Università
degli Studi di Bergamo
Direttore del
Dipartimento di Giurisprudenza
Augusto e Pericle.
A proposito di “maschere del potere” [1]
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Perché Pericle. – 3. I destinatari. – 4. Conclusioni.
Non credo che sia fuor di luogo pensare alla storia antica, greca
e romana, anche come un vasto serbatoio di “modelli”: modelli
politici, ideologici, filosofici. Fra il XVII e il XVIII secolo –
è ben noto – si attingeva a piene mani a questo serbatoio per dibattere,
in realtà, delle forme politiche contemporanee[2]. Ancora oggi, alcune fasi
della democrazia attica sono evocate quali possibile modello per innovazioni
politico-costituzionali[3]. Ma la storia antica non
è solo un serbatoio di concetti: democrazia, repubblica, impero,
isonomia, e così via. È anche – o forse sarebbe meglio
dire, è stata anche – un collettore di modelli individuali ai
quali richiamarsi per legittimare o consolidare il proprio potere. Augusto
è senz’altro una di queste figure: non è certo un caso che
Luigi XIV, in particolare dopo aver schiacciato la Fronda, si sia atteggiato a
novello Augusto, con un evidente intento propagandistico[4]. Vi è poi la notissima
iconografia augustea di Napoleone I [5], ma il racconto
dell’attualizzazione del mito augusteo, che conta episodi così
numerosi da prestarsi a studi ad hoc,
va al di là degli scopi di queste pagine. Piuttosto, vorrei qui svolgere
alcune riflessioni, traendo spunto da un volume che Felice Costabile ha
dedicato alla figura di Augusto[6]: uno scritto che non pretende
tanto di ricostruire la genesi, appunto, del “mito augusteo”[7], anche se con la questione si
confronta in più occasioni, quanto di svelare la propaganda augustea, la
“narrazione politica” che il princeps
fece di se stesso, in stretta connessione con il disegno
politico-costituzionale, sulla base del quale egli intendeva modellare il
neonato Impero.
Moltissimo è stato scritto sugli aspetti giuridici e
politico-istituzionali della transizione dalla Repubblica all’Impero;
minore attenzione, invece, è stata prestata agli aspetti per così
dire “propagandistici” dell’operazione avviata da Augusto,
pur con la rilevante eccezione delle res
gestae augustee[8].
Costabile, al contrario, pur senza mai perdere di vista il contesto politico,
giuridico e istituzionale, ricostruisce la “comunicazione politica”
di Augusto, abilmente concepita e opportunamente diversificata a seconda del
destinatario.
In questa sede, mi interessano particolarmente alcuni aspetti
dell’ampia e diversificata attività propagandistica del princeps, ossia quelli legati ad una
possibile riscoperta, da parte di Augusto, della figura di Pericle.
Sappiamo che nei pressi di Azio, a ricordo della propria
vittoria, Augusto fondò la città di Nicopoli e fece erigere un
altare monumentale consacrato a Nettuno e a Marte[9]; le ricostruzioni fondate
sull’evidenza archeologica mostrano che l’edificio non presentava i
canoni tradizionali dei trophaea
romani e la sua architettura sembrava anzi essere indirizzata «a un
pubblico anche ellenico»[10]. In particolare, la
struttura era ispirata, sia pure solo in senso “evocativo”,
all’Altare di Pergamo eretto per celebrare la vittoria di Eumene contro i
Galati: un richiamo, questo, che potrebbe indicare l’intenzione di
affermare una nuova narrazione della guerra civile, intesa come guerra esterna,
ossia contro gli Egizi di Cleopatra[11].
Ma, al di là del richiamo a Eumene II, è
effettivamente significativo che alcuni fregi dell’ara di Nicopoli
fossero evidentemente ispirati, come ben mostra la documentazione fotografica
riprodotta da Costabile[12], ai fregi fidiaci del
Partenone: in particolare quelli relativi alla processione per le Panatenaiche.
In alcuni casi, è ipotizzabile perfino che siano state effettuate vere e
proprie copie. Secondo Costabile, si tratta di una scelta iconografica
tutt’altro che casuale: Augusto insomma, avrebbe voluto in qualche modo
evocare la memoria di Pericle. E ciò si spiega con l’intento di
fornire alla parte orientale dell’Impero e in particolare proprio ai
Greci, una narrativa rivista e accettabile dell’avvento di Augusto come restitutor libertatis. Insomma, colui
che voleva presentarsi come il difensore delle libertà repubblicane a
Roma, non poteva che collocare se stesso, nel mondo greco, nel solco di
Pericle, il campione della democrazia lodato da Tucidide. Peraltro, i Greci
erano avvezzi da secoli a retoriche di questa natura: basti pensare al caso di
Demetrio del Falero, che nell’introdurre un’oligarchia moderata di
stampo aristotelico non esitò a presentarsi come il restauratore della
democrazia avita:
Δημήτριον
τὸν
Φαληρέα τῶν
Θεοφράστου τοῦ
φιλοσόφου
γνωρίμων, ὃς
οὐ μόνον οὐ
κατέλυσε τὴν
δημοκρατίαν ἀλλὰ
καὶ ἐπηνώρθωσε.
δηλοῖ δὲ τὰ
ὑπομνήματα
ἃ
συνέγραψε περὶ
τῆς
πολιτείας[13].
In ogni caso, va osservato come vi siano altri significativi
indizi che confermano come la figura di Pericle avesse assunto un certo ruolo
all’interno della “comunicazione politica” – mi si
perdoni il lessico attualizzante – di Augusto. Vi è, infatti, un altro
elemento di natura architettonica: il Propileo che conduceva
all’agorà di Augusto ad Atene, edificati entrambi con
finanziamento del principe, è ispirato ai propilei periclei
dell’Acropoli[14]. In tutti questi casi,
secondo Costabile, le scelte architettoniche costituiscono volute citazioni di exempla libertatis[15].
Vi è però, secondo Costabile, anche un altro
segnale della volontà di Augusto di avvalersi del modello di Pericle. Si
sa, infatti, che la famiglia di Augusto era originaria di Thourioi e lo stesso
Antonio, a quanto riferisce Svetonio, aveva avuto modo di rinfacciargli le sue
origini familiari e la modestia dei suoi avi:
ipse Augustus nihil amplius quam equestri
familia ortum se scribit vetere ac locuplete, et in qua primus senator pater
suus fuerit. M. Antonius libertinum ei proavum exprobrat, restionem
e pago Thurino, avum argentarium. Nec quicquam ultra de paternis Augusti
maioribus repperi[16].
Sempre Svetonio, riferisce che in giovane età Augusto era
chiamato Octavius Thurinus, un
appellativo sovente sfruttato da Antonio con toni dispregiativi:
Infanti cognomen Thurino inditum est, in
memoriam maiorum originis, vel quod regione Thurina recens eo nato pater
Octavius adversus fugitivos rem prospere gesserat. Thurinum cognominatum satis
certa probatione tradiderim nactus puerilem imagunculam eius aeream veterem
ferreis et paene iam exolescentibus litteris hoc nomine inscriptam, quae dono a
me principi data inter cubiculi Lares colitur. Sed et a M. Antonio in epistulis
per contumeliam saepe Thurinus appellatur et ipse nihil amplius quam mirari se
rescribit pro obprobrio sibi prius nomen obici[17].
L’antica città di Thourioi (chiamata dopo la
colonizzazione e poi la municipalizzazione romana Copia-Thurii) era
effettivamente una fondazione periclea del 444 a.C., da iscrivere nel quadro
della politica estera ateniese della seconda metà del quinto secolo.
Diodoro, una delle principali fonti in materia, riferisce quanto segue:
Συβαρῖται
πρέσβεις ἔπεμψαν
εἰς τὴν
Ἑλλάδα
πρὸς
Λακεδαιμονίους
καὶ Ἀθηναίους,
ἀξιοῦντες
συνεπιλαβέσθαι
τῆς
καθόδου καὶ
κοινωνῆσαι τῆς
ἀποικίας.
Λακεδαιμόνιοι
μὲν οὖν
οὐ
προσέσχον αὐτοῖς,
Ἀθηναῖοι
δὲ
συμπράξειν ἐπαγγειλάμενοι,
δέκα ναῦς
πληρώσαντες ἀπέστειλαν
τοῖς
Συβαρίταις, ὧν
ἡγεῖτο
Λάμπων τε καὶ
Ξενόκριτος: ἐκήρυξαν
δὲ κατὰ
τὰς ἐν
Πελοποννήσῳ
πόλεις
κοινοποιούμενοι
τὴν ἀποικίαν
τῷ
βουλομένῳ
μετέχειν τῆς
ἀποικίας[18].
Occorre a questo punto fare un piccolo passo indietro: verso la
fine del VI secolo, la città di Sibari era stata sconfitta dai
Crotoniati, i quali, stando a Strabone, deviarono l’omonimo fiume e la
sommersero[19].
Un primo tentativo di rifondare la città, nel 453, non
andò a buon fine, mentre ebbe successo il nuovo tentativo del 446:
allora gruppi di crotoniati si appellarono a Sparta e Atene perché
contribuissero alla rifondazione della città con l’invio di loro
coloni[20]. Sparta non aderì
alla proposta, mentre lo fece l’Atene di Pericle, che scelse di dare vita
a una colonia panellenica: i messi inviati da Atene per il Peloponneso,
infatti, non miravano ad ottenere l’adesione di città, ma di
singoli cittadini disposti a partecipare alla spedizione[21]. È evidente, che la
spedizione coloniale diveniva in tal modo una manifestazione della potenza e
delle ambizioni egemoniche di Atene sull’intera koiné ellenica[22]. La spedizione coloniale fu
guidata dall’indovino Lampone[23], uomo, stando alle fonti,
assai vicino a Pericle, e ad essa pare che abbiano partecipato altri illustri
personaggi collegati al cosiddetto “circolo di Pericle”, come ad
esempio Protagora, oltre all’architetto Ippodamo di Mileto, la cui opera
urbanistica è in parte emersa dagli scavi[24], e allo stesso Erodoto. La
costituzione data alla colonia, che assunse il nome di Thourioi, dovette
confrontarsi con il complesso mosaico etnico della popolazione della nuova polis, ma ebbe certamente caratteri
democratici[25].
Non è questa la sede dove trattare ulteriormente delle
vicende politiche di Thurioi, ma resta il fatto che quella città aveva
un forte legame storico con la figura di Pericle, che era stato di fatto
l’artefice della sua fondazione. Ora, certamente colpisce il fatto che
Augusto, nella sua monetazione, abbia adottato l’emblema del toro
cozzante, che era stato proprio dei conii thurini già dalla fondazione
di epoca periclea; anche il restauro di una statuetta in bronzo, databile fra
la fine del V e l’inizio del IV secolo, ripristinata in un arco temporale
difficilmente precisabile ma certamente collocabile in età
giulio-claudia e collocata in un santuario dedicato a Iside nel municipio di
Copia-Thurii, indicherebbe, «una precisa coscienza dell’origine
thurina e della volontà di conservarne la memoria»[26].
Insomma, pare plausibile l’ipotesi, avanzata da Costabile[27], che la
“riscoperta” del simbolo del toro thurino non fosse un fatto
casuale, ma facesse parte di una più ampia operazione propagandistica da
parte di Augusto, il quale otteneva in tal modo due risultati allo stesso
tempo: ribadire di fronte al mondo greco e magnogreco che – come
difensore della libertas – egli
aveva fra i propri punti di riferimento la figura di Pericle, e al contempo
demolire gli scherni di Antonio, che certo non erano stati dimenticati,
attraverso un’orgogliosa rivendicazione delle proprie origini. Da ultimo,
segnalo che anche il Foro di Augusto a Roma mostra evidenti ancorché
poco note tracce di una imitatio di
Pericle: l’attico con le cariatidi del Foro è infatti comunemente
inteso come un esplicito riferimento all’architettura fidiaca e periclea,
in particolare all’Eretteo. Un fatto che non può certamente essere
sottovalutato[28].
Se si accettano le premesse qui esposte, emerge dunque che
l’imitazione di Pericle o il richiamo alla sua figura costituirono un
elemento della propria autorappresentazione, abilmente costruita da Augusto, e
avente essenzialmente finalità politiche. Ma siamo sicuri che
l’obiettivo fosse solo quello di accreditarsi presso gli elleni come
campione della libertà, compiacendoli con il richiamo alle loro memorie
storiche? Io credo che vi fossero anche altre ragioni, per chiarire le quali
occorre porsi alcune domande.
Naturalmente la grandezza di Pericle, per come egli è
stato consegnato alla storia, in primis
da Tucidide, sembra rendere oziosa la domanda che apre questo paragrafo. Non
credo che sia così, come ora tenterò di spiegare.
Quando, molti anni fa, mi dedicai a studiare l’immagine che
di Pericle trasmettono le fonti[29], mi trovai di fronte a una
cospicua mole di materiali: buona parte di essi, anche quelli risalenti ai
contemporanei di Pericle, sono caratterizzati da evidenti distorsioni di
carattere politico e ideologico. Su di essi, in una sorta di processo
alluvionale, si depositeranno, con il trascorrere del tempo, rielaborazioni di
stampo filosofico e morale. Il risultato di tutto ciò è che,
nonostante alla figura di Pericle sia stato dedicato un numero cospicuo di
“biografie”[30], sembra certe volte che la
realtà storica della sua figura resti inconoscibile nella sua pienezza,
incrostata com’è di depositi secolari che paiono impossibili da
rimuovere. Comunque sia, ciò spiega, a mio parere, le ragioni della
fortuna della sua figura come modello; le fonti antiche, infatti, ne
restituiscono un’immagine quasi caleidoscopica, che ben si presta al
“riuso” in chiave ideologica: basti pensare alla sua azione
politica, talora rappresentata come opera di un demagogo, talaltra di una sorta
di monarca (quando non tiranno)[31]. Non stupisce, dunque, che
Augusto possa aver pensato egli stesso di richiamarsi alla memoria del grande
ateniese: non sono però del tutto convinto che l’interpretazione
di Felice Costabile, secondo il quale il fine ultimo di Augusto era presentarsi
ai Greci come difensore della libertas,
esaurisca completamente la questione. Vi sono, infatti, alcuni aspetti
specifici della tradizione su Pericle, certamente ben noti anche a Roma[32], che potevano apparire
particolarmente attraenti agli occhi di Augusto. Tenterò ora di
elencarli.
Il giudizio di Tucidide su Pericle e sul suo governo è
notissimo:
ἐγίγνετό
τε λόγῳ μὲν
δημοκρατία, ἔργῳ
δὲ ὑπὸ τοῦ
πρώτου ἀνδρὸς
ἀρχή[33].
Il «governo del primo cittadino» menzionato da
Tucidide si dispiegava, dunque, all’interno di un ordinamento formalmente
democratico, ma in realtà retto dal migliore e dal più adatto fra
gli Ateniesi. Tracce di questa lettura dell’epoca di Pericle sono visibili
anche nell’aristotelica Costituzione
degli Ateniesi, che, pur essendo opera senz’altro ostile, riconosce
come «finché Pericle fu a capo del popolo le cose andarono meglio,
molto peggio dopo la sua morte» (Ἕως μὲν
οὖν
Περικλῆς
προειστήκει τοῦ
δήμου, βελτίω τὰ
κατὰ τὴν
πολιτείαν ἦν,
τελευτήσαντος
δὲ
Περικλέους πολὺ
χείρω)[34]. Come si dirà fra
breve, non mancavano, fra i contemporanei di Pericle, coloro che lo ritenevano
responsabile di un vero e proprio sovvertimento dell’ordine democratico;
non era questo, però, il giudizio di Tucidide, il quale riteneva che la
peculiare situazione politica di Atene sotto il governo di Pericle (stratego
pressoché continuativamente per circa un ventennio) fosse essenzialmente
il frutto delle sue qualità personali:
ἐκεῖνος
μὲν δυνατὸς
ὢν τῷ
τε ἀξιώματι
καὶ τῇ
γνώμῃ
χρημάτων τε
διαφανῶς ἀδωρότατος
γενόμενος κατεῖχε
τὸ πλῆθος
ἐλευθέρως,
καὶ οὐκ ἤγετο
μᾶλλον ὑπ’
αὐτοῦ
ἢ αὐτὸς
ἦγε, διὰ
τὸ μὴ
κτώμενος ἐξ
οὐ
προσηκόντων τὴν
δύναμιν πρὸς
ἡδονήν
τι λέγειν, ἀλλ’
ἔχων ἐπ’
ἀξιώσει
καὶ πρὸς
ὀργήν τι ἀντειπεῖν.
ὁπότε γοῦν
αἴσθοιτό
τι αὐτοὺς
παρὰ καιρὸν
ὕβρει
θαρσοῦντας,
λέγων
κατέπλησσεν ἐπὶ
τὸ φοβεῖσθαι,
καὶ
δεδιότας αὖ
ἀλόγως ἀντικαθίστη
πάλιν ἐπὶ τὸ
θαρσεῖν[35].
Nessuno stravolgimento costituzionale, dunque, ma
l’emergere del migliore – proprio perché tale –
all’interno del sistema politico, del quale diviene guida autorevole e
rispettata. Anche Aristotele, che pure non può essere sospettato di
particolare simpatia nei confronti di Pericle, sembra condividere, sia pure con
toni molto più sfumati, le tesi di Tucidide; infatti, nell’Etica a Nicomaco egli afferma che
Pericle e gli uomini come lui sono «saggi, perché sanno
comprendere quale sia il bene per loro e per gli uomini; proprio questi –
crediamo – devono essere gli uomini che governano la famiglia e lo
Stato» (Περικλέα καὶ
τοὺς
τοιούτους
φρονίμους οἰόμεθα
εἶναι, ὅτι
τὰ αὑτοῖς
ἀγαθὰ
καὶ τὰ
τοῖς ἀνθρώποις
δύνανται θεωρεῖν·εἶναι
δὲ
τοιούτους ἡγούμεθα
τοὺς οἰκονομικοὺς
καὶ τοὺς
πολιτικούς)[36].
Questo volto di Pericle, dipinto per la prima volta da Tucidide,
doveva essere per più versi congeniale a chi, concludendo il resoconto
degli eventi del 27 a.C. così si esprimeva:
Post id tem[pus a]uctoritate [omnibus praestiti, potest]atis au[tem n]ihilo ampliu[s habu]i quam cet[eri qui m]ihi quoque in ma[gis]tra[t]u
conlegae [fuerunt][37].
Senza entrare ora nella questione del nuovo modello
costituzionale introdotto dal princeps e
della transizione fra Repubblica e Principato[38], vale la pena di notare come
la narrativa augustea, che nella sua complessità risente certamente di
una pluralità di canoni e modelli ideologici, quando si richiama alla
restituzione della res publica sembri
in qualche modo echeggiare anche i topoi
di quinto e quarto secolo sulla patrios
politeia[39].
Da questo punto di vista, Augusto è l’ultimo di una lunga serie di
«restauratori della libertà e della democrazia» (ἀπολάβετε
καὶ τὴν ἐλευθερίαν
καὶ τὴν
δημοκρατίαν,
κομίσασθε καὶ
τὰ ὅπλα καὶ
τὰ ἔθνη τὰ
ὑπήκοα,
καὶ
πολιτεύεσθε ὥσπερ
εἰώθειτε)[40].
Si comprende, dunque, come la figura di Pericle potesse fare
doppiamente gioco: anch’egli difensore della libertà e della
democrazia e anch’egli – a suo modo – princeps civitatis (protos
aner).
Tuttavia, a mio parere ciò non spiega tutte le ragioni
dell’attrazione esercitata dal modello pericleo su Augusto. Come si
è già accennato, gli avversari di Pericle leggevano il suo
governo in modo diametralmente opposto a quello di Tucidide: vi era,
certamente, chi lo esecrava per i suoi caratteri troppo democratici, ed
è questa in linea generale la posizione delle fonti della
“aristotelica” Costituzione
degli Ateniesi[41]; ma vi era anche chi, al
contrario, vedeva in Pericle una minaccia alla democrazia stessa, un individuo
che ambiva alla monarchia, insomma un tyrannos.
Se ne riconoscono le tracce già in Erodoto, quando racconta del sogno di
Agariste, madre di Pericle:
Ἐκ
δὲ Ἱπποκράτεος
Μεγακλέης τε ἄλλος
καὶ Ἀγαρίστη
ἄλλη, ἀπὸ
τῆς
Κλεισθένεος Ἀγαρίστης
ἔχουσα τὸ
οὔνομα, ἣ
συνοικήσασά τε
Ξανθίππῳ τῷ Ἀρίφρονος
καὶ ἔγκυος ἐοῦσα
εἶδε ὄψιν
ἐν τῷ
ὕπνῳ,
ἐδόκεε δὲ
λέοντα τεκεῖν·
καὶ μετ’ ὀλίγας
ἡμέρας
τίκτει
Περικλέα
Ξανθίππῳ[42].
La figura del leone, infatti, è da
sempre simbolo di regalità e il racconto erodoteo sembra modellato sulla
tipica narrazione della nascita di un sovrano[43]. Ancora più esplicite
le fonti alle quali attingeva Plutarco, che racconta come da giovane Pericle si
tenesse prudentemente alla larga dal demos,
per via di una sua presunta somiglianza con Pisistrato:
Ὁ
δὲ Περικλῆς
νέος μὲν ὢν
σφόδρα τὸν δῆμον
εὐλαβεῖτο.
καὶ γὰρ ἐδόκει
Πεισιστράτῳ
τῷ τυράννῳ
τὸ εἶδος
ἐμφερὴς
εἶναι[44].
L’accusa di aspirare alla tirannia, o di esercitare de facto una gestione tirannica del
potere, è esplicita in quanto ci è rimasto della Commedia Attica.
Di un potere senza freni né controlli parla Teleclide:
πόλεών
τε φόρους αὐτάς
τε πόλεις, τὰς μὲν δεῖν, τὰς δ’
ἀναλύειν,
λάινα τείχη, τὰ μὲν οἰκοδομεῖν τὰ δὲ τἄμπαλιν
αὖ
καταβάλλειν,
σπονδάς,
δύναμιν,
κράτος, εἰρήνην,
πλοῦτόν τ’ εὐδαιμονίαν
τε[45].
Il riferimento alla tirannia è esplicito in Cratino, che
sbeffeggiava Pericle quale novello Paride impegnato nel giudizio fra le tre
dee:
παρὰ
μ(ὲν) Ἥ̣ρ̣α̣[ϲ]
τυραννίδο(ϲ)
ἀκινήτου,
πα[ρ]ὰ δ’ Ἀθηνᾶϲ εὐτ̣υχί(αϲ)
κ(α)τ(ὰ)
πόλεμο(ν), τῆϲ δ’ Ἀφροδί(τηϲ)
κάλλιϲτό(ν) τε
κ(αὶ) ἐπέραϲτον
αὐτὸν ὑπάρχειν[46].
Conviene a questo punto tornare brevemente ad Augusto. Con felice
intuizione, Rossella Laurendi ha osservato come la ritrattistica augustea abbia
alcuni tratti assolutamente peculiari, in particolare per quanto riguarda il
disegno degli occhi[47]: una scelta non certo
casuale, ma anzi da iscriversi nel quadro di una propaganda misticheggiante
intorno alla figura del princeps.
Dello “sguardo divino” di Augusto fa menzione anche Svetonio:
Oculos habuit claros ac nitidos, quibus
etiam existimari volebat inesse quiddam divini vigoris, gaudebatque, si qui
sibi acrius contuenti quasi ad fulgorem solis vultum summitteret[48].
Costabile fa ricadere questo aspetto della rappresentazione di
Augusto nel quadro più ampio di motivi propagandistici a carattere
teologico o escatologico, variamente declinati a seconda della
sensibilità del destinatario: più marcati, nel senso della
divinizzazione del princeps, quando
indirizzati agli “orientali”, più sfumati quando rivolti ai
propri compatrioti[49]. Tutto ciò premesso,
torniamo ora a Pericle.
Si è detto poc’anzi come la Commedia non avesse
risparmiato a Pericle l’accusa, più o meno velata, di tirannia.
Questa accusa subisce, in particolare in Cratino, una singolare e per noi
significativa evoluzione: ben presto, infatti, Pericle viene rappresentato,
sulla falsariga di motivi ben visibili nel Prometeo
eschileo, come una sorta di Zeus tiranno. Diversi frammenti di Cratino
riportati da Plutarco testimoniano della fortuna di questo tema:
τῶν δὲ
κωμικῶν ὁ μὲν
Κρατῖνος ἐν
Χείρωσι (fr. 240 CAF I 86)
„Στάσις δὲ
(φησί) καὶ
πρεσβυγενὴς
Κρόνος ἀλλήλοισι
μιγέντε
μέγιστον
τίκτετον
τύραννον, ὃν
δὴ
Κεφαληγερέταν
θεοὶ
καλέουσι“, καὶ
πάλιν ἐν
Νεμέσει (fr. 111 CAF I 49)·
„μόλ’ ὦ Ζεῦ
ξένιε καὶ
καραϊέ“[50].
E ancora:
ὁ
σχινοκέφαλος
Ζεὺς ὅδε
προσέρχεται
[Περικλέης] τᾠδεῖον
ἐπὶ τοῦ
κρανίου ἔχων, ἐπειδὴ
τοὔστρακον
παροίχεται[51].
Il motivo dello “Zeus tiranno” è chiaramente
un tema ostile a Pericle, germinato nel contesto della lotta politica del
quinto secolo; esso ebbe comunque una fortuna notevole, tanto da divenire una
sorta di stereotipo. Ne è testimone, ad esempio, Aristofane:
ἐντεῦθεν
ὀργῇ
Περικλέης οὑλύμπιος
ἤστραπτ’,
ἐβρόντα,
ξυνεκύκα τὴν
Ἑλλάδα, ἐτίθει
νόμους ὥσπερ
σκόλια
γεγραμμένους[52].
L’accusa politica e lo sberleffo dei comici sembrano in
realtà tradire anche in questo caso, come – stando a Svetonio
– accadde per Augusto, aspetti del contegno pubblico di Pericle: un
atteggiamento severo, imperturbabile, alieno dal riso e dalle facezie che ben
si prestava, nel contesto del quinto secolo, a essere letto come
altezzosità tirannica[53]. Comunque sia,
l’appellativo di “olimpio” divenne ben presto un elemento
costitutivo dell’immagine di Pericle, ponendo le basi – fra
l’altro – per la reinterpretazione idealizzante che
dell’Alcmeonide farà in seguito Plutarco[54].
In realtà il processo di idealizzazione della figura di
Pericle pare essere cominciato molto presto; già Eupoli, con parole che
possono per certi versi ricordare il già menzionato giudizio tucidideo,
pare esprimersi con rimpianto, dopo la morte dello stratego, e ciò anche
al di là dei possibili doppi sensi tipici della Commedia:
κράτιστος
οὗτος ἐγένετ’
ἀνθρώπων
λέγειν· ὁπότε
παρέλθοι δ’, ὥσπερ
ἁγαθοὶ
δρομῆς, ἐκ
δέκα ποδῶν ᾕρει
λέγων τοὺς ῥήτορας,
ταχὺν
λέγεις μέν, πρὸς
δέ γ’ αὐτοῦ
τῷ τάχει
πειθώ τις ἐπεκάθιζεν
ἐπὶ τοῖς
χείλεσιν·οὕτως
ἐκήλει
καὶ μόνος τῶν
ῥητόρων
τὸ
κέντρον ἐγκατέλειπε
τοῖς ἀκροωμένοις[55].
Del resto, è opinione comune che lo stesso ritratto di
Pericle scolpito da Cresila ancora nel quinto secolo, poco dopo la morte di
Pericle stesso, avesse già chiari caratteri idealizzanti, volendo
mostrare il carattere olimpico dell’uomo di Stato[56].
Peraltro, questo sarà anche il parere di Plinio, che
così si esprimeva al riguardo:
Cresilas volneratum deficientem, in quo
possit intellegi quantum restet animae, et Olympium Periclen dignum cognomine,
mirumque in hac arte est quod nobiles viros nobiliores fecit[57].
La riflessione sulla figura di Pericle quale esempio morale e in
particolare sul suo “olimpico distacco” sembra essersi sviluppata
in particolare all’interno della scuola stoica[58] e certamente tali tradizioni
non erano ignote nella Roma augustea, come peraltro avrò modo di
ricordare fra poco.
Se si accetta, dunque, l’ipotesi che Augusto abbia voluto
richiamarsi alla figura di Pericle nel quadro di una propria narrativa
propagandistica, vi era una ragione in più per giustificare tale scelta.
Pericle, infatti, non solo era ricordato come “principe” della
libera Atene a motivo delle sue straordinarie doti e virtù, ma a seguito
della reinterpretazione di antiche tradizioni originariamente ostili era anche
caratterizzato da un’aura quasi sovrumana, in fondo non così
lontana da quella che Augusto volle attribuire a se stesso.
Come si è già accennato, nell’interpretazione
di Costabile il recupero di Pericle da parte di Augusto sarebbe stato
finalizzato ad una narrazione indirizzata essenzialmente ai Greci. È
un’ipotesi del tutto ragionevole, ma credo che essa meriti di essere
integrata con qualche dato ulteriore.
E’ noto che Augusto si impegnò molto, nel quadro
della sua azione politica e propagandistica, al fine di
“sterilizzare” quelle figure di “martiri della
libertà” che avrebbero potuto essere di ostacolo al proprio
progetto politico: due in particolare, Cicerone e Catone Uticense[59]. Per quanto riguarda
Cicerone, è stato per primo Jérôme Carcopino[60] ad avanzare la tesi –
da molti condivisa, per quanto espressa in un volume per più aspetti
controverso[61]
– che la pubblicazione delle lettere private dell’epistolario
ciceroniano sia stata un’operazione costruita ad hoc per screditare la memoria sua, oltre che di elementi di
spicco del senato repubblicano, nonché dei partigiani di Pompeo e
Antonio, a tutto vantaggio di Augusto. Che si voglia credere o meno alle tesi
di Carcopino, è certo che la figura dell’Arpinate poteva creare
qualche fastidio politico al princeps e
ne è un indizio quanto riferisce Plutarco, con ogni probabilità
attingendo a fonti della propaganda augustea:
Πυνθάνομαι
δὲ
Καίσαρα
χρόνοις πολλοῖς
ὕστερον
εἰσελθεῖν
πρὸς ἕνα
τῶν
θυγατριδῶν·
τὸν δὲ
βιβλίον ἔχοντα
Κικέρωνος ἐν
ταῖς
χερσίν, ἐκπλαγέντα
τῷ ἱματίῳ
περικαλύπτειν·
ἰδόντα δὲ
τὸν
Καίσαρα λαβεῖν
καὶ διελθεῖν
ἑστῶτα
μέρος πολὺ
τοῦ βιβλίου,
πάλιν δ’ ἀποδιδόντα
τῷ
μειρακίῳ φάναι
„λόγιος ἁνὴρ ὦ
παῖ, λόγιος
καὶ
φιλόπατρις“[62].
Inoltre, va ricordato che Cicerone non era solo, per alcuni, un
caduto in difesa della libertas: egli
era anche autore – nel De Republica
e nel De Legibus – di una dottrina
del princeps non del tutto
sovrapponibile a quella augustea, e proprio per questo potenzialmente in
competizione con essa[63]. Da questo punto di vista,
sia la figura che il pensiero politico di Cicerone si presentavano ad Augusto
non solo come bersagli da ridimensionare, ma anche da svuotare
dall’interno, facendoli in qualche modo propri analogamente a quanto egli
fece con Catone Uticense[64]: ed è proprio questo,
credo, il senso dell’aneddoto riportato da Plutarco. Non è certo
questa la sede dove affrontare la complessa questione della
“normalizzazione” di Cicerone, che affiancò, con ogni
probabilità, l’attacco alla sua figura morale, un duplice attacco
destinato – nelle intenzioni della propaganda augustea – a ridimensionare
una volta per tutte i problemi posti dal fantasma dell’Arpinate[65]. Vorrei piuttosto notare
come proprio Cicerone abbia avuto un ruolo determinante nella diffusione a Roma
del “mito” di Pericle.
Che Cicerone avesse una considerazione del tutto particolare di
Pericle emerge, in primo luogo, dal fatto che nella Pro Archia si possono riscontrare numerosi parallelismi con
l’Epitaffio di Pericle riportato da Tucidide, rispetto al quale
l’Arpinate si pone in una posizione allo stesso tempo critica e di
emulazione[66].
La cosa non stupisce, se si pensa che Pericle rappresentava certamente, per
Cicerone, uno dei grandi modelli del passato greco[67]; modelli dai quali trarre
ispirazione per il presente, tanto che una visita al loro sepolcro era una
parte essenziale del “viaggio formativo” di un romano ad Atene:
Modo
etiam paulum ad dexteram de via declinavi, ut ad Pericli sepulcrum accederem[68].
Tutto ciò premesso, va detto che Cicerone, nelle sue
opere, menziona frequentemente Pericle e può essere considerato come uno
dei principali responsabili della diffusione della figura dell’Alcmeonide
quale modello di politico e oratore a Roma, rifacendosi a una tradizione
precedente e sicuramente ben viva nel mondo greco. A questo proposito,
può essere utile notare che all’epoca di Cicerone si era perfino
diffusa una letteratura pseudoepigrafa, falsamente attribuita a Pericle.
È noto a tutti il passo “metodologico” nel quale Tucidide
chiarisce come egli avesse proceduto a ricostruire i discorsi presenti nella sua
opera secondo il criterio del verosimile e dell’aderenza al senso
complessivo di quanto era stato effettivamente detto[69]. Non stupisce, quindi, che
Dionigi di Alicarnasso, nel suo scritto dedicato a Tucidide, attribuisse allo
storico i discorsi di Pericle[70]; nella stessa direzione
Plutarco, che rilevava come non fosse pervenuto alcunché di direttamente
ascrivibile a Pericle, con l’esclusione di alcuni testi di decreti[71]. Colpisce, quindi, che
Cicerone, in più occasioni, si mostrasse invece edotto
dell’esistenza di opere di Pericle:
Tamen ante Periclem, cuius scripta
quaedam feruntur, et Thucydidem, qui non nascentibus Athenis sed iam adultis
fuerunt, littera nulla est, quae quidem ornatum aliquem habeat et oratoris esse
videatur[72].
Di tali scritti egli sembra aver avuto conoscenza diretta,
poiché ne commenta lo stile:
Antiquissimi fere sunt, quorum quidem
scripta constent, Pericles atque Alcibiades et eadem aetate Thucydides,
subtiles, acuti, breves, sententiisque magis quam verbis abundantes: non
potuisset accidere, ut unum genus esset omnium, nisi aliquem sibi proponerent
ad imitandum[73].
Le osservazioni di Cicerone spinsero Quintiliano ad approfondire
la faccenda; egli infatti conferma l’esistenza di tali opere, ma le
giudica senz’altro dei falsi:
Cicero in Bruto negat ante Periclea
scriptum quicquam quod ornatum oratorium habeat: eius aliqua ferri. Equidem non
reperio quicquam tanta eloquentiae fama dignum, ideoque minus miror esse qui
nihil ab eo scriptum putent, haec autem quae feruntur ab aliis esse composita[74].
È abbastanza chiaro che cosa abbia spinto Cicerone a
interessarsi a questa letteratura pseudoepigrafa: da un canto abbondavano le
testimonianze delle straordinarie virtù di Pericle, ma d’altra
parte mancavano completamente suoi scritti. Una lacuna della quale Cicerone
doveva soffrire particolarmente, poiché dai suoi scritti emerge
chiaramente il tentativo di fare dell’Alcmeonide una figura rispondente
alla sua concezione del vir bonus dicendi
peritus: politico ed oratore eccelso, uomo di vasta cultura e
frequentazioni filosofiche. Da questo punto di vista Pericle gli appariva un
fulgido modello di uomo di Stato. Educato da Anassagora (ab Anaxagora physico eruditus
exercitationem mentis a reconditis abstrusisque rebus ad causas
forenses popularesque traduxerat)[75] le sue capacità
oratorie erano lo strumento grazie al quale consolidare la propria
autorità e il proprio ruolo di guida, se necessario piegando la
volontà del popolo: Quid Pericles?
De cuius vi dicendi sic
accepimus ut cum contra voluntatem
Atheniensium loqueretur pro salute patriae severius, tamen id ipsum,
quod ille contra popularis homines diceret populare omnibus et iucundum
videretur[76].
E ancora: Quid Pericles? De cuius vi dicendi sic accepimus ut cum contra voluntatem Atheniensium loqueretur pro
salute patriae severius, tamen id ipsum, quod ille contra popularis
homines diceret populare omnibus et iucundum videretur[77].
Anche la Commedia Attica contribuisce a questa ridefinizione
dell’immagine di Pericle (ab
Aristophane poeta fulgere, tonare, permiscere Graeciam dictus esset)[78] sino a farne non solo un orator prope perfectum[79], ma un esempio immortale di princeps civitatis (cum floreret omni genere virtutis… eloquentissimus... princeps consilii publici)[80] il
cui lungo governo si era fondato sulla propria auctoritas: Periclen, cum iam
suae civitati maxima auctoritate plurimos annos domi et belli praefuisset[81].
Così stando le cose, mi pare che si possa individuare un
motivo in più, da parte di Augusto, per sottrarre a Cicerone –
impadronendosene - quella figura di Pericle che l’Arpinate,
ridisegnandola secondo canoni propri, aveva contribuito a rendere ancora
più popolare come modello di virtù politica. Da questo punto di
vista, credo che si possa dire che il richiamo di Augusto alla memoria di
Pericle costituiva un messaggio indirizzato non solo ai Greci, ma anche agli
stessi Romani: il che contribuisce a spiegare, peraltro i riferimenti
architettonici all’Eretteo contenuti nel Foro.
Verso la metà del quarto secolo dopo Cristo, l’imperatore
Giuliano guardava anch’egli a Pericle come a modello nel quale
identificarsi, pur rammaricandosi delle diverse condizioni della sua epoca: Ἀλλ’
ὁ μὲν
Περικλῆς, ἅτε
δὴ
μεγαλόφρων ἀνὴρ
καὶ τραφεὶς
ἐλεύθερος
ἐν ἐλευθέρᾳ
τῇ πόλει, ὑψηλοτέροις
ἐψυχαγώγει
λόγοις αὑτόν· ἐγὼ
δέ, γεγονὼς ἐκ
τούτων οἷοι νῦν
βροτοί εἰσιν, ἀνθρωπικωτέροις
ἐμαυτὸν
θέλγω καὶ παράγω
λόγοις καὶ τὸ
λίαν πικρὸν ἀφαιρῶ
τῆς λύπης[82]. Quest’ultimo episodio
di una serie secolare di “mascheramenti” risente naturalmente di
quel processo di idealizzazione portato a compimento con la Vita di Plutarco: credo infatti che la
biografia plutarchea volesse costruire un’immagine quasi regale di
Pericle, con l’intenzione di farne un modello indirizzato
all’imperatore[83].
A questo proposito vale la pena di notare come Adriano stesso
sembri aver voluto richiamarsi alla figura di Pericle[84], tanto che la stessa
ritrattistica adrianea, secondo alcuni studiosi, potrebbe essere ispirata
proprio all’erma di Cresila[85], della quale, sia detto per
inciso, ben due copie su cinque provengono dalla città di Tivoli[86].
Il richiamo di Augusto a Pericle costituisce dunque un ulteriore
passaggio nel complesso processo evolutivo della figura dell’uomo di
Stato, dalla lotta politica contemporanea fino all’idealizzazione
monarchica e non mi pare da escludere, in conclusione, che la stessa
ridefinizione dell’immagine di Pericle in età adrianea sia stata
favorita dal “revival” pericleo di epoca augustea.
[Un
evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende
impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi
presentati. Al fine della pubblicazione, questo scritto è stato valutato
“in chiaro” dalla direzione di Diritto @ Storia]
[1] Le considerazioni che seguono sono state a suo tempo
esposte in forma più sintetica e meno argomentata in occasione di un
incontro presso l’École Française de Rome avvenuto il 30
ottobre 2014, con la partecipazione di E. La Rocca, O. Licandro, M. Mayer, C.
Virlouvet.
[2] Cfr. fra i tanti L. Guerci, Libertà
degli antichi e libertà dei moderni, Napoli 1979.
[3] Vedi ad esempio M.H. Hansen, The Tradition of Ancient Greek Democracy and its Importance for Modern
Democracy, Copenhagen 2005. Di
assoluto rilievo in materia di propaganda augustea lo scritto di O. Diliberto, La città e le leggi. Racconti di Fondazione, legislazione
arcaica e ideologia augustea, in Legge
eguaglianza diritto. I casi di fronte alle regole nell’esperienza antica,
a cura di G. Luchetti, Roma 2018, 95-122.
[4] Cfr. in proposito
P. Burke, The fabrication of Louis XIV, New Haven 1992.
[5] Cfr. ad es. D. Rowell, Paris: the new Rome of Napoleon I, London 2012, 3 ss.
[6] F.
Costabile, Caius Iulius Caesar.
Dal dictator al princeps, dal divi filius al Cristo. Augusto e le maschere del
potere, Roma 2013; e così pure del medesimo Autore Atene e Roma, alle origini della democrazia
moderna e la tradizione romanistica nei sistemi di Civil law e di Common law, Torino 2016, passim.
[7] Sul punto, cfr. un altro recente volume: La costruzione del mito augusteo, a cura
di M. Labate, G. Rosati, Heidelberg 2013.
[8] Per indicazioni aggiornate circa la vasta
bibliografia in materia, mi limito a rimandare allo stesso F. Costabile, Caius Iulius Caesar, cit., 95 ss.
[9] F.
Costabile, Caius Iulius Caesar,
cit., 142 ss. con bibliografia.
[10] F. Costabile, Caius Iulius Caesar, cit., 147.
[11] F. Costabile, Caius Iulius Caesar, ibidem.
[12] F. Costabile, Caius Iulius Caesar, cit., 148-149.
[13] Strabo IX.1.20.
[14] F. Costabile, Caius Iulius Caesar, cit., 49 ss.
[15] F. Costabile, Caius Iulius Caesar, cit., 151.
[16] Suetonius II.2.
[17] Suetonius II.7.
[18] Diodorus Siculus
XII.10.
[19] Strabo VI.1.13.
Cfr. in proposito G. Pugliese Carratelli,
Le vicende di Sibari e Thurii, in Atti e memorie della Società Magna
Grecia 13-14, 1972-1973, 21 e ss.; V.
Ehrenberg, The Foundation of
Thurii, in American Journal of
Philology 69, 1948, 149 e ss.; mi permetto di segnalare anche il mio Risposta a Martin Dreher, Das
Bürgerrecht im griechischen Sizilien zwischen Recht und Politik, in Symposion 2005, Vorträge zur griechischen und hellenistischen Rechtsgeschichte,
a cura di E. Cantarella, Wien 2007, 79 ss.
[20] Diodorus Siculus XII.9-11. G. Pugliese Carratelli, Le vicende, cit., 24 e ss.
[21] V. Ehrenberg, Foundation of Thurii, cit., 154.
[22] M.
Moggi, Senocrito, Tucidide di
Melesia e la fondazione di Thourioi, in Annali
della Scuola Normale Superiore di Pisa 9, 1979, 499 e ss.; V. Ehrenberg, Foundation of Thurii, cit., 155 e ss.
[23] Cfr. Aristophanes,
Nub. 332; Schol. ad loc. cit.; Plutarchus, Per. 6.2; Aristophanes, Rhet.
1419 a.
[24] P.G.
Guzzo, I risultati degli scavi,
in Atti e memorie della Società
Magna Grecia 13-14, 1972-1973, 38 e ss.; F.
Castagnoli, Ancora
sull’urbanistica di Thurii, in Parola
del Passato 28, 1973, 220 e ss.
[25] Sul punto rinvio al mio Risposta a Martin Dreher, cit.
[26] Su tutto ciò, si veda – con
ampio materiale fotografico – F.
Costabile, Caius Iulius Caesar,
cit., 151 ss.
[27] F.
Costabile, Caius Iulius Caesar,
cit., 152.
[28] Cfr. L.
Ungaro, L. Milella, M. Vitti, Il
sistema museale dei Fori Imperiali e i Mercati di Traiano, in Simulacra Romae 23, volume pubblicato
digitalmente a questo indirizzo: http://www.cervantesvirtual.com/bib/portal/simulacraromae/ .
[29] A.
Banfi, Il governo della
città. Pericle nel pensiero antico, Bologna 2003.
[30] Mi limito a segnalare l’ultima in
ordine di tempo: V. Azoulay, Périclès. La démocratie athénienne
à l’épreuve du grand homme, Paris 2014.
[31] In proposito cfr. A. Banfi, Il governo della città, cit., 10 ss.
[32] Vedi infra.
[33] Thucydides II.65.
[34] Aristoteles, Resp. Ath. 28.1.
[35] Thucydides II.65.
[36] Aristoteles, E.N. 1140 b 4.
[37] Res
Gestae Divi Aug. 34. Sulla restituzione del testo vedi da ultimo O. Licandro, Augusto e la res publica imperiale. Studi epigrafici e papirologici,
Torino 2018, 6 ss. nonché Augusto, Res
gestae, a cura di P. Arena, Bari 2014.
[38] La bibliografia sul punto è
sterminata. In questa sede mi limito a rinviare a F. Serrao, Il modello
di costituzione. Forme giuridiche, caratteri politici, aspetti
economico-sociali, in Storia di Roma
2, L’impero mediterraneo, Torino 1991, 29 ss.
[39] L’accostamento è già
in M.I. Finley, Politics in the Ancient World, Cambridge
1983, 25.
[40] Cassius Dio, Hist. 53.5.4.
[41] Cfr. A.
Banfi, Il governo della
città, cit., 185 ss.
[42] Herodotus VI.131.
[43] Cfr. il commento di G. Nenci, in Erodoto, Le storie, Libro VI, Milano 1998, 310-311.
[44] Plutarchus, Per. 7.1.
[45] Teleclides fr. 42
CAF.
[46] Cratinus fr. 70
CGFP.
[47] R.
Laurendi in F. Costabile, Caius Iulius Caesar, cit., 176 e ss.
[48] Suetonius II.79.3.
[49] R.
Laurendi in F. Costabile, Caius Iulius Caesar, cit., 183.
[50] Plutarchus, Per. 3.5.
[51] Cratinus fr. 71 CAF.
[52] Aristophanes, Ach. 530-532.
[53] A.
Banfi, Il governo della
città, cit., 41.
[54] Vedi infra.
[55] Eupolis fr. 94 CAF.
[56] J.J. Pollitt, Art in the Hellenistic Age, Cambridge
1986, 60 ss.
[57] Plinius, N.H. 34.74.
[58] A.
Banfi, Il governo della
città, cit., 197 ss.
[59] F.
Costabile, Caius Iulius Caesar,
cit., 154 ss., con bibliografia; L.
Canfora, Augusto figlio di Dio,
Bari 2015, 292 e ss.
[60] J. Carcopino, Les secrets de la correspondance de
Cicéron, Paris 1947.
[61] Cfr. F. Costabile,
Caius Iulius Caesar, cit., 154 ss.
Per un’analisi del lavoro di Carcopino e della sua recezione nel contesto
degli studi classici dello scorso secolo, si veda il pregevole scritto di J.P. De Giorgio, Lectures d’un ouvrage de J. Carcopino en France, en Italie et en
Angleterre: Les Secrets de la Correspondance de Cicéron, in Mélanges de l’École
Française de Rome 123.2, 2011, 395-408.
[62] Plutarchus, Cic. 49.5.
[63] Cfr. E.
Bolaffi, La « dottrina del
buon governo » presso i Romani e le origini del principato in Roma fino
ad Augusto compreso, in Latomus
14, 1955, 100-115; 271-284; 426-445. Da ultimo, J. Zarecki, Cicero’s
Ideal Statesman in Theoy and Practice, London – New York 2014.
[64] O.
Licandro, Augusto e la res publica
imperiale, cit., 183 ss.
[65] Sul punto cfr. fra i tanti H. Wagenvoort, Studies in Roman Litterature, Culture and Religion, Leiden 1956, 43
e ss.
[66] Sul punto si veda
P.R. Murphy, Cicero’s Pro Archia and the Periclean Epitaphios, in Transactions and Proceedings of the American
Philological Association 89, 1958, 99-111.
[67] E. Laughton, Cicero and the Greek Orators, in The American Journal of Philology 82.1,
1961, 28 ss.
[68] Cicero, De Fin. 5.5.
[69] Thucydides I.22: Καὶ ὅσα μὲν λόγῳ εἶπον ἕκαστοι ἢ μέλλοντες πολεμήσειν ἢ ἐν αὐτῷ ἤδη ὄντες, χαλεπὸν τὴν ἀκρίβειαν αὐτὴν τῶν λεχθέντων διαμνημονεῦσαι ἦν ἐμοί τε ὧν αὐτὸς ἤκουσα καὶ τοῖς ἄλλοθέν ποθεν ἐμοὶ ἀπαγγέλλουσιν·
ὡς δ’ ἂν ἐδόκουν ἐμοὶ ἕκαστοι περὶ τῶν αἰεὶ παρόντων τὰ δέοντα μάλιστ’
εἰπεῖν, ἐχομένῳ ὅτι ἐγγύτατα τῆς ξυμπάσης γνώμης τῶν ἀληθῶς λεχθέντων, οὕτως εἴρηται.
[70] Dionysius Hal., De Thuc. 18 ss. e 43-45.
[71] Plutarchus, Per. 8.6.
[72] Cicero, Brut. 27.
[73] Cicero, De Orat. 2.93.
[74] Quintilianus, Inst. III.1.12. Si vedano anche XII.2.22 e XII.10.49. Cfr. E. Laughton, Cicero and the Greek Orators, cit., 29.
[75] Cicero, Brut. 44.
[76] Cicero, De Orat. III.118.
[77] Cicero, Brut. 44.
[78] Cicero, Or. 29.
[79] Cicero, Brut. 44.
[80] Cicero, De Orat. 1.126.
[81] Cicero, De Rep. IV.11.8.
[82] Iulianus Imp., Cons. VI.1-5.
[83] A.
Banfi, Il governo della
città, cit., 215 ss.
[84] Cfr. in
particolare A.R. Birley, Hadrian, the Restless Emperor, London
– New York 1997, 218 ss.; 306.
[85] Una discussione
critica sul punto in S. Goldhill, R.
Osborne, Rethinking Revolutions
Through Ancient Greece, Cambridge 2006, 107 ss.
[86] AA.VV., The Vatican Collections: the Papacy and Art,
New York 1982, 205.