MARIA ZABŁOCKA
Uniwersytet Warszawski
Le origini del ragionamento per analogia nel diritto
romano
ABSTRACT
The Origins of
the Use of Analogy (Reasoning on Grounds of Similarity) in Roman Law
The author embarks
on an interpretation of the text of Gaius 3.194, particularly the words furtum
manifestum ex lege. To
explain this phrase she refers to her earlier work on Gaius, especially Gaius
3.192 and the phrase lance et licio. The doctrine hitherto has regarded lance
et licio to mean a special ritual search for a stolen item. However, on the
basis of Festus (L. 104) we may assume that this expression could have been
associated with audacious theft, with the thief not being caught in the act.
Audacious theft of this type, cum lance et licio, in other words, with
the thief disguised (literally “unclothed”), viz. with a type of balaclava on
his face, was punishable under the Law of the Twelve Tables in the same way as furtum
manifestum.
This
interpretation allows us to read Gaius’ phrase furtum manifestum aut lege
intellegi as meaning that the penalty for an audacious theft, viz. one that
was committed lance et licio, was to be the same as for a natural furtum
manifestum, a manifest theft in which the thief was caught red-handed.
Moreover, such an interpretation would tie up with the passage in which lance
et licio is discussed in the works of Rivalius, Alexander ab Alexandro, and
Oldendorp, the first authors to attempt to reconstruct the Law of the Twelve
Tables.
If we interpret
the text of Gaius 3.194 in this way, we may venture on a hypothesis that the
Romans first applied analogy as an independent construction without going into
a theoretical discussion already in the period of the Twelve Tables. Since the
perpetrator of an audacious theft which was a furtum manifestum was
punished by forfeiting his freedom (or a greater penalty), then there should
have been an analogous penalty for the analogous situation of an audacious
theft in which the thief was not caught in the act; hence Gaius writes that a
crime of this sort should be treated as a furtum manifestum ex lege.
* * *
Secondo la communis
opinio gli abitanti di Roma del V sec. a.C. furono gente abbastanza
primitiva. Tale presunzione non da però conto di alcuni fenomeni che sembrano
contraddire tale giudizio. È indiscutibile che il popolo vivente in quell’epoca
sulla riva del Tevere fu ben lontano da ragionamenti teoretici paragonabili a
quelli dei cittadini delle póleis greche.
Questo però non vuol dire che gli antichi Quiriti per fini pratici non
sapessero adottare soluzioni adeguate qualora ce ne fosse bisogno. Ad esempio,
il padre delle scienze mediche viene comunemente ritenuto Ippocrate, ma già
all’epoca della Legge delle Dodici Tavole le tecniche mediche erano abbastanza
avanzate: infatti dall’ottava tavola si può dedurre che i Romani in questi
tempi usavano le piombature d’oro per curare i denti.
Anche nell’ambito del diritto è possibile fare
osservazioni analoghe.
Nella dottrina moderna particolare attenzione viene posta
sull’uso nella sfera del diritto[1] del ragionamento per
similitudine, chiamato oggi ragionamento per analogia[2]. Bisogna allora chiedersi
se i Romani, in assenza di basi teoretiche mutuate dalla logica e dalla filosofia
greche, potessero praticare un modello simile di ragionamento[3]. Questa possibilità sembra
essere confermata da una delle istituzioni antiche di cui parla lo stesso Gaio:
Gaius, Inst.
3.194:
Propter hoc tamen, quod lex ex ea causa
manifestum furtum esse iubet, sunt, qui scribuntur furtum nanifestum aut lege
intellegi, aut natura: lege id ipsum, de quo loquimur, natura illud, de quo
superius exposuimus. sed verius est natura tantum manifestum furtum intellegi,
neque enim lex facere potest, ut, qui manifestus fur non sit, manifestus sit,
non magis, quam qui omnino fur non sit, fur sit, et qui adulter aut homicida
non sit, adulter vel homicida sit. At illud sane lex facere potest, ut proinde
aliquis poena teneatur, atque furtum vel adulterium vel homicidium admisisset,
quamvis nihil eorum admiserit.
[Tuttavia, poiché la legge (scil. delle Dodici Tavole) stabilisce
che in tal caso si abbia furto manifesto, vi sono coloro che scrivono che il
furto manifesto si intende (come tale) o per legge o per natura: per legge
quello di cui parliamo; per natura quello di cui abbiamo trattato più sopra. Ma
risulta più corretto che solamente quello per natura sia inteso come furto
manifesto. Infatti, la legge non può far sì che il ladro manifesto sia
manifesto, più di quanto non possa rendere ladro chi non lo sia, o in adultero
od omicida chi non sia adultero od omicida. Ma la legge certamente può far sì
che taluno sia sottoposto a una pena come se avesse commesso furto, o adulterio
od omicidio, sebbene non abbia compiuto nulla di queste cose].
Passando all’interpretazione di questo testo bisogna
chiedersi innanzitutto a quale tipo di furto si riferisse Gaio. Che cosa
indicasse la locuzione «poiché la legge stabilisce che
in tal caso si abbia furto manifesto» e perché la
legge stabilisse questo.
Occorre riflettere su quale tipo di furto venisse
ritenuto furtum manifestum “per
legge” (quod lex ex ea causa manifestum
furtum esse iubet), e quale “per natura”. È vero che Gaio informa che il
furto manifesto ex lege[4] era il furto di cui si
parla in questo momento (lege id ipsum,
de quo loquimur), mentre il furto manifesto per natura era quello trattato
precedentemente (de quo superius
exposuimus), ma questa spiegazione non sembra essere del tutto chiara e
soddisfacente.
La maggior parte della dottrina, seguendo Gaio (anche se
lui stesso riteneva la propria spiegazione ridicola – Gaius, Inst. 3.193), ritiene che la locuzione ‘de quo loquimur’ si riferisse alla
procedura della perquisizione della refurtiva lance et licio. Allora, perché Gaio dice che tale furto (e non la
ricerca) era da ritenersi un furto manifesto per legge[5]?
Forse, per chiarire il significato di questi due concetti
di furto, bisogna allontanarsi per un attimo dal testo di Gaio 3.194 e
ritornare ai tipi di furto discussi dal giurista antoniniano in precedenza.
Esponendo la materia delle obbligazioni ex delicto Gaio inizia con l’elenco dei
delitti (3.182) e successivamente passa al tema del furto[6] facendo riferimento alle
opinioni di due giuristi del periodo repubblicano. Del furto, a detta di Servio
Sulpicio e Marciano Sabino, si distinguevano quattro specie: manifestum et
nec manifestum, conceptum et oblatum.
Labeone invece ne riduceva il numero a due – manifestum et nec manifestum,
le altre configurandosi piuttosto come azioni connesse al furto (Gaius, Inst. 3.183). Quest’ultima
interpretazione sembra essere condivisa dall’autore delle Istituzioni mentre
spiegava in cosa consistesse il furtum conceptum (3.186) e il furtum oblatum (3.187).
Gaius, Inst. 3.186:
Conceptum
furtum dicitur, cum apud aliquem testibus praesentibus furtiva res quaesita et
inventa est. Nam in eum propria actio constituta est, quamvis fur non sit, quae
appellatur concepti.
Gaius, Inst. 3.187:
Oblatum furtum
dicitur, cum res furtiva tibi ab aliquo oblata sit eaque apud te concepta sit:
utique si ea mente tibi fuerit, ut apud te potius quam apud eum qui dederit
conciperetur. Nam tibi, apud
quem concepta est, propria adversus eum qui optulit, quamvis fur non sit,
constituta est action, <quae> appellatur oblati.
V’era furtum conceptum quando, in presenza di
testimoni, la refurtiva veniva cercata e ritrovata; si puniva quindi la
detenzione, anche inconsapevole, della stessa. V’era furtum oblatum
quando questa veniva intrufolata in casa altrui per non farla trovare in quella
del ladro; in tal caso si sanzionava l’intrufolamento.
Quindi il giureconsulto ricorda che si poteva agire
contro chi avesse cercato di intralciare il ritrovamento della refurtiva.
Gaius, Inst.
3.188:
Est etiam
prohibiti furti <actio> adversus eum qui furtum quaerere volentem
prohibuerit.
Pur lasciando aperto il quesito se all’epoca delle XII
Tavole si configurassero quattro o soltanto due specie di furto, giova ricordare
che già la veneranda Legge contemplava, a scienza di Gaio[7], pene non solo per furtum
manifestum e nec manifestum, ma anche per detenzione e
intrufolamento.
Gaius, Inst.
3.191:
Concepti et
oblati poena ex lege XII tabularum tripli est, eaque similiter a praetore
servatur.
Il giureconsulto seguita informando che la pena per
intralcio alle ricerche (prohibiti actio) fu introdotta dall’editto
pretorio.
Gaius, Inst. 3.192:
Prohibiti
actio quadrupli est ex edicto praetoris introducta: lex autem eo nomine nullam
poenam constituit. Hoc solum praecipit, ut qui quaerere velit, nudus quaerat,
licio cinctus, lancem habens; qui si quid invenerit, iubet id lex furtum
manifestum esse.
La legge non contemplava nessuna azione eo nomine,
vale a dire per intralcio alle ricerche. Statuiva soltanto, continua Gaio, che
colui che volesse cercare, lo facesse nudo, coperto unicamente di una fascia di
lino, e portasse una ciotola. Dal contesto del passo gaiano sembra evincersi
che il ricercatore dovesse cercare e trovare un oggetto precedentemente rubato,
e che ciò (id) fosse equiparato al furto manifesto[8].
Per Gaio la norma è ridicola e incomprensibile[9]. Non lo convincono né la
fascia né la ciotola per tener occupate le mani.
Gaius, Inst.
3.193:
Quid sit autem
licium, quaesitum est. Sed verius est consuti genus esse, quo necessariae
partes[10] tegerentur. Quae res [lex tota]
ridicula est. Nam qui vestitum
quaerere prohibet, is et nudum quaerere prohibiturus est, eo magis quod ita
quaesita re et inventa maiori poenae subiciatur: deinde quod lancem sive ideo
haberi iubeat, ut manibus occupatis nihil subiciat, sive ideo, ut quod
invenerit ibi imponat, neutrum eorum procedit, si id quod quaeratur eius
magnitudinis aut naturae sit, ut neque subici neque ibi imponi posit. Certe non
dubitatur, cuiuscumque materiae sit ea lanx, satis legi fieri.
Cosa fu, quindi la quaestio cum lance et licio?
Gli studiosi vi si scervellano da tempo[11].
La dottrina odierna, richiamandosi a Gaio, tende a
vedervi un rito di perquisizione[12].
Ma è l’unica spiegazione possibile?
Non può contestarsi che la descrizione di Gaius, Inst. 3.192 ricorda un brano[13] di Platone (Nomos 12.954a). Ma è
lecito supporre che i Decemviri si fossero a tal punto ispirati alle leggi di
Solone[14], per non parlare di un
impossibile riferimento agli scritti di Platone?
Tornando al testo di Gaio va rilevato l’enorme divario
che separava le pene per furtum conceptum da quelle comminate per lance
et licio. La prima, quando l’oggetto rubato fosse stato durante la
perquisizione ritrovato e ripreso, ammontava al triplum (Gaius, Inst. 3.191). Quanto alla seconda, Gaio
ricorda che riprendere la refurtiva nel corso della perquisizione lance et
licio era visto alla stregua del furtum manifestum; pertanto, se gli
andava bene, il colpevole poteva punirsi con l’addictio[15], d’accordo con le XII
Tavole che prevedevano questo e altro[16] per il ladro preso in
flagrante (la pena del quadruplum fu contemplata dall’editto pretorio
che mitigò le sanzioni per il furtum manifestum).
Pertanto, se all’epoca delle XII Tavole qualcuno avesse
visto un oggetto che gli era stato rubato, domandava con un’actio furti nec
manifesti il doppio; qualora presumesse che l’oggetto rubato fosse stato
nascosto in una casa, anche all’insaputa di chi vi risiedeva, in presenza di
testimoni la perquisiva e, ritrovato l’oggetto, con un’actio furti concepti domandava
il triplo; e se avesse perquisito nudo o coperto soltanto di una fascia di
lino, il ritrovamento equiparava il risiedente al reo di furtum manifestum.
Ma fu veramente così?
A questo punto par giusto avanzare alcune domande.
Il modo di effettuare la perquisizione – la scelta di
procedere nudo o vestito spettava comunque al derubato[17] – poteva differenziare a
tal punto la responsabilità di colui che abitava la casa in cui l’oggetto fosse
stato ritrovato? La perquisizione lance et licio doveva svolgersi in
presenza di testimoni (cui peraltro il giurista non accenna)? Se l’oggetto
veniva ritrovato lance et licio non presso il ladro, ma in una casa dove
questi l’aveva intrufolato, chi, di conseguenza, perdeva la libertà? E, infine,
cosa si cercava lance et licio? Nel caso di furtum conceptum Gaio
afferma chiaramente che si cercava l’oggetto rubato (Gaius, Inst. 3.186: furtiva res quaesita),
mentre in Gaius, Inst. 3.192 discorre
di ricerche (qui quaerere velit), che soltanto se riferite al brano
precedente sembrano poter riguardare un tal oggetto.
Pare tuttavia che il 3.192 consti di due parti separate:
nella prima Gaio parla di una distinta azione introdotta dal pretore in caso di
intralcio a ricerche di refurtiva: Prohibiti actio quadrupli est ex edicto
praetoris introducta: lex autem eo nomine nullam poenam constituit; nella
seconda il giurista ricorda un istituto, di cui sa e capisce ben poco, del
periodo delle XII Tavole: Hoc solum praecipit, ut qui quaerere velit, nudus
quaerat, licio cinctus, lancem habens; qui si quid invenerit, iubet id lex
furtum manifestum esse. In
latino sono due periodi nettamente separati che in due recenti traduzioni
polacche si leggono congiunti[18].
Se non si accetta l’ipotesi, invero assai azzardata, che
all’epoca delle XII Tavole la perquisizione lance et licio facesse
ricadere una responsabilità quanto mai severa anche su soggetti non colpevoli
del furto, giova interessarsi ai contenuti di questo misterioso istituto.
Nelle contemporanee palingenesi della Legge delle XII
Tavole le norme relative al furto sono collocate nella tavola VIII. Vi si
tratta, com’è noto, delle pene previste dai Decemviri per il furto commesso di
notte (VIII 12), per il furto commesso di giorno, ma a mano armata (VIII 13),
per il furtum manifestum (VIII 14) e il furtum nec manifestum
(VIII 16). Le parole lance et licio seguono (VIII 15b) conceptum et
oblatum, cioè il frammento in cui si statuiscono le pene per la detenzione
e l’intrufolamento (VIII 15 a). Tale collocazione distoglie lance et licio
dal furtum manifestum cui, tuttavia, Gaio vuol assimilarlo (3.192).
Nella prima ricostruzione moderna, avanzata in Civilis
historiae Iuris sive in XII Tab. Leges commentariorum libri quinque, Historiae
Iuris Pontifici liber singularis[19] da Rivallio[20], uno dei primi
rappresentanti dell’umanesimo giuridico francese, l’espressione lance et
licio è ancor più nettamente che in Gaio congiunta con la descrizione del furtum
manifestum e le pene conseguenti. Rivallio scrive[21]:
«Furem
qui manifesto furto prehensus erit, si furtum aut noctu faciat, aut interdiu
cum prehenderetur, se telo defendat, occidito. E caeteris manifestis furibus
liberos verberato, et ei cui factum luci furtum erit, si se telo non defendant,
addicito. Servos autem manifesto furto prehensos verberibus afficito, et e saxo
praecipito. Pueros impuberes praetoris arbitratu verberato, noxamque ab his factam
sarciri facito. Furta quae per
lancem liciumque concepta erunt, sicut manifesta vindicato».
Il nostro elenca quindi la pena di morte prevista per il
furto commesso di notte e di giorno, se a mano armata, la fustigazione del
ladro colto in flagrante che veniva a trovarsi sotto la potestà del derubato,
la condanna a morte dei ladri-schiavi, fatti precipitare dalla Rupe Tarpea,
l’attenuazione della pene comminate agli impuberi, fustigati e obbligati a
risarcire il danno. Aggiunge infine che furta quae per lancem liciumque
concepta erunt, sicut manifesta vindicato.
Pressoché coeva la ricostruzione della
Legge delle XII Tavole ad opera dell’umanista napoletano Alessandro d’Alessandro[22], apprezzato avvocato,
membro dell’Accademia del Pontano, attivo a cavallo del Quattro e Cinquecento,
autore dei Genialium Dierum Libri Sex, I ed., Romae 1522 [23], in buona parte dedicati
a ricerche comparate di storia del diritto. D’Alessandro vi si misura con
diversi argomenti, sia di diritto pubblico (il ruolo del senato, le
magistrature) e di diritto privato (partizioni delle res, modalità di
successione). Nel decimo capitolo del sesto libro ricostruisce le XII Tavole,
raffrontandole spesso con norme giuridiche di altri popoli, di preferenza con i
diritti delle città greche e in particolare con la legislazione di Solone, ma
anche con le leggi di Germani, Egizi, Persiani, Sciti, Arabi, Etiopi e Indiani.
Discorrendo di furto, alle prime d’Alessandro[24] non si discosta da
Rivallio:
«Furta
quoque eadem lex usque adeo aversata est, et tam severa correctione plecit, ut
furem manifestum in servitutem tradat illi, cui furto quid subtractum foret.
Furem vero nocte deprensum, quoquo modo: die vero, si telo se defenderet, et
demum cum clamore occidi permiserit, in haec verba: Si nox furtum factum sit,
si im aliquis occidit, iure caecus esto. Furta quoque per lancem et licium
concepta velut manifesta, severiori poena punivit».
Ambo gli umanisti ricostruiscono le Tavole senza
menzionare il furtum conceptum et oblatum. Nessuno dei due accenna a qualsiasi perquisizione,
limitandosi ad affermare che il furtum per lance et licio venisse punito
al pari del furtum manifestum.
Dal tenore del discorso si deduce che entrambi attingono a Gellio[25] (senza degnarsi di
ricordarlo). Tuttavia d’Alessandro, a differenza di Gellio, prima si sofferma
brevemente sulle pene che le XII Tavole contemplavano per i colpevoli di furto,
poi osserva che a Sparta la legge di Licurgo non perseguiva i ladri, e quindi
raffronta la riforma di Solone con la legislazione di Dracone[26]. Infine chiarisce in cosa
consistesse il furtum per lancem et licium:
«Dixere autem furta per lancem et licium,
quod fures qui in alienas penetrabant aedes, plerunque (ut est sagax furum
solertia) licium ferebant, quo furta alligarent, et lancem prae oculis, ne
innotescerent».
Se ne potrebbe dedurre che il furtum per lancem et
licium non si configurasse come intralcio alle ricerche, bensì come tipo
particolare di furto. Per d’Alessandro una fascia di lino non serviva al
ricercatore, ma al ladro che era tanto astuto da portasela per occultarvi il
malloppo e da nascondersi la faccia dietro a una ciotola, antenata degli
odierni passamontagna[27].
Alessandro d’Alessandro, come al solito, tace la fonte.
Tuttavia può supporsi che si tratti dall’epitome di Paolo Diacono al De
verborum significatu di Festo.
Festus, De verb.
sign., v. Lance et licio, p. 104
L.:
Lance et licio
dicebatur apud antiquos, quia qui furtum ibat quaerere in domo alieno licio
cinctus intrabat, lancemque ante oculos tenebat propter matrum familiae aut
virginum praesentiam.
Gli antichi parlavano di lance et licio poiché chi
voleva rubare si cingeva i fianchi con una fascia di lino, si copriva il viso
con una ciotola (maschera) tenuta davanti agli occhi[28], quindi penetrava (intrabat)
in casa altrui, sfidandovi la presenza di mater familias e pulzelle.
Che in lance et licio dovesse individuarsi un tipo
di furto era chiaro a Johann Oldendorp[29], umanista tedesco e
studioso delle XII Tavole, il primo a occuparsi della sistematica dei
Decemviri. In Εìσαγωγή juris naturalis sive elementaria introductio juris
naturae gentium et civilis[30], ordina i brani raccolti in dodici parti-titoli in cui si
sforza di rispecchiare la struttura delle XII Tavole. Il 12° titolo dedicato al
furto raccoglie le seguenti norme:
«Furem
qui maifesto furto prehensus erit: si furtum, aut noctu faciat, aut interdiu
cum prehenderetur, se telo defendat, occidito.
E caeteris
manifestis furibus, liberos verberato, et ei cui luci factum furtum erit, si se
telo non defendat, addicito.
Servos autem
manifesto furto prehensos, verberibus adficito, et e saxo praecipitato.
Pueros
impuberes, Praetoris arbitratu verberato, noxamque ab his factam sarciri
facito.
Furta quae per
lancem liciumque concepta erunt, sicut manifesta vindicato».
A ogni norma Oldendorp aggiunge un commento.
Interpretando le prime quattro, richiama chiaramente la sua fonte: il lib. 11
cap. 18 di Gellio, sulle cui orme descrive l’evoluzione storica delle pene per
furto in Grecia – dalla pena di morte, voluta da Dracone per ogni ruberia, alla
condanna al duplum statuita da Solone. Quindi discute le pene per furtum
manifestum e nec manifestum delle XII Tavole.
Ai furta quae per lancem liciumque concepta erunt
affianca, a mo’ di commento, quanto segue:
«Ingeniosa
est hominum malicia ad peccandum. Quare et fures ut propositam alienarum rerum
contrectationem interdiu commodius expedirent, non aperta facie domum
intrabant, sed licio seu filo cincti, lancem duobus foramnibus aptanta
[aptatan] ante oculos habebant, ut matres familiarum, aut virgine, alaeve
ancillae in domo forte fortuna obviae terrerentur, fugerentque; potius, quam
quod de cognoscendo vel observando fure essent solicitae, ac interim illi res
subriperent».
Quanto
sono ingegnosi gli uomini nel violare la legge! Per impossessarsi meglio delle
cose altrui, i ladri penetravano nelle case a viso coperto, ma quasi nudi, solo
con una fascia ai fianchi e il viso nascosto dietro una ciotola munita di due
fori per gli occhi, sperando che tanto la mater familias, quanto le
pulzelle e le serve prendessero paura e se la dessero a gambe, senza badare
agli oggetti né cercare di riconoscere il ladro.
Ulteriori
ricostruzioni della Legge delle XII Tavole non aggiungono, per quanto qui
interessa, nulla di nuovo. Hotomanus[31] non accenna neanche alla lance
et licio, Gothofredus[32] in Fragmenta XII.
Tabularum suis nunc primum tabulis restituta, probationibus, notis et indice
munita, Heidelberg 1616,
riprende il passo si furtum lance licioque conceptus escit, atque uti
manifestum vindicator dopo aver ricordato le norme sul furtum manifestum
(e prima quelle sul nec manifestum), aggiungendovi un assai stringato
commento dove richiama soltanto Gellius 11.18 e Gellius 16.10.
Cosa
significò, pertanto, la quaestio per lancem et licium: un modo
particolare di procedere alla ricerca di refurtiva o una specie di furto?
Ovviamente gli studiosi dedicatisi in tempi remoti alla ricostruzione delle XII
Tavole non conoscevano né le Istituzioni di Gaio né l’actio furti prohibiti,
di cui Gellio, loro fonte primaria, non parla[33].
È giusto
vedere nella quaestio in parola un tipo particolare di furto?
Al proposito si ricorderà che all’epoca delle XII Tavole
non era stata ancora tipizzata la rapina, soltanto nel I sec. a.C. delineata
dal pretore nella actio vi bonorum raptorum. Il ladro preso in flagrante andava incontro a pene assai
severe, non inferiori alla privazione della libertà. Il ladro che fosse
riuscito a commettere furto e fuggire (tranne che in caso di furtum
conceptum) veniva condannato al duplum. Ma poteva equanimemente punirsi in questo modo per un furto
particolarmente audace? Forse la quaestio cum lance et licio era stata,
all’epoca, una prefigurazione della più tarda rapina. La Legge delle XII Tavole
statuiva che per aver cercato oggetti da rubare (o forse già per il solo
intento di mettere in atto il furto), anche quando non fosse stato colto in
flagrante delitto, ma avesse dato prova di particolare audacia, agendo
travestito, o meglio svestito, ma col viso coperto da una specie di
passamontagna, il ladro dovesse punirsi come per furtum manifestum. All’epoca di Gaio si conosceva
ormai da tempo il concetto di rapina e il pretore aveva introdotto un’azione
per intralcio al recupero di refurtiva. Il giureconsulto può aver
inconsapevolmente collegato l’uno con l’altra.
Ritornando al testo principale della ricerca cioè il
testo di Gaius, Inst. 3.194, se
interpretiamo in questo modo la locuzione lance
et licio, diventa probabile che il furto manifesto per legge (furtum manifestum aut lege intellegi)
costituisse proprio il furto lance et
licio discusso sopra. Tale furto, per il suo carattere di temerarietà,
doveva essere punito con la stessa sanzione del furto manifesto per natura. La suddetta interpretazione sarebbe coerente
con la sistematica delle rispettive parti, dedicate al furto nelle opere di
Alessandro d’Alessandro, di Rivalio e di Oldendorp e innanzitutto con la prima
ricostruzione moderna della Legge delle Dodici Tavole di Gotofredo.
Accettando tale interpretazione del testo gaiano 3.194 si
può avanzare l’ipotesi che i Romani già all’epoca della Legge delle Dodici
Tavole, senza formulare una teoria in proposito, per la prima volta adoperarono
un ragionamento per analogia. Infatti il furto atroce costituente furtum manifestum veniva punito come
minimo con la pena della perdita della libertà. In una situazione analoga, dove
però il ladro non era stato colto in flagrante, bisognava comminare una pena
simile e perciò Gaio scriveva che tale reato doveva essere trattato come furtum manifestum ex lege.
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di Remo Martini, II, Napoli 2009, 605-672;
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[Per la pubblicazione
degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera
rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] Secondo A.
Kacprzak, Julian, Ulpian i
nietypowa pożyczka. Zastosowanie analogii w rozważaniach prawniczych
[Giuliano, Ulpiano e lo strano caso di mutuo. L’uso
dell’analogia nei ragionamenti giuridici], in Zeszyty Prawnicze 10.1, 2010, 29: «il paragone tra la fattispecie
la cui qualificazione giuridica non era ovvia con fattispecie simili, la cui
qualificazione giuridica era indiscutibile, rientrava nell’ambito dei modelli
preferiti di ragionamento degli iurisprudentes
romani. Di solito tali paragoni servivano a mostrare che le differenze tra le
due fattispecie discusse erano giuridicamente irrilevanti in modo da poter
giustificare l’adozione di una soluzione prevista per una situazione tipica in
una situazione dubbia».
[2] I Romani stessi non usavano la locuzione “ragionamento
per analogia”. Cfr. A. Mantello, L’analogia nei giuristi tardo repubblicani
ed augustei. Implicazioni dialettico-retoriche e impieghi tecnici, in Studi in onore di Remo Martini, II,
Napoli 2009, 609 ss., 615; A. Kacprzak,
Tra logica e giurisprudenza. Argumentum
a simili nei Topici di Cicerone, Varsavia 2012, 15. Solo nel
diciottesimo secolo i giuristi europei hanno iniziato ad usarla nelle loro
opere, cfr. V. Piano Mortari, v. Analogia a) Premessa storica, in
Enciclopedia del diritto, II, Milano 1958, 345.
[3] F. Gallo, Alle origini dell’analogia, in Diritti e processo nell’esperienza romana,
Napoli 1994, 39 ss., analizza i testi dei giuristi solo partendo dall’epoca
adrianea.
[4] Secondo G.G. Archi,
“Lex” e “natura” nelle Istituzioni di Gaio, in Festschrift für Werner Flume zum 70.
Geburtstag, I, Köln 1978, 3-23 (ora in Id.
Scritti di diritto romano, I, Milano
1981): 147 «in Gai. 3.194 il termine lex nel
discorso viene ad indicare in maniera generale sia la lex in senso stretto (quod
populus iubet atque constituit) sia quod
legis vicem optinet. [...] la lex
e quod legis vicem optinet possono
modificare la regula iuris gentium contrariamente
a quanto avviene per la realtà di fatto: la ‘natura’ di Gai. 3.184».
[5] Alcuni autori, basandosi sulla parte successiva del
testo, suggeriscono l’uso della finzione: il caso del ritrovamento della
refurtiva durante una perquisizione veniva equiparato ad un furtum manifestum. V. Arangio-Ruiz, La répression du vol flagrant et du non flagrant dans l’ancien droit
romain, in Scritti di diritto romano,
II, Napoli 1974, 373 nt. 2 (prima Id., in
Al Qanoun Wal Iqitsad 2, 1932, 109
ss., ripubblicato poi in Raiora, Roma
1946, 197 ss.); E. Bianchi, Fictio
iuris. Ricerche sulla finzione in diritto
romano dal periodo arcaico all’epoca augustea, Padova 1997, 349 nt. 414, e
ultimamente anche L. Franchini, La desuetudine delle XII tavole nell’età arcaica, Milano 2005, 40
ss.
[6] Cfr. il mio saggio Quaestio
cum lance et licio in Iura. Rivista
internazionale di diritto romano e antico 54, 2004, 109 ss.
[7] Cfr. P. Krüger,
Über furtum conceptum
prohibitum und non exhibitum, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische
Abteilung 5, 1884, 222 nt. 1; Th.
Mommsen, Römisches Strafrecht, Graz 1955, 748 ss.; H.F. Hitzig, Beiträge zur Lehre vom Furtum, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische
Abteilung 23, 1902, 329 ss.; A.
Ehrhardt, The «Search», in Studi in onore di Emilio Betti, III, Milano 1962, 173; R. Westbrook, The Nature and Origins
of the XII Tables, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung
105, 1988, 108 ss.; R. La Rosa, La
repressione del furtum in
età arcaica. Manus iniectio e duplione
damnum decidito, Napoli 1990, 66 ss. Dal brano di Gellio 11.18.6-12 non
risulta con chiarezza se all’epoca delle XII Tavole furtum conceptum e furtum
oblatum fossero già noti. Sul raffronto tra i brani di Gaio e Gellio cfr. O. Diliberto, Materiali per la
palingenesi delle XII Tavole, I, Cagliari 1992, 229 ss.
[8] G. Nicosia,
Il processo privato romano, I: Le origini, Torino 1986, 86
vi scorge un riferimento all’autodifesa privata. Parimenti M.D.
Floria Hidalgo, La Casuìstica del Furtum en la Jurisprudencia Romana, Madrid 1991, 36.
[9] Probabilmente per questo motivo non fu ripresa nelle
Istituzioni di Giustiniano, cfr. D. Nörr,
Rechtskritik in der römischen Antike, München 1974, 12.
[10] Su nudità e partes necessariae cfr. A. Guarino, Il «furtum» nelle «XII
Tabulae»: 3. «Partes necessariae», in Pagine di diritto romano, IV, Napoli
1994, 187 ss. Il passo è stato inoltre pubblicato da C. Sofo, «Partes necessariae», in Index.
Quaderni camerti di studi romanistici 2,
1971, 433 ss.
[11] Cfr. da ultima Laura
Pepe, Ricerche sul furto nelle XII Tavole e nel diritto attico,
Milano 2004, 167 ss.
[12] Gli studiosi che si sono occupati della quaestio
lance cum licio ne hanno più volte ribadito il carattere magico, sacro,
rituale e simbolico. Cfr. in particolare
J.G. Wolf, Lanx und licium. Das Ritual der Haussuchung im altrömischen
Recht, in Sympotica Franz Wieacker. Sexagenario
Sasbachwaldeni a suis libata, Göttingen 1970, 59
ss. con gli autori ivi citati. Cfr. inoltre F.
Horak, v. Quaestio lance et licio, in Paulys Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft,
XXIV, Stuttgart 1963, coll. 788 ss.; E.
Wieacker, Zwölftafelprobleme, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité 3, ser. 3, 1956, 479
ss.; R. Zimmermann, Furtum,
in Derecho romano de obligaciones. Homenaje al Profesor José Luis Murga
Gener, Madrid 1994, 770 ss. Critico E. Peruzzi, La quaestio cum lance
et licio, ovvero le nudità dei Romani e la pudicizia dei Sabini,
in Cultura 6, 1968, 162 ss. (ora in Id.,
Origini di Roma, I. La familia,
Firenze 1970, 77 ss.). Anche nella dottrina più recente si punta sulla
violazione della pace domestica e il carattere rituale della perquisizione: L. Franchini, op. cit., 40 ss. ed anche U. Manthe, Lance et licio, in Usus Antiquus
Juris Romani. Antikes Recht in
lebenspraktischer Anwendung, Berlin-Heidelberg 2005, 163 ss., dove nei
dettagli si analizza gli elementi cruciali di questo rituale (nudus licium lanx); mentre in un altro
lavoro recente di F. Bellini, Delicta e crimina nel sistema quiritario,
Milano 2012, 49 questo argomento non è trattato. Invece C. Pelloso, Studi sul
furto nell’antichità mediterranea, Padova 2008, 264 nt. 304, ingiustamente
ritiene che io condivida l’idea secondo cui lance
et licio costituisse una procedura di carattere rituale della
perquisizione.
[13] Su analoghe perquisizioni in altri diritti indoeuropei
cfr. E. Weiss, Lance et licio, in Zeitschrift
der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung 43,
1922, 459; F. Horak, op. cit., coll. 788 ss.; P.G. Maxwell-Stuart, Per lancem et licium. A Note, in Greece & Rome 23, 1976, 1 ss.;
E.M. Harris, “In the Act” or “Red-Handed”?
‘Apagoge’ to
the Eleven and Furtum Manifestum, in Symposion
1993. Vorträge zur griechischen und hellenistischen Rechtsgeschichte,
Köln-Weimar-Wien 1994, 169 ss.; L. Pepe,
op. cit., 95 ss. E. Weiss, op. cit.,
459, G.I. Luzzatto, Per un’ipotesi sulle origini e la natura delle
obbligazioni romane, Milano 1934, 154 e E. Peruzzi, op. cit., 163 sottolineano tuttavia che, sebbene elemento comune delle
perquisizioni fosse la “nudità”, soltanto in quelle romane si menzionasse
la “lanx”.
[14] Su eventuali influenze greche sulla Legge delle XII
Tavole cfr. Wołodkiewicz, Greckie
wpływy na powstanie ustawy XII Tablic (na marginesie glosy Accursiusa do
D. 1,2,4) [Influenze greche
nell’elaborazione della Legge delle XII Tavole (in margine alla glossa di
Accursio a D.1,2,4], in Prawo kanoniczne [Diritto canonico] 37, 1994. 3-4,
39 ss.; Id., Les remarques d’Accurse
sur les origines grecques de la Loi des XII Tables, in Collatio Iuris
Romani. Études dédiées à Hans Ankum à
l’occasion de son 65e anniversaire, II, Amsterdam 1995, 643 ss. con ampi
ragguagli bibliografici.
[15] Cfr. Gaius, Inst.
3.189; Gellius 11.18.8; Gellius 20.1.7; cfr. inoltra R. La Rosa, op. cit.,
58 ss. e gli autori ivi citati.
[16] Il ladro sorpreso a rubare di notte o di giorno, se
armato, poteva essere ucciso, cfr. D. 9.2.4.1; 47.2.55.2; 48.8.9; Gellius
11.18.7.
[17] Cfr. R. La
Rosa, op. cit., 67.
[18] Gaius. Instytucje [Gaio. Istituzioni], trad. a
cura di C. Kunderewicz. Warszawa
1982, ad hoc loc.; Gai
Institutiones, trad. a cura di W.
Rozwadowski, Poznań 2003, ad
hoc loc.
[19] I ed. Valentiae 1515. L’opera, la prima ad essere dedicata
alla storia del diritto, ebbe numerose ristampe. Nel 1584 fu pubblicata nella
raccolta Tractatus universis iuris, duce et auspice Gregorio XIII Pontifice
Maximo, Venetiis,
vol. I.
[20] Su vita e opere di Aymar Rivallius cfr. H.E. Dirksen, Uebersicht der bisherigen
Versuche zur Kritik und Herstellung des Textes der Zwölf-Tafel-Fragmente,
Leipzig 1824, 29 ss.; F.C. von Savigny,
Geschichte des römischen Recht im Mittelalter,, 2a ed., VI Nachdruk, Darmstadt 1956, 449 ss.; E. Moeller, Aymar du Rivail. Der erste Rechtshistoriker,
Berlin 1907, 12 ss.; D. Maffei, Gli
inizi dell’umanesimo giuridico, Milano 1956, 138 ss.; voce Rivail Aymar
(du), in Novissimo Digesto Italiano, XVI, Torino 1969, 223; R. Orestano,
Introduzione allo studio storico del diritto romano, 2a ed., Torino
1961, 141 ss.; O. Diliberto, Materiali
per la palingenesi delle XII Tavole, II, Cagliari 1998, 35 s.; Id., Bibliografia ragionata delle
edizioni a stampa delle Legge delle XII Tavole (sec. XVI-XX), Roma 2001, 47 s.; Id., La palingenesi decemvirale: dal
manoscritto alla stampa, in Le Dodici Tavole. Dai Decemviri agli
Umanisti, Pavia
2005, 487 ss.; M. Zabłocka, Ustawa
XII Tablic – rekonstrukcje doby renesansu [La legge delle XII Tavole – ricostruzioni del Rinascimento],
Warszawa 1999, 20; J.-L. Ferrary, Saggio
di storia della palingenesi delle Dodici Tavole, in Le Dodici Tavole, cit., 506 ss.
[21] Brano tratto dall’edizione Moguntiae 1533.
[22] Su vita e opere di Alessandro d’Alessandro cfr. H.E. Dirksen, op. cit., 27 ss.; F.C. von
Savigny, op. cit., VI, 457 ss.; D.
Dal Re, I precursori italiani di una nuova scuola di diritto romano
nel secolo XV, Roma 1878, 83 ss.; D. Maffei,
Alessandro d’Alessandro. Giureconsulto umanista (1461-1523), Milano
1956, 27 ss.; F.G. Gabrieli, v. Alessandri
Alessandro, in Novissiomo Digesto Italiano, I.1, Torino 1964, 476 ss.;
O. Diliberto, Materiali,
cit., II, 39 s.; Id., Bibliografia, cit., 51 s.; Id., La palingenesi, cit., in Le Dodici Tavole, cit., 487 ss.; M. Zabłocka, Ustawa
XII Tablic, cit., 35
ss.; J.-L. Ferrary, op. cit.,
510.
[23] Tra il Cinque e il Seicento l’opera ebbe 33 riedizioni
repertoriate da D. Maffei, Alessandro,
cit., 175 s.
[24] L’edizione di riferimento è Coloniae 1539. Cfr. anche D.
Maffei, Alessandro, cit., 162 ss., che si avvale
dell’edizione del 1673.
[25] Gellius 11.18.6-12: Decemviri autem nostri, qui post
reges exactos leges, quibus populus Romanus uteretur, in XII tabulis
scripserunt, neque pari severitate in poeniendis omnium generum furibus neque
remissa nimis lenitate usi sunt. Nam furem, qui manifesto furto prensus esset,
tum demum occisi permiserunt, si aut, cum faceret furtum, nox esset, aut
interdiu telo se, cum prenderetur, defenderet. Ex ceteris autem manifestis
furibus liberos verberari addicique iusserunt ei, cui furtum factum esset, si
modo id luci fecisset neque se telo defendissent; servos item furti manifesti
prensos verberibus adficiet e saxo praecipitari, sed pueros inpuberes praetoris
arbitratu verberari voluerunt noxiamque ab his factam sarciri. Ea quoque furta,
quae per lancem liciumque concepta essent, proinde ac si manifesta forent,
vindicaverunt.
Sed nunc a lege illa decemvirali discessum est. Nam si
qui super manifesto furto iure et ordine experiri velit, actio in quadruplum
datur. ‘Manifestum’ autem ‘furtum
est’, ut ait Masurius, ‘quod deprehenditur, dum fit. Faciendi
finis est, cum perlatum est, quo ferri coeperat’. Furti concepti, item
oblati, tripli poena est.
Sed quod sit ‘oblatum’,
quod ‘conceptum’ et pleraque alia ad eam rem ex egregiis
veterum moribus accepta neque inutilia cognitu neque iniucunda, qui legere
volet, inveniet Sabini librum, cui titulus est de furtis.
[26] Sul confronto tra la Legge della Dodici Tavole e il
testo di Platone cfr. L. Pepe, op. cit., 20 ss.
[27] Di una maschera fece menzione anche E. Peruzzi, op. cit., 163 s. e L. Pepe, op. cit.,
169.
[28] La lanx tenuta davanti agli occhi è per F. Horak, op. cit., col. 795 un assurdo, e la spiegazione propter
matrum familiae…praesentiam frutto di una tarda glossa (coll. 797).
[29] Su vita e opere di Johann Oldendorp cfr. H.E. Dirksen, op. cit., 32 ss.; R. Stintzing,
Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft, I, München-Leipzig 1880,
325; E. Wolf, Grosse
Rechtsdenker der deutschen Geistesgeschichte, Tübingen 1939, 101 ss.; F. Wieacker, Privatrechtsgeschichte der
Neuzeit, 2a ed., Göttingen 1967, 283 ss.; v. Oldendorp Johann, in
Novissimo Digesto Italiano, XI, Torino 1965, 806 s.; K. Sójka-Zielińska,
Ius publicum – ius privatum
w systematyce prawa XVI w. [Ius publicum – ius privatum nella sistematica del diritto del XVI sec.],
in Czasopismo Prawno-Historyczne [Rivista di Storia e Diritto] 37.2,
1985, 179 ss.; J. Otto, v. Oldendorp
Johann, in Juristen. Ein biographisches Lexikon. Von Antike bis zum 20.
Jahrhundert, ed. Stolleis,
München 1995, 462 s.; O. Diliberto,
Materiali, cit., II, 45
s.; Id., Bibliografia, cit., 57 s.; M. Zabłocka, Ustawa XII Tablic,
cit., 57 ss.; J.-L. Ferrary, op. cit., 511.
[30] Coloniae 1539. L’opera è anche nota col titolo Εìσαγωγή seu elementaria introductio, ad studium iuris et
aequitatis, cui è raccordata nella raccolta delle
opere di Oldendorp, Opera, I, Basilae 1559, al quale mi sono riferita.
[31] In De legibus XII tabularum tripartita. Commentatio,
Lugduni 1564.
[32] Su vita e opere di Jacobus Gothofredus cfr. H.E. Dirksen, op. cit., 77 ss.; R. Stintzing,
op. cit., I, 385 ss.; F.G. Gabrieli, v. Godefroy Jacques, in
Novissimo Digesto Italiano,
VII, Torino 1961, 1145; E. Holthöfer,
v. Godefroy (Gothofredus), Jacques, in Juristen, cit., 240 s.; O. Diliberto, Materiali, cit., II, 95 s.; Id., Bibliografia, cit., 127 s.; M. Zabłocka, Ustawa XII Tablic, cit., 155 ss.; J.-L. Ferrary, op. cit., 534 ss.
[33] In 11.18.16-18 Gellio scrive dell’impunibilità in Egitto
e di leggi e consuetudini vigenti a Sparta, dove s’informano i giovani al furto
non per guadagno o capriccio, ma nell’ambito della formazione militare. Gellio
riporta l’amara e mai prescritta osservazione di Catone che i ladri di beni
privati patiscono in catene, e quelli del bene pubblico continuano a godere di
ogni ricchezza (fures privatorum furtorum in nervo atque in compedibus
aetatem agunt, fures publici in auro atque in purpura). Vedi Oratorum
Romanorum fragmenta, Turici 1842, 79: M. Porcius Cato, Oratio de praeda
militibus dividunda e inoltre R. La
Rosa, op. cit., 60.