SWPS - University of Social Sciences and Humanities
in Warsaw (Poland)
Impunibilità di chi agisce nell’interesse pubblico
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Sulla sua collocazione. – 3. La regola D. 50.15.116.1 nel contesto di altre fonti. –Abstract.
La presente ricerca ha per oggetto una delle regole
giuridiche meno conosciute del diritto romano. Il suo autore è Ulpiano,
giurista tardo-classico. La regola ci è pervenuta attraverso quei
compilatori che intesero inserirla nel Libro cinquantesimo del Digesto, sotto il titolo 17 De diversis regulis iuris antiqui. Di seguito, è stato
riportato il tenore del testo proposto da Ulpiano.
D. 50.17.116.1 (Ulp. 11 ad ed.): Non capitur, qui
ius publicum sequitur.
Che la regola fosse marginalizzata, lo testimonia il
fatto di non essere menzionata in alcuna raccolta di regole, antica[1] o moderna[2], né è stata
inserita fra i princìpi del diritto romano. Nella letteratura romanistica questo brano è, essenzialmente,
trattato marginalmente[3].
Una modesta collocazione fu data da G.
Aricò Anselmo, che prospettò taluni dubbi sulla natura
interpretativa, derivanti dal fatto che i compilatori intesero estrapolare la
frase dal suo contesto originario e le attribuirono il carattere di principio
di diritto[4].
La medesima collocazione della regola
ulpianea fatta dai compilatori fa pensare che, presumibilmente, la stessa fosse
legata all’undicesimo Libro del commentario di Ulpiano all’editto
pretorio.
O. Lenel, nella ricostruzione
dell’Editto Pretorio, collocò il passo nel titolo X, § 41 De minoribus viginti quinque annis che
assunse il seguente tenore[5]:
Praetor edicit:
Quod cum minore quam viginti cinque annis natu gestum esse dicetur, uti quaeque
res erit, animadvertam.
Secondo l’Autore, fu disposto che,
colui che avesse compiuto un negozio giuridico con una persona minore di 25
anni, avrebbe dovuto tenere conto di un intervento del pretore qualora, in
seguito a tale negozio, fossero stati lesi gli interessi economici dei minores. O. Lenel, nel commentare l’editto,
si limitò, esclusivamente, a sottolineare che non era previsto alcun
termine entro cui i minores si
potessero rivolgere al pretore a mezzo della domanda di curatela pretoria
tramite l’adozione dell’istituto in integrum restitutio proptaer aetatem.
Ai fini del
presente saggio, detto aspetto risulta, comunque, una questione marginale[6]. È,
invece, di rilevante importanza il fatto che O. Lenel non prevedesse nel testo
dell’editto né nella ricostruzione del commentario di Ulpiano
all’editto alcun riferimento alla regola Ulpianea. Non è facile
determinare la circostanza, ma si può affermare che il testo della
regola di Ulpiano del D. 50.17.116.1 non fosse per O. Lenel strettamente legato
all’editto stesso come tale, né al relativo commento di Ulpiano a quell’editto.
La tesi si basa sulla collocazione della regola Non capitur, qui ius
publicum sequitur che O. Lenel inserì nella Palingenesia alla
penultima collocazione nei conservati frammenti del commentario di Ulpiano
all’undicesimo Libro del commento all’editto pretorio.
Ciò su cui occorre dibattere
è che la regola di Ulpiano sottoposta a questa nostra analisi, nella sua
eloquenza, è tanto espressiva quanto significativa per il diritto romano
nonché per i sistemi giurisprudenziali moderni. Essa presenta la
soluzione ad un problema giuridico assai rilevante. Non vi è dubbio
alcuno, infatti, che meglio possa essere chiarito il regime della
responsabilità, e più precisamente la disciplina di esonero (excusatio) dalla responsabilità
civile per un danno arrecato nel caso in cui l’attore avesse agito
conformemente al diritto positivo.
Tutti quei
dubbi che si pongono in relazione al significato originario della regola di
Ulpiano D. 50.17.116.1 vanno risolti mediante l’analisi della sua
collocazione, effettuata dai compilatori e, successivamente, da O. Lenel nella
Palingenesia.
Dall’analisi
dei Digesta, e dall’evidente intento dei compilatori, deriva che, il
principio era, in origine, richiamato dall’undicesimo Libro del
commentario di Ulpiano all’editto. Il paragrafo 116 del diciassettesimo
titolo del Libro cinquantesimo dei Digesta è composto da tre regole di
diverso significato ciascuna. La regola oggetto del presente saggio si colloca
tra le altre due. L’elemento che le unisce prima facie è proprio Ulpiano.
Risulta,
pertanto, necessario comprendere il motivo per cui i compilatori collocassero
le tre regole di diverso significato nello stesso paragrafo. Occorre, dunque,
effettuare un’analisi semantica delle tre regole collocate in D.
50.17.116.
La
prima di esse è qui di seguito riportata:
D. 50.17.116 pr.: Nihil
consensui tam contrarium est, qui ac bonae fidei iudicia sustinet, quam vis
atque metus: quem comprobare contra bonos mores est.
La regola su
citata riguarda l’efficacia di un negozio giuridico compiuto da un
soggetto sotto minaccia (metus).
Secondo Ulpiano tale negozio era da intendersi nullo e il suo conseguente
riconoscimento costituiva un’offesa contra
bonos mores. A. Watson, in questo caso, richiamava l’invalidità
del negozio giuridico in quanto avvenuto in assenza del consenso effettivo tra
le parti[7].
Il terzo
frammento o la terza regola inserita in D. 50.17.116 assume il seguente tenore:
D. 50.17.116.2: Non
videntur qui errant consentire.
Secondo Ulpiano l’obbligazione contratta a seguito di
un errore non produce effetti giuridici; il che vuol dire che quella persona
che ha agito per errore non avrebbe, effettivamente, acconsentito a porre in
essere l’istituto giuridico.
Secondo M. Kaser si tratta, piuttosto, di una accezione
post-classica, ricondotta ad Ulpiano solo dai compilatori. Nel periodo
classico, appunto, l’errore veniva preso in considerazione esclusivamente
quando rendeva impossibile la conclusione di un contratto, quale elemento essenziale
(essentialia negotii) del negozio
giuridico[8].
Tra le regole sopra richiamate si trova anche quella oggetto
del presente saggio ovvero: D. 50.17.116.2: Non capitur, qui ius publicum
sequitur, tradotto <Non
sostiene la responsabilità, chi segue le regole del diritto pubblico>[9]. Di qui il quesito: cosa unisce le tre
regole o i frammenti oltre all’identità dell’autore? La
collocazione dei frammenti, eseguita dai compilatori, era casuale? Sicuramente
la disamina richiama un’obiettiva circostanza: i tre frammenti si
riferivano a questioni in tema di validità o invalidità del
negozio giuridico. I compilatori vollero presentare in quel breve paragrafo le
tre principali regole recanti le linee guida per decidere sulla validità
o sull’invalidità di un negozio giuridico compiuto in seguito ad
un errore (error) o sotto minaccia (metus).
L’estrapolazione
dei tre frammenti dalla loro originaria collocazione portò O. Lenel a
dirimere rilevanti dubbi, in quel tentativo intrapreso nella Palingenesia di invertire
l’opera dei compilatori[10]. La prova di
ciò è il frazionamento del paragrafo 116 e la collocazione della
sua prima parte (D. 50.17.116 pr.) nel libro undicesimo del commentario
all’editto sotto il titolo Quod
metus causa gestu erit, mentre gli altri due frammenti (D. 50.17.116.1 e 2)
furono aggiunti alla fine dello stesso commentario sotto il titolo De minoribus XXV annis.
Si
può, con certezza, constatare che i compilatori, nel realizzare il
titolo De diversis regulis antiqui
nel libro cinquantesimo, preferivano quelle locuzioni idonee ad essere
addattate alla forma di principio giuridico. Non di rado ciò comportava
una variazione del significato originario[11].
Non
si può escludere che la
regola di cui ci occupiamo fosse parte dell’analisi eseguita da Ulpiano
al fine di spiegare il motivo per cui non fosse adottabile il provvedimento
della tutela stragiudiziale - restitutio
in integrum, e per il quale la stessa fosse prevista dal pretore
nell’editto (com. EP3, 116.3)
ai fini della protezione dei minori [minores viginti quinque annis][12].
In tal senso, anche G.
Aricò Anselmo ha confermato che l’esclusione
dall’applicazione dell’istituto della tutela stragiudiziale era
possibile, poiché il compimento di un negozio giuridico con un minore e la
sua realizzazione erano conformi alla legge[13].
La suddetta argomentazione
trova riscontro con quanto proposto da Papiniano (D. 46.1.51.4)[14]. Secondo l’autore,
un minor non riceveva la tutela
stragiudiziale in forma di restitutio in
integrum contro quel confideiussore (fideiussor)
che, all’instaurazione della lite (litis
contestatio) con uno dei creditori, diventasse insolvente. In una tale
situazione, sulla base del beneficium
divisionis, ciascun fideiussore poteva chiedere la ripartizione del debito
con gli altri fideiussori. Ne conseguiva l’estinzione
dell’obbligazione solidale e ogni fideiussore era responsabile solo della
parte del debito da lui dovuto e non dell’intero.
Un fideiussore minorenne
non poteva esonerarsi dall’obbligo di pagamento della pro quota, ed evidentemente erano utili
i provvedimenti di tutela stragiudiziale ovvero la restitutio in integrum. La divisione del debito tra i
confideiussori obbligava il minorenne, poiché l’obbligazione
derivava non dal contratto ma dalle prescrizioni di legge[15]. Questa regola fu considerata
un’eccezione dal sistema di tutela degli interessi del minor.
Ne consegue che il
significato della regola di Ulpiano va esaminato nel contesto degli altri,
ugualmente problematici, frammenti dei prudentes.
Già ad una prima lettura, il testo di Ulpiano D.
50.15.116.1: Non capitur, qui ius
publicum sequitur e la sopradescritta analisi dei documenti e della
dottrina consentono di accertare che i compilatori
intendessero realizzare una regola giuridica che risolvesse il quesito della
responsabilità dell’autore di un negozio giuridico sulla base
delle prescrizioni del diritto positivo. La questione chiave rimane, comunque,
quella di definire l’accezione usata da Ulpiano di ius publicum.
La locuzione ius publicum, prima facie,
richiama la nostra attenzione alla ripartizione del Diritto, riportata dai
compilatori all’inizio del primo libro dei Digesta.
D. 1.1.1.2 (Ulp. 1 Inst.): Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum
ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum
utilitatem…
Fu Ulpiano a proporre una chiara
distinzione tra diritto privato e diritto pubblico[16], distinzione fondata sul concetto di
utilità – utilitas[17].
Esistono, appunto, leggi che mirano alla
regolamentazione delle relazioni tra persone fisiche e, secondo le comuni
moderne espressioni, persone giuridiche. Esistono, poi, quelle leggi
prevalentemente pubblicistiche. Niente fa pensare, però, che il concetto
di ius publicum così percepito
sia identico al concetto adoperato da Ulpiano in D. 50.17.116.1.
Secondo Ch.J. Mühlenbruch[18], pandettista tedesco meno noto, bisognerebbe,
piuttosto, fare riferimento alla definizione che Cicerone diede dello ius publicum.
Cic., De partitione Oratoria 130: Scriptorum autem privatum aliud est,
publicum aliud: publicum lex, senatusconsultum, foedus, privatum tabulae,
pactum conventum, stipulatio.
Nella sua opera, Cicerone introdusse
diverse distinzioni, corredandole di numerosi esempi. Per il diritto scritto (scriptorum), esso si divide in pubblico
(publicum) e privato. Nel diritto
pubblico si inseriscono le leggi (lex),
le delibere senatorie (senatusconsulta),
o i trattati di alleanza costituiti dallo stato romano (foedus). Nel diritto privato, invece, rientrano tutti i tipi di
documenti privati (tabulae), i
contratti (pacta) e le stipulazioni (stipulationes). E’ di tutta
evidenza che Cicerone attribuiva al concetto di ius publicum un significato completamente diverso
dall’accezione ulpianea di D.
1.1.1.2.
La spiegazione dei significati della locuzione ius publicum adoperati da Cicerone nel
sopraddetto testo e da Ulpiano in D. 1.1.1.2 può rinvenirsi mediante l’analisi di
ulteriori fonti del diritto di Ulpiano, ma anche di Paolo, Papiniano, Gaio e
Callistrato. La prima di esse proviene dallo stesso Ulpiano.
D. 26.1.8 (Ulp. l. primo opinionum): Patronus quoque tutor liberti sui fidem exhibere debet, et si qua in fraudem debitorum quamvis pupilli liberti gesta sunt, revocari ius publicum permittit.
Nel suddetto brano l’Autore si
riferisce alla nomina a tutore dell’ex padrone del liberto minorenne (minor). Nella fattispecie, il tutore era
obbligato a rispettare tutte le regole previste dalla legge per tale
circostanza[19]. In particolare, il padrone era tenuto
ad agire in maniera onesta (tutor liberti sui fidem exhibere debet). Nella seconda frase del sopraccitato frammento Ulpiano
riporta un esempio piuttosto rilevante e concernente l’atto
pregiudizievole al creditore del minore. Atto che doveva emergere da un negozio
giuridico compiuto dal tutore. In teoria, qualora un liberto minore avesse
tratto profitto da tale negozio, egli avrebbe dovuto essere protetto dal
pretore. Tuttavia non era così in questa situazione, perché,
conformemente al ius publicum, i
creditori potevano tendere ad annullare un tale negozio. E quindi la locuzione
non poteva significare altro che le prescrizioni di diritto positivo che
disciplinavano le relazioni tra i privati.
Analogamente,
l’accezione dell’espressione ius
publicum si trova in un altro testo di Ulpiano.
D. 47.10.13.1 (Ulp. 57 ad ed.): Is, qui iure publico utitur,
non videtur iniuriae faciendae causa hoc facere: iuris enim executio non habet
iniuriam.
Il frammento proviene dal titolo De iniuriis et famosis libellis. Secondo
Ulpiano la persona che agisce nel rispetto della legge non commette atti contra legem, e con ciò non le si
può imputare la responsabilità per iniuria, anche se, in conseguenza agli atti posti in essere, vi
fosse un danno. Va, qui, ricordato che la parola iniuria era assai vasta nel suo significato e comprendeva una
diversa tipologia di eventi come l’abuso verbale o la violenza aggravata,
e, per esempio, l’aver colpito una persona, ma anche eventi in contrasto
con le leggi vigenti che non erano disciplinati da regolamenti separati[20].
La locuzione ius publicum in un’accezione simile fu usato da Paolo.
D. 27.1.36.1 (Paul.
l. 9 responsorum): Lucius Titius ex tribus filiis incolumibus
unum habet emancipatum eius aetatis, ut curatores accipere debeat: quaero, si
idem Titius pater petente eodem filio emancipato curator a praetore detur, an
iure publico uti possit et nihilo minus trium filiorum nomine vacationem
postulare. Respondi praemium quidem patri, quod propter numerum liberorum ei
competit, denegari non oportere. Sed cum filio suo curator petatur, contra
naturales stimulos facit, si tali excusatione utendum esse temptaverit.
Nel suddetto
frammento, Paolo propose il seguente esempio: Lucio Tito aveva tre figli
viventi. Uno di loro fu emancipato dalla patria potestà. Dato,
però, che il figlio non aveva compiuto ancora 25 anni, il padre, su
richiesta del figlio, fu costituito suo tutore (tutela dativa). Paolo pose il problema legale in forma di domanda e
cioè: il pater familias poteva
domandare al pretore di essere esonerato da questo obbligo? Si ha a che fare
con l’istituto definito excusatio
tutelae. Il tutore costituito poteva richiamare una delle causae excusationes e chiedere al
pretore (praetor tutelaris)
l’esenzione dall’esercizio di questa funzione pubblica (munus publicum)[21]. In cause di questo tipo si inserivano: l’età, la
povertà ed anche un numero elevato dei figli, almeno tre. In tal caso,
il pater famlias si appellava
all’esercizio della patria potestà sugli altri due figli minori.
Secondo Paolo, il pater familias non
poteva ottenere l’esenzione dalla tutela affidatagli pur statuita dalla legge.
Le prescizioni di legge attribuite al ius
publicum o all’insieme delle norme del diritto privato rimanevano,
nella fattispecie, in conflitto con il diritto naturale – contra natura. Vediamo, quindi, che la
locuzione ius publicum utilizzata da
Paolo nel suddetto frammento riferiva alla definizione del complesso delle
norme del diritto positivo, inteso quale diritto pubblico.
La distinzione
e la più chiara ripartizione in tema di diritto, con particolare
riferimento alla disamina dei negozi giuridici, si ravvisano in un ulteriore
testo di Paolo in cui è citata l’opinione di Pomponio.
D.
39.2.18.1 (Paul. 48 ad ed.): Quod opere facto consecutus sit dominii capione promissor,
non teneri eum eo nomine Pomponius ait, quia nec loci nec operis vitio, sed
publico iure id consecutus sit.
Ed ancora. Paolo si occupò della
rilevante disamina in tema di responsabilità per danno futuro (damnum infectum). Assumeva la
responsabilità per principio colui che si fosse obbligato a riparare il
danno futuro (temuto) a mezzo di stipulazione. Nel frammento succitato il
soggetto interessato non era il proprietario dell’immobile, bensì
assumeva, esclusivamente, il rischio connesso a quel bene. Poteva, quindi,
essere anche un affittuario. Ma a conclusione dei lavori si presentò un
danno. Nel frattempo, il promissor
diventò titolare dell’immobile per usucapione (usucapio). Emerge, qui, la questione
giuridica circa il fondamento della responsabilità per il danno
verificatosi, e quindi se il promissor
fosse responsabile secondo il primo titolo analizzato o per usucapione
dell’immobile. Pomponio asseriva che l’usucapio fosse un istituto del diritto pubblico e come tale non
potesse costituire il fondamento della responsabilità del damnum infectum[22].
Per illustrare l’ipotesi
principale di questo saggio vanno citati ancora altri due testi di Paolo,
estrapolati dai compilatori dalla loro posizione originale e collocati poi nel
libro cinquantesimo.
D.
50.17.141
pr. (Paul. 54 ad edictum):
Quod contra rationem iuris receptum est, non est producendum ad consequentia.
D. 50.17.151 (Paul. 64 ad ed.): Nemo damnum facit, nisi qui id
fecit, quod facere ius non habet.
Nel primo dei testi succitati Paolo si
riferisce alla questione della classificazione dei negozi giuridici in funzione
della loro conformità alle disposizioni di legge. Secondo lui,
ciò che veniva assunto dalle parti di un negozio giuridico, per es. le
disposizioni di un contratto di vendita contrarie alla legge, non poteva
produrre effetti giuridici negativi. Nell’altro testo, invece, Paolo
presenta una regola generale secondo cui nessuno arreca danno, se non chi
compie un’azione che egli non ha diritto di compiere[23].
Anche
Gaio si esprimeva in precedenza in un senso simile a Paolo.
D. 50.17.55 (Gai. l. sec. de
testamentis ad edictum urbicum): Nullus videtur dolo facere, qui suo iure
utitur.
Gaio, a sua volta, sostiene che nessuno commette dolo se
esercita il proprio diritto.
L’adozione della regola di Ulpiano di D.
50.17.116.1, ovvero l’esclusione della responsabilità della
persona che aveva agito correttamente a livello di diritto positivo, trovava
applicazione anche in riferimento alla valutazione degli effetti giuridici di
una condotta conforme alle norme del diritto pubblico, concernente il
funzionamento dello Stato come tale, ed in particolare dei suoi organi
amministrativi. Secondo Callistrato, il delator, nel denunciare l’autore di un reato, adempiva all’obbligo derivante dal
diritto pubblico e, dunque non commetteva un atto illecito.
D. 49.14.2 pr. (Call. 2 de
iure fisci): Ex quibusdam causis delatione suscipientium fama non laeditur,
veluti eorum, qui non praemii consequendi, item eorum, qui ulciscendi gratia
adversarium suum deferunt, vel quod nomine rei publicae suae quis exsequitur
causam: et haec ita observari plurifariam principalibus constitutionibus
praecipitur.
La delatio,
già dai tempi più remoti, non godeva di un’opinione
positiva da parte della collettività. In alcuni casi, però, la
denuncia era un atto auspicabile, e il legislatore proteggeva il denunciatore
con la tutela dello Stato. In seguito all’adempimento del proprio obbligo
legale e civile il buon nome del delator
non veniva leso (fama non laeditur),
almeno dal punto di vista legale. Tuttavia una denuncia falsa era punibile e il
delator diventava una figura negativa
soprannominata calumniator[24].
La locuzione ius publicum per definire le norme di diritto privato era usata
anche dai glossatori. Accursio, nella sua glossa alla regola di Ulpiano,
scrisse che il frammento riguardava la vendita di un servo necessario, servus necessarius, effettuata da un minor. In tal caso non ci si poteva
avvalere dell’istituto della restitutio
in integrum. Il negozio compiuto dal minore era valido e irreversibile. Non
furono più scritte altre glosse a questo frammento. Ciò significa
che era un frammento che all’epoca non destava grossi dubbi di natura
interpretativa[25].
La determinazione del
significato dell’espressione ius
publicum adoperato da Ulpiano in D. 50.17.116.1 consente di stabilire il
tipo di negozio giuridico che una volta realizzatosi non era più
reversibile. Ius publicum in
questo contesto non significa altro che la precedenza data al diritto positivo
rispetto ai contratti ovvero al diritto statuito dalle parti di un negozio
giuridico. La regola ulpianea D. 50.17.116.1: Non
capitur, qui ius publicum sequitur, collocata dai compilatori nel libro quindicesimo al titolo
diciassettesimo dei Digesta, creò molti problemi interpretativi anche
allo stesso O. Lenel, quando intraprese il tentativo di ricostruire il libro
undicesimo del commentario all’editto pretorio. La sua collocazione da
parte dei compilatori della regola ulpianea deriva da un carattere generale. In
origine poteva essere strutturata diversamente, ma con il medesimo significato.
Non è da escludere che, originariamente, la regola fosse legata al caso
di inapplicabilità da parte di un minor
di uno dei provvedimenti di tutela stragiudiziale, ovvero di restitutio in integrum propter aetatem
nel caso in cui il negozio giuridico compiuto con esso si basasse sulle
disposizioni di legge.
L’analisi delle fonti dimostra in
maniera evidente che non fu Ulpiano l’autore di questa regola, ma
dall’autore nuovamente proposta e, comunque, successivamente a Gaio,
Pomponio e Callistrato. In più, i prudentes
non sono gli autori della regola, ma i compilatori sulla scorta della opinio communis già nota e usata
in precedenza. Così la condotta, o tutti quei negozi giuridici compiuti
in conformità al diritto positivo, non potevano aprire verso una
responsabilità civile, e con ciò non potevano produrre effetti
giuridici negativi per l’attore. Ulpiano intese proporre la regola che i
compilatori inserirono in 50.17. Possiamo affermare con inequivocabile certezza
che la regola fosse nota già nel II secolo d.C. Con essa si volle,
così, affermare un principio: colui che segue la prescrizione di una
legge non sarà ritenuto responsabile civilmente.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione
Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review.
Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] Cfr.
L. De-Mauri, Regulae Juris, 11 ed. Mediolani
1976, nuova edizione Milano 1990.
[2] Cfr.
W. Wołodkiewicz, Regulae iuris. Łacińskie
inskrypcje na kolumnach Sądu Najwyższego Rzeczpospolitej Polskiej,
Warszawa 2006.
[3] In
alcuni studi si dibattono i due frammenti: D. 50.17.116 pr. e 2, si omette
invece il frammento collocato in mezzo che non è riferibile né
all’istituto restitutio in integrum,
cfr. A. d’Ors, El comentario de Ulpiano a los edictos del
"metus", in Anuario
de historia del derecho español 51, 1981, 231; M. Kaser, Zur integrum retitutio, besonders wegen metus und dolus, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung
94, 1977, 1001-183, né alla tutela dei minores, cfr. S. Solazzi,
La minore età nel diritto Romano,
Roma 1912.
[4] G. Aricò
Anselmo, Ius publicum - ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in Annali del Seminario Giuridico
della Università di Palermo 37, 1983, 538-539.
[5]
Minores, - erano considerate persone che avevano compiuto 12
anni in caso di donne e 14 anni in caso di uomini e prima di compiere 25 anni.
Dovevano essere persone sui iuris ed
erano protette in funzione della loro inesperienza. Cfr. A. Petrucci, Lezioni di diritto privato romano, Torino 2015, 62.
[6] O. Lenel sostiene che nel testo originario
di Ulpiano non fosse neanche menzionato un termine per presentare la domanda al
pretore di concedere la restitutio in
integrum. Secondo O. Lenel, il testo originale dell’editto parlava
del termine di un anno. Cfr. O. Lenel, Das Edictum Perpetuum. Ein Versuch zu seiner Wiederherstellung, 3a ed.,
Leipzig 1927, 116.
[7] Cfr. A. Watson,
The Law of Obligations in the Later Roman
Republic, Oxford 1965, 49.
[8] Cfr. M. Kaser,
Rechtsgeschichte des Altertums,
München 1955, 208, nt. 8. Gli effetti giuridici
di un errore verificatosi venivano elaborati in maniera casistica. D. 18.1.9
pr. (Ulp. 28 ad Sab.): In venditionibus et emptionibus consensum
debere intercedere palam est: ceterum sive in ipsa emptione dissentient sive in
pretio sive in quo alio, emptio imperfecta est. Si igitur ego me fundum emere
putarem Cornelianum, tu mihi te vendere Sempronianum putasti, quia in corpore
dissensimus, emptio nulla est. Idem est, si ego me Stichum, tu Pamphilum
absentem vendere putasti: nam cum in corpore dissentiatur, apparet nullam esse
emptionem.
[9] Traduzione sulla base della traduzione polacca dei
Digesta sotto la direzione di T. Palmirski.
[10] Testo consolidato del libro undicesimo del commento
ulpianeo all’editto pretorio si trova in Palingenesia Iuris Civilis, vol. II, Lipsiae 1889, coll. 460-477.
[11] Per approfondimenti circa la stesura dei testi giuridici
leggi M. Bianchini, Appunti su Giustiniano e la sua compilazione,
I, Torino 1983, 1 ss.
[12] Cfr.
T. PALMIRSKI, O różnych
regułach dawnego prawa. 17 tytuł 50 księgi digestów.
Tekst-tłumaczenie-komentarz, in Zeszyty
Prawnicze 6.2, 2017, 314-315.
[13] G. Aricò Anselmo, op. cit., 539.
[14] D.
46.1.51.4 (Papin. 3 resp.): Cum inter fideiussores actione divisa
quidam post litem contestatam solvendo esse desierunt, ea res ad onus eius qui
solvendo est non pertinet, nec auxilio defendetur aetatis actor: non enim
deceptus videtur iure communi usus.
[15] Cfr. T. Palmirski,
op. cit., 314.
[16] Cfr. M. Talamanca,
La filosofia greca e il diritto Romano,
vol. II, Roma 1977, 112.
[17] Cfr.
B. Sitek, Utilitas publica z perspektywy prawa rzymskiego i polskiego, in Themis
Polska Nova 1(6), 2014, 21-35.
[18] Cfr. Ch.J.
Mühlenbruch, Lehrbuch des Pandektenrechts, Tom. 1,
Halle 1835, 86.
[19] W.W. Buckland,
P. Stein, A Text-Book of Roman Law: From Augustus to Justinian, Cambridge
1968, 160.
[20] Il concetto di iniuria fu definito, tra gli altri, da Ulpiano D. 47.10.1. Vedi A.
RODGER, Introducing iniuria, in Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis 59,
1991, 1-11; P. BIRKS, The early history
of iniuria, in Tijdschrift voor
Rechtsgeschiedenis 37, 1969, 163 ss.; D. PUGSLEY, Damni Iniuria, in Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis 34,
1968, 371-386; A. KOCH, Ewolucja deliktu
iniuria w prawie rzymskim epoki republikańskiej, in Czasopismo Prawno-Historyczne 19.2, 1967, 51-74.
[21] Degli obblighi pubblici e delle possibilità di
esenzione da essi leggi su D. 50.4. Cfr. G. Viarengo,
L’excusatio tutelae
nell’età del Principato, Genova 1996, 27 ss. Cfr. anche M. Marrone, Istituzioni di diritto romano, Palermo 1989, 348-349; K. Czychlarz, Instytucje prawa rzymskiego, Warszawa 1992, 353.
[22] Cfr. M. Sobczyk,
Protection From the Injury Threatening
From Neighbouring Property in Roman Law and Protection from the anticipated Injury
in the Art. 439 of the Polish Civil Code, in UWM Law Review 2, 2010, 113; M. Dyjakowska,
‘Superficies’ –
rzymskie korzenie prawa zabudowy, in Zeszyty
Prawnicze 15.1, 2015, 25; T. Giaro,
Nowa hipoteza na temat ‘damni
infecti lege agere’, in Eos
64, 1976, 91-106; A. WATSON, The law of
property in the later Roman Republic, Oxford 1968, 125 ss.; G. Branca, La responsabilità per
danni nei rapporti di vicinanza e il pensiero dei veteres, in Studi in memoria di E. Albertario, I,
Milano 1953, 337-367.
[23] Per la spiegazione del significato originario della
regola di Paolo D. 50.17.55 cfr. W. Wołodkiewicz,
op. cit., 51-52.
[24] Cfr. G. Provera,
La vindicatio caducorum: contributo allo studio del processo
fiscale Romano, Torino 1964, 131-132.
[25] Digestum Nouum seu Pandectorum Iuris
Civilis, v. III, Lugduni 1627, coll. 1905-6.