; ma in piena e legittima continuità con questo. Di conseguenza, il re dei Vandali considerò il sacco di Roma come un’occasione per trasportare l’enorme ricchezza e bellezza di Roma a Cartagine, la capitale del suo nuovo Stato. Nella sua visione, evidentemente, la translatio imperii da Roma alla nuova Cartagine si realizzava anche attraverso il trasferimento dei segni del potere. Oggetti che già i Romani avevano trasferito a Roma dai diversi regni conquistati. La stessa visione era stata condivisa dai sovrani dei Visigoti e dei Franchi. Evidentemente, Alarico, Genserico e Clodoveo erano pienamente consapevoli del significato simbolico e politico di questi oggetti per la fondazione del loro potere. Infatti, dal momento che Salomone era stato figlio di Davide e re della monarchia ebraica, il suo tesoro era simbolo della sacra basileia descritta nella Bibbia. Il possesso degli oggetti appartenuti a Salomone era in grado di legittimare il passaggio della egemonia in Occidente dall’impero di Roma ormai evanescente alle nuove monarchie romano-barbariche.
Sotto l’influenza dei racconti della Bibbia, Goti, Vandali e Franchi, di fede ariana, consideravano il tesoro di Salomone come un potente e sacro simbolo del potere; e il possesso di questi oggetti come garanzia di legittimità e stabilità della monarchia. Nel 410 Alarico, re dei Visigoti, poté impadronirsi solo di alcuni gioielli adornati con smeraldi. Nel 455, Genserico poté saccheggiare il tesoro del Tempio, ancora rimasto a Roma. Dopo aver sbaragliato Alarico II a Vouillé, Clodoveo volle impadronirsi di una parte del tesoro.
Queste testimonianze, relative alla trasmissione del tesoro di Salomone ai sovrani barbarici, confermano la volontà dei popoli di stirpe germanica insediati negli antichi territori dell’impero romano d’Occidente di inserirsi in una continuità religiosa, culturale e politica con esso. Allo stesso tempo, con atteggiamenti diversi, queste popolazioni erano comunque disposte a riconoscere la superiorità dell’unico basileus di Costantinopoli.
In suggestiva contrapposizione a questo modello è, invece, l’atteggiamento di Attila, sovrano che intendeva sostituire l’impero di Roma con quello degli Unni. Le testimonianze in nostro possesso indicano che le forme di legittimazione del suo potere universale non avvenivano in continuità con quelle accettate anche dai Romani – rappresentate dalla continuità con la basileia di Salomone nel caso dei popoli germanici. Al contrario. Una fonte autorevole, e contemporanea all’epoca di Attila, Prisco di Panio, informa su questo atteggiamento del re degli Unni. In particolare (fr. 10 Mü. = Iordanes, Getica 183):
Qui [sc. Attila] quamvis huius esset naturae, ut semper magna confideret, addebat ei tamen confidentia gladius Martis inventus, sacer apud Scytharum reges semper habitus, quem Priscus istoricus tali refert occasione detectum. Cum pastor, inquiens, quidam gregis unam boculam conspiceret caludicantem nec causam tanti vulneris inveniret, sollicitus vestigia cruoris insequitur tandemque venit ad gladium, quem depascens herbas incauta calcaverat, effosumque protinus ad Attilam defert. Quo ille munere gratulatus, ut erat magnanimis, arbitratur se mundi totius principem constitutum et per Martis gladium potestatem sibi concessam esse bellorum.
«Nonostante che Attila fosse di un carattere tale da osare sempre tutto, gli aumentò l’ardire il ritrovamento della spada di Marte, ritenuta sempre sacra dai re sciti. Lo storico Prisco narra che fu ritrovata nella seguente occasione. Quando un pastore notò che una giovenca del suo gregge zoppicava, e non riusciva a trovare la causa di tale ferita, si mise a seguire attentamente le tracce di sangue. E alla fine trovò una spada che l’animale, mentre pascolava l’erba, aveva inavvertitamente calpestato. La dissotterrò e immediatamente la portò ad Attila. Il re gioì di questo dono e pensò, da quell’uomo di grande coraggio che era, di essere stato designato come sovrano del mondo intero e che grazie a questa spada di Marte gli fosse assicurata la superiorità in guerra» (trad. F. Bornmann).
Attila sperava nell’appoggio di divinità pagane per fondare il suo impero. La legittimazione del suo potere era dunque diversa e contrapposta rispetto a quella che i re germanici cercavano, attraverso il tesoro di Salomone, per inserire i loro regni in continuità con l’impero carismatico di Roma nei territori d’Occidente. Secondo questa visione, che è del tutto assente dal pensiero di Attila, i regni romano-barbarici erano eredi diretti attraverso Roma della basileia di Davide e Salomone[7].
[Un evento culturale, in
quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi
valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per questa
ragione, gli scritti di questa parte della sezione “Memorie” sono stati
valutati “in chiaro” dal Comitato promotore del XXXVIII Seminario
internazionale di studi storici “Da Roma alla Terza Roma” (organizzato dall’Unità
di ricerca ‘Giorgio La Pira’ del
CNR e dall’Istituto di Storia Russa dell’Accademia delle
Scienze di Russia, con la collaborazione della ‘Sapienza’ Università di
Roma, sul tema: «IMPERO UNIVERSALE, CITTÀ, COMMERCI: DA ROMA A MOSCA, A
NERČINSK») e dalla direzione di Diritto @ Storia]
[1] Sulla rinuncia di Tiberio alla Germania cfr. G.A. Lehmann, Das Ende der römischen Herrschaft über das ‘westelbische’ Germanien: von der Varus-Katastrophe zur Abberufung des Germanicus Caesar 16/7 n. Chr., in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik 86, 1991, 71 ss., 85; R. Wolters, Die Schlacht im Teutoburger Wald. Arminius, Varus und das römische Germanien, München 2008, 134 ss.; G. Zecchini, La politica di Roma in Germania da Cesare agli Antonini, in Aevum 84, 2010, 187 ss., partic. 193 s.; U. Roberto, Il nemico indomabile. Roma contro i Germani, Roma 2018, 183 ss.
[2] Interessante al riguardo il caso dei
rapporti con il popolo transrenano dei Catti: cfr. R. Wolters, Die Chatten zwischen Rom und den germanischen Stämmen. Von Varus bis zu Domitianus, in Feindliche Nachbarn. Rom und die
Germanen, hrsg. v. H. Schneider, Köln-Wien 2008, 77 ss.
[3] Sul confronto tra impero romano e
popolazioni germaniche dall’epoca delle guerre marcomanniche
fino al V secolo cfr. B. Bleckmann, Die Germanen,
München 2009, 155 ss.; U. Roberto,
Roma capta. Il sacco della città dai Galli ai Lanzichenecchi, Roma-Bari
2012; sui rapporti con i Goti: H. Wolfram,
Storia dei Goti, Roma 1985. Sulla rappresentazione dei barbari in età
tardoantica cfr. pure i saggi in A. Chauvot, Les «barbares» des Romains.
Représentations et confrontations, études réunies par A. Becker & H. Huntziger, avec
le concours de C. Freu & O. Huck,
Metz 2016.
[4] Cfr. N. Lenski, Failure of Empire. Valens and the Roman State in the Fourth Century A.D., Berkeley 2002, 320 ss.; M. Kulikowski, Rome’s Gothic Wars: from the third century to Alaric, New York 2007, 123 ss. Sul rapporto tra Teodosio e i Goti cfr. V. Neri, La politica gotica di Teodosio nella storiografia dell’età della dinastia teodosiana, in Potere e politica nell’età della famiglia teodosiana (395-455), a cura di I. Baldini Lippolis - S. Cosentino, Bari 2013, 7 ss.
[5] Sul passo cfr. Alarico e il sacco di Roma nelle fonti dell’Oriente romano, in The Fall of Rome in 410 and the Resurrections of the Eternal City, edited by H. Harich-K. Pollmann, Berlin-New York 2013, 109 ss.
[6] Sul celebre brano di Orosio cfr. A.
Marchetta, Orosio e Ataulfo nell’ideologia dei rapporti romano-barbarici,
Roma 1987. Sul matrimonio tra Ataulfo e Galla
Placidia cfr. M. Cesa, Il
matrimonio di Placidia ed Ataulfo sullo sfondo dei
rapporti fra Ravenna e i Visigoti, in Romanobarbarica 12, 1992-1993,
23 ss.; G. Assorati,
Il matrimonio fra Ataulfo e Galla Placidia tra
prassi e diritto, in V. Neri - B.
Girotti, La famiglia tardoantica. Società, diritto, religione,
Milano 2016, 269 ss. Cfr. pure H. Sivan, Why not marry a barbarian?
Marital frontiers in Late Antiquity (CTh 3, 14, 1), in Shifting Frontiers in Late Antiquity, edited by R.W. Mathisen – H.S. Sivan, Aldershot
1996, 136 ss.
[7] Sulla visione di Attila che ambiva alla costruzione di una egemonia universale degli Unni cfr. K. Rosen, Attila. Der Schrecken der Welt, München 2016, 185 ss.